Covid-19: Dove siamo, dove stiamo andando

Panoramica globale. La maggior parte dei paesi europei sta riportando un’accelerazione esponenziale nel numero di casi. Mentre i Paesi in cima alla lista sono relativamente piccoli (per es., Andorra, Montenegro), numerosi altri Paesi (per es., Francia, Spagna, Italia, Olanda, Belgio, Regno Unito) più popolosi figurano anch’essi in cima alla lista. Il trend bisettimanale sia in termini di numero di casi che mortalità è positivo per quasi tutti i Paesi in Europa, e molti di questi stanno riportando un aumento superiore al 100% nelle ultime due settimane (Italia: 205%, Germania: 125%, Regno Unito: 151%, Svizzera: 292%, Polonia: 249%, Repubblica Ceca: 173%, Croazia: 175%). Un elevato numero di Paesi europei sta anche riportando trend preoccupanti relativi alla positività dei test (+10% negli ultimi 7 giorni), dato che suggerisce che la capacità di testing potrebbe non essere sufficientemente accurata per catturare la reale diffusione del virus.

Le cose non stanno andando meglio negli Stati Uniti, dove il numero di casi confermati ha superato gli 8 milioni di casi e i 218mila decessi (i decessi per un milione di abitanti nel Paese sono 668.84—peggio, al momento, stanno facendo solo Perù, Belgio, Bolivia, Brasile, Cile, Ecuador, Spagna e Messico). Il trend nel numero di nuovi casi continua a crescere. Sono almeno metà gli Stati del Paese che hanno riportato almeno 100mila casi, inclusi California e Texas con più di 800mila, la Florida con più di 700mila, New York con più di 400mila, Georgia e Illinois con più di 300mila e Arizona, New Jersey, Nord Carolina e Tennessee con più di 200mila.

In America Centrale, i trend sono abbastanza stabili o addirittura decrescenti: Messico e Panama—intensi focolai fino a pochi mesi fa—stanno riportando cali rispettivi del 38% e del 40% rispetto ai loro picchi. Il Messico rimane in cima alla lista in termini di nuovi casi giornalieri, ma il dato non è particolarmente sorprendente visto che il Paese include il 70% della popolazione totale della regione. A livello per capita, il Costa Rica è in cima alla lista con 233 casi giornalieri per un milione di persone. Il Belize sta riportando un aumento drammatico nel numero di casi, passati da 1.3 a inizio agosto ai 49 di questi giorni.

Un numero significativo di Paesi in America Latina sta riportando un calo nei trend del numero di nuovi casi giornalieri, inclusi Brasile, Colombia, Perù e Suriname. Il Brasile rimane in cima alla lista in termini di nuovi casi giornalieri, ma la media è calata del 56% rispetto al picco di luglio (il Paese ha però riportato più di 5 milioni di casi totali). L’eccezione in America Latina è l’Argentina, primo paese dell’area per numero di nuovi casi per capita (293 casi giornalieri per un milione di persone), con trend nel numero di nuovi casi in salita. Anche il Guyana sta riportando un aumento significativo nel numero di nuovi casi, ma rimane un numero relativamente basso rispetto alla media dei Paesi dell’area. Il trend nel numero di decessi segue quello del numero di nuovi casi.

 L’incidenza nel numero di nuovi casi a Israele è decresciuta del 50% rispetto al picco di inizio ottobre (in relazione al numero di nuovi casi giornalieri per capita, Israele era numero uno al mondo a inizio ottobre, ora non rientra nella top 10)—il drammatico primato è di Andorra, che sta riportando più di 1.000 casi giornalieri per un milione di persone (è il primo Paese al mondo a riportare questo numero). L’Andorra ha una popolazione di 77mila persone, per cui la crescita corrisponde a circa 80-85 nuovi casi giornalieri. L’incidenza nel numero di nuovi casi in India continua a decrescere rispetto al picco di metà settembre, ma il Paese ha superato i 7 milioni di casi cumulativi. E’ probabile che, continuando con questo trend, l’India sorpassi presto gli Stati Uniti per numero totale di casi.

Per la maggior parte della pandemia, l’incidenza di Coronavirus in Africa è stata ampiamente trainata dall’epidemia in Sud Africa, che ha superato il suo picco di metà giugno (12.500 casi al giorno) e da allora è progressivamente calata. Al momento, solo 5 Paesi africani stanno riportando più di 500 nuovi casi giornalieri: Marocco, Sud Africa, Tunisia, Libia ed Etiopia (da soli, questi Paesi rappresentano il 75% dei casi totali del continente). Tutti gli altri Paesi africani stanno riportando meno di 250 nuovi casi al giorno. Se guardiamo ai dati per capita, Capo Verde è in cima alla lista, con 157 casi giornalieri per un milione di persone. Nessun altro Paese africano sta riportando più di 100 casi giornalieri per un milione di persone; solo 3 ne stanno riportando più di 50: Libia, Tunisia e Marocco. Tutti i Paesi rimanenti stanno riportando un’incidenza per capita inferiore alla media globale (37.5 casi giornalieri per un milione di persone), e tutti tranne 8 stanno riportando meno di 10 casi giornalieri per un milione di persone. A inizio pandemia si temeva che la capacità di testing della maggior parte dei Paesi del continente, nonché la mancanza di sistemi di tracciamento e segnalazione adeguati, influissero negativamente sulla capacità di comprendere l’estensione dell’epidemia. Tuttavia, durante gli ultimi mesi, la maggior parte dei Paesi africani ha continuato a ripotare un’incidenza abbastanza bassa (simile a quella dell’Oceania, per intenderci). L’incidenza globale, al momento, è 6 volte quella africana, e quelle europee, del Nord America e del Sud America sono rispettivamente 14, 16 e 23 volte più alte rispetto a quelle dell’Africa.

La Nuova Zelanda ha riportato il primo caso di Coronavirus in più di tre settimane. Nella regione di Victoria, in Australia (la regione colpita più duramente da inizio pandemia, che negli ultimi mesi è stata soggetta ad uno dei lockdown più severi al mondo), è stato registrato un solo caso nella giornata del 17 ottobre. La regione, che include la città di Melbourne, si sta preparando ad allentare alcune restrizioni.

Pattern stagionale. Come riportato in un commentario su Nature a fine agosto, il clima influenza la trasmissione del virus in tre modi: (i) la persistenza di SARS-CoV-2 sulle superfici o nell’aria è sensibile a temperatura, umidità e luci ultraviolette (ci sono dati sperimentali a sostegno di questa ipotesi); (ii) altri virus respiratori seguono pattern stagionali, e sono più comuni in autunno e inverno e pertanto (iii) gli effetti climatici pesano sia a livello spaziale (posti caldi e asciutti = meno trasmissione) che a livello temporale (estate < inverno). Questo aiuterebbe a spiegare il fatto che l’epidemia sia ripartita nei paesi del Nord appena comincia la stagione fredda, e si sia attenuata in molti paesi sub-equatoriali all’arrivo della stagione calda.

Gli autori del commentario sostengono anche che queste evidenze, spesso basate su studi parziali o con risultati marginalmente significativi, inducano spesso ad adottare conclusioni errate e potenzialmente dannose. Per esempio, studi che dimostrano che la luce ultravioletta germicida usata negli ospedali e nei laboratori uccida il virus sono stati presentati come evidenza del fatto che il sole neutralizzi il virus negli spazi esterni. È vero che studi recenti sembrano dimostrare l’effetto della luce del sole su SARS-CoV-2, ma è vero anche che uno studio globale ha trovato che l’effetto della riduzione dovuto ai raggi ultravioletti è dell’1%.

L’ondata estiva degli Stati Uniti, che tra fine giugno e inizio luglio ha raggiunto picchi comparabili a quelli primaverili, suggerisce che il virus non smetta di trasmettersi nelle stagioni calde. Questo non significa che si trasmetta meno nelle stagioni calde che nelle stagioni fredde, come indicano i trend di queste settimane. In un articolo pubblicato a maggio su Science, un gruppo di scienziati ha previsto, relativamente al nuovo Coronavirus, il seguente pattern stagionale: nel caso in cui il virus diventi endemico (cioè nel caso in cui non si riesca a controllarlo sul lungo periodo), potrebbero svilupparsi alcune oscillazioni stagionali simile a quelle dei virus influenzali. Tuttavia, la suscettibilità attuale a SARS-CoV-2 è alta abbastanza per suggerire che il clima estivo non basti a limitare i rischi di trasmissione.

(Il fatto che gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, abbiano avuto una seconda ondata estiva molto significativa potrebbe spiegarsi perlopiù in relazione al seguente dato: secondo alcune analisi pubblicate dal New York Times sulle celle telefoniche, al picco del loro lockdown gli americani hanno, in media, limitato i loro spostamenti del 34%. Gli europei dell’85%).

Conseguenze generali a lungo termine dell’infezione. Un commentario pubblicato a inizio ottobre su JAMA descrive alcune delle conseguenze a lungo termine del nuovo Coronavirus, a nove mesi da inizio pandemia. Nonostante gli effetti a lungo termine siano più severi per persone che hanno avuto un’infezione più grave (per es., le persone finite in terapia intensiva), alcuni effetti a lungo termine si sono osservati anche in persone che hanno avuto sintomi meno gravi. I più riportati sono fatica, dispnea, dolori alle articolazioni generalizzati e dolori al petto.

Gli autori del commentario descrivono anche disturbi specifici emersi prevalentemente in tre sistemi di organi: cardiovascolari, polmonari e neurologici. Nel sistema cardiovascolare sono stati riportati, a diversi livelli di gravità dell’infezione (inclusi pazienti con sintomi lievi e pazienti giovani e senza comorbidità, tra cui atleti sportivi), miocarditi e danni miocardici. Nei polmoni, uno studio riportato nel commentario ha trovato che più del 60% dei pazienti ha sintomi persistenti di disfunzioni polmonari tre mesi dopo essere stati dimessi dall’ospedale. Un altro studio ha trovato diminuzione della forza muscolare polmonare in almeno il 50% dei pazienti 30 giorni dopo le dimissioni dall’ospedale. Comuni, anche se meno frequenti, sono anche le conseguenze neurologiche a lungo termine, che includono anosmia (perdita dell’olfatto) e ageusia (perdita del gusto), ma anche encefaliti, convulsioni, sbalzi d’umore, “annebbiamento cerebrale” (guarda sotto: “Conseguenze sul sistema nervoso”).

A conseguenza dell’infezione sono stati osservati anche sintomi clinici come perdite permanenti dell’udito, perdita dei capelli, ed eruzioni cutanee.

Conseguenze dell’infezione a lungo termine su popolazioni a basso rischio. Per il momento, la ricerca sulle conseguenze del nuovo Coronavirus si è concentrata su persone relativamente anziane con comorbidità e sugli effetti che il virus ha su singoli organi. Una nuova ricerca ha studiato l’impatto che ha il long-COVID (= sintomi persistenti fino a tre mesi dall’infezione) su diversi organi in popolazioni a basso rischio.

Tra aprile e settembre, 201 persone (età media = 44 anni; 70% donne, 87% caucasici, 31% lavoratori nel sistema sanitario) hanno partecipato allo studio—la durata media della loro infezione è stata 140 giorni. Prevalenza di condizioni pre-esistenti: bassa (20% obesità, 6% ipertensione, 2% diabete, 4% problemi di cuore). Nessuno di questi individui è stato ospedalizzato. I sintomi a lungo termine più riportati sono stati: fatica (98%), dolore muscolare (88%), fiato corto (87%), mal di testa (83%). Al momento dello studio, il 92% dei partecipanti stava ancora riportando sintomi cardiorespiratori (92%) e/o gastrointestinali (73%). Il 42% degli individui stava riportando ancora almeno dieci sintomi. Per determinare gli effetti su diversi organi dell’infezione a lungo termine, i ricercatori si sono avvalsi di: questionari standardizzati, analisi del sangue, risonanze magnetiche, consenso tra esperti.

Risultati: La maggior parte dei partecipanti ha riportato danni ad uno (66% dei partecipanti) o più (25% dei partecipanti) organi: cuore (32%), polmoni (33%), reni (12%), fegato (10%), pancreas (17%), milza (6%). Inoltre, la presenza di questi danni si correlava positivamente con il rischio di ospedalizzazione.

Implicazioni: In una popolazione giovane e a basso rischio con sintomi persistenti, circa il 70% degli individui ha riportato danni ad uno o più organi circa quattro mesi dopo l’infezione. Questi risultati hanno implicazioni sulla salute pubblica, e sugli effetti che l’infezione ha su popolazioni a basso rischio senza comorbidità.

Conseguenze sul sistema nervoso. Il New York Times ha pubblicato di recente un’analisi delle conseguenze che l’infezione di Coronavirus può avere sul sistema nervoso. La condizione a lungo termine, a cui gli esperti si riferiscono come “annebbiamento cerebrale”, sta affliggendo migliaia di pazienti, e include i seguenti sintomi persistenti: perdita di memoria, confusione, difficoltà di concentrazione, vertigine e afasia. Gli scienziati non hanno ancora identificato le cause di questa condizione, che si presenta anche in pazienti con sintomi da COVID lievi e senza comorbidità. Secondo la teoria più in voga, questa condizione si presenta quando la risposta immunitaria del corpo all’infezione non si “spegne”, o a causa di un’infiammazione dei vasi sanguini che portano al cervello.

Uno studio condotto in Francia ad Agosto su 120 pazienti ospedalizzati ha riportato che, mesi dopo l’infezione, il 34% di loro ha avuto perdita di memoria e il 27% problemi di concentrazione. In uno studio che verrà pubblicato a breve dei Survivor Corps—un gruppo di persone che hanno creato una rete per discutere le conseguenze sulla vita dopo il COVID—più di metà dei quasi 4.000 pazienti sotto analisi ha riportato difficoltà a concentrarsi (quarto sintomo più comune riportato, inclusi i sintomi fisici), mentre più di un terzo ha riportato problemi di memoria, vertigini o confusione.

La condizione rimane un mistero per gli scienziati, anche perché risonanze magnetiche funzionali non hanno indicato la presenza di aree del cervello danneggiate. Tuttavia, la condizione ha effetti misurabili reali e sta affliggendo la vita di migliaia di persone. “Mi sento come se avessi una demenza”, ha detto una persona intervistata al New York Times.

Dinamiche di trasmissione. Un nuovo studio pubblicato dal Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie statunitense ha esaminato le dinamiche di trasmissione del nuovo Coronavirus tra diversi gruppi di età in alcuni dei posti più colpiti del Paese durante l’ondata estiva. Nello specifico, lo studio si è focalizzato su 767 contee che hanno registrato focolai a giugno e luglio—definizione operativa di focolaio: più di 100 casi riportati in un periodo di 7 giorni e aumento nel trend rispetto ai 3-7 giorni precedenti. In questo criterio rientravano il 24% di tutte le contee degli Stati Uniti e il 63% della popolazione generale.

Risultati: la positività dei test tra individui nelle fasce di età 0-17 e 18-24 ha iniziato ad aumentare circa 1 mese prima che la contea rientrasse nella definizione operativa di focolaio. A seguire, la positività nei test è aumentata progressivamente nei gruppi di età più anziani. In media, la positività nei test al momento in cui la contea rientrava nella definizione operativa di focolaio era più alta nella fascia 18-24 (14%), seguita dalla fascia 0-17 (11%). Da qui in poi, la positività mostrava un trend decrescente in relazione all’età: 25-44 (10%), 45-62 (8%), +65 (6%). Nel periodo preso in analisi, le regioni a Sud e Ovest degli Stati Uniti hanno riportato il più alto numero di positività tra tutti i gruppi di età; pertanto, queste sono state anche le regioni più colpite durante l’estate.

Implicazioni: i risultati supportano l’idea che la trasmissione tra segmenti più giovani della popolazione precedono l’aumento di trasmissione tra segmenti più anziani della popolazione.

Fatica da pandemia. Sempre il New York Times riporta come esaurimenti nervosi (lievi e non) e fatica stiano creando le condizioni che permettono al virus di riemergere anche dove si era riuscito a controllare. Nessuno è ancora in grado di determinare per quanto avremo a che fare con il virus o con l’assenza di terapie efficaci applicabili su larga scala, e senza una linea del traguardo in vista molte persone si stanno lasciando andare, finendo per affollare bar e feste familiari. In uno studio recente, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che circa metà delle popolazioni nei Paesi colpiti stia provando una “fatica da pandemia”.

I segnali dello stress si stanno registrando sui comportamenti della popolazione: negli Stati Uniti per esempio, secondo Nielsen, le vendite di alcolici sono aumentate del 23% durante l’epidemia. Sempre negli Stati Uniti, anche le morti per overdose causate dalla crisi di oppiacei sono aumentate significativamente negli ultimi mesi. Il NYT riporta come nella contea di Cuyahoga, in Ohio (che include la città di Cleveland), ci sono state recentemente 19 morti per overdose in una settimana—molte più della norma. Il dottore della contea ha affermato che “Come molte persone, sarò contento di vedere il 2020 finire”. Ma la pandemia, con ottime probabilità, non sparirà magicamente nel 2021.

L’OMS suggerisce quattro strategie per fronteggiare la fatica da pandemia: (i) capire le persone e disegnare interventi targettizzati; (ii) coinvolgere le persone come parte della soluzione; (iii) aiutare le persone a ridurre il rischio mentre le si coinvolge a fare cose che le fanno star bene; (iv) riconoscere ed affrontare la natura delle difficoltà che le persone sperimentano.

Relativamente facile a dirsi; tutt’altro che facile a farsi. E’ fondamentale evitare di lasciarsi andare e continuare ad operare responsabilmente secondo le proprie capacità individuali, nella speranza che nella tarda primavera del 2021 un vaccino sicuro ed efficace diventi disponibile su larga scala (qualche giorno fa Anthony Fauci ha dato segnali incoraggianti in questo senso, ma è importante rimanere ancorati alla realtà, per quanto dura, e farsi poche illusioni). Da ogni individuo passa la capacità di reggere il tessuto sociale per come lo conosciamo; l’alternativa è il gregge, che senza garanzie d’immunità (questa settimana, 12mila esperti hanno condannato la strategia d’immunità di gregge come possibile soluzione al problema) rischia di degenerare in un caos collettivo che ha il potenziale di ridisegnare la civiltà per come la conosciamo.




Stato di emergenza e garanzie costituzionali

Oggi parliamo di attualità giuridica. E anche di costituzione. Le due cose non vanno di pari passo, nel senso che la costituzione non è considerata dai più argomento di attualità. Però di recente sono successe diverse cose piuttosto importanti….

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Noi e gli altri. Seconda ondata?

Di “seconda ondata” ormai si parla da qualche mese. In Europa come in Italia. Ma non mi è ancora capitato di sentire una definizione precisa di che cosa si debba intendere per seconda ondata, e che cosa esattamente distingua un’ondata da una “ondina”, o da una serie di ondine.

In questo vuoto di definizioni statistiche, anche l’affermazione che ci sarà o non ci sarà una seconda ondata diventa vuota di significato. Proviamo allora ad abbozzare una definizione, per poi tornare alla domanda.

Per “seconda ondata” è ragionevole intendere una situazione nella quale sia il numero di contagiati per 100 mila abitanti, sia la sua velocità di crescita siano quantitativamente comparabili a quelli della prima ondata, che nella maggior parte dei paesi si è sviluppata tra marzo e maggio.

Dunque, in Italia sta arrivando una seconda ondata? E negli altri paesi?

Qui arriva il difficile. Per applicare la nostra definizione, bisognerebbe conoscere il numero dei contagiati e il suo andamento nel tempo, che sono grandezze incognite non solo in Italia ma ovunque nel mondo. Quel che conosciamo, paese per paese, è solo il numero di nuovi casi diagnosticati ogni giorno, che sono molti di meno dei casi effettivi. Per ricostruire la curva epidemica reale di ogni paese dovremmo conoscere il moltiplicatore che fa passare dai casi diagnosticati a quelli effettivi. Non solo, ma dovremmo sapere come il moltiplicatore varia nel tempo e nello spazio, fra paesi e all’interno di un paese. Senza queste informazioni sia i confronti nel tempo sia quelli nello spazio diventano problematici.

Fortunatamente, qualche frammento di informazione ce l’abbiamo. Sappiamo, ad esempio, che il moltiplicatore dell’Italia è almeno 6, dal momento che il numero di contagiati totale stimato dall’Istat con l’indagine di sieroprevalenza di giugno-luglio è dell’ordine di 1 milione e mezzo, ossia 6 volte il numero di casi diagnosticati, che è dell’ordine di 250 mila. Sappiamo anche, dai calcoli effettuati dalla Fondazione Hume comparando dati di mortalità e casi diagnosticati, che il moltiplicatore varia notevolmente nel tempo e nello spazio, perché la capacità diagnostica non è né costante né uniforme. La capacità diagnostica, ad esempio, differisce notevolmente da regione a regione (vedi grafico 1), e anche da paese a paese, generando marcate differenze fra i moltiplicatori che occorre applicare ai dati grezzi. Il moltiplicatore dell’Italia, ad esempio, è sensibilmente più alto di quello di Francia e Germania, perché la nostra capacità diagnostica è sensibilmente inferiore. Ecco perché i confronti internazionali, dai quali principalmente traiamo motivi di conforto, andrebbero presi con prudenza: per comparaci alla Germania, ad esempio, dovremmo quasi triplicare i nostri tassi di incidenza.

Detto tutto questo, e nonostante tutto questo, torniamo al punto: è in arrivo una seconda ondata in Italia? Che cosa si può dire in base ai dati disponibili?

La prima parte della risposta è confortante. Se parliamo dell’Italia nel suo insieme, e in mancanza del numero di contagiati “vero” ci basiamo sul numero di contagiati rilevato con i tamponi, possiamo dire che, al momento, siamo ancora molto lontani da una seconda ondata. E’ vero che la curva epidemica è tornata a salire, è vero che di questo dobbiamo ringraziare le imprudenze estive degli italiani e dei loro governanti (discoteche aperte, movida, ecc.), ma è anche vero che sia il numero di contagiati, sia la velocità a cui crescono attualmente non sono comparabili a quelli di marzo-aprile. E il risultato del confronto fra oggi e marzo-aprile risulterebbe ancora più rassicurante se, anziché disporre solo della serie storica dei casi diagnosticati, disponessimo di quella dei casi effettivi. Quel che è certo, infatti, è che il moltiplicatore di marzo-aprile era molto più alto di quello di oggi o, detto in altre parole, ieri la parte sommersa dell’iceberg del contagio era molto più grande.

Ma c’è anche una seconda parte della risposta, ed è meno rassicurante. In una fase come questa, quel che è importante non è che cosa succede in media, ma che cosa succede nei singoli territori. Certo, possiamo tranquillizzarci perché il mare è molto meno agitato di sei mesi fa, ma dobbiamo chiederci se lo è ovunque, o ci sono invece golfi, insenature e calette dove il mare sta salendo pericolosamente. Ebbene, qui la risposta è diversa da quella sull’Italia nel suo insieme. Perché c’è una provincia, La Spezia, in cui la situazione è molto preoccupante. L’incidenza bisettimanale (nuovi casi ogni 100 mila abitanti), corretta per la capacità diagnostica della Liguria, è quasi 20 volte quella media nazionale (vedi grafico 2). E se compariamo la situazione di oggi con quella di ieri è inevitabile concludere che sono piuttosto simili: la curva epidemica di La Spezia presenta due picchi, uno ad aprile (in pieno lockdown), l’altro questo mese di settembre; l’altezza dei due picchi è la stessa, e la velocità del contagio è comparabile.

Insomma, per la Spezia la domanda non è se, e quando, arriverà la seconda ondata: la seconda ondata è in corso. Semmai viene da chiedersi che cosa si aspetta a intervenire con la dovuta determinazione.

E’ l’unico caso, quello di La Spezia?

Se, in assenza di dati comunali, ragioniamo a livello provinciale, la risposta è che, per ora, non ci sono province con una situazione epidemica grave come quella di La Spezia. La peggiore provincia dopo la Spezia è Genova (ancora una provincia ligure), ma i casi di Genova sono meno di 1/6 di quelli di La Spezia, ancorché il triplo della media nazionale. Come Genova, ci sono una decina di altre province, metà al Nord e metà al Sud, in cui l’incidenza effettiva – senza raggiungere i livelli record di La Spezia – è molto superiore a quella nazionale (vedi grafico 3).

Converrà tenerle d’occhio, prima che il mare si alzi anche lì.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 settembre 2020




Eterno non è il fascismo ma il manicheismo, nemico della civiltà liberale

Nelle ultime settimane dell’estate si tiene a Camogli il Festival della comunicazione, ideato da Umberto Eco e da Danco Singer. Una Valle di Giosafatte in cui ci sono tutti: scrittori, saggisti, attori, registi, giornalisti storici, psicologi, sociologi, letterati etc. etc. Non tutti, per la verità, ma quasi tutti giacché una conventio ad excludendum ne tiene fuori quanti non fanno parte del mainstream culturale – diciamo, brutalmente intellettuali vicini al o non lontani dal centrodestra. Non è casuale, del resto, che a ridosso del Festival, “Repubblica” – diretta dal liberale Maurizio Molinari – abbia distribuito, nei giorni 15 e 16 settembre due scritti di Umberto Eco, Il fascismo eterno e Migrazioni e intolleranza.

Eco è stato un benemerito degli studi semiologici in Italia, ha scritto diversi romanzi (“Il nome della rosa”, “Il pendolo di Foucault” etc.) per la verità di faticosa lettura e, soprattutto, ha coltivato il genere parodistico talora in maniera geniale. (Fu lui a far ripubblicare da Bompiani l’Antologia apocrifa di Paolo Vita-Finzi).

Le bustine di Minerva sono, sia pure per palati raffinati, una lettura divertentissima degna dei grandi umoristi della letteratura italiana. Sennonché il filosofo alessandrino – che aveva una solida formazione medievistica e una non comune competenza di storia dell’estetica – decise, a un certo punto, di diventare il maître-à-penser di un paese ormai incamminato sulla via della secolarizzazione e che del marxismo aveva rimosso i fondamenti teorici portanti ma non la rivolta contro il capitalismo e la società di mercato. Forse la vera anima del sessantottismo totalitario fu proprio Eco, con la sua dissacrazione della società borghese e della sua etica repressiva. A questo punto, però, ci si chiede: come mai della sua vasta e importante produzione intellettuale si sono scelti proprio i due discutibili volumetti sul fascismo e sull’intolleranza? La spiegazione sta nel fatto che ormai in Italia, per citare Max Weber, le parole che si pronunciano nei Festival culturali, «non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta», sono una politica fatta con altri mezzi. Si sarebbe tentati di dire: una patetica chiamata a raccolta di un ceto intellettuale che, incontrandosi e contandosi, si compiace di essere così numeroso ed esorcizza il fantasma di un popolo che elettoralmente ha voltato le spalle alla sinistra.

 L’Eco maître-à-penser rivela tutta la sua formazione cattolica: nel mondo si svolge l’eterna lotta delle forze del Bene contro quelle del Male e compito del filosofo è quello di mettere in guardia dalla lezione pluralistica di Isaiah Berlin per il quale «le peggiori catastrofi della storia nascono da contrasti tra principi buoni», come giustizia e libertà, tra valor militare e aspirazione alla pace, tra nazione e umanità.

Non meraviglia, quindi, che il fascismo diventi una sorta di Arimane che attraversa i secoli. Nella sua “brillante paranoia” – come Alfonso Berardinelli definì Il fascismo eterno – Eco lo associava a una serie di brutture (tradizionalismo, antimodernismo, culto dell’azione, criminalizzazione del disaccordo e del pacifismo, paura della differenza, appello alle classi medie frustrate, tribalismo, complottismo, invidia sociale, elitismo, militarismo, machismo, populismo qualitativo, neolingua) con le quali dovremo sempre cimentarci. Si tratta di caratteristiche presenti in molti regimi totalitari ma generosamente assegnate al solo Ur-Faschismus.

Se nichilismo significa cancellazione di un momento imprescindibile dell’umano, Eco, innegabilmente, aveva un coté nichilistico: la “comunità” (tradizione, patria, etnia, famiglia etc.) era per lui un disvalore assoluto, il cilindro da cui Satana faceva uscire i cavalieri dell’Apocalisse. In Migrazioni e tolleranza, profetizzava, non senza un sottile compiacimento, che «nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, “colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso». «L’Europa sarà come New York o come alcuni paesi dell’America latina». Diventeremo quindi una società di meticci! E sia pure ma che c’azzecca l’esempio della civiltà romana, razzialmente meticcia ma con un senso così forte dell’identità culturale e istituzionale da trovare l’ultimo cantore in Rutilio Namaziano, un gallo narbonese. «Signora, disse Fustel de Coulanges all’imperatrice Eugenia, sua allieva— noi siamo di razza celtica ma di cultura romana». Sarebbe assai difficile trovare tale orgoglio nei Black Lives Matter o nelle altre etnie che rendono le società multiculturali latino-americane (e ora anche gli Stati Uniti) così instabili e conflittuali.

Lo stesso Eco, è vero, riconosce (retoricamente) che la “tolleranza aperta” è cosa buona ma «dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che ci sono abitudini, idee, comportamenti che sono e devono restare per noi intollerabili». Ma chi, poi, in una democrazia che si rispetti, deve stabilire cosa è da conservare se non i cittadini che non si affidano alla sofocrazia ovvero ai preti, ai dotti, agli scienziati, ma valutano l’accettabile e il non accettabile in base alle loro esigenze e al loro ideale di “vita buona”?

Per Eco, i populisti non hanno idee ma solo «pulsioni selvagge»: l’”altro” quindi non è un avversario politico ma un agente patogeno.

Non ci resta che un commento malinconico: eterno non è il fascismo ma il manicheismo, il vero, grande, nemico della civiltà liberale. Nelle scuole di una volta si insegnava che la validità di un’analisi storica, politica, sociologica si mostra in ciò che concede all’avversario: se a quest’ultimo non si riconosce nessun valore, nessuna istanza iscritta nell’umano, nessuna “ragione”, vuol dire che non abbiamo a che fare con la ricerca della verità ma con l’invettiva lanciata dal pulpito. Dal chierico traditore… anche lui “eterno”.

Pubblicato su Il Dubbio del 19 settembre 2020




Legge e ordine non è uno slogan trumpiano ma uno dei capisaldi di ogni democrazia

In un articolo impeccabile pubblicato sul Foglio del 1° settembre, Perché se dici che legge e ordine sono il presupposto della democrazia ti prendi del fascista, Paola Peduzzi cita Andrew Sullivan che su Weekly Dish mostra il pericolo rappresentato da Black Lives Matter per la democrazia in America.

Se parlo di «assolutismo nelle strade, delle macerie che vengono spazzate via ogni mattina in molte città americane dove ci sono proteste ininterrotte e violente, se segnalo i video in cui i negozianti raccolgono pezzi delle loro vetrine e implorano di smetterla perché l’assicurazione non paga più nulla, contribuisco anch’io a far vincere Trump?» si chiede Sullivan che, amaramente, richiama il principio (hobbesiano) che senza legge e ordine non può esserci libertà politica.

«Le sommosse e l’assenza della legge sono un male – scrive – Ogni autorità che permette, tollera o sminuisce la violenza, i saccheggi e i disordini nelle strade si spoglia di ogni legittimità. Senza ordine non c’è spazio per altre questioni. Il disordine sempre e ovunque richiama altro disordine; nel momento stesso in cui le autorità sembrano tollerare la violenza, questa violenza è destinata a crescere. E se i liberali non difendono l’ordine, lo faranno i fascisti». Come lo fecero in Italia, ce ne ricordiamo bene, quando la borghesia liberale volse le spalle a Giovanni Giolitti che aveva tollerato l’occupazione delle fabbriche.

Non mancano anche nel nostro paese analisti consapevoli della gravità della situazione americana e che – a differenza di Riccardo Barlaam (Il Sole- 24 Ore) o di Gianni Riotta (La Stampa) non attribuiscono le violenze nelle strade all’inquilino della Casa Bianca che getta benzina sul fuoco.

Penso, ad esempio, a Federico Rampini (La Repubblica) che ricorda come Portland sia «diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati».

E tuttavia anche professionisti seri e realisti come Sullivan e Rampini, a mio avviso, non colgono fino in fondo il significato epocale delle sommosse statunitensi. Lo coglie, invece, il sociologo Antonio Bettanini – uno dei protagonisti intellettuali della stagione craxiana – in un articolo inviato all’Avanti. Vale la pena citarne un lungo brano. La diagnosi pessimistica di Bettanini è ineccepibile: «La mia ipotesi è che ci troviamo  di fronte ad una espressione di neo-totalitarismo ideologico – favorito dai meccanismi strutturali che presiedono al racconto dei media –  i cui tratti riconosciamo forse con difficoltà (e con prudenza) anche a giudicare dalla cautela con cui si sono poi  decisi a scendere in campo 150  rappresentanti autorevoli dell’universo intellettuale angloamericano in difesa della libertà di espressione e contro la “cancel culture” degli anti-razzisti. Un campanello d’allarme (su Harper’s Magazine) sulla deriva e sulla tirannia che un certo mondo delle minoranze sembra poter esercitare sull’opinione pubblica. La “novità” sta nel fatto che questa attività (di comunicazione) per quanto esercitata, in principio, in nome di un universalismo di valori (declinato però negativamente: la lotta al razzismo), sembrerebbe appoggiarsi sulla distruzione di tutto quanto, sotto forma di memoria collettiva, celebri il mondo colpevole della bianchitudine. Una leva di propaganda che ricorda il fondamento distintivo (l’arianesimo, l’appartenenza di classe) sul quale i due grandi totalitarismi del ‘900 formarono la loro identità ed il loro principio di esclusione. Qui la lotta al razzismo si accompagna sia ad una prepotente richiesta di risarcimento dei torti subiti (le forme ed i contenuti della disuguaglianza), sia ad un’opera di “igiene della memoria” indifferente alla complessità dei diversi contesti storici.  Si tratta di riscrivere la storia alla luce della sensibilità dell’oggi. Ecco che allora il sindaco democrat di Columbus decide per l’abbattimento della statua di Colombo così che: “Noi non vivremo più all’ombra del nostro brutto passato”».

Lo spettro del totalitarismo si aggira davvero nell’area euro-atlantica. E tuttavia, a mio parere non si può ridurre la partita che si sta giocando in questi ultimi tempi a quella tra minoranze, infettate dal virus totalitario, e maggioranze (ancora) legate alle vecchie istituzioni e ai vecchi valori. Per adoperare un termine impegnativo, non ci troviamo, temo, dinanzi a una crisi di modelli sociali economici e politici “che perdono colpi” ma a un’eclisse della civiltà occidentale che sembra realizzare davvero l’incubo di Oswald Spengler.

In parole povere, abbiamo creato società civili che traevano la loro legittimità dalle catastrofi soprattutto morali causate da “forme di governo” che contrapponendosi violentemente al binomio democrazia/mercato e azzerando l’uno o l’altro – o entrambi – avevano scatenato l’inferno sulla terra, in forma di Lager o di Gulag. Sennonché, ricacciati i demoni nell’Ade, non si è riusciti a radicare forme di convivenza civile soddisfacenti per tutti. È come se al collante sociale fornito dal terrorismo totalitario si fosse sostituito l’indebolimento, fino all’estinzione, di qualsiasi altro legame tra individui, gruppi, territori. Insomma, masse sempre più numerose di cittadini “non si trovano bene”, non si riconoscono nei valori del sistema, nei suoi simboli storici, nel suo “sacro”, per citare un filosofo dimenticato come il neo-hegeliano Eric Weil.

Questo sottoproletariato interno, straniero indipendentemente dall’appartenenza etnica, non rispetta nulla: né la proprietà, né le leggi, né i monumenti a Colombo o a Jefferson personaggi lontani anni luce dal loro vissuto quotidiano. Cosa vogliamo farne?

Reprimerlo brutalmente, come chiedono i conservatori trumpiani?

Assecondare la sua furia iconoclastica, in nome della “tolleranza” e della “comprensione” come vorrebbero i buonisti di tutto il mondo uniti?

Purtroppo non si intravedono vie di uscita.

Pubblicato su Il Dubbio del 5 settembre 2020