La trasmissione aerea del COVID19: il grande errore commesso

Dopo oltre un anno dall’inizio della pandemia da coronavirus SARS-CoV-2, per l’Italia sembra ancora esserci un lungo percorso per tornare alla normalità. Si susseguono le chiusure di attività fondamentali come le scuole, quelle di numerose attività commerciali nonché la restrizione di libertà individuali. Stiamo assistendo infatti ad un nuovo incremento del numero di contagi con conseguente aumento degli ospedalizzati e ricoverati nelle terapie intensive. L’andamento della diffusione di questo virus sembra seguire al momento quello della “spagnola” del lontano 1918, oltre un secolo fa. Sorge allora spontanea una domanda: come è possibile che con tutte le nostre conoscenze scientifiche nel campo medico ed epidemiologico non siamo riusciti a controllare l’epidemia (subendo di fatto la diffusione del virus), se non a costo di drammatici interventi di chiusura con costi sociali ed economici elevatissimi?

Se infatti si può forse giustificare l’impatto della prima ondata nel marzo 2020 (l’Italia è stata il primo paese europeo a ritrovarsi il virus in casa), non trova giustificazioni l’assoluta mancanza di controllo sulla seconda ondata. Infatti, a seguito di un durissimo lockdown, ci si è ritrovati in Italia nell’estate 2020 con una incidenza del virus estremamente ridotta e con la possibilità di attuare azioni di tracciamento. Purtroppo, però, a partire da settembre 2020 abbiamo assistito ad un aumento inarrestabile dei contagi (nonostante la stesura di rigidi protocolli da parte delle Autorità Sanitarie), fermato solo con l’introduzione di “zone rosse” e con la conseguente impossibilità del tracciamento: oggi si affaccia la terza ondata.

Perché quindi siamo così deboli nei confronti della pandemia? E’ evidente che non siamo in grado di limitare i contagi, di convivere (come ci avevano detto) con il virus. Cosa non conoscono le nostre autorità sanitarie?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sempre dichiarato che il virus si può trasmettere secondo due vie: attraverso il contagio indiretto per superfici o quello diretto a breve distanza con goccioline pesanti (droplets). Le conseguenti misure di protezione “coprono” queste due modalità di trasmissione. Questa conoscenza però non spiega tra l’altro perché i contagi avvengano quasi esclusivamente negli ambienti chiusi e come un soggetto infetto possa infettare numerose persone contemporaneamente (eventi di superspreading).

Nel luglio del 2020, 239 scienziati internazionali hanno portato il problema della trasmissione aerea del COVID-19 sulla scena mondiale1. Dalla pubblicazione della loro lettera sono stati compiuti alcuni progressi ottenendo, tra l’altro, il riconoscimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità2. Ciò tuttavia non ha comportato alcun miglioramento significativo nella protezione nei luoghi pubblici e di lavoro per gli operatori sanitari ed altri lavoratori essenziali. Continua infatti a mancare la messaggistica pubblica per evidenziare il rischio di trasmissione aerea negli ambienti condivisi e si concentra ancora oggi l’informazione sulla igiene delle mani e sul distanziamento. Solo pochi giorni fa uno dei più eminenti medici italiani ha dichiarato che la maggiore infettività delle varianti del virus comporterebbe la necessità di imporre un distanziamento maggiore (fino a 2 metri) rispetto a quello attuale: è evidente l’assoluta non conoscenza della trasmissione aerea da parte della comunità medica.

La rapida diffusione globale del COVID-19 ha innescato una ricerca interdisciplinare senza precedenti. I contributi provenienti dai settori dell’ingegneria, delle scienze della vita, della scienza dell’aerosol, della medicina, dell’igiene professionale e dell’epidemiologia stanno guidando un cambiamento di paradigma nella nostra comprensione della trasmissione dei virus respiratori attraverso l’aerosol, incluso anche il COVID-19. L’evidenza è ora schiacciante: la trasmissione aerea del COVID-19 è evidenza scientifica ed è un’importante via di trasmissione.3-6 Ciò è stato elegantemente riassunto da Fang et al.: “forse la più grande sorpresa sul problema della diffusione aerea di SARSCoV2 è che è stato sorprendente per così tante persone“.4

Gli aerosol carichi di virus infettano frequentemente i soggetti suscettibili nelle immediate vicinanze dove sono più concentrati, con una dinamica simile al fumo. In ambienti con ventilazione non ottimale, gli aerosol infettivi possono accumularsi nell’aria dell’ambiente e raggiungere concentrazioni pericolose. Le strategie di controllo mirate a contrastare la trasmissione, come il distanziamento fisico e le mascherine, sono fondamentali per ridurre il rischio di trasmissione di aerosol a corto raggio. Per ridurre la trasmissione aerea negli ambienti chiusi però, la ventilazione e la filtrazione dell’aria sono misure aggiuntive fondamentali, poiché gli aerosol emessi si accumulano in luoghi scarsamente ventilati. Sappiamo che molti luoghi di lavoro, edifici e residenze nelle nostre comunità hanno una ventilazione inferiore agli standard.

Il riconoscimento della trasmissione aerea mette in discussione anche le direttive per i dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari e altri lavoratori essenziali. La maggior parte degli operatori sanitari e dei lavoratori essenziali continua a utilizzare le “precauzioni contro le goccioline e il contatto”, indossando mascherine chirurgiche mal adattate, anche in ambienti ad alto rischio.

Sulla base delle attuali prove scientifiche, le autorità sanitarie dovrebbero pertanto:

  • aggiornare le linee guida per affrontare il rischio di trasmissione aerea del COVID-19;
  • promuovere strategie per ridurre il rischio di trasmissione nelle abitazioni private, nei luoghi pubblici e nelle aziende attraverso messaggi chiari sulla salute pubblica e istruzione;
  • supportare gruppi di lavoro sulla valutazione della ventilazione e sull’ammodernamento di strutture pubbliche essenziali come scuole e case di cura a lungo termine;
  • assicurarsi che a nessun operatore sanitario ad alto rischio sia negato l’accesso a un dispositivo di protezione idoneo (FFP2, N95, elastomerico o equivalente). La valutazione del rischio da parte del personale sanitario dovrebbe andare oltre la presenza di “procedure che generano aerosol” e dovrebbe prendere in considerazione comportamenti che generano aerosol (es. urla, canti, tosse, starnuti, respiro pesante), vicinanza al paziente, tempo trascorso con il paziente, stima della qualità dell’aria…7
  • raccomandare e distribuire monitor di anidride carbonica (CO2) come misura sostitutiva di una ventilazione adeguata per ridurre il rischio di trasmissione a lungo raggio nell’aria negli ambienti condivisi (durante un’epidemia di tubercolosi, le concentrazioni di CO2 superiori a 1000 ppm hanno aumentato significativamente il rischio.8 Il miglioramento della ventilazione dell’edificio a una concentrazione di CO2 di 600 ppm ha fermato l’epidemia sul nascere);
  • includere unità portatili di filtrazione dell’aria (HEPA) o dispositivi similari (purificatori) per filtrare i bioaerosol all’interno quando la ventilazione non è ottimale;
  • coinvolgere ingegneri e altri specialisti della ventilazione per sviluppare standard di ventilazione per i luoghi chiusi e integrare questi standard nelle linee guida di riapertura per le attività con un rischio maggiore di trasmissione di aerosol (ad esempio ristoranti, bar e palestre).

I “riformatori sanitari” della sanità pubblica di fine Ottocento aprirono la strada al superamento di malattie trasmesse dall’acqua come il colera e la febbre tifoide attraverso investimenti nei sistemi fognari e negli impianti di trattamento delle acque.9 Sono certo che c’era chi pensava che il compito fosse insormontabile. E’ in grado la comunità scientifica degli studiosi dell’aerosol e degli ingegneri di fornire le soluzioni tecniche necessarie? Sicuramente si, dal momento che conosciamo tanto sia della deposizione di particelle durante l’inspirazione nel nostro apparato respiratorio che della generazione di goccioline durante l’espirazione10.

Quando verrà scritta la storia della risposta dell’Italia al COVID-19, spero che il nostro paese sia visto ancora una volta come un innovatore della salute pubblica e non come un paese che abbia rifiutato l’evidenza scientifica. Forse bisognerebbe cominciare a dire che i veri negazionisti risiedono all’OMS…

Bibliografia

  1. Morawska L, Milton D. It Is Time to Address Airborne Transmission of Coronavirus Disease 2019 (COVID-19) Clinical Infectious Diseases, Volume 71, Issue 9, 1 November 2020, Pages 2311–2313.
  2. World Health Organization, Transmission of SARS-CoV-2: implications for infection prevention precautions, Scientific Brief, 9th July 2020
  3. Fang, F., Benson, C., del Rio, C., et al. COVID-19 – Lessons Learned and Questions Remaining. Clinical Infectious Diseases. 26 October 2020.
  4. Nissen, K., Krambrich, J., Akaberi, D. et al. Long-distance airborne dispersal of SARS-CoV-2 in COVID-19wards. Sci Rep 10, 19589 (2020).
  5. Kutter J, de Meulder D, Bestebroer T, et al. SARS-CoV and SARS-CoV-2 are transmitted through the air between ferrets over more than one meter distance. BioRxiv. October 19 2020.
  6. Lednicky J et al. Viable SARS-CoV-2 in the air of a hospital room with COVID-19 patients. International Journal of Infectious Diseases. 11 September 2020.
  7. Buonanno, G., Morawska, L., Stabile, L., 2020. Quantitative assessment of the risk of airborne transmission of SARS-CoV-2 infection: Prospective and retrospective applications. Environmental International, 145, art. no. 106112, DOI: 10.1016/j.envint.2020.106112
  8. Du CR, Wang SC, Yu MC et al. Effect of Ventilation Improvement during a Tuberculosis Outbreak in Underventilated University Buildings. Indoor Air 30(10). December 2019.
  9. Canadian Public Health Association. Sewage and sanitary reformers vs. Night filth and disease.
  10. Morawska L, Buonanno G., 2021. The physics of particle formation and deposition during breathing. Nature Reviews Physics, in stampa.

 

 




Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano

La notizia è che, sia pure con ben dieci mesi di inescusabile ritardo, anche Walter Ricciardi finalmente l’ha capita: «Abbiamo l’indice di mortalità […] più alto del mondo», ha dichiarato a L’aria di domenica su LA7 subito prima di Natale, aggiungendo poi che «su 147 Paesi solo 12 hanno fatto bene: 10 sono asiatici e 2 sono Australia e Nuova Zelanda, dove il Natale in questo momento si celebra normalmente», proprio come Ricolfi ed io stiamo dicendo da mesi.

Certo, uno a questo punto si aspetterebbe delle scuse e magari le dimissioni, nonché un duro atto di accusa contro il governo, mentre il “rappresentante-ma-anche-no” della OMS in Italia se ne guarda bene e continua imperterrito a sostenere che «abbiamo fatto molto bene nella prima fase» e che se «in questa seconda fase» le cose vanno male è (manco a dirlo) colpa della gente che «ha rimosso tutto», il che non spiega nulla e, soprattutto, è falso. In realtà, infatti, le cose vanno male esattamente come prima: 33.500 morti in 3 mesi allora (marzo-maggio), 38.200 morti in 3 mesi ora (ottobre-dicembre), una differenza minima che si spiega col fatto che allora era arrivata l’estate, che aveva fatto scendere i contagi e quindi i morti, mentre ora è arrivato l’inverno, che li sta facendo salire, tanto che a gennaio in soli 10 giorni ne abbiamo già avuti 4.500.

Ma non pretendiamo troppo: per come siamo messi, è già un mezzo miracolo che Ricciardi si sia deciso a dire almeno mezza verità e sarebbe un miracolo tutto intero se riuscisse davvero a convincere il governo a cambiare strada, senza continuare a tirare a campare aspettando che ci salvi il vaccino, che in realtà significa aspettare che ci salvi (di nuovo) l’estate. Infatti, è chiaro a chiunque non sia completamente stupido o in malafede che per vaccinare un numero sufficiente di persone ci vorranno diversi mesi, quindi le cose non miglioreranno prima dell’arrivo del caldo, ovvero per almeno altri 4 mesi, che, gestiti in questo modo demenziale, con l’Italia ridotta a una specie di semaforo impazzito, possono fare più danni di un terremoto.

Merita quindi riflettere un po’ più a fondo su quale tra i vari modelli di contrasto al virus potremmo adottare, giacché, contrariamente a quanto ci ha sempre ossessivamente ripetuto la litania governativa, non ce n’è mai stato uno solo, uguale in tutto il mondo, ma parecchi, solo alcuni dei quali hanno funzionato. Certamente non l’ha fatto il “modello Italia”, che, con buona pace di Ricciardi, non è mai stato tale (vedi mio articolo del 19/10, nonché tutti quelli di Luca Ricolfi), né il “modello Germania”, che tale è stato solo per un po’ e poi si è tragicamente sgonfiato (vedi mio articolo del 23/12), ma altri sì.

Anzitutto, c’è il modello cinese, il primo che abbiamo visto in azione, così sintetizzabile: finché puoi, nega tutto, quando non puoi più, chiudi tutto. Ying e Yang, integrazione degli opposti ed eliminazione degli oppositori, la mascherina come immagine e il fucile come sostanza. Efficace lo è, etico un po’ meno, imitabile (almeno da noi) per nulla.

Quindi, dall’altra parte del mare, nonché del cielo, c’è il modello Taiwan, che per la OMS manco esiste, ma cionondimeno ci guarda tutti dall’alto, o meglio, dal basso dei suoi 0,3 mpm (morti per milione), il miglior risultato al mondo, ottenuto grazie all’atavica diffidenza verso la Cina e le sue bugie, che ha portato alla tempestiva e rigidissima chiusura delle frontiere. Oltre che da alcuni paesi asiatici, è stato replicato, con quasi altrettanto successo, da alcuni paesi dell’ex blocco sovietico e della ex Jugoslavia (anche se poi molti hanno rovinato tutto riaprendo troppo presto al turismo internazionale): sarà un caso che avessero avuto a che fare anche loro per lungo tempo con regimi simili a quello di Pechino? È sicuramente il sistema migliore, ma quando hai già il virus in casa non serve più.

Ci sarebbe anche un modello africano, tanto semplice quanto efficace (appena 5 mpm): muori di qualcos’altro prima dei 55 anni (aspettativa di vita attuale del continente) e difficilmente morirai di Covid, che fa il 97% delle sue vittime al di sopra di questa soglia. Per funzionare funziona, ma dubito che qualcuno sia disposto ad adottarlo, a cominciare, se potessero scegliere, dagli stessi africani.

E poi c’è il “mitico” modello coreano (in realtà usato anche in Giappone, in Australia e, almeno parzialmente, anche in altri paesi del Pacifico occidentale), l’unico di cui anche da noi ogni tanto si è parlato, forse perché piaceva il fatto che si basasse su una “App” o forse perché è sempre stato visto (erroneamente) come una versione più efficiente di quello italiano, il che consentiva al governo di cimentarsi nel suo sport preferito, ovvero scaricare la colpa dell’inefficienza sui cittadini, che sarebbero più indisciplinati dei coreani. Per la stessa ragione è anche il modello che viene in genere preferito da chi invece ritiene che qualcosa dovremmo cambiare, ma senza esagerare. Ma è davvero così?

Basta andare a guardare i numeri e ci imbattiamo subito in un’enorme sorpresa, che scompiglia tutti i nostri luoghi comuni al riguardo. Infatti, nella “classifica” dei test in rapporto alla popolazione la Corea del Sud è appena al 125° posto con il 9,2% di abitanti controllati e il Giappone addirittura al 148° con il 4,2%, mentre tra i primi 40 troviamo quasi tutti i paesi messi peggio, tra cui (ovviamente) l’Italia, che è proprio al 40° posto con il 45%, 5 volte più della Corea e addirittura 11 volte più del Giappone. L’Inghilterra è al 17° posto con l’86%, gli USA al 20° con l’81% e l’eterna “maglia nera” Belgio al 27° con il 62%.

Notato di passaggio che la percentuale dell’Italia è circa la metà di quella degli USA di Trump il Pazzo, a cui continuiamo irragionevolmente a sentirci superiori benché in realtà siamo messi peggio in tutto, passiamo a farci la domanda veramente importante: cosa significa tutto ciò? Forse non era vero quello che sia Ricolfi che io abbiamo sempre sostenuto, cioè che fare tamponi su vasta scala è uno dei punti essenziali per un efficace contenimento?

La risposta in realtà è più complessa. Nei primi 40 posti, infatti, ci sono anche diversi paesi virtuosi o semi-virtuosi, come la Danimarca (266 mpm) al 7° posto con il 194%, l’Islanda (85 mpm) al 12° con il 131%, Singapore (5 mpm) al 14° con il 95%, Hong Kong (21 mpm) al 21° con il 73%, la Norvegia (87 mpm) al 33° con il 54%, l’Australia (35 mpm) al 38° con il 46% e la Finlandia (106 mpm) al 39° con il 46% (l’elenco completo si trova su qui). Resta quindi confermato che, contrariamente a quanto ha sostenuto per lungo tempo la OMS, fare molti tamponi serve. Ma evidentemente non basta.

Anzitutto, farne tanti è difficile, soprattutto per i grandi paesi, per trovare il primo dei quali bisogna infatti scendere fino al 17° posto dell’Inghilterra. Inoltre, non è necessariamente garanzia di successo. Il miglior risultato ce l’hanno le isole Far Oer, con appena 20 mpm grazie a un 426% di test, cioè oltre 4 per persona (che però su una popolazione di meno di 50.000 abitanti significa poco più di 200.000 tamponi). Ma il Bahrain, che guida la classifica grazie a uno stratosferico 1435% (cioè ha controllato ogni abitante per ben 14 volte) ha 206 mpm, cioè il decuplo delle Far Oer pur avendo fatto un numero di controlli 3,5 volte maggiore. Le Bermude, che hanno fatto circa 2,5 test per abitante, hanno un discreto 193 mpm, ma Andorra e Lussemburgo, con un tasso simile, hanno rispettivamente 1099 e 840 mpm. E così via.

Certamente su ciò influiscono molto le altre misure adottate: non è certo un caso che Taiwan sia appena al 192° posto con un misero 0,55%, visto che ha puntato tutto, con successo, sulla chiusura delle frontiere, grazie alla quale ha avuto appena qualche centinaio di contagi. Ma ci sono anche delle differenze che dipendono dal modo di gestire e, prima ancora, di concepire gli stessi tamponi.

La verità è che, come ha spiegato più volte il prof. Crisanti (che pure durante la prima fase ha salvato migliaia di vite in Veneto proprio facendo fare i tamponi a tappeto), alla lunga questo sistema funziona solo se abbinato a un efficace sistema di tracciamento dei contagi. Ciò, infatti, permette di fare i test in modo “mirato”, ottenendo risultati molto superiori con numeri molto inferiori: ecco perché Corea e Giappone ne fanno così pochi. A tal fine, però, non basta avere la mitica “App”: questa, infatti, si limita a segnalare quando si entra in contatto con una persona contagiosa, ma perché questa informazione serva occorre che venga usata immediatamente, in modo da spegnere il focolaio sul nascere.

Il problema è che tutto ciò non si improvvisa, perché richiede un sistema sanitario rapido ed efficiente, cioè tutto il contrario di quello italiano, che come qualità è ottimo, ma ha il suo tallone d’Achille proprio nei tempi di attesa, dovuti alla iper-burocratizzazione. Era quindi improbabile già in partenza che il tracciamento potesse funzionare, anche se il catastrofico fallimento della App Immuni, che ha scoperto poco più di 1200 contagi, è andato al di là di tutte le più pessimistiche previsioni. Comunque, siccome è ovviamente impossibile che si faccia ora ciò che non si è fatto in dieci mesi, neanche questa strada è ormai praticabile. Ma potrebbe non essere un male, se ci spingesse ad adottare quello che non solo è l’unico sistema attuabile nella nostra situazione, ma è anche il più efficace di tutti, ovvero il “modello Jacinda”, creato dalla giovanissima premier neozelandese Jacinda Ardern.

Il suo metodo è tanto semplice quanto efficace e si può sintetizzare, come lei stessa ha fatto, nel motto dei mitici All Blacks della Nazionale di rugby: “Hard and early”, ovvero “colpisci duro e subito”. Anche la sua logica è molto semplice: siccome il numero dei contagi dipende dai contatti fra le persone, se si impediscono i contatti, i contagi si azzerano; e siccome il numero dei morti dipende dal numero dei contagi, prima si azzerano i contagi, meno morti ci sono.

Lockdown, quindi, ma totale e immediato: non come da noi, dove è stato deciso con un mese di ritardo e anche nel momento di teorica chiusura totale erano autorizzate a circolare quasi 10 milioni di persone. Ma neanche come in Cina, perché Jacinda per imporlo non ha usato né la forza, come da loro, né la paura, come da noi, bensì la ragione e il coraggio, spiegando pacatamente i motivi della sua scelta e i vantaggi che avrebbe portato e prendendosi sempre personalmente la responsabilità di qualsiasi cosa, anche minima, che fosse andata storta (altro che Conte e soci, per i quali la colpa è sempre nostra).

Per qualche mese il “modello Jacinda” se l’è giocata alla pari con quello coreano, ma da qualche mese in qua la sua superiorità, che io ho sempre sostenuto, mi sembra stia diventando evidente a tutti. È vero, infatti, che il lockdown è molto più duro del tracciamento, ma è anche molto più breve, perché il tempo massimo di incubazione del virus è di 2 settimane, per cui basta chiudere per un tempo di poco superiore per azzerare i contagi. Ma, soprattutto, dopo è davvero finita: in Nuova Zelanda si è tornati alla vita normale già da maggio, mentre coreani e giapponesi sono ancora alle prese con mascherine, disinfettanti e controlli di ogni tipo.

Inoltre, proprio perché molto complesso da gestire, il modello coreano costringe a vivere sempre sul filo del rasoio, tanto più poi col Covid, che, come pare ormai accertato, non ha una diffusione omogenea, ma viene propagato da pochi individui super-contagiosi, per cui basta farsene sfuggire qualcuno per ritrovarsi in pochi giorni davanti a un focolaio di grandi dimensioni.

Questo è successo in modo emblematico all’Australia, che, dopo avere praticamente azzerato i contagi già a fine aprile con appena 102 morti (3,8 mpm, secondo miglior tasso al mondo dopo Taiwan), a metà luglio si è lasciata sfuggire un grosso focolaio a Melbourne, che in 3 mesi ha fatto oltre 800 morti. A questo punto gli australiani hanno decisamente virato in direzione dei “cugini”, adottando per Melbourne un lockdown in stile neozelandese, anche se un po’ ammorbidito, per cui ci hanno messo 3 mesi anziché 3 settimane per azzerare i contagi. Alla fine, però, ce l’hanno fatta e ormai anche da loro si è tornati alla vita normale.

Ma anche quando non si verifichi nulla di così eclatante, col sistema coreano è quasi inevitabile che alla lunga i piccoli errori, che non possono mai essere completamente eliminati, sommandosi provochino una progressiva accelerazione dell’epidemia, all’inizio quasi impercettibile, ma destinata col tempo a prendere sempre più velocità, come ha spiegato benissimo Ricolfi nel suo articolo del 24 ottobre (senza contare poi che più tempo ci si tiene il virus in casa, più è probabile che muti, diventando più contagioso: vedi mio articolo del 7 gennaio). Inoltre, anche nel più efficiente dei paesi il tracciamento funziona solo finché il numero dei contagi giornalieri è basso, per cui se quest’ultimo comincia ad aumentare si innesca un circolo vizioso che, superato un certo limite, manda in crisi il sistema. E sembra che proprio questo stia accadendo negli ultimi tempi, sia in Giappone che perfino nella “mitica” Corea del Sud.

A fine aprile questi paesi avevano rispettivamente 4,1 e 5 mpm, cioè erano più o meno allo stesso livello di Nuova Zelanda (5) e Australia (3,8). Oggi, però, in Corea la mortalità è salita a 22 mpm, cioè è più che quintuplicata, mentre in Giappone è arrivata a 32 mpm, cioè è aumentata di quasi 8 volte. La Nuova Zelanda, invece, ha tuttora 5 mpm, mentre l’Australia dopo Melbourne era salita a 35, ma da allora, cioè da quando si è “Jacindizzata”, da quel 35 non si è più mossa.

Ancor più inquietante è il paragone con l’Italia, che a fine aprile aveva 480 mpm, mentre oggi ne ha 1300, il che significa che da noi (così come, più o meno, anche negli altri paesi europei), la mortalità è cresciuta di 2,7 volte, ovvero la metà della Corea e un terzo del Giappone. Intendiamoci, stiamo parlando di una situazione che è ancora da 40 a 60 volte migliore della nostra, però a me sembra che questi dati dimostrino inequivocabilmente che la prolungata convivenza col virus, anche a bassa o bassissima intensità, non è mai una buona idea, e non solo perché c’è sempre il rischio che la situazione possa sfuggire di mano.

In primo luogo, infatti, mantenere a lungo un sistema di sorveglianza così complesso implica un enorme sforzo, sia organizzativo che economico. Inoltre, si è costretti a sopportare tutta una serie di disagi che, per quanto molto inferiori a quelli che stanno toccando a noi europei, su tempi lunghi non fanno bene né al morale né all’economia, per non parlare delle limitazioni alla libertà personale e alla privacy, che più durano, più diventano pericolose. Ma, infine e soprattutto, perché mai dovremmo fare uno sforzo simile per mantenere basso il livello dei contagi, quando si può azzerarlo del tutto con uno sforzo molto minore?

La Nuova Zelanda (che inizialmente aveva adottato anch’essa il metodo coreano) ci ha messo 3 settimane a capirlo. L’Australia 5 mesi e 900 morti. Noi invece non l’abbiamo capito neanche ora, dopo 10 mesi e 80.000 morti. La domanda è: perché? La risposta è molto complessa, dato che non è univoca, ma dipende da diversi fattori, che cercherò di analizzare in un prossimo articolo.




Covid: solo il Belgio fa peggio dell’Italia

In più di un paese su 3 non c’è stata alcuna seconda ondata

Se in Italia la curva dei contagi (misurata come rapporto fra nuovi positivi e casi testati) ha finalmente iniziato una fase decrescente, i decessi non sembrano ancora aver invertito la rotta. Il trend di crescita sta rallentando, ma i numeri rimangono ancora alti.

Occorre però guardare a ciò che è successo in altri paesi per meglio valutare l’evoluzione dell’epidemia in Italia. Tutti i paesi sono stati investiti da una seconda ondata o vi è chi è riuscito a tenere sotto controllo l’epidemia?

L’unico indicatore affidabile che ci permette di fare comparazioni internazionali è il numero di decessi rapportato alla popolazione. L’individuazione di nuovi casi dipende pesantemente dalle diverse politiche adottate sui tamponi.

Un primo punto interessante da sottolineare è che l’epidemia non ha rialzato la testa ovunque. Su 25 paesi a noi più comparabili (società avanzate esclusi i paesi di piccole dimensioni) 10 non hanno affatto registrato una seconda ondata. Si tratta di Nuova Zelanda, Giappone, Australia, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan e di quattro paesi europei (Irlanda, Danimarca, Finlandia e Norvegia).

Fra questi ve ne sono ben 6 in cui non si può neppure parlare di prima ondata (Nuova Zelanda, Giappone, Australia, Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan).

Due (Israele e Grecia), invece, sono i paesi che hanno registrato numeri molto contenuti durante il primo periodo e solo ora sono entrati in una fase acuta dell’epidemia.

Nei restanti 13, l’epidemia ha accelerato sia nella prima che nella seconda fase.

Come si vede dai grafici seguenti, in Svizzera, Austria e Portogallo la seconda ondata è stata addirittura più grave della prima. Mentre però in Svizzera la curva è tornata a puntare verso il basso, Austria e Portogallo non hanno ancora invertito il trend.

I numeri sono in aumento anche per Regno Unito, Grecia, Germania, Svezia, Canada e Italia.

Se si considera però quel che è successo negli ultimi due mesi (ottobre e novembre), solo il Belgio registra numeri peggiori dell’Italia.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi provengono dal database dalla Johns Hopkins University aggiornati al 29 novembre.

Quanto possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità nazionali che hanno fornito il dato.

Per “ondata” intendiamo una situazione in cui i nuovi contagiati settimanali per 100 mila abitanti è superiore a 1.




Quanti sono i contagiati in Italia?

Nel grafico seguente riportiamo alcune stime del numero di persone contagiate dal virus Sars-Cov-2 dall’inizio dell’epidemia alla fine di luglio e le confrontiamo con la stima fornita dall’Istat all’inizio di agosto sulla base di una vasta indagine nazionale di sieroprevalenza.

La traiettoria dei contagiati è stata costruita assumendo, prudentemente, che il numero effettivo di morti per Covid-19 sia un po’ inferiore al doppio del numero ufficiale (per l’esattezza: 1.71 volte), e che il tasso di letalità sia compreso fra lo 0.5% e l’1.5%.

Le tre curve sviluppano tre ipotesi sul tasso di letalità (0.5%, 1%, 1.5%) secondo la seguente espressione:

contagiatit = 1.7 * mortit+τ / λhyp

dove τ rappresenta la sfasatura fra contagio e morte (assunta pari a 14 giorni), e λhyp è il tasso di letalità sotto le 3 ipotesi (λ1 = 0.005, curva rossa; λ2 = 0.01, curva gialla; λ1 = 0.015, curva verde).

Il valore di τ è presumibilmente variabile nel tempo ma, nel range 10-25 giorni, non modifica in modo apprezzabile il profilo delle varie curve.

La linea orizzontale in basso rappresenta la stima dell’Istat, ottenuta con un’indagine di sieroprevalenza svolta fra la fine di maggio e la fine di luglio.

Il grafico si ferma al 31 luglio perché, dopo quella data, a causa dell’abbassamento dell’età mediana dei contagiati e la conseguente progressiva riduzione (temporanea) del tasso di letalità medio, non è più possibile assumere la sostanziale proporzionalità fra numero di contagiati e numero di morti.

Come si vede l’Istat stima 1.5 milioni di contagiati, mentre le nostre stime suggeriscono un numero di contagiati compreso fra 4 e 12 milioni.

Per una spiegazione più ampia vedi “Il Messaggero” del 2 ottobre 2020 e, a partire dal 3 ottobre, il sito della Fondazione Hume.




Quanto è grave l’epidemia nelle province?

di Luca Ricolfi e Rossana Cima

Continua la crescita dei contagi in Italia. Solo nell’ultima settimana (17-23 settembre) si sono registrati 11.097 nuovi casi, circa mille casi in più rispetto alla settimana precedente. È da inizio agosto che l’epidemia ha ripreso ad avanzare, anche se con un ritmo molto più lento di quello osservato in paesi con Israele (+395.4 nuovi casi settimanali per 100 mila abitanti contro i 18.4 dell’Italia), Spagna (+169.4) o Francia (+95.1).

Il dato nazionale è però solo un valore medio. Non ci consente di cogliere la dinamica dell’epidemia dei vari territori. Come risulta dai nostri precedenti contributi, ci sono province in cui la curva dei contagi ha dato chiari segni di ripresa (in alcuni casi fin da metà giugno) e zone in cui la situazione risulta meno preoccupante.

Per avere un quadro generale dell’epidemia possiamo provare a costruire un indice sintetico che consenta di stimare il livello di gravità della diffusione del virus. Possiamo fare questo basandoci sul numero di nuovi casi per abitante in un periodo medio-breve (14 giorni), tenendo però conto della capacità diagnostica del territorio: 100 nuovi casi registrati in una provincia con una bassa capacità di intercettare il contagio sono molto più preoccupanti di 100 nuovi positivi osservati in zone con una maggiore capacità diagnostica.

Se si usa questo indicatore la situazione è quella rappresentata nel grafico seguente.

La provincia che presenta la situazione più critica è La Spezia: fino a metà agosto contava un numero di nuovi contagi contenuto, ma a metà settembre ha iniziato a registrare incrementi bisettimanali superiori ai valori di aprile. Ora però (nell’ultima settimana) la curva del contagio sembra aver rallentato la sua corsa.
Subito dopo, ma con un valore decisamente più basso, troviamo Genova e poco sotto Imperia, altra città ligure.
Nella parte alta della classifica non si collocano solo città del Nord. Bari e Foggia sono in quinta e sesta posizione, poco prima di Oristano e Nuoro.
La diffusione dell’epidemia risulta invece più contenuta nelle province calabre collocate tutte in ultima posizione, precedute da Verbania, Salerno, Avellino, Macerata e Asti.

Nel complesso il 34% delle province del Nord si trova nella zona critica della classifica (prime 30 posizioni), un valore che scende al 21.1% al Sud.
La situazione è invertita se si considerano le ultime 30 posizione. Si posiziona in questa fascia il 17% delle province del Nord e il 36.8 di quelle del Mezzogiorno.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi sono quelli diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile aggiornati al 23 settembre (ore 18).

La serie storica dei dati provinciali è stata ricalcolata per tenere conto dell’interruzione di serie che si è verificata il 24 giugno in seguito alla nuova classificazione dei casi positivi (non più in base alla provincia in cui è avvenuta l’ospedalizzazione, ma in base alla residenza della persona risultata positiva al COVID-19).

Data l’impossibilità di stabilire, provincia per provincia, che cosa è effettivamente avvenuto tra il 23 e il 24 giugno, i dati sono stati ricalcolati assumendo che, fra le due date, gli incrementi giornalieri dei nuovi casi fossero pari a zero.

Quando possibile, i dati sono stati corretti per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalle autorità regionali.

La capacità diagnostica è stata calcolata come rapporto fra contagi registrati nell’arco di tre settimane e nuovi decessi avvenuti nelle tre settimane successive con uno sfasamento temporale di 10 giorni. Maggiore sarà la capacità di intercettare i nuovi casi minore sarà la mortalità registrata nella provincia.

L’indicatore è stato costruito utilizzando i dati regionali, perché la Protezione Civile non fornisce il numero dei decessi a livello provinciale, ma solo quello dei casi totali. La capacità diagnostica delle regioni più piccole a livello demografico è stata posta convenzionalmente pari a 1.

Questi valori sono stati applicati al numero di nuovi contagi (per 100 mila abitanti) registrato nelle settimane fra il 10 e il 23 settembre.