Se i Pro-Vax fanno più danni dei No-Vax

Grazie al cielo, i vaccini stanno funzionando. E anche bene. Tanto bene che perfino in Italia, con solo il 30% della popolazione che ha ricevuto la prima dose, cominciamo ad assistere a un significativo calo dei contagi. Le morti, invece, per ora sono scese meno, ma questo in gran parte è fisiologico, perché, sia nel bene che nel male, per ovvie ragioni la loro curva presenta sempre un ritardo di un paio di settimane rispetto a quella del contagio, quindi è lecito essere ottimisti anche a questo proposito (anche se in parte ha pesato pure il ritardo con cui abbiamo provveduto a vaccinare gli anziani, che invece non è affatto fisiologico, bensì scandaloso, ma anche questo, finalmente, più o meno lo stiamo sistemando).

Inoltre, guardando ai dati dei paesi che sono più avanti di noi sembra confermato quello che avevo scritto nell’articolo dell’11 marzo scorso, cioè che per incominciare a vedere un abbattimento davvero drastico dei contagi bisogna arrivare intorno al 35% di prime dosi, traguardo che per fortuna è ormai molto vicino, anche perché nelle ultime settimane, come attesta l’Indice DQP di Ricolfi, il ritmo delle vaccinazioni ha finalmente iniziato a crescere in modo sostenuto.

Se a ciò aggiungiamo l’arrivo del caldo, ormai imminente, sembra lecito supporre che entro fine maggio (come avevo previsto nell’articolo suddetto) la situazione dovrebbe tornare a una parvenza di normalità, anche se per uscirne del tutto ci vorrà ancora qualche mese e soprattutto bisognerà che le nostre autorità stavolta usino l’estate per finire di mettere in sicurezza il paese anziché per scrivere libri autocelebrativi (ogni riferimento a quello pubblicato e poi ritirato in tutta fretta l’anno scorso dal Ministro Speranza non è casuale, ma deliberatamente voluto, anche se il problema non si riduce certo a lui soltanto).

Ciò detto, non bisogna tuttavia dimenticare la “falsa partenza” della campagna vaccinale, che ci è già costata migliaia di morti e che rischia di causare danni economici incalcolabili, perché altri paesi sono già tornati o stanno tornando alla normalità, sicché già godono e per diversi mesi per mesi ancora godranno di un vantaggio enorme su chi, come noi, è ancora in mezzo al guado. Ed è giusto ricordare che di tale ritardo e dei gravissimi danni che provocherà è responsabile innanzitutto il governo Conte, insieme alle autorità della UE, che purtroppo di autorità hanno dimostrato di averne ben poca.

A tal proposito, la cosa più preoccupante è che ciò non sembra dipendere tanto dalle persone che ci rappresentano, ma piuttosto dal fatto che nel mondo reale esse di fatto non ci rappresentano, perché nella percezione che se ne ha dall’esterno la UE è sostanzialmente una non-entità, a cui si può fare qualsiasi sgarbo rischiando poco o nulla (anche la famosa vicenda della “sedia negata” dovrebbe indurci alla riflessione più che all’indignazione: perché Erdogan è certamente un volgare dittatore e un becero maschilista, ma altrettanto certamente la Von Der Layen non era la prima donna che riceveva, però è stata la prima a cui ha deciso di fare uno scherzo del genere; e forse sarebbe il caso di cominciare a chiederci il perché).

Tuttavia, proprio considerando che la situazione è già abbastanza complicata di suo, non si sentiva davvero il bisogno di altri problemi. Per questo non si può tacere sulle responsabilità di chi, sia pure involontariamente, ha contribuito a peggiorarla ulteriormente, provocando ritardi supplementari nella già troppo lenta campagna vaccinale italiana ed europea.

Sto parlando anzitutto, ovviamente, dei No-Vax, che in questi mesi stanno dando il peggio di sé, dopo che con le loro folli teorie, diffuse soprattutto “grazie” a Internet, negli ultimi anni erano già riusciti a convincere una fetta non trascurabile della popolazione mondiale (e quindi anche italiana) a guardare con sospetto o addirittura a rifiutare uno degli strumenti più efficaci mai prodotti dalla scienza umana, ovvero i vaccini. Ma sto parlando anche – e ciò è assai meno ovvio, ma purtroppo non meno vero – di molti che di per sé ai vaccini sono favorevoli, ma sui vaccini anti-Covid hanno sollevato perplessità di varia natura, tanto inconsistenti nelle loro motivazioni quanto devastanti nelle loro conseguenze.

Ciò ha infatti contribuito ad allargare il fronte dei contrari ben al di là del tradizionale “bacino di utenza” dei No-Vax “duri e puri”, rendendo scettiche o quantomeno dubbiose moltissime persone che perlopiù si fidano dei vaccini in generale, ma non di “questi” vaccini (quelli che il generale Figliuolo ha definito, ironicamente ma esattamente, “Ni-Vax”). E questo rischia seriamente di metterci di fronte alla “scelta impossibile” tra due alternative ugualmente gravide di conseguenze disastrose: rinunciare a raggiungere l’immunità di gregge o rendere obbligatoria la vaccinazione per tutti.

Un primo tipo di perplessità è nato a causa della grande rapidità con cui i vaccini sono stati creati e testati, benché i principali, che stiamo usando attualmente, fossero molto innovativi e alcuni (i famosi vaccini a RNA di Pfizer/Biontech e Moderna) addirittura di concezione completamente nuova. Tuttavia, benché a prima vista, almeno all’inizio, qualche dubbio potesse sembrare giustificato, in realtà nessuno dei rischi paventati era scientificamente fondato (e infatti nessuno si è concretizzato), come ho cercato di spiegare nell’articolo del 7 gennaio 2021, scritto in collaborazione con il mio amico e collega biologo Alberto Vianelli.

Quanto alla presunta eccessiva rapidità delle verifiche fatte dall’EMA, che qualcuno riteneva (senza peraltro essere in grado di esibire prova alcuna di ciò) frutto di pressioni politiche e/o di interessi economici, anche qui i dubbi erano del tutto infondati, dato che per tutti i vaccini sono state completate le prime tre fasi previste dal protocollo standard, che sono le più importanti, dato che riguardano l’efficacia e la sicurezza. Il vero motivo per cui tutto è stato molto più veloce rispetto al solito è semplicemente che questa volta abbiamo investito molto di più sulla ricerca.

Semmai, se proprio vogliamo trovare qualcosa da criticare, dovremmo piuttosto prendercela con l’eccesso di precauzione usato con il vaccino della Johnson & Johnson, che si poteva adottare con un provvedimento d’urgenza, senza richiedere anche l’approvazione dell’EMA, che non si capisce cosa potesse mai aggiungere a quella delle autorità sanitarie degli Stati Uniti, che di certo non sono meno competenti e affidabili delle nostre. E anche la resistenza allo Sputnik russo sembra difficile da giustificare, visto che con esso San Marino ha già praticamente azzerato i contagi e le morti con appena il 63% di prime dosi somministrate: e poiché la popolazione è di circa 34.000 persone, stiamo parlando di una “sperimentazione” svolta su un campione assolutamente adeguato e per di più nel mondo reale, il che la rende più significativa di qualsiasi test di laboratorio.

L’unica procedura in qualche modo “straordinaria” (peraltro ampiamente giustificata dalla situazione straordinaria in cui ci troviamo) che è stata realmente adottata riguarda la quarta fase, relativa alla verifica della durata della protezione vaccinale e la ricerca di effetti avversi molto rari. Peraltro, per ovvie ragioni, tale fase almeno in parte avviene sempre “sul campo” e inoltre in questo caso poteva essere eseguita nel modo tradizionale solo ritardando di anni la distribuzione dei vaccini, il che sarebbe stato come buttarli nella spazzatura, perché è ora che ci servono. Inoltre, quanto più rapidamente si concluderà la campagna vaccinale, tanto più probabile sarà che il tempo di copertura garantito dai vaccini sia sufficiente, anche qualora si rivelasse abbastanza breve (cosa che peraltro, almeno fino a prova contraria, non c’è ragione di supporre, dato che in genere i vaccini fin qui prodotti per altre malattie immunizzano almeno per qualche anno).

La cosa più paradossale, comunque, è che se la protezione garantita dagli attuali vaccini fosse realmente breve, l’unica cosa ragionevole da fare sarebbe accelerare la campagna vaccinale e non frenarla richiedendo ulteriori controlli, che risulterebbero non solo inutili, ma addirittura controproducenti. Infatti, questi vaccini sono gli unici che abbiamo e anche se si scoprisse che l’immunità che garantiscono è breve non ci sarebbe comunque modo di aumentarla, sicché l’unica cosa che possiamo fare è ridurre al massimo il tempo per cui è necessario che ci proteggano, cercando di raggiungere l’immunità di gregge il più presto possibile. Di conseguenza, la posizione di chi chiede ulteriori controlli è sbagliata se è sbagliata (perché in tal caso non ci sarebbe nessun problema da risolvere) ed è doppiamente sbagliata se è giusta (perché in tal caso il problema ci sarebbe, ma ulteriori controlli lo aggraverebbero anziché risolverlo).

Un secondo tipo di dubbi riguarda invece l’efficacia dei vaccini. Ora, a parte quelle puramente aprioristiche basate sulla velocità del processo, di cui ho appena parlato, le altre perplessità di questo tipo si basavano (e tuttora si basano, nella misura in cui tuttora persistono) quasi esclusivamente su un famoso articolo di Peter Doshi, indubbiamente un luminare del campo, che aveva suscitato molto scalpore, affermando che i risultati delle sperimentazioni portavano a concludere che la loro efficacia reale poteva essere tra il 19% e il 29% invece del 95% dichiarato.

In realtà, però, leggendo attentamente l’articolo si nota subito che l’intera analisi di Doshi si basa sull’assurdo presupposto di calcolare come contagi da Covid tutti i casi “sospetti” verificatisi nel gruppo dei vaccinati anziché solo i casi successivamente “confermati”, sostenendo, contro ogni logica, che ciò sarebbe «clinicamente più significativo».

Inoltre, pochi giorni dopo Marco Cavaleri dell’EMA gli aveva risposto in modo molto preciso con un’intervista, che personalmente ho trovato subito molto convincente, smontando punto per punto le sue tesi, che sono poi state ulteriormente messe in crisi dai dati sull’uso reale dei vaccini, soprattutto quelli della Gran Bretagna. Nel Regno Unito, infatti, il premier Boris Johnson ha scelto di immunizzare il maggior numero di persone possibile nel minor tempo possibile, usando perciò quasi tutti i vaccini disponibili per le prime dosi e limitando al minimo indispensabile i richiami, scommettendo, contro il parere di molti scienziati, sul fatto che già le prime dosi garantissero un’immunità sufficientemente robusta, come è di fatto avvenuto.

Ma oltre alle statistiche sull’andamento dell’epidemia stanno iniziando a uscire anche i primi studi scientifici, che finora hanno sempre confermato l’elevata efficacia dei vaccini anti-Covid. In particolare, il 14 maggio sonno stati annunciati i risultati della prima ricerca sull’efficacia dei vaccini in Italia. L’articolo deve ancora uscire, ma i risultati sono stati sintetizzati in un’intervista a Quotidiano Sanità dal professsor Lamberto Manzoli, dell’Università di Ferrara, che ha diretto il gruppo di ricerca e confermano per tutti i vaccini usati un’efficacia, anche rispetto alle varianti, di circa il 95% nel prevenire il contagio e del 99% nel prevenire lo sviluppo di sintomi gravi.

Molto interessante è il fatto che il tanto bistrattato AstraZeneca è risultato il migliore di tutti, con un’efficacia che sfiora addirittura il 100% già con la prima dose. Anche Moderna ha un’efficacia vicina a quella massima già dopo la prima dose, mentre Pfizer, in genere ritenuto il migliore, dopo la prima dose arriva “solo” al 70% (che comunque non è male). Questo spiega in parte anche il successo del “metodo inglese”, dato che in Gran Bretagna si è usato moltissimo AstraZeneca (certo anche perché di produzione inglese, essendo stato progettato dalla Oxford University).

Risultati molto simili sono stati ottenuti anche dallo studio, pubblicato l’8 maggio, sull’efficacia del vaccino Pfizer in Qatar (Qatar National Study Group for COVID-19 Vaccination, Effectiveness of the BNT162b2 Covid-19 Vaccine against the B.1.1.7 and B.1.351 Variants, DOI: 10.1056/NEJMc2104974), che conferma un’efficacia vicina al 95% anche rispetto alle varianti, benché con alcune di esse la capacità di impedire del tutto la replicazione del virus nell’organismo e non solo l’insorgere di sintomi gravi risulti inferiore, ma comunque sempre elevata (nel caso peggiore, oltre il 70%).

Un altro argomento che fino a qualche tempo fa era molto di moda addurre (lo ha fatto perfino Crisanti, per sostenere la maggiore efficacia del suo metodo dei tamponi di massa rispetto ai vaccini, il che mi è veramente dispiaciuto, data la stima che ho per lui, essendo uno dei pochissimi che ha davvero fatto cose buone per l’Italia) era il caso apparentemente anomalo del Cile, che ancora a inizio aprile non riusciva a far calare i contagi nonostante avesse già vaccinato oltre il 50% della sua popolazione.

Quello che si dimenticava, però, è che, avendo il Cile adottato un approccio molto “ortodosso” e avendo quindi fatto un elevato numero di richiami, la percentuale di prime dosi era in realtà solo del 30%, cioè non ancora sufficiente a produrre effetti significativi. Inoltre, in Cile si era fatto un uso massiccio del vaccino cinese Sinovac, che, per ammissione delle stesse autorità di Pechino, non è molto efficace.

E infatti, col progredire del numero di prime dosi somministrate (attualmente circa il 46%) e l’arrivo di vaccini più efficaci, anche in Cile le cose hanno iniziato a migliorare, benché un po’ più lentamente che negli altri paesi con percentuali simili, verosimilmente perché pesa ancora il gran numero di persone poco protette dallo scadente vaccino cinese. In ogni caso, il picco dei contagi è stato raggiunto ormai da oltre un mese (il 9 aprile, con 9151) e da allora la media è scesa di circa il 25% (da circa 7000 casi al giorno a metà aprile a circa 5300 a metà maggio), mentre per i morti, il picco è stato il 15 aprile con 218 e la media è scesa dai 120 di allora ai 92 attuali, anche qui con un calo di circa il 25%. Dunque, anche il Cile si può ormai considerare “normalizzato” e non rappresenta più un’obiezione valida.

Un’altra obiezione è che i vaccini anti-Covid servirebbero solo a impedire l’insorgere di sintomi gravi, ma non sarebbero sterilizzanti, cioè non impedirebbero la diffusione del virus nell’organismo.

Ora, a tale riguardo bisogna anzitutto aver chiaro che nessun vaccino (e, in generale, nessuna medicina) è in grado di impedire a un virus o a un qualsiasi altro agente patogeno di entrare nel nostro organismo: l’unico modo di ottenere questo risultato sarebbe infilarsi uno scafandro a tenuta stagna (come infatti fanno i medici quando devono intervenire in situazioni ad elevato rischio di contaminazione).

Inoltre, la differenza tra vaccini sterilizzanti e non sterilizzanti non dipende per nulla dal fatto che certi vaccini bloccherebbero solo lo sviluppo dei sintomi, ma non la replicazione del virus. Qualsiasi vaccino, infatti, ha un solo modo di impedire lo sviluppo dei sintomi, cioè, per l’appunto, bloccare (anche se con metodi diversi) la replicazione del virus, giacché i sintomi appaiono proprio quando il virus si replica oltre un certo limite (anzi, ad essere precisi il vaccino di per sé non “blocca” proprio un bel niente: a farlo è il sistema immunitario, ovviamente stimolato dal vaccino). Quindi, a rigore, tutte le persone vaccinate in cui il virus riesce ad entrare sono teoricamente contagiose, perché portano il virus nel proprio organismo per qualche tempo.

La differenza sta nell’efficienza con cui la replicazione del virus viene bloccata o addirittura completamente impedita e con essa lo sviluppo dei sintomi, sicché la persona vaccinata ha una probabilità bassissima o addirittura nulla di contagiarne altre. Se invece la replicazione del virus viene bloccata meno efficacemente, allora la malattia si svilupperà in forma asintomatica, mentre se la risposta immunitaria sarà ancor più debole si svilupperà la malattia vera e propria, con sintomi conclamati: in entrambi questi casi (quindi non solo quando ci si ammala gravemente, ma anche quando si resta asintomatici) la persona vaccinata può contagiarne altre anche realmente e non solo teoricamente. Ciò però non dipende solo dal vaccino in sé e dal metodo che utilizza, ma anche dalla risposta dell’organismo, che è diversa per ogni singolo essere umano, per cui anche con il miglior vaccino possibile ci sarà sempre una certa percentuale di persone che non sviluppano una resistenza sufficiente e si ammalano lo stesso: è per questo che l’efficacia non è mai del 100%.

Ciò significa anzitutto che la differenza tra vaccini sterilizzanti e non sterilizzanti è solo una differenza di grado, perché tutti i vaccini dotati di una qualche efficacia sono in certa misura sterilizzanti, mentre nessuno lo è completamente. In secondo luogo, pur non essendoci una corrispondenza esatta tra i due aspetti (altrimenti la distinzione non avrebbe senso), è difficile che un vaccino poco sterilizzante abbia un’efficacia molto alta, perché se il virus si replica troppo nell’organismo causerà inevitabilmente dei sintomi. Di conseguenza, per sostenere che i vaccini anti-Covid non sono abbastanza sterilizzanti bisogna o disporre di evidenze molto solide (che però finora nessuno ha prodotto) oppure essere convinti che in realtà il vaccino non abbia neanche un’alta efficacia, come per l’appunto credono in genere i sostenitori di questa tesi, il che però, come già detto, non sembra giustificato dai fatti.

Almeno finora, infatti, ovunque questi vaccini sono stati impiegati sia i contagi che i morti sono sempre calati molto rapidamente, fin dalla somministrazione della sola prima dose ad appena un terzo della popolazione: un dato impressionante, che non solo appare incompatibile con l’ipotesi della bassa efficacia e della scarsa sterilizzazione, ma sembrerebbe anzi indicare una capacità altissima di prevenire non solo la malattia, ma anche il contagio, forse perfino superiore a quanto ipotizzato dalle stesse case farmaceutiche, il che, peraltro, non mi sembra così strano. Anzitutto, infatti, le case farmaceutiche non sono certo enti di beneficenza, ma neanche delle associazioni a delinquere che vogliono solo far soldi sulla pelle dei malati, come oggi è di moda pensare (salvo quando entriamo in farmacia perché ci serve un medicinale). Inoltre, avendo addosso gli occhi di tutto il mondo, gli stessi interessi economici spingono semmai verso un eccesso di prudenza, piuttosto che verso un eccesso di ottimismo.

Un’ulteriore obiezione è quella di chi dice che i vaccini vanno sì fatti, ma solo dopo avere abbattuto con altri mezzi il numero dei contagi, altrimenti c’è il rischio che si sviluppino varianti resistenti ai vaccini stessi.

Tuttavia, come già da molto tempo è stato dimostrato in maniera inequivocabile, le mutazioni nei virus e nei batteri nascono tutte in modo casuale. Di conseguenza, i vaccini non possono causare una mutazione resistente, ma solo selezionarla dopo che si sia prodotta, il che avviene perché i vaccini fanno fuori tutti gli altri ceppi, finché resterà in circolazione solo quello resistente, che, se non si troverà rapidamente un nuovo vaccino capace di fermarlo, si espanderà fino a contagiare tutta la popolazione, compresa quella già vaccinata, dato che non è sensibile all’azione dei vaccini esistenti. Ciò può dare l’impressione che vaccinare a epidemia in corso sia più rischioso, ma in realtà si tratta di una pura illusione ottica: una volta prodottasi, infatti, la variante resistente verrà comunque selezionata dai vaccini non appena si comincerà ad usarli e a quel punto si diffonderà comunque a tutta la popolazione, indipendentemente dal numero di contagi e quindi dal momento in cui si è cominciato a usare i vaccini.

Dunque, l’unico vero rischio, che dobbiamo assolutamente cercare di evitare (perché, se si verifica, indipendentemente dal come e dal quando, siamo comunque fregati), è la nascita della mutazione resistente. E poiché le mutazioni dei virus si producono completamente a caso, ne segue che la probabilità della nascita di una variante resistente dipende esclusivamente da un fattore, ovvero il numero di “tentativi” che il virus ha a disposizione, il che a sua volta dipende dal numero di particelle virali in circolazione, giacché quante più ce ne saranno, tante più mutazioni si produrranno e tanto più alta sarà, di conseguenza, la probabilità che, per puro caso, una di queste sia resistente ai vaccini.

Ciò significa che l’unico modo che abbiamo (e sottolineo l’unico) di ridurre il più possibile la probabilità che nasca una variante resistente è ridurre il più possibile e nel più breve tempo possibile il numero delle persone contagiate. Ed è chiaro che per conseguire tale obiettivo dobbiamo usare fin dall’inizio tutti i mezzi che abbiamo, compresi ovviamente i vaccini. Se infatti non li usiamo, per quanto velocemente possa scendere il numero dei contagiati, scenderà comunque più lentamente che usandoli, giacché è evidente che l’efficacia di A+B è superiore a quella di A da solo, salvo che B sia del tutto inefficace, il che non è certo il caso dei vaccini anti-Covid, la cui efficacia nemmeno i critici più severi ritengono pari a zero. Di conseguenza, non usandoli anche la probabilità che si generi una variante resistente sarà comunque maggiore che usandoli.

Si badi che con questo non sto dicendo che non possa prodursi una variante resistente anche usando i vaccini fin dall’inizio: trattandosi di un evento casuale, infatti, evitarlo non dipende solo da noi, ma anche dalla fortuna. Tuttavia, qualora ciò dovesse accadere, non vorrebbe dire che se non avessimo usato i vaccini la variante resistente non si sarebbe prodotta, bensì, esattamente al contrario, che non solo si sarebbe prodotta lo stesso, ma probabilmente si sarebbe prodotta in un maggior numero di persone, avendo avuto a disposizione un maggior numero di individui infetti e quindi un maggior numero di “tentativi”.

Una chiara riprova di ciò è data dal fatto che tutte le varianti attualmente più diffuse (per fortuna non resistenti ai vaccini) si sono generate prima che iniziasse la campagna vaccinale, quando il contagio era molto esteso e quindi il virus aveva a disposizione moltissimi “tentativi” per produrre una più efficiente versione di sé stesso. Al contrario, nessuna variante di rilievo si è finora prodotta in paesi che sono già molto avanti con le vaccinazioni e in cui perciò il numero di contagi è drasticamente diminuito. Non fa eccezione nemmeno quella indiana, sorta quando la campagna vaccinale in India era sì iniziata, ma aveva toccato solo una minima parte della popolazione.

Riassumendo, dunque, il vero (e gravissimo) errore che abbiamo commesso in Occidente e in particolare in Italia non è stato affatto avere cominciato a usare i vaccini prima di avere diminuito i contagi con altri mezzi, ma, esattamente all’opposto, non avere diminuito al più presto e il più possibile i contagi usando anche tutti gli altri mezzi disponibili. Non però al posto dei vaccini, bensì insieme ad essi, come per esempio ha fatto l’Inghilterra, che, non a caso, è il paese che finora ha ottenuto i migliori risultati e che ha affiancato ai vaccini misure restrittive molto più rigide delle nostre (ma che in compenso, proprio per questo, sono finite molto prima) nonché un uso massiccio di vitamina D3.

Ciò che tuttavia rende particolarmente grave, nonché particolarmente scandalosa, la situazione italiana (anche se purtroppo era ampiamente prevedibile: e infatti Ricolfi l’aveva detto subito, ma nessuno l’ha ascoltato) è che da noi i vaccini sono stati usati come scusa per non far nulla (o meglio, per continuare a non far nulla), senza capire (o senza voler capire) che i danni causati dal ritardato ritorno alla normalità non avrebbero costituito solo una piccola “coda” di quelli già subiti, ma sarebbero stati enormi a tutti i livelli, sia in termini di morti che di soldi. E la miglior prova di ciò è che alla fine siamo stati costretti a riaprire in condizioni ancora piuttosto rischiose, semplicemente perché il paese non ce la faceva più ad andare avanti così.

È quindi vero, come ha scritto Ricolfi, che a questo punto gli “aperturisti” hanno paradossalmente ragione in pratica pur avendo torto in teoria. Il problema è che “a questo punto” non ci dovevamo arrivare: e di ciò sono responsabili tutti, sia i “chiusuristi” (che hanno ostinatamente reiterato misure palesemente inefficaci) sia gli “aperturisti” (che non hanno mai saputo indicare alternative migliori), anche se i primi lo sono in misura maggiore, dato che sono stati al governo fin dall’inizio dell’epidemia e non solo da qualche mese.

Comunque, non c’è dubbio che le perplessità che hanno prodotto i maggiori danni sono state quelle relative ad AstraZeneca, che sono tanto più imperdonabili in quanto le loro conseguenze erano facilmente prevedibili, mentre le loro giustificazioni erano risibili. Infatti, di fronte a 25 (possibili) morti su oltre 20 milioni di vaccinazioni l’unica risposta sensata era un bel “chi se ne frega”, non per insensibilità, ma perché nessuna persona sana di mente si preoccupa di un evento che ha una probabilità di verificarsi di uno su un milione, ovvero circa la stessa che abbiamo di vincere la Lotteria di Capodanno. Giusto per avere un termine di paragone, in Italia la probabilità di morire in un incidente automobilistico nel corso di quest’anno è di 1 su 18.000, ovvero 55 volte maggiore, mentre nel corso dell’intera vita è di circa 1 su 250, cioè addirittura 4000 volte maggiore, eppure non mi risulta che qualcuno la ritenga una buona ragione per non usare l’auto.

Chi ha richiesto la sospensione temporanea di AstraZeneca in attesa di ulteriori controlli in genere l’ha giustificata dicendo che questo sarebbe stato un segno in più dell’estrema attenzione con cui la UE stava controllando i vaccini, il che in teoria era anche vero. Tuttavia, era del tutto evidente che nella percezione della gente (che in questo caso è l’unica che conta) avrebbe assunto il significato diametralmente opposto, come infatti è puntualmente accaduto, tanto più che tali controlli nel brevissimo tempo concesso (pochi giorni) non potevano dare (e infatti non hanno dato) risultati certi.

È paradossale che la più convinta promotrice di questa sciagurata decisione sia stata Angela Merkel, che negli ultimi mesi sembra vittima di un autentico cupio dissolvi, visto che sta sistematicamente demolendo tutti i risultati ottenuti nella prima fase dell’epidemia, che, pur non essendo certo stati straordinari, erano almeno discreti, il che, in un contesto generale catastrofico, non era poco. Ma anche molti scienziati non sono stati da meno. Solo per fare un esempio fra i tanti, la celebre storica della medicina Eugenia Tognotti in uno dei suoi tanti editoriali su La Stampa ha sostenuto che sì, è vero che il rischio di per sé è molto basso, ma il caso dei vaccini è diverso da quello delle altre medicine, perché queste le prende chi sta già male, mentre il vaccino lo fa uno che sta bene, per cui è inaccettabile fargli correre anche il minimo rischio.

Ora, a parte il fatto che il rischio zero nel mondo reale semplicemente non esiste e men che meno in campo medico, per cui è assurdo pretenderlo, la Tognotti evidentemente non ha considerato che attualmente in Italia il rischio di morire di Covid è di circa 1 su 500, cioè 2000 volte maggiore del (presunto) rischio di vaccinarsi con AstraZeneca: quindi, se l’illustre scienziata ritiene tale rischio inaccettabile, secondo logica dovrebbe ritenere 2000 volte più inaccettabile il rischio di non vaccinarsi. Il fatto che la Tognotti non la pensi così spiega meglio di molte altre cose perché siamo al punto in cui siamo: se infatti anche molti scienziati si dimostrano incapaci del più elementare ragionamento logico, come si può pretendere che ne siano capaci i politici, i giornalisti o la gente comune?

In conclusione, dunque, possiamo dire che se un problema c’è stato con la campagna vaccinale in Italia e, più in generale, nella UE, questo non sta nel fatto che è stata troppo affrettata, bensì, esattamente al contrario, che è stata troppo lenta. E a questo rallentamento hanno contribuito molto più le immotivate perplessità di tanti scienziati Pro-Vax in cerca di visibilità mediatica (o che semplicemente hanno perso la bussola) che neanche i deliri dei No-Vax, il che rappresenta un ulteriore, folle tassello da aggiungere al triste mosaico della bancarotta dell’Occidente di fronte al virus.

L’unica cosa di cui potremmo e dovremmo andare giustamente fieri in mezzo a tutto questo disastro è infatti proprio la rapidissima creazione e sperimentazione dei vaccini, che dimostra cosa può fare la ricerca scientifica quando viene adeguatamente finanziata, soprattutto in Occidente: e lo dice uno che da oltre un anno non fa che elogiare sperticatamente i paesi orientali. Tuttavia, se questi hanno dimostrato un’efficienza e, prima ancora, un senso della realtà incomparabilmente superiori quanto alla gestione dell’epidemia, è un fatto che quando si è trattato di creare qualcosa di davvero nuovo hanno dimostrato che la loro creatività è ancora inferiore alla nostra, visto che tutti i vaccini più efficaci e più innovativi sono stati prodotti in paesi occidentali: Stati Uniti (Pfizer/Biontech, Moderna, Johnson & Johnson), Germania (Pfizer/Biontech), Inghilterra, Svezia e Italia (AstraZeneca).

Quindi, anziché continuare nella nostra follia autodistruttiva, dovremmo cominciare a pensare a valorizzare le nostre migliori risorse, cioè l’università e la ricerca, a cominciare dal Recovery Plan. Per esempio, rispetto ai problemi ecologici, che saranno il prossimo grande scoglio da affrontare, sarebbe bene piantarla con la scellerata politica di spendere cifre folli in sussidi statali a supporto di tecnologie non ancora abbastanza efficienti, come quelle delle attuali energie rinnovabili (e che lo siano è provato dal fatto stesso che abbiano bisogno di sussidi statali, dato che una tecnologia efficiente si diffonde perché è efficiente e non perché lo Stato ci paga per usarla), per dirottarli invece, per l’appunto, verso l’università e la ricerca.

Se lo faremo, in breve tempo avremo le tecnologie adeguate a risolvere non solo i nostri attuali problemi, ma anche molti altri che si presenteranno in futuro, proprio come i nuovi vaccini a RNA non risolveranno solo il problema del Covid, ma apriranno la strada per risolverne molti altri che adesso nemmeno possiamo immaginare. Se invece non lo faremo, andrà a finire come con le misure antivirus, cioè con un completo disastro, con l’ulteriore aggravante che, se si verificasse davvero, stavolta probabilmente ci sarebbe fatale, considerando quanto si sono indebolite le nostre capacità di resistenza, sia individuali che sistemiche. Speriamo che lo capisca almeno Draghi, perché gli altri (tutti gli altri) non mi sembrano averlo affatto chiaro…

Ciò detto, resta però ancora una domanda, che è poi la solita che ci tocca farci ogni volta che parliamo di questa sciagurata vicenda: come è possibile che non solo i politici, ma anche molti scienziati, illustri e meno illustri (anche se per fortuna non tutti), abbiano avanzato obiezioni al tempo stesso così poco fondate e così tanto dannose? E, ancora una volta, molto probabilmente la verità è che non c’è una risposta univoca, ma piuttosto un insieme di fattori, che poi sono sempre più o meno i soliti: mania di protagonismo, voglia di compiacere il pubblico, tendenza a uscire dal proprio ambito di competenza, rivalità personali, desiderio di enfatizzare i meriti delle proprie proposte denigrando quelle altrui, sudditanza psicologica verso il “pandemically correct”, rifiuto di riconoscere i propri errori e via dicendo.

Mi sembra tuttavia che ci sia anche un altro fattore, che in realtà è presente da tempo nella nostra società, ma in questo caso specifico tende a emergere con maggiore evidenza: si tratta della pretesa di abolire il rischio dalla vita (e non solo di contenerlo entro limiti ragionevoli), che da molto tempo ritengo essere il vero “peccato originale” della modernità (cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, Mimesis 2011, anche se consiglio di far riferimento alla 2a edizione ampliata del 2019). Alcuni ulteriori elementi che confermano questa tesi con riferimento specifico alla campagna vaccinale si possono trovare nella lettera del Dottor Paolo De Bonfioli Cavalcabo appena pubblicata su questo sito, che ho trovato interessantissima.

Cercherò di tornare su ciò in modo più sistematico e dettagliato quanto prima. Infatti, riflettere su come una pretesa così palesemente irragionevole abbia potuto diventare addirittura il principio guida di un’intera civiltà ci aiuterà a capire meglio anche qual è la radice ultima della disastrosa gestione del virus in Occidente e qual è il punto da cui dobbiamo ripartire se vogliamo evitare che una cosa simile possa ripetersi di fronte a qualche altra futura emergenza, il che molto probabilmente causerebbe il definitivo collasso del mondo come lo conosciamo (ammesso e non concesso che non accada già stavolta).

(Ringrazio il mio amico e collega Alberto Vianelli, biologo dell’Università dell’Insubria, per l’utile scambio di idee a proposito di alcuni punti trattati in questo articolo)




Il pass vaccinale

Dalla prossima settimana, ne possiamo star certi, quello del pass vaccinale diventerà il nostro pensiero perenne. L’obiettivo del governo, infatti, è piuttosto chiaro: massimizzare il numero di persone che, grazie al pass, possono contribuire alla ripartenza dell’economia consumando, spostandosi, partecipando ad eventi culturali, ricreativi e sportivi. Siamo entrati, infatti, in una fase in cui i timori di perdere il treno dell’economia prevalgono nettamente sulla preoccupazione di limitare il numero di morti e di malati. E questo per tre solidi motivi: la maggior parte degli indicatori dell’epidemia sono in ritirata (per ora), il danno inflitto all’economia da 6 mesi di chiusure è divenuto insostenibile, i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è nettamente schierata a favore delle riaperture, e terrorizzata dal rischio di mettere a repentaglio le vacanze estive.

In questo quadro, il pass vaccinale sta diventando il santo Graal cui ognuno aspira per riconquistare la normalità perduta. Non entro nel merito della sensatezza di questa corsa al pass, né sul realismo delle previsioni ottimistiche che politici, medici e mass media stanno dispensando in queste settimane, contro il cupo ma non irragionevole pessimismo dei Galli e dei Crisanti. Quel che vorrei invece domandarmi è: ammesso che la ritirata dell’epidemia prosegua, e non capiti di dover richiudere tutto fra qualche settimana, come potrà funzionare il pass vaccinale?

Qui io vedo almeno tre problemi, che sarà bene affrontare e risolvere per non essere travolti dal caos.

Primo: che cosa è il pass?

Finora si è solo detto che, per muoversi liberamente o accedere a determinati eventi pubblici, si dovrà essere in possesso di almeno uno di tre requisiti: certificato di guarigione dal Covid, certificato di vaccinazione, certificato di negatività a un test molecolare o antigenico (rapido) rilasciato nelle ultime 48 ore. A me pare che solo i primi due certificati (essere guariti dal Covid, essere vaccinati) possano ragionevolmente venir inclusi in un pass, ossia in un documento che – tendenzialmente – ha una durata di almeno qualche mese. Pretendere di includere nel pass anche l’eventuale esito negativo di un test appena effettuato comporterebbe ripetute operazioni di aggiornamento del pass stesso, con conseguente inferno burocratico-informatico.

Secondo: chi e come rilascia il pass?

Posto che le informazioni necessarie per emettere il pass sono già in possesso della Pubblica Amministrazione (in particolare: delle Asl e dei medici di famiglia), sarebbe logico che fossero le autorità sanitarie a rilasciare il pass, o recapitandolo (per via postale o informatica) a tutti coloro che hanno titolo per averlo (guariti e/o vaccinati), o permettendo di scaricarlo da un sito sulla base della semplice digitazione dei propri identificativi anagrafici. Se non si farà così, o si introdurranno capziose complicazioni “a tutela della privacy” (SPID, password, ecc.), possiamo star certi che nessuno ci eviterà anche questo ulteriore inferno burocratico-informatico.

Terzo: che cosa certifica il pass?

Qui c’è una notevole confusione, perché si tende a pensare il funzionamento del pass come quello di un semaforo: disco verde se ce l’hai, disco rosso se non ce l’hai.

E’ un grave errore logico. E’ certo che il pass conterrà delle date (di guarigione e di vaccinazione), ed è estremamente probabile che contenga delle informazioni sul tipo di vaccino ricevuto. I vari vaccini, infatti, non solo non assicurano la medesima protezione, ma potrebbero – sulla base di nuove evidenze scientifiche – essere giudicati non equivalenti quanto a durata dell’immunità, rischio di trasmissione, resistenza alle varianti. Questo significa che due persone, pur entrambe dotate del pass, potrebbero avere gradi di libertà molto diversi in funzione di quando e come (con quale vaccino) si sono vaccinate.

Dunque il pass sarà, inevitabilmente, un documento che – a seconda dell’evoluzione dell’epidemia, delle conoscenze scientifiche e delle decisioni dei governanti – stratificherà la popolazione in classi di rischio diverse. Anche trascurando il problema dell’anzianità di vaccinazione (da quanto tempo ci siamo vaccinati), già oggi si stanno delineando 5 grossolane classi di rischio:

A2 = vaccinati Pfizer o Moderna con 2 dosi

A1 = vaccinati Pfizer o Moderna con 1 dose

B2 = vaccinati AstraZeneca con 2 dosi e vaccinati Johnson&Johnson

B1 = vaccinati AstraZeneca con 1 dose

C   = non ancora vaccinati.

E’ comprensibile che le autorità sanitarie, supportate dai medici più sensibili alle istanze governative, si affannino a dire che l’importante è essere vaccinati, non importa con che vaccino, e se con 1 o 2 dosi. Lo scopo di questa campagna di (pseudo-) informazione è infatti quello di massimizzare il numero di persone che si sentono al sicuro, così favorendo la ripartenza dell’economia. E la campagna funziona: già oggi, se non si distingue fra classi vaccinali, e si aggiungono i guariti dal Covid, il messaggio che la politica è in grado di veicolare è che gli italiani al riparo del virus sono circa 1 su 3 (18 milioni di vaccinati almeno una volta, più circa 2 milioni di guariti non vaccinati).

Ma occorre anche non dimenticare due cose. Innanzitutto, che il pubblico non è stupido, e un vaccinato con 2 dosi di Pfizer sa benissimo di essere più al sicuro di un vaccinato con 1 sola dose di AstraZeneca. E, in secondo luogo, che cercare di nascondere questa differenza, come spesso i politici e i medici-politici tendono a fare, può rivelarsi un boomerang. Più ci autoconvinceremo di essere protetti quando ancora non lo siamo abbastanza, più alto sarà il rischio che l’epidemia obbedisca alle fosche previsioni di Galli e Crisanti, secondo cui fra qualche settimana l’aumento dei morti ci costringerà a richiudere tutto.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 maggio 2021




Indice DQP: per la pseudo-immunità di gregge (70% di vaccinati) dobbiamo aspettare agosto 2021

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

13 marzo 2021: “È stata considerata una progressione della capacità vaccinale dalle 170 mila somministrazioni medie giornaliere (registrate dal 1 al 10 marzo) fino ad almeno 500 mila entro il mese di aprile” (Piano vaccinale del Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19). In base al nuovo Piano vaccinale si dovrebbe arrivare a raggiungere il 70% di copertura vaccinale a fine agosto.

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia. Per calcolare la percentuale di vaccinati necessaria (Vc) per avviare il processo di estinzione dell’epidemia occorre conoscere il valore di R0 (velocità di trasmissione in condizioni di normalità) e il valore di E (efficienza media dei vaccini, intesa come capacità di bloccare la trasmissione):

Vc = (1-1/R0)/E

Poiché R0 ed E dipendono dal tipo di varianti presenti in un determinato paese in un dato momento, nonché dalle caratteristiche dei vaccini, nessuno è attualmente in grado di indicare la soglia per l’immunità di gregge. Se E è troppo basso, il valore di Vc supera 1, il che significa che nemmeno vaccinando tutti si ottiene l’immunità di gregge.

Ecco perché la soglia del 70% da noi utilizzata NON è quella che garantisce l’immunità di gregge (e che è sconosciuta), ma è semplicemente la quota realisticamente raggiungibile in un paese come l’Italia, in cui non si possono vaccinare i più giovani (perché manca il vaccino), e una parte degli adulti non intende vaccinarsi.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere una copertura del 70%?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

A metà della diciannovesima settimana del 2021 (mercoledì mattina, 12 maggio) il valore di DQP è pari a 16 settimane, il che corrisponde al raggiungimento della pseudo-immunità di gregge non prima del mese di agosto del 2021.

Il valore del DQP è rimasto sostanzialmente stabile rispetto a quello della settimana scorsa.

Il numero di vaccinazioni settimanale è in linea con gli obiettivi delle autorità sanitarie (70% di vaccinati entro agosto 2021). Nell’ultima settimana sono state somministrate più di 3 milioni di dosi, circa 450 mila al giorno, poco meno delle 500 mila dosi previste dal piano vaccinale (l’obiettivo delle 500 mila somministrazioni giornaliere è stato raggiunto soltanto per tre giornate consecutive, fra il 6 e l’8 maggio).

Nel caso in cui si decidesse di utilizzare soltanto vaccini che prevedono una seconda somministrazione, occorrerebbero 3 settimane in più. “Di questo passo” la pseudo-immunità di gregge verrebbe raggiunta in 19 settimane, non prima di metà settembre del 2021.


Nota tecnica

Le stime fornite ogni settimana si riferiscono ai 7 giorni precedenti e si basano sui dati ufficiali disponibili la mattina del giorno in cui viene calcolato il DQP (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione completa procedendo “Di Questo Passo”.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni settimana, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “Di Questo Passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 3 parametri:

  1. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana considerata;
  2. quante vaccinazioni erano già state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  3. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa su due ipotesi ottimistiche, e precisamente:

  • l’obiettivo è solo di vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano in modo completo una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Lettera sulla cattiva gestione della pandemia

“Quando la prudenza è ovunque il coraggio non è da nessuna parte”
Cardinale Mercier

Caro professor Ricolfi,

in riferimento al suo articolo del 25/4 sul perché non sia stato fatto ciò che ragionevolmente andava fatto per combattere la pandemia, che lei spiega con la superbia e la sordità dei governanti e con la loro incapacità di imparare dagli errori fatti, vorrei suggerirle uno spunto di riflessione diverso.
Anch’io mi arrovello per cercare di spiegarmi scelte, decisioni e comportamenti inspiegabili e alla fine mi sono convinto che almeno una parte in tutto questo ce l’ha l’ostinata “avversione al rischio” della nostra società, dei nostri tempi.

Io sono un medico di base e quindi sulle notizie monotone dell’ultimo anno e mezzo ho sia le conoscenze teoriche che la conoscenza diretta di quello che succedeva per poter fare delle valutazioni affidabili. Ho vissuto il disorientamento dei medici e dei pazienti con i primi casi, ho lavorato e continuo a farlo nelle USCA e ho visto il lento sedimentarsi di procedure efficaci, ho battagliato con strutture burocratiche (uffici di igiene ecc.) assolutamente inadeguati e incapaci di modificarsi, ho affrontato con i pazienti i mille problemi, e spesso errori clamorosi, nei certificati di quarantena, nelle richieste dei tamponi e così via,  ho fatto i vaccini e ho visto come vengono fatti dai colleghi e dai cosiddetti hub, insomma posso abbastanza seriamente definirmi un “esperto” di questa faccenda.

Molte cose non tornavano, nelle scelte dei governanti, nelle rivendicazioni degli operatori, nelle dispute scientifiche e, a copertura di tutto questo, nell’informazione scandalosamente unidirezionale (e spesso fuorviante ad arte) che è stata data. Ed è stata proprio questa univocità dell’informazione, da regime anche se non c’è un regime, che mi ha fatto pensare che una parte importante nelle scelte prese ce l’ha avuta una mentalità prevalente su tutto che è l’esagerata avversione al rischio che permea tutta la nostra società.

All’inizio c’è stata soprattutto l’avversione al rischio di ammalarsi, che ha fatto chiudere la maggior parte degli studi medici (con l’avvallo stupefacente del ministero della salute che non voleva essere accusato di “mandare al macello” i medici, pensi un po’ come avrebbero fatto con questa mentalità a spengere la centrale di Cernobyl…). Poi accanto a questa è comparsa una marea di burocrazia con una gara a chi metteva più regole (sempre per tutelare le persone ovviamente!), pensi alla saggia decisione di liberare dalla quarantena dopo massimo 21 giorni i guariti che ancora risultano positivi al tampone subito contraddetta da una regola più “protettiva” del (credo) ministero del lavoro (o forse un successivo DPCM…) che impediva il ritorno al lavoro finché non si ha un tampone negativo (questo vuol dire per esempio che un dipendente di un supermercato può tranquillamente andare lì a fare la spesa ma non a lavorare (non si dica mai che i nostri governanti facciano esporre al rischio i lavoratori e che i sindacati gli piantino una grana).

Le faccio un ultimo esempio: le vaccinazioni. A parte i primissimi tempi in cui era d’obbligo una maggior cautela, da marzo – aprile quando hanno cominciato a darli anche ai medici di famiglia ormai era noto che non sono vaccini più pericolosi di quello per l’influenza (e comunque quei rarissimi casi di complicazioni non si possono prevedere prima). Eppure questa vaccinazione è stata resa farraginosa da una burocrazia ipertrofica (si figuri che nel consenso informato che ci ha fornito l’Asl per vaccinare gli ultraottantenni, per le donne bisognava barrare anche la casella se erano incinta o allattavano) per cui molti miei colleghi si sono spaventati (rischi di avere grane burocratiche o legali, si torna sempre lì) e ne hanno fatti pochissimi. Soprattutto non ne hanno fatti a domicilio, che pure in quella fascia di età è a volte necessario. All’inizio era un avvertimento della ditta produttrice (Pfizer) che per somma cautela avvertiva che non era stata sperimentata l’efficacia del vaccino con il trasporto dopo la diluizione (sono molecole instabili e poteva essere); alla fine di marzo è arrivato il comunicato Pfizer che si poteva trasportare senza problemi. A me sembrava sufficiente per cui io ho cominciato a farli anche a domicilio ma il coordinatore dei medici della nostra zona in una riunione ha diffidato tutti dal farlo finché non ci fosse stata una dichiarazione ufficiale da parte della Regione Toscana (ma le pare possibile che un medico debba avere un’autorizzazione da parte di un funzionario della regione per fare una cosa che a quel punto era scritta a chiare lettere nel bugiardino del vaccino se non per la solita esagerata prudenza?). Risultato: la maggior parte dei vaccini a domicilio li ha dovuti fare l’Asl con altri medici e infermieri e sa quanti riescono a farne? Sei in sei ore (un medico con un infermiere più un altro medico che passa le giornate al telefono per fissare gli appuntamenti). Mostruosamente inefficiente ma nessun rischio, burocratico ovviamente, perché le complicanze vere, quelle sono identiche anche se ne fanno una al giorno.  Chi emana queste regole non vuole rischiare di essere considerato poco attento alla sicurezza dei suoi dipendenti e dei pazienti e di prendersi una denuncia o un rimbrotto dai suoi superiori sempre per lo stesso motivo e così via fino al ministro della sanità che oltre alle denunce della magistratura teme anche di scontentare i suoi elettori che ormai sono abituati a pretendere un bassissimo livello di rischio.

Cosa è successo negli ultimi anni per produrre questo atteggiamento? Molte leggi a protezione della salute, degli infortuni, della privacy sono giuste ma mi sembra che siano usate oltre la loro necessità e soprattutto in questo caso sembrano più forti dell’emergenza.  Sono i social media che fanno lievitare le paure? Sono i colossi del web che agiscono da persuasori occulti per renderci insicuri affinché sempre più viviamo nel web? Ho solo delle idee vaghe e confuse ma sento che quello che è successo con questa pandemia non si spiega solo con “la superbia e l’arroganza dei governanti e la loro incapacità di imparare dagli errori” che pur ci sono.




COVID-19 e vaccini: un po’ di domande “impertinenti” all’immunologo De Berardinis (CNR)

Quando si parla della pandemia o dei vaccini anti-COVID, le questioni “spinose” che si vorrebbe discutere in modo aperto con uno specialista sono davvero numerose. Grazie alla sua grande disponibilità – ed avendo nel frattempo messo da parte diverse domande – ho potuto farlo con uno dei maggiori esperti italiani del settore, che ringrazio: Piergiuseppe De Berardinis, direttore del Laboratorio di immunologia presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR, che in questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista sperimentale che divulgativo.

D.: Dottor De Berardinis, come in una sorta di “partita a scacchi con il virus”, non poteva certamente mancare, dopo la variante Inglese, una variante Indiana, che analogamente a quella Sudafricana presenta due diverse mutazioni. Ciò mi ricorda un po’ il film Wargames, dove il computer tenta di indovinare, un carattere dopo l’altro, il codice di lancio dei missili balistici, ed è solo questione di tempo perché vi riesca. Nel caso del SARS-CoV-2, però, ciò potrebbe significare rendere d’un colpo inutili i vaccini attuali, che non sono “universali”, bensì rivolti tutti verso la famosa proteina Spike. Come vede, da immunologo, questo rischio, cogliendone certamente meglio di un “non addetto ai lavori” gli aspetti sia qualitativi sia quantitativi?

Il Dr. Piergiuseppe De Berardinis insieme ad alcune ricercatrici del Gruppo che coordina presso il CNR.

R.: C’è un gioco molto popolare in Giappone che si chiama “Acchiappa la talpa” e consiste nel cercare di colpire con un martello le talpe che appaiono in modo casuale nel tabellone. È reale il timore che per contrastare la lotta alle varianti la comunità scientifica dovrà partecipare a questo gioco. C’è da dire che i dati finora ottenuti indicano che i vaccini che si stanno somministrando hanno la capacità di indurre anticorpi protettivi nei confronti delle varianti come quella inglese nella totalità dei casi, ma anche nei confronti delle varianti brasiliana e sudafricana. Ci auguriamo, pertanto, che sia così anche per la variante “indiana” che ricordiamo presenta (anche se in unico ceppo) due mutazioni già presenti  in  altre varianti. In ogni caso l’insorgenza delle varianti ci fa capire quanto sia urgente e di fondamentale importanza assicurare una vaccinazione globale nei tempi più brevi possibili allo scopo di limitare la circolazione virale.

Inoltre, come già anticipato nella domanda, un obiettivo primario per la comunità scientifica resta la realizzazione di un vaccino in grado di proteggere contro diversi coronavirus e, in prospettiva, anche nei confronti di quelli che potranno emergere nei prossimi anni. Un tale vaccino, a detta di chi lavora sul campo, sembrerebbe alla portata  nei prossimi anni per proteggere contro l’infezione,  se non  di tutti i coronavirus,  perlomeno  contro quelli del sottogruppo “sarbecovirus” a cui appartengono i virus SARS-CoV-2 e SARS-CoV. Infatti, a dispetto di molti aspetti ancora ignoti, il rapido successo dei vaccini anti SARS-CoV-2 ha sparso ottimismo. Il coronavirus non sembra difficile da combattere con un vaccino, a differenza di altri patogeni come il virus  HIV-1 o lo stesso virus dell’influenza.

Il razionale per tali vaccini pan-coronavirus si basa principalmente sulla presenza di sequenze conservate nei differenti virus (come sequenze di RNA in virus isolati dal pangolino e da diversi pipistrelli, o domini conservati nella proteina “spike” di molti coronavirus che infettano l’uomo). In questo ambito, diversi gruppi di ricerca stanno già lavorando in varie parti del mondo alla formulazione di vaccini basati su:  “mosaic vaccines”, proteine spike chimeriche, costruzione di nanoparticelle che assemblano RNA di diversi betacoronavirus e cocktails di virus inattivati.

C’è infine da dire che, su questa tematica, l’opinione della comunità scientifica è quasi radicalmente mutata in questi ultimi mesi. Nel 2017 l’agenzia statunitense che sovraintende e finanzia le ricerche sui vaccini – il “National Institute of Allergy and Infectious Diseases” (NIAID) diretto da  Anthony Fauci – giudicò di bassa priorità la richiesta di un finanziamento per un vaccino pan-Beta coronavirus (a quel tempo si parlava principalmente dei virus SARS-CoV e MERS). Ma, nel novembre 2020, l’Agenzia ha modificato il suo giudizio, sollecitando l’accettazione di finanziamenti per ricerche in condizioni di Emergenza. Inoltre, a marzo 2021 un’altra organizzazione sovranazionale, denominata CEPI (Coalition for Epidemic Prepardness Innovations) ha annunciato di finanziare con 200 milioni di dollari un nuovo programma per vaccini anti pan-betacoronovirus. È, d’altronde, opinione di molti esperti che nei prossimi 10-50 anni potremo verosimilmente assistere all’insorgere di nuove infezioni pandemiche causate da coronavirus.

D.: Il vaccino Astrazeneca – e pare non solo quello – ormai sappiamo in modo statisticamente abbastanza affidabile che produce dei trombi, almeno in alcune persone. Come è possibile che nessun soggetto terzo e indipendente rispetto ai produttori – come ad esempio il CNR – non abbia iniziato a esaminare, in un piccolo campione di vaccinandi, i livelli ematici, pre- e post-dose somministrata degli indicatori del livello di coagulazione del sangue e magari di altri parametri, al fine di capire se si tratti di un fenomeno comune (al di là dei casi in cui si manifesta in modo rilevante, che potrebbero rappresentare solo la punta dell’iceberg)? Cosa ne pensa? E lo suggerirebbe alle Autorità Sanitarie, visto che l’AIFA non lo fa?

R.: Sulle problematiche relative al vaccino Astrazeneca le autorità decisionali dei vari paesi hanno assunto una posizione non ben definita e basata più che altro sulla cautela e sull’attesa. Analogamente, il Comitato Tecnico-Scientifico del nostro paese non ha assunto, perlomeno inizialmente, una chiara linea di condotta e di conseguenza l’Autorità politica ha proceduto un po’ alla cieca. Oramai, nella terminologia scientifica relativa al COVID-19 è entrato l’acronimo VITT (Vaccine-induced Immune Thrombotic Thrombocytopenia). Si è chiaramente dimostrata la presenza, nel siero dei pazienti colpiti da tromboembolia piastrinopenica, di anticorpi contro il fattore piastrinico 4 (pF4).

È stato inoltre dimostrato, in studi in vitro su vaccini adenovirali, che l’aggiunta di pF4 e/o di anticorpi anti-pF4 aumenta la grandezza delle particelle di vaccino e che in questi aggregati le proteine pF4, le proteine capsidiche del vettore adenovirale e le piastrine sono strettamente connesse. Tuttavia, a tutt’oggi manca un evidenza diretta ex vivo o tramite studi di anatomia patologica del coinvolgimento diretto dei vettori adenovirali nella formazione dei trombi nei pazienti che hanno sofferto di questi gravi effetti indesiderati.

C’è infine da dire che anticorpi anti-pF4 sono presenti anche nel siero di individui a cui è stata somministrata la vaccinazione a mRNA. Tuttavia, nel vaccino Astrazeneca è stato rinvenuto anche l’eccipiente EDTA, che può  causare nello 0,1-2% dei campioni di sangue il “clumping” in vitro delle piastrine, un fenomeno noto come “EDTA dependent-Pseudothrombocytopenia” (EDTA-PCTP). C’è, pertanto, chi suggerisce di effettuare questa analisi ed escludere dalla vaccinazione con Astrazeneca chi risultasse positivo al test in vitro per EDTA-PCTP.

In sostanza, in un contesto ancora incerto, ci sarebbe bisogno di ricevere chiare linee guida sulla necessità e il tipo di esami di laboratorio da eseguire. Questo deve essere un compito dell’Autorità sanitaria di riferimento, a cui nessuno dovrebbe sostituirsi onde evitare ulteriore confusione e sconcerto nella popolazione. Con questo non voglio assolvere il CNR, la cui capacità di rispondere all’emergenza ponendo le proprie strutture al servizio del paese è stata nulla o debolissima, come ho avuto occasione di dire in altri contesti. Il CNR è stato praticamente senza una guida scientifica fino a qualche settimana fa, quando il ministro competente ha nominato il nuovo Presidente, sul cui operato tutti noi Ricercatori e Tecnologi nutriamo molte aspettative.

D.: In occasione dell’epidemia di SARS del 2002-03, in cui non fu possibile usare i vaccini per i problemi incontrati nel loro sviluppo e perché nel frattempo il problema era stato risolto usando contromisure “classiche”, se non sbaglio l’immunità naturale nei soggetti contagiati durò un tempo molto lungo: 2-4 anni. Dato che i vaccini attuali sembrano essere molto più potenti, in quanto a immunità indotta, rispetto a quella naturale – sia nei casi sintomatici sia, a maggior ragione, in quelli sintomatici o pauci-sintomatici – secondo lei è ragionevole supporre che, salvo sorprese relative a nuove varianti, almeno per chi si è vaccinato con i vaccini più protettivi possa non essere necessario un richiamo dopo un solo anno?  

R.: Qui entriamo nel campo delle ipotesi e le risposte certe solo il tempo sarà in grado di darle.

Il problema è ovviamente connesso alla persistenza endemica del virus nei prossimi mesi o, più pessimisticamente, a nuove ondate di infezione in una popolazione non coperta dalla vaccinazione e all’emergere di altre varianti. Per quanto riguarda la durata dell’immunità protettiva dobbiamo considerare  una possibile variabilità individuale e anche una variabilità indotta dai differenti tipi di vaccini somministrati, che al momento risultano tutti protettivi. Io non penso che si possa sostenere oggi con certezza la necessità di un secondo percorso di vaccinazione, ma è sempre meglio prepararsi a questa eventuale evenienza.

D.: Se si va a vedere nei rapporti dell’AIFA il tasso di effetti avversi segnalati per i vaccini anti-COVID in funzione dell’età dei vaccinati, si scopre che, diversamente da quanto l’uomo della strada potrebbe pensare, esso è maggiore nei giovani che non negli anziani. Suppongo che ciò avvenga perché l’effetto del vaccino si somma alla risposta immunitaria naturale, che è notoriamente massima nei giovani e decresce con l’età, fino a raggiungere il minimo negli anziani. Si tratta di una lettura corretta? E, in tal caso, non sarebbe opportuno dare ai giovanissimi una dose minore di vaccino (evidentemente per loro “sovradimensionato”), come si fa per alcuni farmaci, la cui dose consigliata è proporzionale al peso corporeo?  

R.: Penso che adottare una somministrazione personalizzata dipendente dall’età, dal peso corporeo come anche dalle condizioni di salute, di capacità di risposta immunitaria o metabolica di ciascuno di noi è qualcosa di futuribile, che rientra nel campo della medicina di precisione e della medicina personalizzata. Pensare di attuare simili pratiche in una campagna di vaccinazione di massa lo ritengo molto difficile. D’altronde stiamo parlando di effetti indesiderati di lieve entità.

D.: Il principale vaccino italiano in corso di sviluppo, ReiThera, essendo a vettore virale Come Astrazeneca, Johnson&Johnson e Sputnik, rischia di finire in un “cul de sac”, travolto dalla scelta europea di privilegiare i più tecnologici e moderni vaccini a mRNA messaggero. Sebbene questi ultimi abbiano il non trascurabile vantaggio di essere aggiornabili rapidamente in caso di nuove varianti del virus, non trova assurdo rinunciare a mesi di lavoro già fatto solo per l’errata comunicazione del rischio relativa ai vaccini a vettore virale? E cosa pensa dell’idea dell’UE di rinnovare gli accordi di fornitura fino al 2023 per vaccini a mRNA, quando invece dovremmo puntare a vaccini “universali” (che nel frattempo vi saranno)?  

R.: Indubbiamente i vaccini a mRNA sono quelli di più nuova concezione e, a oggi, quelli che hanno risposto meglio in termini di protezione e assenza di effetti indesiderati gravi. Resta il problema, per questi vaccini, della catena del freddo. In questo campo le ricerche stanno progredendo e la stessa Pfizer ha iniziato un trial clinico utilizzando un vaccino stabilizzato mediante liofilizzazione. Si tratta di un procedimento costoso, e al contempo altre strategie vengono perseguite, come l’alterazione delle particelle lipidiche che proteggono e custodiscono le molecole di RNA, in modo da rendere il preparato stabile a temperature meno stringenti. È ipotizzabile ritenere che, per le prossime pandemie, potremo anche avere  un vaccino a mRNA  che non necessiti della catena del freddo.

Non trovo pertanto sbagliato che  per il futuro si punti in modo particolare su questa piattaforma, anche per la formulazione di vaccini cosiddetti universali. D’altronde, da notizie apparse sulla stampa ho appreso che anche ReiThera, a cui è stato assegnato il compito di formulare e produrre un vaccino “italiano”, abbia dichiarato di volersi orientare verso questa nuova tecnologia. Per dirla tutta, personalmente non credo che sia facilmente attuabile una riconversione così immediata e non credo neanche che sia giusto dover investire in un vaccino cosiddetto italiano. Credo invece nella necessità di investire risorse pubbliche nella ricerca e produzione di vaccini, ma penso che ciò vada fatto in un contesto europeo in cui l’Italia con le sue strutture e le sue capacità professionali abbia un ruolo di protagonista.

Questa è una scelta che spetta alla politica congiuntamente ai vertici delle nostre Istituzioni di Ricerca e che spero venga fatta. D’altra parte, ritengo che questa sia un’esigenza condivisa anche da altri paesi europei.  Ad esempio la Francia si trova in  condizioni  simili alle nostre. Dopo l’annuncio, nei mesi scorsi, da parte del direttore scientifico dell’istituto Pasteur Christophe D’Enfert di aver abbandonato lo sviluppo di un vaccino anti-COVID-19, ve ne è stato uno, più recente, di voler di nuovo investire sullo sviluppo e sulla produzione di vaccini utilizzando le piattaforme più innovative.

Anche in Francia si lamenta che quest’“impasse” sia non solo la conseguenza di problemi strutturali dovuti al peso burocratico esercitato sulla ricerca biomedica pubblica e privata, ma anche della riduzione dei finanziamenti. Nel numero della rivista Science del 23 aprile è riportata una tabella indicativa della contrazione delle spese in campo Biomedico in Francia tra il 2011 e il 2018,  che risulta essere del 28%, a fronte di un incremento in altri paesi, come la Germania o il Regno Unito. È importante far presente che, dalla stessa tabella, si evince che la contrazione per l’Italia – che già partiva da un investimento minore – è stata, negli stessi anni, del 39%.

D.: Se si fa una ricerca su Google digitando le due semplici parole “COVID CNR”, si ottiene un risultato abbastanza sorprendente: nelle prime quattro pagine di news, al di là delle previsioni indipendenti del matematico Giovanni Sebastiani (IAC-CNR), di un articolo sul contact tracing pubblicato su Nature e di uno studio CNR-ISS-INMI sull’utilizzo di interferone beta per la cura domiciliare dei pazienti COVID-19, il suo Ente di ricerca pare molto assente, specie sul versante vaccini, nonostante il polo di 2 Istituti in cui lavora sia un fiore all’occhiello in questo campo. Perché il CNR non è più coinvolto, soprattutto nello sviluppo di un vaccino anti-COVID, cosi importante per l’indipendenza da Paesi terzi e aziende?     

R.: Non posso che essere d’accordo sull’analisi dello stato del CNR che c’è nella sua domanda. Posso anche assumere una quota di colpe – come ricercatore CNR – per l’ incapacità a eccellere in questo campo della ricerca. Tuttavia, ritengo che le responsabilità maggiori siano a carico di chi ha governato il CNR indirizzando e promuovendo la sua attività scientifica negli anni  passati e più o meno recenti, e che da ultimo non ha posto le condizioni affinché anche il CNR potesse dare un contributo alle più importanti ricerche sul COVID-19.

Per quanto riguarda i vaccini COVID, purtroppo Il CNR si è prestato al ruolo di “Bancomat” ministeriale, dirottando 3 milioni di euro ad un accordo con Regione Lazio e Istituto Spallanzani volto a finanziare il vaccino della ReiThera, senza nessun coinvolgimento dei propri ricercatori. Mi duole aggiungere che, all’inizio dell’emergenza COVID, il CNR ha allestito una cabina di regia costituita esclusivamente da dirigenti amministrativi, ad eccezione di un direttore d’istituto con specifiche competenze in virologia e non in rappresentanza della comunità scientifica. Ciò ha determinato un blocco della ricerca, relegando gran parte delle attività di Ricerca in “lavoro agile”.

D.: Secondo uno studio uscito a marzo, svolto dall’Ospedale Niguarda di Milano in collaborazione con l’Università di Milano, il 98,4% dei circa 2.500 sanitari vaccinati (tra gennaio e febbraio con due dosi) presso tale ospedale è risultato immunizzato contro il COVID-19, ma l’1,6% no. Si trattava, a quanto pare, di 4 persone immunodepresse, con trascorso di trapianti o patologie che implicano l’uso di farmaci che inibiscono la naturale risposta immunitaria, per cui hanno sviluppato un livello di anticorpi molto basso, nettamente inferiore rispetto al resto della popolazione. La domanda sorge quindi spontanea: come si devono proteggere soggetti simili, posto che l’immunità di gregge pare essere una chimera?

R.: Esistono, in questo caso, delle chiare linee guida reperibili nel portale del Ministero della Salute che riguardano in particolare le raccomandazioni per le persone immunodepresse. Anche riguardo all’accesso alle vaccinazioni le indicazioni del Ministero della Salute sono chiare. Infatti, secondo il piano strategico le persone con immunodeficienza o in trattamento con farmaci immunomodulatori devono essere vaccinati nelle prime fasi. Aggiungo che, a tutt’oggi, non è stata riportata nessuna infezione severa nei soggetti vaccinati e pertanto si spera che un minimo di protezione si instauri anche in individui immunodepressi. In linea generale, come sottinteso nella sua domanda, questa fascia della popolazione è quella che dovrebbe maggiormente beneficiare dell’“effetto gregge” determinato dalla vaccinazione di massa.

D.: Il professor Andrea Gambotto (Università di Pittsburgh, Pennsylvania), uno scienziato italiano trapiantato negli USA, dove è ricercatore di punta di un centro di eccellenza, è stato il primo studioso a individuare, nel 2003, la proteina “spike” come bersaglio dei vaccini anti-coronavirus. Il suo studio del 2003 pubblicato su Lancet è infatti stato il primo in letteratura sul tema, ma all’epoca nessuno finanziò i trial clinici sull’uomo, altrimenti avremmo avuto subito un vaccino efficace contro il SARS-CoV-2. In compenso, grazie all’attuale “corsa ai vaccini”, contro qualsiasi nuovo coronavirus che emergerà in futuro da un serbatoio animale, la prossima volta dovremmo essere assai più pronti. O non è detto?  

R.: Lo spero ardentemente e ricordo il noto aforisma dello studioso che ha rivoluzionato la Scienza (Louis Pasteur, ndr), aprendo la strada della vaccinologia: “La fortuna favorisce le menti preparate”.

D.: Secondo una dottoressa laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche che ha lavorato per vent’anni nell’industria farmaceutica, i vaccini anti-COVID sintetizzati usando linee cellulari immortalizzate (ad es. Astrazeneca) sono potenzialmente pericolosi sul lungo termine poiché, se rimangono residui di lavorazione nel vaccino, potrebbero innescare cancerogenesi. In effetti, Astrazeneca usa la linea cellulare HEK-293. È già stata usata per produrre precedenti tipi di vaccini? Quali tecniche di purificazione, fra le varie possibili, sono state usate per Astrazeneca (io non le ho trovate)? Non crede che debbano essere condotte analisi da terze parti per verificare, magari a campione, la totale assenza di tali cellule nei vaccini prodotti? 

R.: Sono d’accordo sull’importanza di conoscere in dettaglio le composizioni dei preparati vaccinali e la necessità di analisi terze. In un articolo ancora in preprint ed a cui ho fatto riferimento in una precedente risposta parlando di VITT, Andrea Greinacher et al. hanno identificato, mediante spettrometria H-NMR, alcuni additivi presenti nel vaccino Astrazeneca, come ad esempio EDTA, saccarosio ed istidina. Nello stesso preprint è riportato come la preparazione del vaccino comporti un trattamento con nucleasi per ridurre la contaminazione del DNA delle cellule packaging HEK-293. Essendo, se pur remoto, ipoteticamente possibile il rischio di integrazione cromosomica del DNA dei vettori adenovirali, tale rischio potrebbe aumentare utilizzando DNA in cui ci fossero rotture della doppia elica. È tuttavia doveroso dire che tali integrazioni non sono mai state dimostrate negli studi preclinici e clinici finora effettuati.

D.: Il virologo e grande esperto di vaccini Geert Vanden Bossche (che ha lavorato per OMS, FDA, CDC, GAVI, Bill e Melinda Gates Foundation, etc.) è assai preoccupato: fare una vaccinazione di massa a pandemia in corso con vaccini “non sterilizzanti”, oltre a rischiare di creare una variante che “bypassi” i vaccini attuali, ha un’altra importante conseguenza: la soppressione temporanea del baluardo contro questo virus costituito dall’immunità naturale “innata”, cosa assai problematica (specie fra i più giovani), poiché renderebbe addirittura controproducente l’immunità artificiale indotta dagli attuali vaccini, che è solo “proteina spike-specifica”, il che rischierebbe di causare un’ecatombe. È d’accordo con la sua analisi?

R.: Sono in completo disaccordo con queste affermazioni. Basterebbe ricordare i 50 milioni di morti della pandemia “Spagnola” del 1918, che colpì un mondo meno interconnesso e meno densamente popolato di quello attuale. I dati che emergono da paesi come Israele, Regno Unito e Stati Uniti, in cui le vaccinazioni hanno coperto un maggior numero di persone, indicano una netta riduzione di mortalità. C’è oramai un generale consenso, da parte degli epidemiologi, sulla necessità di vaccinare prima la popolazione anziana ed a rischio di malattia grave. La risposta ai vaccini risulta essere policlonale e, sebbene limitata alla proteina spike, aumenta di fatto il repertorio della risposta anticorpale rispetto all’infezione naturale. Credo che si debba continuare con la vaccinazione di massa, estendendola a tutte le fasce di età ed a tutti i paesi del globo.