Le colpe del governo nella seconda ondata. Intervista a Luca Ricolfi

Perché ha deciso di fare un libro che è un atto d’accusa così forte contro il governo?
Perché, a metà novembre, mi sono accorto di un fatto per me stupefacente: la maggior parte dei miei amici e colleghi, e la maggioranza degli italiani, erano convinti che la seconda ondata fosse inevitabile.  Dato che questa credenza non solo è falsa, ma è una concausa della crisi, ho ritenuto fosse giusto smontarla prima che produca altri danni.

In che senso credere nell’inevitabilità della seconda ondata è una concausa della crisi?
E’ semplice: se credi questo, abbassi la guardia, perché contro il fato è inutile combattere. E in questi mesi quasi tutti, anche nel mondo dell’informazione, hanno abbassato il livello di vigilanza verso l’attività (anzi l’inattività) del governo. La seconda ondata è anche il risultato di questo abbaglio collettivo.

La giustificazione principale del governo è che tutti i Paesi Occidentali sono nella nostra situazione, se non addirittura peggio…
Niente di più falso. Le società avanzate, con istituzioni paragonabili alle nostre (dunque escludendo dittature, paesi poveri e paesi ed ex-comunisti), sono 29, di cui 20 in Europa. Su 29 ben 10 (di cui 4 in Europa: Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca) hanno evitato la seconda ondata, e almeno 9 stanno evitando la terza. Quanto al paragone con gli altri paesi, dall’inizio della pandemia siamo al secondo posto (dopo il Belgio) per numero di morti per abitante. Né le cose vanno molto meglio in questo inizio di 2021: se consideriamo solo i decessi di gennaio, sono ben 24 (su 29) i paesi che hanno meno morti di noi.
Anche se – questa è la novità – ora ci sono tre grandi paesi che, in questo momento (gennaio), riescono a fare peggio di noi, mentre prima ci riusciva solo il Belgio.

Quali sono?
Stati Uniti, Regno Unito, Germania.

Cosa avremmo potuto fare di diverso?
Una decina di cose, che gli studiosi indipendenti, ad esempio quelli di Lettera 150 e quelli della Fondazione Hume, hanno disperatamente e inutilmente chiesto fin dalla fine di marzo. Cito solo le più importanti: tamponi di massa, contact tracing efficiente, Covid hotel per le quarantene, controllo dei voli e delle frontiere, riorganizzazione della medicina territoriale, rafforzamento del trasporto pubblico, messa in sicurezza delle scuole (classi piccole e dispositivi di controllo dell’umidità).
E poi la regola fondamentale: se sei costretto a fare un lockdown (il che è sempre un certificato di fallimento dell’azione preventiva), devi farlo subito, duro e tempestivo, secondo la formula “hard and early”. Non intervenendo tardi e inasprendo le misure gradualmente, come abbiamo fatto noi (e non solo noi, in Europa). Se no le ninfee dello stagno si moltiplicano troppo, e soffocano la vita dello stagno.

Tra le cose da fare non cita l’aumento dei posti in terapia intensiva…
Non è una dimenticanza. Se si fosse fatto tutto il resto, non ci sarebbe stato bisogno di alcun aumento dei posti in terapia intensiva, perché i contagiati sarebbero stati molti di meno, e la maggior parte dei malati sarebbe stata curata con successo a casa, secondo i protocolli informali spontaneamente emersi fin dai primi mesi della pandemia, grazie ai (pochi) medici che, come il dott. Luigi Cavanna, hanno avuto il coraggio di curare i loro pazienti a casa.

Si ha la sensazione che la pandemia sia gestita alla giornata, sbaglio?
Ha ragione, se si riferisce ai marchingegni delle restrizioni, come i colori giallo-arancio-rosso. Ma non è solo questo: il problema è che i criteri di valutazione del rischio sono sballati.

In che senso?
In due sensi. Primo, le soglie di allarme sono troppo alte (come si fa classificare gialla una regione con un valore di Rt pari a 1.2 o 1.25?). Secondo, la stella polare delle autorità sanitarie è la preservazione del sistema sanitario nazionale, anziché la minimizzazione dei contagiati. Un errore clamoroso, che altri paesi non hanno commesso.

C’è qualcosa che avremmo potuto tenere aperto e abbiamo chiuso e qualcosa che avremmo dovuto chiudere e abbiamo tenuto aperto?
Una risposta categorica è impossibile, perché non esistono studi in grado di quantificare in modo rigoroso gli effetti delle varie misure. La mia impressione è che, avendo quasi sempre accettato un numero di contagiati troppo alto, quel che avremmo potuto tenere aperto (e invece abbiamo chiuso) è ben poco, e si riduce alle attività culturali, dove – se ci si organizza per bene e per tempo – è possibile tenere il distanziamento e controllare l’umidità (con qualche investimento in macchinari, ovviamente). Un punto su cui Vittorio Sgarbi ha sempre avuto perfettamente ragione.
Quanto al caso opposto (chiusure mancate), alcuni studi statistici suggeriscono che l’errore più grave sia stato il mancato o inadeguato controllo delle frontiere (di terra e di mare) e dei voli (specie quelli a fini di turismo).
E’, del resto, un principio di puro buon senso: la lotta alla pandemia è incompatibile con il turismo internazionale.

Siamo stati per tre volte con l’indice di contagio ampiamente sotto 1 (giugno-settembre-inizio novembre): perché abbiamo sbagliato tre calci di rigore e l’Rt è rischizzato su?
Perché non si è fatto nulla per evitare che il sistema di tracciamento andasse in tilt. Lei lo sa che fra maggio e metà agosto anziché aumentare i tamponi li abbiamo ridotti? E che oggi si fanno meno della metà dei tamponi che si facevano a metà novembre? E che il numero di addetti al contact tracing è un quinto del minimo necessario?

Secondo i suoi studi è possibile convivere con il virus?
Sì, è possibilissimo, tanto è vero che 1 paese su 3 ci convive senza drammi. Ma per farlo occorrono alcune condizioni di base: un numero di infetti molto contenuto (possibilmente inferiore all’1 per 1000), un sistema di test e di tracciamento funzionante, una popolazione che rispetta le regole, un governo-custode dello stagno, che interviene appena le ninfee cominciano ad essere troppe.

Lei è un professore: le giovani generazioni stanno subendo un danno irreparabile?
Sì, ma minore del danno cognitivo e culturale che – nell’indifferenza generale – hanno subito in cinquant’anni di distruzione della scuola e dell’università.

Lei è un sociologo: come ci ha cambiato l’epidemia e come ci cambierà ancora?
Dipende dai paesi. Nel caso dell’Italia mi aspetto un paese più povero, più vittimista (in quanto sempre più dipendente dall’assistenza pubblica e dalla carità privata), più rancoroso e incattivito, perché la “società signorile di massa” non tornerà più.
Ma ci sarà anche una minoranza (di ceto medio) che reagirà bene, ridimensionando le aspirazioni e cambiando gli stili di vita.

Intravede errori anche nella procedura di vaccinazione?
Un mucchio, a partire da quelli dell’Europa che ha puntato sui vaccini sbagliati (per favorire Francia e Germania) e ha stipulato contratti deboli, come si vede in questi giorni.

Il governo usa toni trionfalistici sulla profilassi: li condivide o sta andando tutto bene solo perché abbiamo poche dosi e vacciniamo per ora solo chi sta in ospedale o nelle rsa.
Il governo sta vaccinando fra un terzo e un quarto delle persone che dovrebbe vaccinare per raggiungere gli obiettivi dichiarati (immunità di gregge entro ottobre 2021). Ma ha ragione ad osservare che siamo agli inizi, e che per ora la maggior parte degli altri paesi europei va ancora più lentamente.

Gli italiani come si sono comportati, meglio o peggio del governo?
Peggio del governo è impossibile. Sintetizzando, darei un 2 al governo, e 5 agli italiani. Con una avvertenza: il 5 degli italiani è la media fra il 7 degli adulti e il 3 dei giovani.

C’è stato qualcosa di sbagliato, o di particolarmente azzeccato, nella strategia comunicativa?
A giudicare dagli orientamenti dell’opinione pubblica, direi che la strategia comunicativa del governo è stata perfetta: è riuscito a convincere gli italiani che il virus fosse inarrestabile e a occultare le responsabilità del governo e delle autorità sanitarie. Chapeau!

Uno degli aspetti più criticati nell’azione del governo è stato di aver prodotto un vulnus della democrazia: è vero? In che termini?
Stato di emergenza e dpcm sono misure eccessive, specie se adottate da un governo frutto di una manovra parlamentare.

I virologi come si sono comportati: hanno aiutato o fatto solo confusione tradendo anche una certa ansia di protagonismo?
Complessivamente, hanno fatto danni, per la cacofonia dei messaggi che hanno veicolato. Singolarmente bisogna distinguere: Galli e Crisanti hanno sempre tenuto la barra dritta, i vari Zangrillo minimizzanti hanno fatto un cattivo servizio alla verità.

Secondo lei la debolezza dell’esecutivo ha giocato un ruolo decisivo nella cattiva gestione della pandemia?
Senz’altro, anche se il ruolo principale l’hanno esercitato la superficialità e la mancanza di cultura scientifica dei suoi membri.

Pensa che il premier si sia fatto scudo della pandemia per nascondere le debolezze sue e del governo?
Sì, senza il terno al lotto del Covid Conte sarebbe scomparso nel nulla da cui era venuto.

Come mai gli italiani, malgrado le evidenti difficoltà, concedono a Conte un gradimento alto?
E’ una domanda cui, come sociologo, ho difficoltà a fornire una risposta persuasiva. Penso che due elementi importanti del cocktail che ha miracolato Conte siano l’indifferenza degli italiani per la politica e l’assenza, in Italia, di un’informazione indipendente. Se giornalisti e commentatori avessero fatto il loro mestiere, forse non saremmo a questo punto.

E perché le opposizioni invece ce l’hanno basso?
Perché la linea dell’opposizione non è mai stata realmente alternativa, anzi per certi aspetti l’opposizione – specie con Salvini – ha spinto per soluzioni ancora più incaute di quelle del governo.

Renzi dice cose giuste? Allora perché è impopolare: perché?
Renzi dice molte cose giuste, e ha ragioni da vendere nel suo attacco al governo. Il suo problema è che non è credibile, oltreché un po’ sbruffone. Promette di dimettersi se perde e poi non lo fa. Giura mai con i grillini e poi ci si allea solo per evitare le elezioni. Governa con Conte per quasi un anno e mezzo e poi gli dà il benservito. Insomma a me molte idee di Renzi convincono, il problema è lui, la sua incoerenza. Per un riformista radicale come me, Renzi è un Calenda mal riuscito.

Il Pd ha dato la sensazione di essere spettatore a tutto, dalla pandemia, alla crisi, al governo: come mai?
Perché, anche se se la contano con discorsi alati (gli interessi del paese, il bene comune, eccetera) la stella polare del Pd è solo il potere, come per il Pentapartito degli anni 80.

Prima della pandemia eravamo una società signorile di massa: ora cosa siamo e dopo cosa diventeremo?
Ora siamo una società signorile di massa che non ha ancora preso atto di non esserlo più, e di essere in rapida transizione verso una società parassita di massa, in cui pochissimi lavoreranno e la maggioranza vivrà di modesti sussidi.

Quanto è ferito il tessuto economico italiano e abbiamo possibilità di riprenderci? In quali tempi?
No, secondo me – a questo punto – non abbiamo alcuna possibilità di riprenderci, perché abbiamo dilapidato 150 miliardi (in deficit), pietrificato l’economia (con il blocco dei licenziamenti), e non abbiamo fatto nulla per rendere ancora possibile l’attività di impresa.

Si dice che questa pandemia cambierà tutto: concorda, e in che modo?
Se retrocedi di 30 anni nel reddito pro-capite, ma le istituzioni sono complicate e vessatorie come quelle di oggi, il cambiamento non può che essere regressivo: più povertà, più diseguaglianza, più frustrazione, più invidia sociale.

Siamo al declino definitivo dell’Occidente? I nostri valori non reggono più i tempi?
Non direi. E’ che i nostri valori li abbiamo ripudiati. I valori dell’occidente non ci sono più, prosciugati dalla cultura dei diritti e dal vittimismo del politicamente corretto. Se non avessimo preso congedo da tutto ciò che bilanciava l’individualismo – capacità di sacrificio, differimento della gratificazione, rispetto dell’autorità e della cultura, senso del dovere – l’Occidente sarebbe in perfetta salute.

Intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi, Libero, 18 gennaio 2021




Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano

La notizia è che, sia pure con ben dieci mesi di inescusabile ritardo, anche Walter Ricciardi finalmente l’ha capita: «Abbiamo l’indice di mortalità […] più alto del mondo», ha dichiarato a L’aria di domenica su LA7 subito prima di Natale, aggiungendo poi che «su 147 Paesi solo 12 hanno fatto bene: 10 sono asiatici e 2 sono Australia e Nuova Zelanda, dove il Natale in questo momento si celebra normalmente», proprio come Ricolfi ed io stiamo dicendo da mesi.

Certo, uno a questo punto si aspetterebbe delle scuse e magari le dimissioni, nonché un duro atto di accusa contro il governo, mentre il “rappresentante-ma-anche-no” della OMS in Italia se ne guarda bene e continua imperterrito a sostenere che «abbiamo fatto molto bene nella prima fase» e che se «in questa seconda fase» le cose vanno male è (manco a dirlo) colpa della gente che «ha rimosso tutto», il che non spiega nulla e, soprattutto, è falso. In realtà, infatti, le cose vanno male esattamente come prima: 33.500 morti in 3 mesi allora (marzo-maggio), 38.200 morti in 3 mesi ora (ottobre-dicembre), una differenza minima che si spiega col fatto che allora era arrivata l’estate, che aveva fatto scendere i contagi e quindi i morti, mentre ora è arrivato l’inverno, che li sta facendo salire, tanto che a gennaio in soli 10 giorni ne abbiamo già avuti 4.500.

Ma non pretendiamo troppo: per come siamo messi, è già un mezzo miracolo che Ricciardi si sia deciso a dire almeno mezza verità e sarebbe un miracolo tutto intero se riuscisse davvero a convincere il governo a cambiare strada, senza continuare a tirare a campare aspettando che ci salvi il vaccino, che in realtà significa aspettare che ci salvi (di nuovo) l’estate. Infatti, è chiaro a chiunque non sia completamente stupido o in malafede che per vaccinare un numero sufficiente di persone ci vorranno diversi mesi, quindi le cose non miglioreranno prima dell’arrivo del caldo, ovvero per almeno altri 4 mesi, che, gestiti in questo modo demenziale, con l’Italia ridotta a una specie di semaforo impazzito, possono fare più danni di un terremoto.

Merita quindi riflettere un po’ più a fondo su quale tra i vari modelli di contrasto al virus potremmo adottare, giacché, contrariamente a quanto ci ha sempre ossessivamente ripetuto la litania governativa, non ce n’è mai stato uno solo, uguale in tutto il mondo, ma parecchi, solo alcuni dei quali hanno funzionato. Certamente non l’ha fatto il “modello Italia”, che, con buona pace di Ricciardi, non è mai stato tale (vedi mio articolo del 19/10, nonché tutti quelli di Luca Ricolfi), né il “modello Germania”, che tale è stato solo per un po’ e poi si è tragicamente sgonfiato (vedi mio articolo del 23/12), ma altri sì.

Anzitutto, c’è il modello cinese, il primo che abbiamo visto in azione, così sintetizzabile: finché puoi, nega tutto, quando non puoi più, chiudi tutto. Ying e Yang, integrazione degli opposti ed eliminazione degli oppositori, la mascherina come immagine e il fucile come sostanza. Efficace lo è, etico un po’ meno, imitabile (almeno da noi) per nulla.

Quindi, dall’altra parte del mare, nonché del cielo, c’è il modello Taiwan, che per la OMS manco esiste, ma cionondimeno ci guarda tutti dall’alto, o meglio, dal basso dei suoi 0,3 mpm (morti per milione), il miglior risultato al mondo, ottenuto grazie all’atavica diffidenza verso la Cina e le sue bugie, che ha portato alla tempestiva e rigidissima chiusura delle frontiere. Oltre che da alcuni paesi asiatici, è stato replicato, con quasi altrettanto successo, da alcuni paesi dell’ex blocco sovietico e della ex Jugoslavia (anche se poi molti hanno rovinato tutto riaprendo troppo presto al turismo internazionale): sarà un caso che avessero avuto a che fare anche loro per lungo tempo con regimi simili a quello di Pechino? È sicuramente il sistema migliore, ma quando hai già il virus in casa non serve più.

Ci sarebbe anche un modello africano, tanto semplice quanto efficace (appena 5 mpm): muori di qualcos’altro prima dei 55 anni (aspettativa di vita attuale del continente) e difficilmente morirai di Covid, che fa il 97% delle sue vittime al di sopra di questa soglia. Per funzionare funziona, ma dubito che qualcuno sia disposto ad adottarlo, a cominciare, se potessero scegliere, dagli stessi africani.

E poi c’è il “mitico” modello coreano (in realtà usato anche in Giappone, in Australia e, almeno parzialmente, anche in altri paesi del Pacifico occidentale), l’unico di cui anche da noi ogni tanto si è parlato, forse perché piaceva il fatto che si basasse su una “App” o forse perché è sempre stato visto (erroneamente) come una versione più efficiente di quello italiano, il che consentiva al governo di cimentarsi nel suo sport preferito, ovvero scaricare la colpa dell’inefficienza sui cittadini, che sarebbero più indisciplinati dei coreani. Per la stessa ragione è anche il modello che viene in genere preferito da chi invece ritiene che qualcosa dovremmo cambiare, ma senza esagerare. Ma è davvero così?

Basta andare a guardare i numeri e ci imbattiamo subito in un’enorme sorpresa, che scompiglia tutti i nostri luoghi comuni al riguardo. Infatti, nella “classifica” dei test in rapporto alla popolazione la Corea del Sud è appena al 125° posto con il 9,2% di abitanti controllati e il Giappone addirittura al 148° con il 4,2%, mentre tra i primi 40 troviamo quasi tutti i paesi messi peggio, tra cui (ovviamente) l’Italia, che è proprio al 40° posto con il 45%, 5 volte più della Corea e addirittura 11 volte più del Giappone. L’Inghilterra è al 17° posto con l’86%, gli USA al 20° con l’81% e l’eterna “maglia nera” Belgio al 27° con il 62%.

Notato di passaggio che la percentuale dell’Italia è circa la metà di quella degli USA di Trump il Pazzo, a cui continuiamo irragionevolmente a sentirci superiori benché in realtà siamo messi peggio in tutto, passiamo a farci la domanda veramente importante: cosa significa tutto ciò? Forse non era vero quello che sia Ricolfi che io abbiamo sempre sostenuto, cioè che fare tamponi su vasta scala è uno dei punti essenziali per un efficace contenimento?

La risposta in realtà è più complessa. Nei primi 40 posti, infatti, ci sono anche diversi paesi virtuosi o semi-virtuosi, come la Danimarca (266 mpm) al 7° posto con il 194%, l’Islanda (85 mpm) al 12° con il 131%, Singapore (5 mpm) al 14° con il 95%, Hong Kong (21 mpm) al 21° con il 73%, la Norvegia (87 mpm) al 33° con il 54%, l’Australia (35 mpm) al 38° con il 46% e la Finlandia (106 mpm) al 39° con il 46% (l’elenco completo si trova su qui). Resta quindi confermato che, contrariamente a quanto ha sostenuto per lungo tempo la OMS, fare molti tamponi serve. Ma evidentemente non basta.

Anzitutto, farne tanti è difficile, soprattutto per i grandi paesi, per trovare il primo dei quali bisogna infatti scendere fino al 17° posto dell’Inghilterra. Inoltre, non è necessariamente garanzia di successo. Il miglior risultato ce l’hanno le isole Far Oer, con appena 20 mpm grazie a un 426% di test, cioè oltre 4 per persona (che però su una popolazione di meno di 50.000 abitanti significa poco più di 200.000 tamponi). Ma il Bahrain, che guida la classifica grazie a uno stratosferico 1435% (cioè ha controllato ogni abitante per ben 14 volte) ha 206 mpm, cioè il decuplo delle Far Oer pur avendo fatto un numero di controlli 3,5 volte maggiore. Le Bermude, che hanno fatto circa 2,5 test per abitante, hanno un discreto 193 mpm, ma Andorra e Lussemburgo, con un tasso simile, hanno rispettivamente 1099 e 840 mpm. E così via.

Certamente su ciò influiscono molto le altre misure adottate: non è certo un caso che Taiwan sia appena al 192° posto con un misero 0,55%, visto che ha puntato tutto, con successo, sulla chiusura delle frontiere, grazie alla quale ha avuto appena qualche centinaio di contagi. Ma ci sono anche delle differenze che dipendono dal modo di gestire e, prima ancora, di concepire gli stessi tamponi.

La verità è che, come ha spiegato più volte il prof. Crisanti (che pure durante la prima fase ha salvato migliaia di vite in Veneto proprio facendo fare i tamponi a tappeto), alla lunga questo sistema funziona solo se abbinato a un efficace sistema di tracciamento dei contagi. Ciò, infatti, permette di fare i test in modo “mirato”, ottenendo risultati molto superiori con numeri molto inferiori: ecco perché Corea e Giappone ne fanno così pochi. A tal fine, però, non basta avere la mitica “App”: questa, infatti, si limita a segnalare quando si entra in contatto con una persona contagiosa, ma perché questa informazione serva occorre che venga usata immediatamente, in modo da spegnere il focolaio sul nascere.

Il problema è che tutto ciò non si improvvisa, perché richiede un sistema sanitario rapido ed efficiente, cioè tutto il contrario di quello italiano, che come qualità è ottimo, ma ha il suo tallone d’Achille proprio nei tempi di attesa, dovuti alla iper-burocratizzazione. Era quindi improbabile già in partenza che il tracciamento potesse funzionare, anche se il catastrofico fallimento della App Immuni, che ha scoperto poco più di 1200 contagi, è andato al di là di tutte le più pessimistiche previsioni. Comunque, siccome è ovviamente impossibile che si faccia ora ciò che non si è fatto in dieci mesi, neanche questa strada è ormai praticabile. Ma potrebbe non essere un male, se ci spingesse ad adottare quello che non solo è l’unico sistema attuabile nella nostra situazione, ma è anche il più efficace di tutti, ovvero il “modello Jacinda”, creato dalla giovanissima premier neozelandese Jacinda Ardern.

Il suo metodo è tanto semplice quanto efficace e si può sintetizzare, come lei stessa ha fatto, nel motto dei mitici All Blacks della Nazionale di rugby: “Hard and early”, ovvero “colpisci duro e subito”. Anche la sua logica è molto semplice: siccome il numero dei contagi dipende dai contatti fra le persone, se si impediscono i contatti, i contagi si azzerano; e siccome il numero dei morti dipende dal numero dei contagi, prima si azzerano i contagi, meno morti ci sono.

Lockdown, quindi, ma totale e immediato: non come da noi, dove è stato deciso con un mese di ritardo e anche nel momento di teorica chiusura totale erano autorizzate a circolare quasi 10 milioni di persone. Ma neanche come in Cina, perché Jacinda per imporlo non ha usato né la forza, come da loro, né la paura, come da noi, bensì la ragione e il coraggio, spiegando pacatamente i motivi della sua scelta e i vantaggi che avrebbe portato e prendendosi sempre personalmente la responsabilità di qualsiasi cosa, anche minima, che fosse andata storta (altro che Conte e soci, per i quali la colpa è sempre nostra).

Per qualche mese il “modello Jacinda” se l’è giocata alla pari con quello coreano, ma da qualche mese in qua la sua superiorità, che io ho sempre sostenuto, mi sembra stia diventando evidente a tutti. È vero, infatti, che il lockdown è molto più duro del tracciamento, ma è anche molto più breve, perché il tempo massimo di incubazione del virus è di 2 settimane, per cui basta chiudere per un tempo di poco superiore per azzerare i contagi. Ma, soprattutto, dopo è davvero finita: in Nuova Zelanda si è tornati alla vita normale già da maggio, mentre coreani e giapponesi sono ancora alle prese con mascherine, disinfettanti e controlli di ogni tipo.

Inoltre, proprio perché molto complesso da gestire, il modello coreano costringe a vivere sempre sul filo del rasoio, tanto più poi col Covid, che, come pare ormai accertato, non ha una diffusione omogenea, ma viene propagato da pochi individui super-contagiosi, per cui basta farsene sfuggire qualcuno per ritrovarsi in pochi giorni davanti a un focolaio di grandi dimensioni.

Questo è successo in modo emblematico all’Australia, che, dopo avere praticamente azzerato i contagi già a fine aprile con appena 102 morti (3,8 mpm, secondo miglior tasso al mondo dopo Taiwan), a metà luglio si è lasciata sfuggire un grosso focolaio a Melbourne, che in 3 mesi ha fatto oltre 800 morti. A questo punto gli australiani hanno decisamente virato in direzione dei “cugini”, adottando per Melbourne un lockdown in stile neozelandese, anche se un po’ ammorbidito, per cui ci hanno messo 3 mesi anziché 3 settimane per azzerare i contagi. Alla fine, però, ce l’hanno fatta e ormai anche da loro si è tornati alla vita normale.

Ma anche quando non si verifichi nulla di così eclatante, col sistema coreano è quasi inevitabile che alla lunga i piccoli errori, che non possono mai essere completamente eliminati, sommandosi provochino una progressiva accelerazione dell’epidemia, all’inizio quasi impercettibile, ma destinata col tempo a prendere sempre più velocità, come ha spiegato benissimo Ricolfi nel suo articolo del 24 ottobre (senza contare poi che più tempo ci si tiene il virus in casa, più è probabile che muti, diventando più contagioso: vedi mio articolo del 7 gennaio). Inoltre, anche nel più efficiente dei paesi il tracciamento funziona solo finché il numero dei contagi giornalieri è basso, per cui se quest’ultimo comincia ad aumentare si innesca un circolo vizioso che, superato un certo limite, manda in crisi il sistema. E sembra che proprio questo stia accadendo negli ultimi tempi, sia in Giappone che perfino nella “mitica” Corea del Sud.

A fine aprile questi paesi avevano rispettivamente 4,1 e 5 mpm, cioè erano più o meno allo stesso livello di Nuova Zelanda (5) e Australia (3,8). Oggi, però, in Corea la mortalità è salita a 22 mpm, cioè è più che quintuplicata, mentre in Giappone è arrivata a 32 mpm, cioè è aumentata di quasi 8 volte. La Nuova Zelanda, invece, ha tuttora 5 mpm, mentre l’Australia dopo Melbourne era salita a 35, ma da allora, cioè da quando si è “Jacindizzata”, da quel 35 non si è più mossa.

Ancor più inquietante è il paragone con l’Italia, che a fine aprile aveva 480 mpm, mentre oggi ne ha 1300, il che significa che da noi (così come, più o meno, anche negli altri paesi europei), la mortalità è cresciuta di 2,7 volte, ovvero la metà della Corea e un terzo del Giappone. Intendiamoci, stiamo parlando di una situazione che è ancora da 40 a 60 volte migliore della nostra, però a me sembra che questi dati dimostrino inequivocabilmente che la prolungata convivenza col virus, anche a bassa o bassissima intensità, non è mai una buona idea, e non solo perché c’è sempre il rischio che la situazione possa sfuggire di mano.

In primo luogo, infatti, mantenere a lungo un sistema di sorveglianza così complesso implica un enorme sforzo, sia organizzativo che economico. Inoltre, si è costretti a sopportare tutta una serie di disagi che, per quanto molto inferiori a quelli che stanno toccando a noi europei, su tempi lunghi non fanno bene né al morale né all’economia, per non parlare delle limitazioni alla libertà personale e alla privacy, che più durano, più diventano pericolose. Ma, infine e soprattutto, perché mai dovremmo fare uno sforzo simile per mantenere basso il livello dei contagi, quando si può azzerarlo del tutto con uno sforzo molto minore?

La Nuova Zelanda (che inizialmente aveva adottato anch’essa il metodo coreano) ci ha messo 3 settimane a capirlo. L’Australia 5 mesi e 900 morti. Noi invece non l’abbiamo capito neanche ora, dopo 10 mesi e 80.000 morti. La domanda è: perché? La risposta è molto complessa, dato che non è univoca, ma dipende da diversi fattori, che cercherò di analizzare in un prossimo articolo.




Il termostato

Sapete come funziona un termostato?

E’ semplice. Tu fissi la temperatura che vuoi, per esempio 19 gradi. Un rilevatore misura la temperatura dell’ambiente e, quando supera i 19 gradi, spegne il riscaldamento; quando invece va sotto i 19 gradi lo riaccende. La stessa cosa succede con un frigorifero che vuoi mantenere a – 4 gradi centigradi, o con un congelatore che vuoi tenere a -20 gradi. L’unica differenza è che il comando non è “riscalda” ma “raffredda”.

Perché parlo del termostato?

Perché oggi in Italia, ma anche in molti altri paesi europei (compresa la Germania), quella che si è imposta è la politica del termostato, applicata all’epidemia. Funziona più o meno così.

Il governo non può scontentare gli operatori economici, ma nello stesso tempo non è in grado di garantire che le attività lavorative, scolastiche, ricreative si svolgano in sicurezza. Quindi, anche se sa che il virus è ancora molto diffuso, lascia quasi tutto aperto o semi-aperto. Il virus ringrazia e allarga la sua presenza fra noi. A un certo punto qualcuno fa due conti e dice: ohibò, se andiamo avanti così il servizio sanitario nazionale va in tilt e questo, noi politici, non ce lo possiamo permettere. A quel punto cominciano le discussioni: se chiudere, quando chiudere, quanto chiudere, chi sacrificare e chi graziare. Alla fine si chiude, ma Rt non scende. Allora si chiude di più, Rt va sotto 1 per qualche settimana, i ricoveri ospedalieri diminuiscono, gli ospedali non sono più al collasso. A quel punto il partito della riapertura rialza la testa e prima o poi ottiene un alleggerimento delle misure, se non una riapertura totale. Passa qualche settimana e questa volta a rialzare la testa è il virus, che ricomincia a circolare più di prima. Il sistema sanitario va di nuovo in crisi, si deve chiudere di nuovo. E il ciclo si ripete.

I più ingenui (o più spregiudicati) dicono: resistiamo ancora 2-3 mesi, poi con la bella stagione e le vaccinazioni torneremo alla normalità. Chi lavora sui dati sa che non è vero, e che la politica del termostato – che non tutela né la salute né l’economia – è destinata a durare ancora a lungo.

Ma perché siamo finiti in questo imbuto che divora le nostre vite? Certamente la parte preponderante delle responsabilità è di chi ci governa. Sono loro che hanno imposto le regole, sono loro che non hanno saputo gestire le scuole, i trasporti, il tracciamento dei contatti, i tamponi, i flussi turistici, le quarantene, la medicina territoriale e tutte le altre cose che non sono state fatte, o sono state fatte male. Insomma, con altre scelte si potevano avere molti meno morti, e danni meno drammatici all’economia.

Però c’è un punto che resta sempre nell’ombra, e che invece è decisivo. La catastrofe è colpa della mala gestione dell’epidemia, ma la sconfitta è figlia di una scelta strategica sbagliata, che anche la più saggia e oculata gestione dell’epidemia non avrebbe potuto evitare.

Quale scelta?

La scelta di puntare tutto sul protocollo prevalente in Europa, che persegue la mitigazione dell’epidemia, anziché su quello prevalente in Asia e nell’emisfero Boreale, che persegue la soppressione (o quasi soppressione) del virus. E dire che, fin dalla fine di marzo, gli studiosi che si occupano di epidemia e di processi di diffusione, avevano perfettamente individuato la differenza fra i due protocolli, e la netta superiorità del protocollo orientale rispetto a quello europeo. Bastava studiare i dati e consultare gli esperti, per capire (o almeno leggere le lettere e gli appelli degli studiosi,  che fin dalla fine di marzo imploravano di cambiare strada). O anche solo farsi la domanda: perché in certi paesi (circa 1 su 3 fra le società avanzate) il virus è stato sradicato, o se non è stato completamente eliminato circola a bassissima intensità?

Ebbene, qual è, andando al nocciolo, la differenza fra i due protocolli?

E’ molto semplice: è la differenza che sussiste fra un frigo e un congelatore. In un frigo il termostato è regolato per tenere la temperatura a -4, in un congelatore per tenerla a – 20. Fuor di metafora: la soglia del protocollo europeo è quella che evita il tracollo del sistema sanitario nazionale, la soglia del protocollo orientale è quella, molto più bassa, che evita che vada in tilt il sistema di tracciamento. Giusto per dare un’idea: se si adotta il protocollo orientale l’allarme scatta quando il quoziente di positività (nuovi casi su soggetti testati) attraversa la soglia del 3%, se si adotta il protocollo europeo può persino succedere – come è accaduto in Italia a novembre-dicembre – che si tolleri un quoziente di positività del 25-30%. Se avessimo adottato la soglia del protocollo orientale l’allarme sarebbe scattato già il 25 settembre, se non prima, ovvero non appena il numero di nuovi casi fosse divenuto incompatibile con il tracciamento dei contatti.

La realtà è che le strategie prevalenti in Europa sono basate sull’andamento di Rt (indicatore della velocità del contagio), anziché sul controllo del quoziente di positività (indicatore del numero di positivi). La differenza è enorme.

Se punti tutto su Rt tolleri anche milioni e milioni di infetti, purché Rt non stia troppo sopra 1. E con milioni e milioni di infetti, intervenire ha costi umani ed economici spropositati, perché quando l’epidemia è fuori controllo solo il lockdown è in grado di arginarla.

Se invece punti alla soppressione del virus, ti adoperi per portare il coefficiente di positività vicinissimo a zero, perché anche poche migliaia di positivi sono troppi: e quando il numero di infetti diventa molto piccolo, il controllo dell’epidemia è infinitamente più facile, la paura non dilaga più, e l’economia respira.

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 gennaio 2021




Covid, siamo i peggiori in Europa. Intervista a Luca Ricolfi

Cosa dicono i dati del vostro osservatorio della Fondazione Hume: l’epidemia sta scemando?
“Scemando” è una parola forte, che allude a una prossima fine. No, non sta scemando, sta solo rallentando un po’. Voglio essere più preciso, nei limiti dei dati forniti dalla Protezione Civile. Fatto 1 il numero medio di contagi a luglio, adesso siamo più o meno a 25 volte tanti. Certo, un po’ meglio che 2 settimane fa, quando eravamo a quota 29. Ma i progressi restano molto modesti e, soprattutto, lentissimi.
Questo vuol dire che il rischio di incontrare una persona contagiosa è circa 25 volte quello di luglio.

La seconda ondata era inevitabile?
No, era evitabilissima, come dimostra inequivocabilmente il fatto che più di un terzo (10 su 27) delle società avanzate l’ha evitata (vedi grafico). E fra le società che l’hanno evitata, 4 sono in Europa.

Ma allora non siamo i più bravi in Europa?
No, in questo momento (bimestre ottobre-novembre) siamo i peggiori dopo il Belgio (vedi grafico).
La favola del “modello italiano” è, a mio parere, la più grandiosa bufala della pandemia, un falso colpevolmente accreditato dalla maggior parte dei media, giornali-radio-tv.

Ma come ha potuto reggere, se era una bufala?
Ci soni due fattori, uno politico e l’altro tecnico. Il fattore politico è che la maggior parte della stampa e della tv pubblica ha un occhio di riguardo per il Governo. In Italia la stampa è libera, anzi liberissima, ma questo significa anche liberissima di ignorare i fatti, di seguire le convenienze, di non fare vere inchieste, di non tallonare il potere.
Il fattore tecnico è che non è facile leggere i dati, se almeno non ci si sforza un po’. Confrontare i paesi in base ai numeri assoluti (anziché per abitante) è un’ingenuità imperdonabile. Ma anche usare i dati giornalieri dei nuovi casi, enormemente influenzati dalla politica dei tamponi e dalla capacità diagnostica di ogni paese, vuol dire rinunciare a capire quel che succede davvero.

Che dati dovremmo usare, allora?
I decessi per abitante e il quoziente di positività (al netto delle persone ritestate) sono gli indicatori meno inaffidabili nei confronti internazionali.

Cosa avremmo potuto copiare e imparare dalle esperienze degli altri paesi?
Prima di tutto dobbiamo renderci conto che non c’è un unico modo di vincere il Covid. Ci sono paesi che hanno usato soprattutto i tamponi di massa, altri il lockdown precoce, altri mascherine e tracciamento. Altri ancora il senso civico, a quanto pare: quasi tutti i paesi europei senza seconda ondata sono della galassia del Nord, dall’Islanda alla Norvegia, dalla Finlandia alla Danimarca, paradisi del welfare e della cultura civica.
Fra i paesi a noi più vicini, e con noi più comparabili, il caso di maggiore (relativo) successo è la Germania, dove la seconda ondata è molto più modesta che da noi. Lì la chiave è stata la forza del sistema sanitario, ma ancora più cruciale è stata la politica dei tamponi.

Che relazione c’è tra numero di tamponi e decessi?
Incredibilmente stretta. Ho appena finito di stimare l’elasticità dei decessi per abitante e dei tamponi per abitante nella prima fase dell’epidemia. Ebbene, il valore è circa -2. Il che, in concreto, significa: se raddoppi il numero dei tamponi la mortalità si riduce del quadruplo. Ancora più in concreto: se i tamponi passano da 100 a 200 i morti passano da 100 a 25.

La Svezia non ha fatto nessun lockdown e ha meno morti di noi. Ma numero abitanti e territorio diversi da quelli italiano. Sono fattori che incidono sulle curve?
In parte sì. Le mie analisi statistiche mostrano che il numero dei morti per abitante è molto sensibile alla distribuzione geografica della popolazione: a parità di altre condizioni si muore di più nelle aree urbane, e di meno in quelle agricole, specie se remote.
Non è facile dire se, nel caso della Svezia, il sorprendente contenimento della mortalità (a dispetto del mancato lockdown) sia dovuto anche alla geografia interna del paese, o sia da imputare soprattutto ad altri fattori, come la qualità del sistema sanitario, la politica dei tamponi, la bassa socialità, l’elevato senso civico.
Ci sto lavorando, ma finché non ho dei risultati robusti preferisco non azzardare alcuna ipotesi.

Il governo si accinge ad allentare con il nuovo dpcm alcune misure, salvo poi stringere sugli spostamenti tra le regioni a ridosso del natale. Che strategia intravede?
La solita: tergiversare sfogliando la margherita del “riapriamo?”, ”chiudiamo?”, con il solo scopo di massimizzare il consenso. O meglio: minimizzare lo scontento. Di strategia ne vedo una sola: pregare Domine Iddio che il vaccino funzioni, arrivi in quantità adeguata, sia accettato dalla maggioranza degli italiani.
E’ questo il pericolo più grande: l’attesa messianica del vaccino avrà l’effetto di convincere i politici che, ancora una volta, possono non mettere mano alle 10 cose – dai tamponi alla riorganizzazione della medicina di base (vedi petizione sul sito della Fondazione Hume) – che non hanno saputo fare nel semestre di tregua maggio-ottobre.

La scuola è stata la prima a chiudere a marzo e tra gli ultimi settori a riaprire, salvo poi richiudere. Ora che si riparte con le lezioni in presenza il 7 di gennaio, ci saranno condizioni diverse? 
Penso che un po’ di scaglionamento degli orari, e un po’ di limiti all’affollamento sui mezzi pubblici, finiremo per vederli, prima o poi. Sui test rapidi prevedo solita confusione e disorganizzazione. Sui dispositivi di sanificazione dell’aria, fondamentali negli ambienti chiusi, temo che non vedremo quasi nulla. O meglio: vedremo i soliti studenti con la coperta di lana portata da casa, per poter aprire la finestra d’inverno.

Un recente sondaggio di Swg dice che gli italiani preferirebbero non allentare le misure restrittive e che anche sacrificare il Natale non sarebbe poi grave.
Mah, i sondaggi vanno interpretati, una domanda non basta a capire quel che davvero vuole la gente. Tendo a pensare che a bramare la riapertura siano più gli esercenti che i cittadini, e che i cittadini stiano soppesando i pro e i contro: il rischio che a gennaio tutto ricominci frena gli entusiasmi per riapertura e feste natalizie. La gente ha paura della terza ondata.
Sfortunatamente governo e media sono riusciti a far passare il messaggio che tutto dipende da noi comuni cittadini. E a nascondere il fatto che, invece, molto dipende da loro, ossia dalle scelte (e dalle omissioni) della politica.

Il Covid e la gestione che ne è stata fatta in Italia hanno avuto un impatto psicologico sulle persone? (ho spezzato la domanda)
Un qualche impatto senz’altro, il difficile è dire di che tipo. Senza dati di qualità è impossibile capire che tipo di impatto: depressione? spinte suicidarie? frustrazione ? rabbia? rassegnazione?
L’unica conseguenza psicologica che si riconosce ad occhio nudo è l’azzeramento di qualsiasi piano proiettato nel futuro: una condizione esistenziale mortificante, e un vero disastro per il tessuto produttivo del Paese, posto che fare impresa significa precisamente fare sconnesse sul futuro.

Lei che Natale farà?
Nulla cambierà. Sono già in lockdown e ci resterò. L’alternativa è fra un Natale a due (Paola ed io) e un natale a tre (con nostro figlio), se il governo ci concederà spostamenti interregionali.
Il lato buono, uno dei pochissimi lati buoni, del lockdown natalizio è la tendenziale scomparsa dei regali di Natale generalizzati (non solo ai bambini), una prassi che negli ultimi decenni aveva assunto dimensioni patologiche.

Dobbiamo prepararci a una terza ondata?
Fino a poco fa temevo l’arrivo di una terza ondata. Ora non la escludo ma ritengo più probabile un altro scenario, basato sullo stop and go. Rinunciamo a quasi-azzerare il virus, e ci disponiamo a chiudere e riaprire a più riprese, a fisarmonica, magari con un algoritmo che ci dice quando e che cosa fare, togliendo i politici dall’imbarazzo di spiegare e motivare quel che ci impongono.
La realtà è che è impossibile fare previsioni, l’evoluzione dell’epidemia dipende poco dal virus (che è quel che è, e ha le sue leggi di propagazione) e molto dalla politica. E la politica non è prevedibile, perché è un mix di tentennamenti e di decisioni scarsamente informate.
La Merkel ha una laurea in fisica e un dottorato in meccanica quantistica. Quando parla della funzione esponenziale, di R0 e di Rt, sa esattamente di che cosa sta parlando, ed ha persino il coraggio di farlo davanti ai suoi cittadini.
Notata la differenza?

Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi, ItaliaOggi, 3 dicembre 2020




Il Covid e la dialettica della paura

Credo che sull’obiettivo di tutelare l’economia, o meglio limitare i danni che l’epidemia determinerà sul sistema economico, siano tutti d’accordo. Come credo che, in materia di riaperture, le differenze fra le forze politiche siano semplici sfumature: un po’ più attenta ad artigiani e commercianti la destra, un po’ più attenta a scuola, università e cultura la sinistra.

Altrettanto tenui mi paiono le differenze sulla linea da tenere quest’estate. Destra e sinistra, governo e opposizione, non hanno mai messo seriamente in dubbio il racconto che dipingeva l’Italia come un paese in cui l’epidemia si stava attenuando, e in cui dunque ci si poteva preparare a “convivere con il virus”. Un vero “partito della prudenza” non è mai esistito, tutt’al più qua e là abbiamo visto all’opera due opposte frange dell’imprudenza: l’opposizione leghista ha colpevolmente minimizzato i rischi derivanti da movida e discoteche, una parte dell’esecutivo ha colpevolmente minimizzato i rischi sanitari connessi agli sbarchi e alla loro gestione.

La credenza dominante, nella nostra più o meno folle estate, è stata che salute ed economia fossero in conflitto fra loro e che, finalmente, fosse venuto il momento dell’economia. Questa credenza era alimentata da noi stessi, che ci sentivamo in diritto di riprenderci la vita dopo i sacrifici di marzo e aprile, ma era rafforzata e amplificata dalle scelte delle autorità, nonché da una campagna di comunicazione volta a rassicurarci. Le autorità hanno passato l’estate ad attenuare le regole di prudenza, opponendo una resistenza sempre più tenue agli assembramenti sui mezzi pubblici e nei luoghi di vacanza. Quanto ai media, abbiamo assistito a una escalation di rassicurazioni: forse il virus è diventato meno cattivo, la carica virale è in diminuzione, il virus è clinicamente morto, contagiato non vuole dire malato, quasi tutti i contagiati sono asintomatici, la letalità del virus è molto diminuita, i morti giornalieri sono pochissimi. Per finire con la rassicurazione delle rassicurazioni: siamo diventati molto più bravi a curarvi, questa volta siamo preparati, non ci sarà una seconda ondata, e se ci sarà non ci prenderà di sorpresa.

Ora che questo racconto, riproposto con mille sfumature da quasi tutti, si è rivelato fallace, è forse il caso di chiedersi perché. Come mai solo un esiguo manipolo di medici, virologi, studiosi, scrittori, operatori dell’informazione, si è opposto al racconto dominante?

La ragione più importante, a mio parere, è che non si è ancora messo a fuoco il ruolo della paura nel governo di un’epidemia. La paura è il più grande nemico dell’economia, perché la paura riduce la mobilità, il consumo e l’investimento, indipendentemente dal fatto che le autorità chiudano o lascino aperte le attività. Dunque, se vuoi salvare l’economia, devi fare in modo che la gente non abbia paura, o ne abbia in quantità così modesta da non impedirle di svolgere una vita (quasi) normale. Soprattutto, devi fare in modo che l’assenza di paura perduri nel tempo, così consentendo all’economia di girare non solo oggi ma anche domani. Il compito fondamentale della politica, durante un’epidemia, non è semplicemente di ricostituire condizioni di tranquillità, ma di farle durare nel tempo.

Ed è qui che arriva il problema. Come si fa a rendere duraturo il sentimento di non-paura faticosamente raggiunto?

Su questo vi è stata, finora, una risposta dominante, che – in varianti differenti – si è presentata nei discorsi dei politici, nelle ospitate tv dei virologi, nelle più o meno sofisticate analisi dei commentatori. Il nucleo logico di tale risposta è stata la rassicurazione. Si è creduto che una campagna di comunicazione positiva avrebbe tranquillizzato le persone, e così ridato fiato all’economia.

Non si è preso in considerazione un dettaglio: la rassicurazione funziona solo se non è smentita platealmente dai fatti. E in effetti aveva funzionato: fino a poche settimane fa, ogni sera ci dicevano che la curva saliva, ma lentamente; che Rt era bruttino, ma non tremendo; che la situazione era attentamente monitorata; che i ricoveri in terapia intensiva aumentavano, ma non troppo; e che comunque non era come a marzo, perché avevamo imparato. E la gente era comprensibilmente felice di credere a questo racconto.

Poi d’improvviso, nel giro di un paio di settimane, tutto è cambiato. O meglio, tutti hanno cominciato a vedere ciò che solo un’ostinata minoranza aveva fatto notare nei mesi scorsi, ossia l’inesorabile riaccendersi dell’epidemia. A quel punto, con la paura tornata prepotentemente nel cuore di molti, anche l’alternativa aprire/chiudere è diventata secondaria, perché se la gente ha paura l’economia non riparte, qualsiasi cosa decidano i politici su orari, restrizioni, coprifuoco, lockdown.

Dove si è sbagliato?

E’ abbastanza semplice. Quel che non si è voluto comprendere è che, per tenere il sentimento di paura sotto la soglia di guardia – quella che mette a repentaglio il funzionamento dell’economia – la via maestra non sono le campagne di ottimismo, le esortazioni a pensare positivo, le prediche sulla necessità di convivere con il virus. No, per non avere paura noi abbiamo bisogno di due cose soltanto: sapere che il numero di contagiati è così basso da rendere trascurabile il rischio di incontrarne uno, e sapere che – se ci ammaliamo – non saremo abbandonati all’incubo kafkiano della burocrazia sanitaria, perché ci sarà un medico che ci verrà a visitare, ci farà un tampone, ci prescriverà le cure necessarie, e solo in caso di peggioramento ci farà ricoverare in ospedale.

Se fossero state realizzate, queste due condizioni – pochi contagi e medicina di base funzionate – oggi ci garantirebbero quello stato di non-paura che è la base di ogni ripartenza dell’economia. Ma era possibile realizzarle?

Per quanto riguarda la medicina di base, certo che sì. Per dare ai cittadini la garanzia di essere visitati e curati bastava attuare nel semestre maggio-ottobre quella riorganizzazione della medicina territoriale che, tra mille difficoltà, alcune Regioni stanno tentando di attuare ora. E ora non assisteremmo agli assalti ai pronto soccorso, spesso dovuti semplicemente al fatto che nessuno ti viene a curare a casa.

Per quanto riguarda la riduzione del numero dei casi, invece, le cose sono più complesse. Ci sono cose che si potevano benissimo fare, ad esempio attuare il piano Crisanti sui tamponi, organizzare meglio il tracciamento dei casi, rafforzare il trasporto pubblico (per un elenco più ampio vedi pagina x). Ma ci sono altre cose che sì, si potevano fare, ma ad un prezzo alto in termini di consenso: tenere le discoteche chiuse tutta l’estate, rendere obbligatori i tamponi per chi va o viene dall’estero, spegnere con misure circoscritte ma drastiche le migliaia di focolai via via individuati, sanzionare seriamente le innumerevoli, plateali e sistematiche violazioni delle regole (peraltro quasi sempre dovute al pubblico, non agli esercenti).

Se le avessimo fatte, quelle cose, gli esponenti del governo avrebbero perso qualche punto nei sondaggi, l’economia avrebbe perso qualche opportunità, ma ora il numero dei contagi sarebbe basso, la gente non avrebbe una maledetta paura di infettarsi, e l’economia non sarebbe costretta a una nuova fermata, che sicuramente sarà lunga, dolorosa, e più costosa di una modesta frenata in estate.

Perché è la paura la variabile chiave che governa l’epidemia. E la paura non si vince persuadendo la gente che sbaglia ad averne, ma togliendo le condizioni che la rendono più che giustificata. E’ questo che ora va fatto, se vogliamo che, spenta la seconda ondata, a primavera non ci troviamo alle prese con la terza.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 novembre 2020