Perché la vaccinazione degli anziani va “maneggiata con cura”: un’analisi per scenari

La vaccinazione degli anziani che sta per iniziare inaugura una delle fasi più complesse della gestione di questa pandemia. La fascia degli over 70 è quella che ha contribuito per circa l’85% ai morti totali dall’inizio dell’epidemia a oggi. Pertanto, è per lo più sulla vaccinazione degli anziani che si “gioca la partita”. In questo articolo vedremo l’impatto della vaccinazione degli over 70 in due importanti scenari: uno molto ottimistico (simile a quello su cui contano i politici) e uno molto pessimistico (probabilmente preferito dai più realisti, poiché davvero tante cose potrebbero andare storte). Mostrerò come, il pensare che il solo fatto di iniettare un vaccino risolverà le cose sia una visione distorta della realtà, che potrebbe portare a rischi e conseguenze notevoli, e verosimilmente costringerebbe ad adottare in maniera tardiva altre misure che invece dovrebbero essere implementate fin d’ora, per non ripetere gli errori del passato.

Anche in Italia, come già accaduto in Cina, la gran parte dei morti provocati dalla pandemia di COVID-19 si colloca nella fascia di età degli over 70. Lo si vede molto bene dall’infografica [1] realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e diffusa nel dicembre scorso. Essa è ripresa, per quanto riguarda la mortalità nel nostro Paese per le classi di età più avanzate dall’inizio dell’epidemia fino al 2/12/20, dalla mia Tabella 1, che ne rappresenta una semplice elaborazione. In Italia i morti totali per COVID-19 sono stati (fino al 2 dicembre) 55.824, di cui 47821 (pari all’85% del totale) fra le persone con più di 70 anni di età.

Tabella 1. Prime semplici elaborazioni dei dati cumulativi sul numero di “positivi” al tampone e di morti per COVID-19 in Italia relativi al periodo che va dall’inizio della pandemia fino al 2 dicembre 2020. In realtà, le morti attribuibili con certezza al COVID-19 (in quanto le diagnosi di ricovero menzionavano sintomi legati al SARS-CoV-2) sono circa il 90% di quelle qui tabulate, mentre negli altri casi le diagnosi di ricovero non erano correlate all’infezione, che dunque è stata verosimilmente contratta in ambito ospedaliero. (fonte dei dati grezzi su positivi e morti per fascia di età: Istituto Superiore di Sanità)

Dunque, già da questo dato – che è risultato subito chiaro già dalle prime fasi dell’epidemia e che rifletteva, sostanzialmente, quanto osservato già in Cina nei mesi precedenti – si può capire come la “partita” contro il virus, almeno all’apparenza, si giochi essenzialmente intorno a questa fascia della popolazione, nonostante gli over 70 rappresentino soltanto il 17,3% della popolazione italiana totale (che è composta da 60,3 milioni di persone). “Soltanto” per modo di dire, comunque, perché nel nostro Paese la popolazione anziana (over 65) ha il peso numerico più rilevante che in tutte le altre nazioni UE-27 (dati Eurostat 2019).

Le classi di età avanzata come “target” nella gestione del contagio

Finora, in Italia, il fatto che la maggior parte dei morti fosse concentrata fra gli over 70 non è stato “sfruttato”. Nell’aprile scorso, alcuni medici hanno suggerito l’applicazione di un “lockdown per età”, basato proprio sul fatto che quella degli anziani è la popolazione più fragile e che più paga le conseguenze della pandemia in termini di morti. Un lockdown per età, inoltre, avrebbe permesso di lasciare a una vita attiva i giovani e le persone ad es. fino a 69 anni di età, che rappresentano la fascia su cui economicamente si regge il Paese e che, in larga parte, hanno bisogno di lavorare per sostentare sé e la propria famiglia.

Il lockdown degli over 70, tuttavia, è una cosa di non facile attuazione, almeno in un Paese come l’Italia, dove gli anziani – specie al Sud – vivono con i figli o comunque a stretto o frequente contatto con essi. D’altra parte, è ben noto che una percentuale rilevante di contagi avviene fra le mura domestiche. E proprio i contagi in famiglia sono fra i più pericolosi, e spesso hanno esiti infausti per uno o più componenti del nucleo familiare, verosimilmente a causa dell’elevata carica virale che si accumula e trasmette in un ambiente chiuso in assenza di mascherine indossate. Ma sarebbe davvero stato possibile pensare a un distanziamento sociale per età, un tema che ha diviso perfino gli esperti?

In un paper scientifico apparso su MedRxiv già il 31 marzo dello scorso anno e pubblicato ad agosto, Matrajt & Leung [2] hanno utilizzato un modello matematico per studiare l’efficacia degli interventi di allontanamento sociale in una città di medie dimensioni, considerando vari scenari: uno, che più ci interessa, è stato l’allontanamento solo per adulti > 60 anni di età, in cui i contatti per questo gruppo sono stati ridotti del 95%. La logica di questo scenario è, al solito, che gli anziani sono a più alto rischio di ospedalizzazione e morte e dovrebbero avere le restrizioni più drastiche nei loro contatti. Politiche simili, fra l’altro, sono state attuate all’inizio di aprile in alcuni paesi, come ad esempio la Svezia.

In un altro scenario considerato da Matrajt & Leung, i contatti sono ridotti per ogni gruppo: gli adulti di età >60 anni riducono i contatti del 95%, i bambini dell’85% e gli adulti di età <60 anni del 25%, 75% o 95%. Questo scenario rappresenta molti interventi attuati nel mondo. Ebbene, come previsto, questa seconda strategia di allontanamento sociale, applicata a tutte le fasce d’età (a differenza della precedente), ha ritardato l’epidemia più a lungo,> 50 giorni, rispetto a una baseline di non utilizzo di interventi. Invece, l’allontanamento sociale dei soli adulti di età > 60 anni ha ritardato l’epidemia solo di 2 giorni!

Dunque, anche le simulazioni numeriche non incoraggiavano, all’epoca, l’idea di gestire in modo differenziato gli interventi nei confronti, ad esempio, della popolazione over 70 e di quella restante più giovane, nonostante l’apparente appeal dell’idea. Tuttavia, nel seguito di questo articolo vedremo che, con l’entrata in gioco dei vaccini, le cose cambiano completamente, e – come verrà illustrato con dei semplicissimi modelli e un’analisi per scenari – risulterà chiaro perché, nella fase che si sta aprendo, la fascia degli over 70 dovrebbe essere gestita in modo diverso dal resto della popolazione.

La percentuale di infetti completamente asintomatici sugli infetti totali

Nel seguito di questo articolo, vedremo quale risulta essere l’impatto prevedibile della vaccinazione degli anziani e lo confronteremo con le ottimistiche attese dei decisori politici. Ma, per capire meglio i numeri che troveremo – ovvero per contestualizzarli e interpretarli correttamente – è assai utile prima trovare la risposta a una domanda fondamentale: quanti sarebbero stati, realisticamente, i morti per COVID-19 se l’Italia, anziché praticare il lockdown (come fatto dalla stragrande maggioranza dei Paesi, sia pure in tempi e modi diversi), avesse invece lasciato circolare liberamente il virus?

Ebbene, questa è una domanda chiave che mi sono posto fin dall’inizio dell’epidemia in Italia, non solo per curiosità, ma soprattutto perché è un dato utilissimo ai decisori politici e alle Autorità che devono tutelare la salute pubblica. Purtroppo, non abbiamo potuto dare una prima risposta a questa domanda fino allo studio condotto dal microbiologo Andrea Crisanti, durante il lockdown-quarantena, sulla popolazione di Vo’ Euganeo, sottoposta a uno screening di massa con “tamponi molecolari” (metodo PCR) e prelievo del sangue (per la ricerca di anticorpi IgG/IgM anti SARS-CoV-2 e la mappatura del Dna).

Iniziato il 6 marzo 2020, lo studio è consistito nel testare, all’inizio e alla fine di 14 giorni di quarantena, tutti i circa 3.300 residenti di Vo’ – una cittadina che si trova vicino Venezia – inclusi quindi quelli che non avevano all’epoca sintomi. Ciò ha permesso di misurare la percentuale di “totalmente asintomatici” (cioè di positivi al tampone che non hanno sintomi né al momento del tampone né successivamente), ovvero persone che prendono il SARS-CoV-2 in forma del tutto inapparente, e dunque sfuggono alle statistiche ufficiali dei positivi ma possono trasmetterlo finché non lo neutralizzano con i loro anticorpi.

Ebbene, lo studio ha mostrato che una quota notevole delle persone che si infetta – pari a circa il 42% (intervallo di confidenza del 95%: 31,5-54,6%) – è completamente asintomatica, ma rappresenta comunque una fonte di contagio. Inoltre, sempre nello studio di Lavezzo, Crisanti et al. [3] pubblicato su Nature, si dice che non è stata trovata una differenza statistica fra la carica virale degli infetti asintomatici e quella degli infetti sintomatici. Dunque, grazie allo studio di Vo’ Euganeo, già a marzo sapevamo che una quota compresa fra 1 persona su 2 e 1 persona su 3 è completamente asintomatica.

Fra l’altro, tale risultato è totalmente sovrapponibile con quello fornito dal lavoro – molto più importante – di Oran & Topol [4]: una meta-analisi di 16 lavori di ricerca relativi ad altrettanti “isolati” di popolazione (compresa la nave da crociera quarantenata Diamond Princess, per citare il caso a noi più noto insieme a quello di Vo’). Secondo tale meta-analisi, gli asintomatici costituiscono approssimativamente dal 40 al 45% degli infetti da SARS-CoV-2, e possono trasmettere il virus per un periodo relativamente lungo. In pratica, ciò equivale a dire che in circa una persona su due la presenza del virus è inapparente.

Dunque, ciò pare fornire per il COVID-19 una stima della cosiddetta “proporzione asintomatica”, che è definita come la proporzione di infezioni asintomatiche tra tutte le infezioni della malattia. Questa proporzione varia ampiamente tra le malattie infettive: dall’8% per il morbillo al 32% per le infezioni da norovirus, fino al 90-95% per la poliomielite. La proporzione asintomatica è una quantità utile per valutare il vero peso della malattia e interpretare meglio le stime del potenziale di trasmissione. Tuttavia, come ora vedremo, questa fornita in realtà è una sottostima del numero reale di asintomatici (che dunque porterebbe a una sovrastima del numero di morti in caso di circolazione libera del virus).

Quanti sarebbero stati i morti se la circolazione del virus fosse stata libera?

Il numero di casi positivi ufficiali in Italia, dall’inizio dell’epidemia a oggi (22/2/21), è di circa 2,54 milioni. Invece, il numero di contagiati effettivi – cioè comprensivi dei totali asintomatici – è più alto, e può essere stimato sotto l’ipotesi che la letalità effettiva media sia dell’1% (infatti, secondo la maggior parte degli studi recenti, essa è compresa fra lo 0,5% e l’1,5%). In tal caso, il numero di contagiati effettivi può essere stimato semplicemente moltiplicando per 100 il numero dei decessi (che dall’inizio dell’epidemia fino al 22/2/21 sono stati circa 83.000), ottenendo quindi (83.000 x 100 =) 8,3 milioni di persone, in realtà approssimabili a 9 milioni per tener conto, almeno in parte, dei morti non registrati).

Pertanto, il rapporto fra positivi reali (asintomatici + sintomatici, e che, come appena visto, ammontano a circa 9 milioni di persone) e positivi ufficiali (cioè solo sintomatici, che sono 2,54 milioni) è pari a (9 / 2,54 =) 3,6. Dunque, in Italia, il numero effettivo di contagiati risulta essere compreso fra 3 e 4 volte il numero di contagiati ufficiali. Ciò come si concilia con il solido dato del 42% di asintomatici riportato in letteratura? Una spiegazione assai verosimile, suggerita da Luca Ricolfi nel suo ottimo articolo I conti non tornano ([5], il link è riportato fra i riferimenti bibliografici), è che molti positivi del tutto privi di sintomi non vengono intercettati dai test per gli anticorpi IgG perché si è scoperto che in tali soggetti questi anticorpi durano pochissimo, con il risultato che gli asintomatici vengono largamente sottostimati.

A questo punto, è facile stimare: (1) la letalità reale per le varie classi di età (v. l’ultima colonna della Tabella 2), correggendo con il suddetto fattore “3,6” i dati della letalità apparente forniti dall’Istituto Superiore di Sanità (colonna 3 della medesima Tabella); e (2), al fine di avere un benchmark di riferimento che sarà utile più avanti, il numero di vittime totali che si sarebbero avute nel nostro Paese se il virus fosse stato lasciato libero di circolare, che è dato dall’1% di 60.000.000, pari a 600.000 morti.

In realtà, il numero di decessi reale sarebbe stato certamente inferiore a causa del raggiungimento, a un certo punto, dell’immunità di gregge ottenuta per via “naturale” anziché con i vaccini, che è un po’ quanto era stato inopinatamente proposto, in un primo tempo, dal premier inglese Boris Johnson. Ma di quanto il numero di morti reale sarebbe stato inferiore rispetto a quello appena stimato?

Tabella 2. Letalità apparente dovuta al COVID-19 in Italia relativa al periodo che va dall’inizio della pandemia fino al 2 dicembre. La letalità reale è invece calcolata grazie a un fattore correttivo (rapporto infetti reali / positivi ufficiali) discusso nel testo, e verrà sfruttata nelle Tabelle 3 e 4, nell’ambito dei relativi scenari illustrati nel testo, per stimare il numero massimo di morti per COVID-19 che potremmo avere ancora in Italia se il virus fosse lasciato circolare liberamente senza interventi.

Fontanet & Cauchemez [6] hanno stimato che per la Francia la soglia di immunità di gregge per il SARS-CoV-2 dovrebbe richiedere circa il 67% di immunità della popolazione. Un valore simile è ragionevole anche per l’Italia. La soglia indicata fa riferimento alle varianti del coronavirus che imperversavano nei primi mesi dell’epidemia; quindi, non alle varianti “iperveloci” comparse di recente all’estero (inglese, sudafricana, brasiliana), che alzano la soglia dell’immunità di gregge di un buon 30%. In ogni caso, anche dopo il raggiungimento dell’immunità di gregge, il virus può ancora circolare, sia pure più limitatamente.

Pertanto, considererò il caso (teorico) senza immunità di gregge come limite massimo per il numero di morti, ed il caso con immunità di gregge come limite minimo. Il numero di morti reale è dunque collocato fra questi due estremi. In pratica, in caso di libera circolazione in Italia del SARS-CoV-2, con l’immunità di gregge posta al 67% (varianti normali) i morti sarebbero stati circa il 67% di 600.000, ovvero 402.000; mentre, con le varianti iperveloci (e senza vaccini), sarebbero circa 523.000. In conclusione, i morti con la libera circolazione del SARS-CoV-2 sarebbero compresi fra 400.000 (min) e 600.000 (max). Un valore unico ragionevole, per non usare una “forbice” di valori, potrebbe essere di ≈450.000 morti.

La campagna di vaccinazione degli anziani: le due principali incognite

Sapendo dunque che il numero di morti a cui saremmo andati incontro in caso di totale assenza di misure di mitigazione dell’epidemia è – adottando un valore ragionevole di poco superiore all’immunità di gregge – di circa 450.000 persone, vediamo ora finalmente quale sarà l’impatto verosimile della vaccinazione degli anziani (qui intesi sempre come over 70) in vari possibili scenari. In questo senso, le due incognite principali sono rappresentate: (1) dalla percentuale di costoro che si vaccinerà e (2) dall’efficacia dei vaccini.

Per quanto riguarda quest’ultima, nel mio articolo I dubbi sull’efficacia dei vaccini anti-Covid e le conseguenze per la campagna vaccinale in Italia, pubblicato alcuni giorni fa nel presente sito (vedi link [7]), ho mostrato come si possano ipotizzare uno scenario iper-ottimistico (efficacia dei vaccini pari a quella dichiarata dai produttori) e uno iper-pessimistico (dovuto a dati dubbi ed a “pasticci” nella fase di sperimentazione). Lo scenario realistico si collocherà in qualche punto fra questi due estremi: tradotto in cifre, l’efficacia media dei vaccini sarà compresa fra il 95% (max) e il 62% (min).

Anche nel caso della percentuale degli anziani che si vaccineranno, è possibile immaginare uno scenario estremo ottimistico (si vaccina il 99% di loro) e uno pessimistico (si vaccina l’80%). In realtà quest’ultimo non è uno scenario estremo, poiché in un sondaggio d’opinione [8] condotto dal 25 novembre al 7 dicembre il 27% degli over 50 intervistati ha mostrato, a vario titolo, una certa resistenza a sottoporsi alla vaccinazione. Tuttavia è assai verosimile che, fra gli over 70, la percentuale della popolazione che intende vaccinarsi (e che quindi si vaccinerà, emulando i coetanei nel frattempo già vaccinati) sia un po’ più alta.

Dunque, nelle Tabelle 3 e 4 – che analizzerò in dettaglio nella prossima sezione – ho stimato l’impatto della vaccinazione degli anziani considerando, ancora una volta, due scenari estremi: uno assai ottimistico, in cui sia la percentuale di chi si vaccinerà sia l’efficacia media dei vaccini hanno i valori più ottimistici illustrati in precedenza; e uno scenario assai pessimistico, nel quale sia la percentuale di chi si vaccinerà sia l’efficacia media dei vaccini hanno i valori più pessimistici illustrati in precedenza. Al solito, lo scenario reale si collocherà in qualche punto fra questi due scenari estremi, ma l’analisi dei casi estremi come vedremo è utilissima per cogliere sottigliezze che altrimenti sfuggono.

Impatto della vaccinazione degli over 70: lo scenario iper-ottimistico

Il 27 dicembre scorso è iniziata simbolicamente la campagna vaccinale europea e dunque anche quella dell’Italia. Secondo il “Piano strategico sulle vaccinazioni”, approvato dal Parlamento lo scorso 2 dicembre, dopo i medici, gli infermieri e gli ospiti delle RSA, saranno vaccinati gli over 80 (circa 4,4 milioni di persone), poi entro l’estate i restanti over 60 (circa 13,4 milioni di persone), coloro che hanno almeno due patologie croniche, immunodeficienza o fragilità, e così via. Per il momento saranno inoltre esclusi dalle vaccinazioni già avviate gli under 16 (Pfizer) e under 18 (Moderna), per i quali non ci sono state le dovute sperimentazioni da parte dei produttori e, di conseguenza, le relative autorizzazioni.

Bene, ora guardiamo la Tabella 3, che si riferisce allo scenario iper-ottimistico a cui ho accennato prima. Come si vede, in tal caso il numero di over 70 non immunizzati (che è dato dalla somma del numero di vaccinati in cui il vaccino non si è rivelato efficace e del numero di non vaccinati) è di circa 620.000 persone, che rappresentano circa il 6% della popolazione totale di over 70. Ora, utilizzando la letalità reale per le varie fasce di età calcolata nella Tabella 2, possiamo facilmente stimare quanti di questi 620.000 anziani (al più) morirebbero se il virus fosse fatto circolare liberamente: avremmo fino a 25.100 morti.

Tabella 3. Stima del numero di italiani over 70 non immunizzati dalla campagna vaccinale nello scenario iper-ottimistico (per quanto riguarda la percentuale di persone che si vaccineranno e l’efficacia media dei vaccini impiegati). Il valore così trovato è poi impiegato per stimare il numero massimo di morti residue possibili fra gli over 70 se il virus circolasse liberamente (numero in rosso in basso a destra).

Si tratta di una cifra abbastanza corretta. Infatti, la percentuale di popolazione di questa fascia di età immunizzatasi già per via naturale – e che quindi andrebbe sottratta dai 620.000 anziani non immunizzati – dovrebbe ammontare oggi (al più) al 15% tale cifra. Difatti, secondo l’indagine di sieroprevalenza del SARS-CoV-2 svolta a partire dal 25 maggio dal Ministero della Salute e dall’Istat, testando per gli anticorpi IgG 150.000 persone residenti in 2.000 Comuni italiani, è risultato che il 2,5% di italiani sono entrati in contatto con il virus (nella prima ondata). Se si considera che la seconda ondata è stata all’incirca 4 volte più impattante rispetto alla prima per numero di positivi (come si può vedere “a colpo” dal grafico del “termometro dell’epidemia” della Fondazione Hume), si trova un valore totale intorno al 10%. Un tale valore si ricava, volendo, anche per altra via: moltiplicando i positivi totali in Italia dall’inizio dell’epidemia al 24/1/21 (2,45 milioni) e moltiplicandoli per il “solito” fattore ≈3,6 (per tener conto degli asintomatici): così otteniamo ≈9 milioni di contagiati reali, che è poco meno del 15% della popolazione italiana.

I circa 25.100 morti dello scenario iper-ottimistico vanno sommati (e confrontati) agli oltre 82.600 morti che si sono avuti dall’inizio dell’epidemia a oggi (24/1/21), per cui avremmo alla fine poco circa 108.000 morti, di cui il 23% nella “coda lunga” che dovremo gestire nei prossimi mesi. Il numero di positivi ufficiali che tipicamente finiscono in terapia intensiva è dell’ordine del 10%, quindi dei circa 620.000 anziani non immunizzati al più circa 62.000 potrebbero finire in terapia intensiva. Pertanto, si tratta di un numero all’incirca 10 volte superiore al numero di posti in terapia intensiva disponibili in Italia.

Nonostante ciò, difficilmente i 620.000 si ammalerebbero tutti insieme. Di conseguenza, con il semplice uso delle mascherine nei luoghi chiusi (ad es. supermercati) e semi-chiusi (ad es. mezzi di trasporto), e implementando in maniera più “spinta” altre misure (protocolli di prevenzione e cura domiciliare che tengano conto delle scoperte più recenti, tracciamento tramite tecnologia GPS, potenziamento numerico delle USCA, etc.), la “coda” dell’epidemia in Italia sarebbe probabilmente gestibile senza restrizioni, se il fine è quello – finora perseguito – semplicemente di non far collassare il sistema sanitario e non, invece, quello di massimizzare il numero di vite umane salvate (cosa che si sarebbe potuta ottenere con opportune decisioni, suggerite da Luca Ricolfi già a marzo 2020 e illustrate nel suo libro La notte delle ninfee).

Impatto della vaccinazione degli over 70: lo scenario iper-pessimistico

E ora veniamo allo scenario iper-pessimistico, che è illustrato quantitativamente dalla Tabella 4. Come si vede, in tal caso il numero di over 70 non immunizzati ammonta a circa 5,2 milioni di persone, che rappresentano circa il 50% della popolazione totale di over 70. Si tratta, quindi, di una percentuale enorme. E di nuovo, utilizzando la letalità reale per le varie fasce di età calcolata nella Tabella 2, possiamo facilmente stimare quanti di questi 620.000 anziani (al più) morirebbero se il virus fosse fatto circolare liberamente: avremmo fino a 212.000 morti, un numero quasi 10 volte più grande rispetto al caso iper-ottimistico!

Tabella 4. Stima del numero di italiani over 70 non immunizzati dalla campagna vaccinale nello scenario iper-pessimistico. Si tratta di un numero quasi 10 volte più grande rispetto allo scenario iper-ottimistico, che verosimilmente costringerebbe (previa una lunga e costosa verifica del titolo anticorpale) a una seconda vaccinazione degli over 70 non immunizzati e all’introduzione tardiva dell’obbligo vaccinale.

E non è finita qui. Infatti, 212.000 morti sarebbero un numero ben 2,5 volte maggiore del numero di morti che si sono avuti in Italia dall’inizio dell’epidemia fino al 22 gennaio. Dunque, in questo scenario, quanto abbiamo affrontato finora sarebbe, in un certo senso, solo la “punta dell’iceberg”, mentre nei prossimi mesi ci troveremmo di fronte ancora la parte immersa dell’iceberg, di gran lunga più grande ed insidiosa. In altre parole, nello scenario iper-pessimistico, con la campagna di vaccinazione degli anziani oggi prevista non avremmo risolto granché (salvo aggiustamenti tardivi che però potrebbero farci perdere dei mesi), come si vede in modo plateale notando che i 212.000 morti suddetti sono circa la metà dei 450.000 morti che avremmo avuto in Italia – come discusso prima – se si fosse lasciato circolare liberamente il virus.

Il disastro caratteristico di questo scenario, come è evidente, è dovuto al fatto che non tutti gli anziani si vaccinano (ma solo l’80%) e l’efficacia dei vaccini è più bassa di quella promessa dai produttori (cioè si rivela in media del 62%). Pertanto, è palese che, per evitare un tale disastro occorrerebbe rendere obbligatoria la vaccinazione fra la popolazione over 70, così da minimizzare il contributo del primo parametro, che possiamo in questo modo controllare, sebbene ciò sia qualcosa: (1) impossibile da attuare poiché non si possono imporre vaccinazioni con vaccini autorizzati in emergenza con procedura “fast track” e (2) comunque poco raccomandabile per gli eventuali effetti collaterali a medio e lungo termine dei vaccini, ad oggi impossibili da escludere. Mentre, per gestire il problema dell’efficacia dei vaccini, la strategia da seguire è assai più complessa, e l’ho già accennata – nelle sue linee essenziali – nel mio precedente articolo [7].

In pratica occorre, da una parte, monitorare in tempo “quasi reale” (e l’ISS dovrebbe essere in grado di farlo) l’impatto delle vaccinazioni nei Paesi in cui queste sono più avanti, per stimarne in modo indipendente l’efficacia e confrontarla con quella attesa sulla base dei dati forniti dai produttori dei vaccini; e, dall’altra, gestire in maniera “attiva” la vaccinazione degli over 70, in modo tale da far sì che sia somministrato loro o il vaccino più efficace (dei 5 vaccini previsti arrivare secondo il Piano vaccinale nei primi 6 mesi di quest’anno) o almeno uno dei due più efficaci (cosa a priori niente affatto scontata). Ciò richiede anche un monitoraggio real-time dell’efficacia della campagna vaccinale già iniziata.

Conclusione: i rischi sottovalutati della nuova fase appena iniziata

La sensazione è che, con l’arrivo dei vaccini, si sia creata l’idea – sia a livello del Governo che di Autorità di Sanità Pubblica – che il peggio sia passato o che stia per passare. In realtà, i numeri illustrati in questo articolo dovrebbero aver dimostrato che non è così, bensì è proprio il contrario: il difficile inizia ora. Se infatti si gestirà questa fase in maniera passiva o inadeguata, gli imprevisti e le conseguenze in termini di morti e di impatto sull’economia potrebbero superare di gran lunga le attese dei politici che ci governano, che sono largamente ottimistiche, e quelle di chi gestisce l’epidemia a livello tecnico-scientifico.

La cosa non sarebbe certo nuova nella Storia. Quando ad esempio in Inghilterra, qualche decennio or sono, furono introdotte le cinture di sicurezza, tutti si aspettavano una riduzione dei morti negli incidenti stradali. E invece quello che accadde, sorprendentemente, fu proprio il contrario, e cioè che i morti aumentarono sensibilmente. Infatti, le persone, sentendosi più sicure proprio grazie alle cinture di sicurezza, viaggiavano più velocemente e prestando meno attenzione alla sicurezza, con il risultato di andare più facilmente incontro a incidenti mortali, che è esattamente ciò che invece si voleva evitare.

Ebbene, il rischio principale della nuova fase della pandemia, ovvero quella vaccinale, è a mio avviso il medesimo: e cioè che si punti tutto il jackpot (la sopravvivenza di tantissime persone e dell’economia) sul “Piano A”, il piano vaccinale, senza aver nel frattempo preparato – e portato avanti implementandolo – un “piano B (quest’ultimo, per ampiezza e complessità dell’argomento, richiederebbe una trattazione a parte). Il Piano B, fra l’altro, non avrebbe solo la funzione di “paracadute” se qualcosa andasse storto (ad es. se emergesse una variante resistente ai vaccini attuali), ma anche quella di accelerare l’uscita dalla fase di emergenza che tanto sta impattando a livello economico sul Paese.

Le incognite della fase vaccinale, d’altra parte, sono numerose: dalla disponibilità effettiva di dosi di vaccino (si parla già di una riduzione di ben il 60% delle dosi fornite nei primi 3 mesi rispetto a quelle attese secondo il Piano strategico vaccinale) all’efficacia reale dei vaccini: infatti, oltre alle incertezze sui dati di efficacia forniti dai produttori, pesano i dubbi legati agli effetti di seconde dosi non somministrate nei tempi previsti (con effetti oggi imprevedibili sulla percentuale di efficacia), oppure di quelle gestite non seguendo le procedure corrette, le quali per il vaccino verosimilmente destinato dalla sorte agli anziani over 80 italiani – e cioè il vaccino Pfizer-Biontech – sono particolarmente delicate e complesse.

Abbiamo visto numericamente cosa succede se, sulla roulette, non escono i due “numeri” su cui il Governo ha puntato, ovvero un’adesione pressoché totale alla vaccinazione da parte degli over 70 e un’efficacia media dei vaccini superiore al 90%: rischieremmo di continuare in questa fase di agonia davvero molto a lungo. L’unico modo per evitare gli scenari peggiori – o comunque per far sì che sulla roulette escano i “numeri giusti” – è, da una parte, quello di implementare sin d’ora un “Piano B” e, dall’altra, quello di “truccare” la roulette: in pratica, dato che non si può (e, a mio parere, come risulterà probabilmente più chiaro da future analisi in preparazione, non si deve!) rendere obbligatoria la vaccinazione, gestendo almeno in maniera “attiva” la campagna vaccinale, al fine di ottimizzarne l’efficacia fra gli over 70.

Desidero ringraziare il prof. Luca Ricolfi per l’attenta lettura critica del manoscritto e per le utili discussioni su alcuni punti cruciali, cosa che mi ha permesso di migliorarlo fino alla sua forma attuale. Va da sé che la responsabilità di eventuali errori o inesattezze residue è solo ed esclusivamente dell’Autore.   

Riferimenti bibliografici

[1] Istituto Superiore di Sanità, “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia”, Epicentro, dicembre 2020.

[2] Matrajt L., Leung T. “Evaluating the effectiveness of social distancing interventions to delay or flatten the epidemic curve of Coronavirus disease”, Emerging Infectious Diseases Journal, 26, Agosto 2020.

[3] Lavezzo E. et al, “Suppression of SARS-CoV-2 outbreak in the Italian Municipality of Vo’”, Nature, 584, 2020.

[4] Oran T.P., Topol E.J., “Prevalence of Asymptomatic SARS-Cov-2 Infection”, Annals of Internal Medicine, 1° Settembre 2020.

[5] Ricolfi L., “I conti non tornano”, Fondazione David Hume, 3 ottobre 2020.

[6] Fontanet A., Cauchemez S., “COVID-19 herd immunity: where are we?”, Nature Reviews Immunology 20, pp.583-584, 9 Settembre 2020.

[7] Menichella M., “I dubbi sull’efficacia dei vaccini anti-Covid e le conseguenze per la campagna vaccinale in Italia”, Fondazione David Hume, 18 Gennaio 2021.

[8] Osservatorio Silver Trends, “Vaccino anti-Covid 19: da 1 a 3 milioni di over 50 potrebbero rifiutare la vaccinazione”, la Repubblica, 18 Dicembre 2020.




L’Europa è una discriminante?

Non è da oggi che, nel dibattito politico, l’europeismo viene agitato come una discriminante fondamentale. Da una parte le forze che credono nel progetto europeo, dall’altro i nemici dell’Europa, di volta in volta qualificati come sovranisti, anti-europei, euroscettici.

Ma negli ultimi giorni la tendenza a trattare l’europeismo come una categoria politica si è accentuata, con la ripetuta evocazione di una fantomatica “maggioranza Ursula”, in cui dovrebbero riconoscersi le forze che – nel Parlamento di Strasburgo – hanno reso possibile l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. Il tutto con la folkloristica, per non dire grottesca, appendice del drappello di “responsabili” che, in Senato, si auto-ridenominano “europeisti”, suscitando lo sconcerto di Emma Bonino e del suo partito (+Europa), sicuramente il più coerente alfiere del sogno europeo.

Ma ha ancora senso distinguere fra europeisti e anti-europeisti?

Su un piano descrittivo forse sì. In effetti il grado di severità delle critiche all’Europa è molto variabile. Il Pd +Europa sono molto indulgenti, Lega e Fratelli d’Italia molto severi. Quanto alle altre forze politiche quel che le distingue è soprattutto il tipo di critiche che rivolgono all’Europa: Forza Italia e i Cinque Stelle non apprezzano (o non apprezzavano) la politica migratoria, l’estrema sinistra è iper-critica sul patto di stabilità e sul Mes.

Già questo schizzo dovrebbe suscitare qualche dubbio sulla utilità e sensatezza della contrapposizione fra europeisti e anti-europeisti. Ma l’aspetto che più mi lascia perplesso è l’uso etico-normativo del concetto di europeismo, per cui i critici dell’Europa sarebbero i cattivi, e i difensori sarebbero i buoni. A mio parere sarebbe più aderente alla realtà dire che la costruzione europea ha un bel po’ di difetti (una cosa che ben pochi negano), e che le forze politiche si distinguono per i difetti che tendono a evidenziare o a occultare.

La destra, ad esempio, ha spesso messo in luce difetti come: eccesso di regolazione del mercato interno; insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a Est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico; svantaggi dell’ingresso nell’euro.

La sinistra ha spesso attirato l’attenzione sui ritardi del progetto di unificazione politica, militare, economica: incapacità di parlare con un’unica voce in politica estera; mancanza di un esercito europeo; rigidità del patto di stabilità e crescita; modestia del bilancio europeo; ostilità agli eurobond; tolleranza verso i regimi illiberali di alcuni paesi dell’Unione (Ungheria e Polonia).

Basterebbero questi due stringati elenchi di difetti della costruzione europea per far sorgere il dubbio che l’europeismo possa sensatamente essere usato come una discriminante politica, e tantomeno come una medaglia al merito. Ma in realtà quei due elenchi sono fortemente incompleti. Mancano infatti i limiti dell’Europa su un altro terreno fondamentale, quello della gestione della pandemia.

Qui non mi riferisco tanto ai limiti sul versante dell’economia, e in particolare all’incredibile ritardo con cui diventerà effettivo il Recovery Plan (circa 1 anno e mezzo dallo scoppio dell’epidemia). Quello che ho in mente è il governo complessivo della pandemia sul piano sanitario, dove l’Europa ha brillato molto più per i suoi errori che per i propri meriti.

L’errore più grande è stato, a mio parere, quello di non prendere nemmeno in considerazione il protocollo di gestione dell’epidemia adottato dai paesi che sono riusciti a contenerla (dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda): chiusura delle frontiere, tracciamento elettronico, quarantene controllate, lockdown precoci e circoscritti. E tutto questo non casualmente, ma in omaggio ai totem di quella che mi sento di chiamare l’ideologia europea: libera circolazione delle persone, tutela della privacy, primato dell’economia, subalternità all’Oms (un’istituzione i cui gravissimi errori di valutazione sono costati migliaia di vite umane).

Ma gli errori che ho elencato sono solo i primi in ordine di tempo. Perché se veniamo agli ultimi mesi c’è un ulteriore terreno su cui l’Europa si è mossa in modo discutibile (per usare un eufemismo): quello dei vaccini.

Lascio perdere i dubbi sul ruolo degli interessi nazionali (di Germania e Francia in particolare) nella selezione delle aziende farmaceutiche da finanziare, ma mi limito a un’osservazione: se la campagna vaccinale di tanti paesi europei è in difficoltà è anche perché la Commissione europea, guidata dalla stella (Ursula von der Leyen) che dovrebbe illuminare il cammino delle forze “europeiste”, ha commesso due errori cruciali: firmare contratti senza garanzie sufficienti sulle consegne, e farlo troppo tardi rispetto a paesi concorrenti (ad esempio il Regno Unito, fresco di Brexit). Se ora altri paesi hanno la precedenza su quelli europei nella fornitura delle dosi non è tanto per la cattiveria delle aziende farmaceutiche, quanto perché, pure su questo terreno, la classe dirigente europea non è stata all’altezza.

Ecco perché mi permetto di dare un consiglio non richiesto alle forze politiche: lasciate perdere l’europeismo. L’Europa è un edificio fragile e imperfetto, e se ha senso dividerci può essere solo su come intendiamo provare a ripararne i non pochi difetti.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 gennaio 2021




La terza ondata

Che nell’ultima parte del 2020, in Italia e in altri paesi del mondo, vi sia stata una “seconda ondata”, nessuno dubita. A partire dalla fine di settembre tutti gli indicatori di diffusione dell’epidemia hanno iniziato a galoppare, oltrepassando una dopo l’altra le principali soglie di allarme: nuovi casi, morti, quoziente di positività, ricoveri ospedalieri hanno presto raggiunto livelli preoccupanti.

Quello che è invece meno chiaro è se sia in arrivo, o sia già arrivata, anche una terza ondata, e se le ondate di cui si parla stiano investendo più o meno uniformemente tutti i paesi, o perlomeno i paesi a noi comparabili.

Ma che cos’è un’ondata?

Qui i punti di vista divergono. Per chi lavora in ospedale un’ondata è l’arrivo repentino di un numero di malati Covid che satura, o rischia presto di saturare, la capacità di accoglienza del sistema sanitario nazionale. Da questo punto di vista non c’è nessuna nuova ondata in atto, semplicemente sta succedendo che gli ospedali non si stanno svuotando, e continuano ad operare al limite della capacità.

Per chi invece monitora la dinamica dell’epidemia le cose stanno molto diversamente. Osservata da questa angolatura, un’ondata è una perturbazione della curva epidemica che ne modifica (peggiora) in modo apprezzabile l’andamento. Se guardiamo le cose in questo modo, quel che possiamo dire è che in Italia la terza ondata è arrivata già intorno al 10 dicembre. E’ allora, infatti, che si è interrotto il processo che, sia pure lentamente, stava mitigando la seconda ondata. Se oggi gli ospedali non si stanno ancora svuotando, è perché da un mese e mezzo una terza ondata si è sovrapposta alla seconda.

A che cosa si deve la terza ondata?

Nessuno lo sa con certezza, ed è probabile che le determinanti siano più d’una: la diffusione, anche in Italia, di varianti del virus più contagiose; l’ingresso nella stagione fredda; e forse pure qualche imprudenza nella settimana del Black Friday (27 novembre). Quel che è certo è che, da allora, non siamo più riusciti a riportare la curva epidemica lungo un robusto sentiero di discesa.

E negli altri paesi?

Contrariamente a quanto spesso si sente dire, non è vero che quel che succede in Italia sia, più o meno, quel che sta succedendo in tutta Europa, o in tutte le società avanzate. Quel che colpisce, invece, è quanto diversa sia la dinamica dell’epidemia da paese a paese. Se consideriamo le società avanzate, con istituzioni economiche e sociali comparabili alle nostre (29 paesi, di cui 20 europei), è possibile individuare almeno tre gruppi di paesi.

A un estremo, 9 paesi (su 29) in cui negli ultimi mesi non si è osservata alcuna vera e propria seconda ondata, ma solo alcune modeste fluttuazioni del numero dei casi e della mortalità. Fra questi paesi quasi-esenti 6 sono lontani da noi (Giappone, Australia, Corea del Sud, Nuova Zelanda, Taiwan, Hong Kong), ma tre sono in Europa (Finlandia, Norvegia, Islanda), anche se uno solo – la Finlandia – fa parte dell’Unione Europea.

All’altro estremo quattro paesi (fra cui fortunatamente non c’è l’Italia) che se la passano decisamente male, anche se per ragioni diverse: Portogallo, Spagna, Regno Unito, Svezia. In Spagna a preoccupare è soprattutto la velocità del contagio, nel Regno Unito e in Svezia il numero di contagiati, in Portogallo entrambe le cose.

Fra questi due estremi – paesi quasi-esenti e paesi travolti – si collocano le altre 16 società avanzate, fra cui l’Italia. In questo gruppo quasi sempre la curva epidemica mostra una sovrapposizione fra seconda e terza ondata, e la differenza fondamentale che emerge è fra paesi in cui la curva epidemica ha iniziato risolutamente a regredire (Cipro, Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Svezia, Svizzera) e paesi in cui il rallentamento è debole o appena iniziato (tutti gli altri, Italia compresa).

Che cosa ne possiamo concludere?

Fondamentalmente, due cose. La prima, positiva, è che in questa fase l’Italia, pur restando fra i paesi in cui la conta dei morti è più drammatica, ha perso il triste primato che deteneva insieme al Belgio: nelle ultime due settimane sono 5 i paesi in cui i morti per abitante superano quelli dell’Italia (Regno Unito, Svezia, Portogallo, Germania, Stati Uniti).

La seconda conclusione, negativa, è che – se desideriamo ridurre sensibilmente la circolazione del virus – siamo ancora terribilmente lontani dall’obiettivo. Il numero di contagiati per abitante è ancora paragonabile a quello della prima ondata, e circa 10 volte superiore a quello di Finlandia e Norvegia, ossia dei due migliori paesi europei (senza contare l’Islanda, che ha zero decessi). Quanto all’andamento del numero di contagiati, nelle ultime due settimane la tendenza è alla diminuzione, ma a una velocità bassissima (Rt di un soffio sotto 1).

Spiace prenderne atto, ma la realtà è che le misure di contenimento non stanno funzionando a dovere, non solo in Italia. Forse dovremmo prendere atto che, specie di fronte alle nuove varianti del virus, nemmeno i lockdown sono sufficienti a produrre una decisa inversione di rotta. E’ arrivato il momento di abbandonare il protocollo europeo, che ci sta inesorabilmente portando a un regime permanente di stop and go, e guardare con più attenzione alle strategie dei paesi che non si sono fatti travolgere né dalla prima né dalla seconda ondata.

Pubblicato su Il Messaggero del 23 gennaio 2021




Le colpe del governo nella seconda ondata. Intervista a Luca Ricolfi

Perché ha deciso di fare un libro che è un atto d’accusa così forte contro il governo?
Perché, a metà novembre, mi sono accorto di un fatto per me stupefacente: la maggior parte dei miei amici e colleghi, e la maggioranza degli italiani, erano convinti che la seconda ondata fosse inevitabile.  Dato che questa credenza non solo è falsa, ma è una concausa della crisi, ho ritenuto fosse giusto smontarla prima che produca altri danni.

In che senso credere nell’inevitabilità della seconda ondata è una concausa della crisi?
E’ semplice: se credi questo, abbassi la guardia, perché contro il fato è inutile combattere. E in questi mesi quasi tutti, anche nel mondo dell’informazione, hanno abbassato il livello di vigilanza verso l’attività (anzi l’inattività) del governo. La seconda ondata è anche il risultato di questo abbaglio collettivo.

La giustificazione principale del governo è che tutti i Paesi Occidentali sono nella nostra situazione, se non addirittura peggio…
Niente di più falso. Le società avanzate, con istituzioni paragonabili alle nostre (dunque escludendo dittature, paesi poveri e paesi ed ex-comunisti), sono 29, di cui 20 in Europa. Su 29 ben 10 (di cui 4 in Europa: Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca) hanno evitato la seconda ondata, e almeno 9 stanno evitando la terza. Quanto al paragone con gli altri paesi, dall’inizio della pandemia siamo al secondo posto (dopo il Belgio) per numero di morti per abitante. Né le cose vanno molto meglio in questo inizio di 2021: se consideriamo solo i decessi di gennaio, sono ben 24 (su 29) i paesi che hanno meno morti di noi.
Anche se – questa è la novità – ora ci sono tre grandi paesi che, in questo momento (gennaio), riescono a fare peggio di noi, mentre prima ci riusciva solo il Belgio.

Quali sono?
Stati Uniti, Regno Unito, Germania.

Cosa avremmo potuto fare di diverso?
Una decina di cose, che gli studiosi indipendenti, ad esempio quelli di Lettera 150 e quelli della Fondazione Hume, hanno disperatamente e inutilmente chiesto fin dalla fine di marzo. Cito solo le più importanti: tamponi di massa, contact tracing efficiente, Covid hotel per le quarantene, controllo dei voli e delle frontiere, riorganizzazione della medicina territoriale, rafforzamento del trasporto pubblico, messa in sicurezza delle scuole (classi piccole e dispositivi di controllo dell’umidità).
E poi la regola fondamentale: se sei costretto a fare un lockdown (il che è sempre un certificato di fallimento dell’azione preventiva), devi farlo subito, duro e tempestivo, secondo la formula “hard and early”. Non intervenendo tardi e inasprendo le misure gradualmente, come abbiamo fatto noi (e non solo noi, in Europa). Se no le ninfee dello stagno si moltiplicano troppo, e soffocano la vita dello stagno.

Tra le cose da fare non cita l’aumento dei posti in terapia intensiva…
Non è una dimenticanza. Se si fosse fatto tutto il resto, non ci sarebbe stato bisogno di alcun aumento dei posti in terapia intensiva, perché i contagiati sarebbero stati molti di meno, e la maggior parte dei malati sarebbe stata curata con successo a casa, secondo i protocolli informali spontaneamente emersi fin dai primi mesi della pandemia, grazie ai (pochi) medici che, come il dott. Luigi Cavanna, hanno avuto il coraggio di curare i loro pazienti a casa.

Si ha la sensazione che la pandemia sia gestita alla giornata, sbaglio?
Ha ragione, se si riferisce ai marchingegni delle restrizioni, come i colori giallo-arancio-rosso. Ma non è solo questo: il problema è che i criteri di valutazione del rischio sono sballati.

In che senso?
In due sensi. Primo, le soglie di allarme sono troppo alte (come si fa classificare gialla una regione con un valore di Rt pari a 1.2 o 1.25?). Secondo, la stella polare delle autorità sanitarie è la preservazione del sistema sanitario nazionale, anziché la minimizzazione dei contagiati. Un errore clamoroso, che altri paesi non hanno commesso.

C’è qualcosa che avremmo potuto tenere aperto e abbiamo chiuso e qualcosa che avremmo dovuto chiudere e abbiamo tenuto aperto?
Una risposta categorica è impossibile, perché non esistono studi in grado di quantificare in modo rigoroso gli effetti delle varie misure. La mia impressione è che, avendo quasi sempre accettato un numero di contagiati troppo alto, quel che avremmo potuto tenere aperto (e invece abbiamo chiuso) è ben poco, e si riduce alle attività culturali, dove – se ci si organizza per bene e per tempo – è possibile tenere il distanziamento e controllare l’umidità (con qualche investimento in macchinari, ovviamente). Un punto su cui Vittorio Sgarbi ha sempre avuto perfettamente ragione.
Quanto al caso opposto (chiusure mancate), alcuni studi statistici suggeriscono che l’errore più grave sia stato il mancato o inadeguato controllo delle frontiere (di terra e di mare) e dei voli (specie quelli a fini di turismo).
E’, del resto, un principio di puro buon senso: la lotta alla pandemia è incompatibile con il turismo internazionale.

Siamo stati per tre volte con l’indice di contagio ampiamente sotto 1 (giugno-settembre-inizio novembre): perché abbiamo sbagliato tre calci di rigore e l’Rt è rischizzato su?
Perché non si è fatto nulla per evitare che il sistema di tracciamento andasse in tilt. Lei lo sa che fra maggio e metà agosto anziché aumentare i tamponi li abbiamo ridotti? E che oggi si fanno meno della metà dei tamponi che si facevano a metà novembre? E che il numero di addetti al contact tracing è un quinto del minimo necessario?

Secondo i suoi studi è possibile convivere con il virus?
Sì, è possibilissimo, tanto è vero che 1 paese su 3 ci convive senza drammi. Ma per farlo occorrono alcune condizioni di base: un numero di infetti molto contenuto (possibilmente inferiore all’1 per 1000), un sistema di test e di tracciamento funzionante, una popolazione che rispetta le regole, un governo-custode dello stagno, che interviene appena le ninfee cominciano ad essere troppe.

Lei è un professore: le giovani generazioni stanno subendo un danno irreparabile?
Sì, ma minore del danno cognitivo e culturale che – nell’indifferenza generale – hanno subito in cinquant’anni di distruzione della scuola e dell’università.

Lei è un sociologo: come ci ha cambiato l’epidemia e come ci cambierà ancora?
Dipende dai paesi. Nel caso dell’Italia mi aspetto un paese più povero, più vittimista (in quanto sempre più dipendente dall’assistenza pubblica e dalla carità privata), più rancoroso e incattivito, perché la “società signorile di massa” non tornerà più.
Ma ci sarà anche una minoranza (di ceto medio) che reagirà bene, ridimensionando le aspirazioni e cambiando gli stili di vita.

Intravede errori anche nella procedura di vaccinazione?
Un mucchio, a partire da quelli dell’Europa che ha puntato sui vaccini sbagliati (per favorire Francia e Germania) e ha stipulato contratti deboli, come si vede in questi giorni.

Il governo usa toni trionfalistici sulla profilassi: li condivide o sta andando tutto bene solo perché abbiamo poche dosi e vacciniamo per ora solo chi sta in ospedale o nelle rsa.
Il governo sta vaccinando fra un terzo e un quarto delle persone che dovrebbe vaccinare per raggiungere gli obiettivi dichiarati (immunità di gregge entro ottobre 2021). Ma ha ragione ad osservare che siamo agli inizi, e che per ora la maggior parte degli altri paesi europei va ancora più lentamente.

Gli italiani come si sono comportati, meglio o peggio del governo?
Peggio del governo è impossibile. Sintetizzando, darei un 2 al governo, e 5 agli italiani. Con una avvertenza: il 5 degli italiani è la media fra il 7 degli adulti e il 3 dei giovani.

C’è stato qualcosa di sbagliato, o di particolarmente azzeccato, nella strategia comunicativa?
A giudicare dagli orientamenti dell’opinione pubblica, direi che la strategia comunicativa del governo è stata perfetta: è riuscito a convincere gli italiani che il virus fosse inarrestabile e a occultare le responsabilità del governo e delle autorità sanitarie. Chapeau!

Uno degli aspetti più criticati nell’azione del governo è stato di aver prodotto un vulnus della democrazia: è vero? In che termini?
Stato di emergenza e dpcm sono misure eccessive, specie se adottate da un governo frutto di una manovra parlamentare.

I virologi come si sono comportati: hanno aiutato o fatto solo confusione tradendo anche una certa ansia di protagonismo?
Complessivamente, hanno fatto danni, per la cacofonia dei messaggi che hanno veicolato. Singolarmente bisogna distinguere: Galli e Crisanti hanno sempre tenuto la barra dritta, i vari Zangrillo minimizzanti hanno fatto un cattivo servizio alla verità.

Secondo lei la debolezza dell’esecutivo ha giocato un ruolo decisivo nella cattiva gestione della pandemia?
Senz’altro, anche se il ruolo principale l’hanno esercitato la superficialità e la mancanza di cultura scientifica dei suoi membri.

Pensa che il premier si sia fatto scudo della pandemia per nascondere le debolezze sue e del governo?
Sì, senza il terno al lotto del Covid Conte sarebbe scomparso nel nulla da cui era venuto.

Come mai gli italiani, malgrado le evidenti difficoltà, concedono a Conte un gradimento alto?
E’ una domanda cui, come sociologo, ho difficoltà a fornire una risposta persuasiva. Penso che due elementi importanti del cocktail che ha miracolato Conte siano l’indifferenza degli italiani per la politica e l’assenza, in Italia, di un’informazione indipendente. Se giornalisti e commentatori avessero fatto il loro mestiere, forse non saremmo a questo punto.

E perché le opposizioni invece ce l’hanno basso?
Perché la linea dell’opposizione non è mai stata realmente alternativa, anzi per certi aspetti l’opposizione – specie con Salvini – ha spinto per soluzioni ancora più incaute di quelle del governo.

Renzi dice cose giuste? Allora perché è impopolare: perché?
Renzi dice molte cose giuste, e ha ragioni da vendere nel suo attacco al governo. Il suo problema è che non è credibile, oltreché un po’ sbruffone. Promette di dimettersi se perde e poi non lo fa. Giura mai con i grillini e poi ci si allea solo per evitare le elezioni. Governa con Conte per quasi un anno e mezzo e poi gli dà il benservito. Insomma a me molte idee di Renzi convincono, il problema è lui, la sua incoerenza. Per un riformista radicale come me, Renzi è un Calenda mal riuscito.

Il Pd ha dato la sensazione di essere spettatore a tutto, dalla pandemia, alla crisi, al governo: come mai?
Perché, anche se se la contano con discorsi alati (gli interessi del paese, il bene comune, eccetera) la stella polare del Pd è solo il potere, come per il Pentapartito degli anni 80.

Prima della pandemia eravamo una società signorile di massa: ora cosa siamo e dopo cosa diventeremo?
Ora siamo una società signorile di massa che non ha ancora preso atto di non esserlo più, e di essere in rapida transizione verso una società parassita di massa, in cui pochissimi lavoreranno e la maggioranza vivrà di modesti sussidi.

Quanto è ferito il tessuto economico italiano e abbiamo possibilità di riprenderci? In quali tempi?
No, secondo me – a questo punto – non abbiamo alcuna possibilità di riprenderci, perché abbiamo dilapidato 150 miliardi (in deficit), pietrificato l’economia (con il blocco dei licenziamenti), e non abbiamo fatto nulla per rendere ancora possibile l’attività di impresa.

Si dice che questa pandemia cambierà tutto: concorda, e in che modo?
Se retrocedi di 30 anni nel reddito pro-capite, ma le istituzioni sono complicate e vessatorie come quelle di oggi, il cambiamento non può che essere regressivo: più povertà, più diseguaglianza, più frustrazione, più invidia sociale.

Siamo al declino definitivo dell’Occidente? I nostri valori non reggono più i tempi?
Non direi. E’ che i nostri valori li abbiamo ripudiati. I valori dell’occidente non ci sono più, prosciugati dalla cultura dei diritti e dal vittimismo del politicamente corretto. Se non avessimo preso congedo da tutto ciò che bilanciava l’individualismo – capacità di sacrificio, differimento della gratificazione, rispetto dell’autorità e della cultura, senso del dovere – l’Occidente sarebbe in perfetta salute.

Intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi, Libero, 18 gennaio 2021




Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano

La notizia è che, sia pure con ben dieci mesi di inescusabile ritardo, anche Walter Ricciardi finalmente l’ha capita: «Abbiamo l’indice di mortalità […] più alto del mondo», ha dichiarato a L’aria di domenica su LA7 subito prima di Natale, aggiungendo poi che «su 147 Paesi solo 12 hanno fatto bene: 10 sono asiatici e 2 sono Australia e Nuova Zelanda, dove il Natale in questo momento si celebra normalmente», proprio come Ricolfi ed io stiamo dicendo da mesi.

Certo, uno a questo punto si aspetterebbe delle scuse e magari le dimissioni, nonché un duro atto di accusa contro il governo, mentre il “rappresentante-ma-anche-no” della OMS in Italia se ne guarda bene e continua imperterrito a sostenere che «abbiamo fatto molto bene nella prima fase» e che se «in questa seconda fase» le cose vanno male è (manco a dirlo) colpa della gente che «ha rimosso tutto», il che non spiega nulla e, soprattutto, è falso. In realtà, infatti, le cose vanno male esattamente come prima: 33.500 morti in 3 mesi allora (marzo-maggio), 38.200 morti in 3 mesi ora (ottobre-dicembre), una differenza minima che si spiega col fatto che allora era arrivata l’estate, che aveva fatto scendere i contagi e quindi i morti, mentre ora è arrivato l’inverno, che li sta facendo salire, tanto che a gennaio in soli 10 giorni ne abbiamo già avuti 4.500.

Ma non pretendiamo troppo: per come siamo messi, è già un mezzo miracolo che Ricciardi si sia deciso a dire almeno mezza verità e sarebbe un miracolo tutto intero se riuscisse davvero a convincere il governo a cambiare strada, senza continuare a tirare a campare aspettando che ci salvi il vaccino, che in realtà significa aspettare che ci salvi (di nuovo) l’estate. Infatti, è chiaro a chiunque non sia completamente stupido o in malafede che per vaccinare un numero sufficiente di persone ci vorranno diversi mesi, quindi le cose non miglioreranno prima dell’arrivo del caldo, ovvero per almeno altri 4 mesi, che, gestiti in questo modo demenziale, con l’Italia ridotta a una specie di semaforo impazzito, possono fare più danni di un terremoto.

Merita quindi riflettere un po’ più a fondo su quale tra i vari modelli di contrasto al virus potremmo adottare, giacché, contrariamente a quanto ci ha sempre ossessivamente ripetuto la litania governativa, non ce n’è mai stato uno solo, uguale in tutto il mondo, ma parecchi, solo alcuni dei quali hanno funzionato. Certamente non l’ha fatto il “modello Italia”, che, con buona pace di Ricciardi, non è mai stato tale (vedi mio articolo del 19/10, nonché tutti quelli di Luca Ricolfi), né il “modello Germania”, che tale è stato solo per un po’ e poi si è tragicamente sgonfiato (vedi mio articolo del 23/12), ma altri sì.

Anzitutto, c’è il modello cinese, il primo che abbiamo visto in azione, così sintetizzabile: finché puoi, nega tutto, quando non puoi più, chiudi tutto. Ying e Yang, integrazione degli opposti ed eliminazione degli oppositori, la mascherina come immagine e il fucile come sostanza. Efficace lo è, etico un po’ meno, imitabile (almeno da noi) per nulla.

Quindi, dall’altra parte del mare, nonché del cielo, c’è il modello Taiwan, che per la OMS manco esiste, ma cionondimeno ci guarda tutti dall’alto, o meglio, dal basso dei suoi 0,3 mpm (morti per milione), il miglior risultato al mondo, ottenuto grazie all’atavica diffidenza verso la Cina e le sue bugie, che ha portato alla tempestiva e rigidissima chiusura delle frontiere. Oltre che da alcuni paesi asiatici, è stato replicato, con quasi altrettanto successo, da alcuni paesi dell’ex blocco sovietico e della ex Jugoslavia (anche se poi molti hanno rovinato tutto riaprendo troppo presto al turismo internazionale): sarà un caso che avessero avuto a che fare anche loro per lungo tempo con regimi simili a quello di Pechino? È sicuramente il sistema migliore, ma quando hai già il virus in casa non serve più.

Ci sarebbe anche un modello africano, tanto semplice quanto efficace (appena 5 mpm): muori di qualcos’altro prima dei 55 anni (aspettativa di vita attuale del continente) e difficilmente morirai di Covid, che fa il 97% delle sue vittime al di sopra di questa soglia. Per funzionare funziona, ma dubito che qualcuno sia disposto ad adottarlo, a cominciare, se potessero scegliere, dagli stessi africani.

E poi c’è il “mitico” modello coreano (in realtà usato anche in Giappone, in Australia e, almeno parzialmente, anche in altri paesi del Pacifico occidentale), l’unico di cui anche da noi ogni tanto si è parlato, forse perché piaceva il fatto che si basasse su una “App” o forse perché è sempre stato visto (erroneamente) come una versione più efficiente di quello italiano, il che consentiva al governo di cimentarsi nel suo sport preferito, ovvero scaricare la colpa dell’inefficienza sui cittadini, che sarebbero più indisciplinati dei coreani. Per la stessa ragione è anche il modello che viene in genere preferito da chi invece ritiene che qualcosa dovremmo cambiare, ma senza esagerare. Ma è davvero così?

Basta andare a guardare i numeri e ci imbattiamo subito in un’enorme sorpresa, che scompiglia tutti i nostri luoghi comuni al riguardo. Infatti, nella “classifica” dei test in rapporto alla popolazione la Corea del Sud è appena al 125° posto con il 9,2% di abitanti controllati e il Giappone addirittura al 148° con il 4,2%, mentre tra i primi 40 troviamo quasi tutti i paesi messi peggio, tra cui (ovviamente) l’Italia, che è proprio al 40° posto con il 45%, 5 volte più della Corea e addirittura 11 volte più del Giappone. L’Inghilterra è al 17° posto con l’86%, gli USA al 20° con l’81% e l’eterna “maglia nera” Belgio al 27° con il 62%.

Notato di passaggio che la percentuale dell’Italia è circa la metà di quella degli USA di Trump il Pazzo, a cui continuiamo irragionevolmente a sentirci superiori benché in realtà siamo messi peggio in tutto, passiamo a farci la domanda veramente importante: cosa significa tutto ciò? Forse non era vero quello che sia Ricolfi che io abbiamo sempre sostenuto, cioè che fare tamponi su vasta scala è uno dei punti essenziali per un efficace contenimento?

La risposta in realtà è più complessa. Nei primi 40 posti, infatti, ci sono anche diversi paesi virtuosi o semi-virtuosi, come la Danimarca (266 mpm) al 7° posto con il 194%, l’Islanda (85 mpm) al 12° con il 131%, Singapore (5 mpm) al 14° con il 95%, Hong Kong (21 mpm) al 21° con il 73%, la Norvegia (87 mpm) al 33° con il 54%, l’Australia (35 mpm) al 38° con il 46% e la Finlandia (106 mpm) al 39° con il 46% (l’elenco completo si trova su qui). Resta quindi confermato che, contrariamente a quanto ha sostenuto per lungo tempo la OMS, fare molti tamponi serve. Ma evidentemente non basta.

Anzitutto, farne tanti è difficile, soprattutto per i grandi paesi, per trovare il primo dei quali bisogna infatti scendere fino al 17° posto dell’Inghilterra. Inoltre, non è necessariamente garanzia di successo. Il miglior risultato ce l’hanno le isole Far Oer, con appena 20 mpm grazie a un 426% di test, cioè oltre 4 per persona (che però su una popolazione di meno di 50.000 abitanti significa poco più di 200.000 tamponi). Ma il Bahrain, che guida la classifica grazie a uno stratosferico 1435% (cioè ha controllato ogni abitante per ben 14 volte) ha 206 mpm, cioè il decuplo delle Far Oer pur avendo fatto un numero di controlli 3,5 volte maggiore. Le Bermude, che hanno fatto circa 2,5 test per abitante, hanno un discreto 193 mpm, ma Andorra e Lussemburgo, con un tasso simile, hanno rispettivamente 1099 e 840 mpm. E così via.

Certamente su ciò influiscono molto le altre misure adottate: non è certo un caso che Taiwan sia appena al 192° posto con un misero 0,55%, visto che ha puntato tutto, con successo, sulla chiusura delle frontiere, grazie alla quale ha avuto appena qualche centinaio di contagi. Ma ci sono anche delle differenze che dipendono dal modo di gestire e, prima ancora, di concepire gli stessi tamponi.

La verità è che, come ha spiegato più volte il prof. Crisanti (che pure durante la prima fase ha salvato migliaia di vite in Veneto proprio facendo fare i tamponi a tappeto), alla lunga questo sistema funziona solo se abbinato a un efficace sistema di tracciamento dei contagi. Ciò, infatti, permette di fare i test in modo “mirato”, ottenendo risultati molto superiori con numeri molto inferiori: ecco perché Corea e Giappone ne fanno così pochi. A tal fine, però, non basta avere la mitica “App”: questa, infatti, si limita a segnalare quando si entra in contatto con una persona contagiosa, ma perché questa informazione serva occorre che venga usata immediatamente, in modo da spegnere il focolaio sul nascere.

Il problema è che tutto ciò non si improvvisa, perché richiede un sistema sanitario rapido ed efficiente, cioè tutto il contrario di quello italiano, che come qualità è ottimo, ma ha il suo tallone d’Achille proprio nei tempi di attesa, dovuti alla iper-burocratizzazione. Era quindi improbabile già in partenza che il tracciamento potesse funzionare, anche se il catastrofico fallimento della App Immuni, che ha scoperto poco più di 1200 contagi, è andato al di là di tutte le più pessimistiche previsioni. Comunque, siccome è ovviamente impossibile che si faccia ora ciò che non si è fatto in dieci mesi, neanche questa strada è ormai praticabile. Ma potrebbe non essere un male, se ci spingesse ad adottare quello che non solo è l’unico sistema attuabile nella nostra situazione, ma è anche il più efficace di tutti, ovvero il “modello Jacinda”, creato dalla giovanissima premier neozelandese Jacinda Ardern.

Il suo metodo è tanto semplice quanto efficace e si può sintetizzare, come lei stessa ha fatto, nel motto dei mitici All Blacks della Nazionale di rugby: “Hard and early”, ovvero “colpisci duro e subito”. Anche la sua logica è molto semplice: siccome il numero dei contagi dipende dai contatti fra le persone, se si impediscono i contatti, i contagi si azzerano; e siccome il numero dei morti dipende dal numero dei contagi, prima si azzerano i contagi, meno morti ci sono.

Lockdown, quindi, ma totale e immediato: non come da noi, dove è stato deciso con un mese di ritardo e anche nel momento di teorica chiusura totale erano autorizzate a circolare quasi 10 milioni di persone. Ma neanche come in Cina, perché Jacinda per imporlo non ha usato né la forza, come da loro, né la paura, come da noi, bensì la ragione e il coraggio, spiegando pacatamente i motivi della sua scelta e i vantaggi che avrebbe portato e prendendosi sempre personalmente la responsabilità di qualsiasi cosa, anche minima, che fosse andata storta (altro che Conte e soci, per i quali la colpa è sempre nostra).

Per qualche mese il “modello Jacinda” se l’è giocata alla pari con quello coreano, ma da qualche mese in qua la sua superiorità, che io ho sempre sostenuto, mi sembra stia diventando evidente a tutti. È vero, infatti, che il lockdown è molto più duro del tracciamento, ma è anche molto più breve, perché il tempo massimo di incubazione del virus è di 2 settimane, per cui basta chiudere per un tempo di poco superiore per azzerare i contagi. Ma, soprattutto, dopo è davvero finita: in Nuova Zelanda si è tornati alla vita normale già da maggio, mentre coreani e giapponesi sono ancora alle prese con mascherine, disinfettanti e controlli di ogni tipo.

Inoltre, proprio perché molto complesso da gestire, il modello coreano costringe a vivere sempre sul filo del rasoio, tanto più poi col Covid, che, come pare ormai accertato, non ha una diffusione omogenea, ma viene propagato da pochi individui super-contagiosi, per cui basta farsene sfuggire qualcuno per ritrovarsi in pochi giorni davanti a un focolaio di grandi dimensioni.

Questo è successo in modo emblematico all’Australia, che, dopo avere praticamente azzerato i contagi già a fine aprile con appena 102 morti (3,8 mpm, secondo miglior tasso al mondo dopo Taiwan), a metà luglio si è lasciata sfuggire un grosso focolaio a Melbourne, che in 3 mesi ha fatto oltre 800 morti. A questo punto gli australiani hanno decisamente virato in direzione dei “cugini”, adottando per Melbourne un lockdown in stile neozelandese, anche se un po’ ammorbidito, per cui ci hanno messo 3 mesi anziché 3 settimane per azzerare i contagi. Alla fine, però, ce l’hanno fatta e ormai anche da loro si è tornati alla vita normale.

Ma anche quando non si verifichi nulla di così eclatante, col sistema coreano è quasi inevitabile che alla lunga i piccoli errori, che non possono mai essere completamente eliminati, sommandosi provochino una progressiva accelerazione dell’epidemia, all’inizio quasi impercettibile, ma destinata col tempo a prendere sempre più velocità, come ha spiegato benissimo Ricolfi nel suo articolo del 24 ottobre (senza contare poi che più tempo ci si tiene il virus in casa, più è probabile che muti, diventando più contagioso: vedi mio articolo del 7 gennaio). Inoltre, anche nel più efficiente dei paesi il tracciamento funziona solo finché il numero dei contagi giornalieri è basso, per cui se quest’ultimo comincia ad aumentare si innesca un circolo vizioso che, superato un certo limite, manda in crisi il sistema. E sembra che proprio questo stia accadendo negli ultimi tempi, sia in Giappone che perfino nella “mitica” Corea del Sud.

A fine aprile questi paesi avevano rispettivamente 4,1 e 5 mpm, cioè erano più o meno allo stesso livello di Nuova Zelanda (5) e Australia (3,8). Oggi, però, in Corea la mortalità è salita a 22 mpm, cioè è più che quintuplicata, mentre in Giappone è arrivata a 32 mpm, cioè è aumentata di quasi 8 volte. La Nuova Zelanda, invece, ha tuttora 5 mpm, mentre l’Australia dopo Melbourne era salita a 35, ma da allora, cioè da quando si è “Jacindizzata”, da quel 35 non si è più mossa.

Ancor più inquietante è il paragone con l’Italia, che a fine aprile aveva 480 mpm, mentre oggi ne ha 1300, il che significa che da noi (così come, più o meno, anche negli altri paesi europei), la mortalità è cresciuta di 2,7 volte, ovvero la metà della Corea e un terzo del Giappone. Intendiamoci, stiamo parlando di una situazione che è ancora da 40 a 60 volte migliore della nostra, però a me sembra che questi dati dimostrino inequivocabilmente che la prolungata convivenza col virus, anche a bassa o bassissima intensità, non è mai una buona idea, e non solo perché c’è sempre il rischio che la situazione possa sfuggire di mano.

In primo luogo, infatti, mantenere a lungo un sistema di sorveglianza così complesso implica un enorme sforzo, sia organizzativo che economico. Inoltre, si è costretti a sopportare tutta una serie di disagi che, per quanto molto inferiori a quelli che stanno toccando a noi europei, su tempi lunghi non fanno bene né al morale né all’economia, per non parlare delle limitazioni alla libertà personale e alla privacy, che più durano, più diventano pericolose. Ma, infine e soprattutto, perché mai dovremmo fare uno sforzo simile per mantenere basso il livello dei contagi, quando si può azzerarlo del tutto con uno sforzo molto minore?

La Nuova Zelanda (che inizialmente aveva adottato anch’essa il metodo coreano) ci ha messo 3 settimane a capirlo. L’Australia 5 mesi e 900 morti. Noi invece non l’abbiamo capito neanche ora, dopo 10 mesi e 80.000 morti. La domanda è: perché? La risposta è molto complessa, dato che non è univoca, ma dipende da diversi fattori, che cercherò di analizzare in un prossimo articolo.