Il ritorno delle pellicce

Tutto è cominciato quando una sera, camminando per le vie di una certa città, noto un negozio che in vetrina espone cappotti di pelliccia. Pellicce, classiche: visoni, marmotte, castori, castorini… Mi dico: ma guarda come siamo arrivati ad imitarle bene! Invece no, leggo meglio un cartello e scopro che sono pellicce vere. Molto mi stupisco.

Nei giorni seguenti, giorni molto freddi qui al nord, comincio a incontrare per strada gente con la pelliccia; trattandosi di signore di una certa età, mi dico: normale, fa parte del mondo com’era una volta, difficile smettere certe abitudini. Poi però incontro anche ragazze impellicciate, e allora non ho più dubbi: stanno tornando le pellicce.

Ma non eravamo animalisti, ambientalisti? Non era profondamente scorretto, riprovevole e scandaloso addobbarsi con il pellame di poveri animali debitamente scuoiati per diventare caldi cappottini? Non eravamo fieramente avversi alla caccia? Quale rivoluzione (o controrivoluzione…) si è prodotta nel mondo? Che cosa ci ha così profondamente cambiati, negli ultimi mesi? Ci siamo forse stufati dei piumini d’oca? Ci fanno ora più pena le oche spennate che i castori scorticati?

Comunque, mi sento ora autorizzata a far riemergere ricordi che tenevo accuratamente affondati in me. Per primo, un colletto di marmotta che bordava un mio cappottino; avrò avuto sei o sette anni, e andavo fiera di quel colletto: gli altri bambini avevano, al massimo, colletti smilzi e spelacchiati di castorino. La marmotta era una rarità. Così come, parlando di penne stilografiche, era comune avere l’Aurora (anzi, l’Auretta, per chi faceva le elementari), ed era invece molto esclusivo avere la Pelikan. Io avevo la Pelikan, quella verde e nera. Pelikan più marmotta: una fuoriclasse…

Il secondo ricordo è che tra le colleghe-amiche di mia madre, c’era la pellicciaia. Mia madre, essendo sarta, faceva i cappotti; poi, se la cliente lo chiedeva, li portava dalla pellicciaia che gli aggiungesse un collo, un bordo, uno scialle di pelliccia su misura.

A volte mia madre mi portava con sé dalla pellicciaia. Era una fortuna, mi piaceva moltissimo entrare in quella specie di officina dove si tagliavano, con maestria, le pelli. C’era un odore caldo, strano, un po’ da ospedale, se ricordo bene. Mi sedevo e stavo a guardare. Avevo la sensazione di essere ammessa in una specie di tempio, il “tempio delle signore con pelliccia”. Andava molto “aggiungere” la volpe: una stola di volpe che a un capo terminava con le due zampine posteriori e all’altro capo col musino dell’animale (vero? Impagliato?), con tanto di occhi (finti, quelli sì, era evidente: di vetro!). Ricordo certe signore che se ne andavano in giro poggiando la stola con nonchalance sui loro cappotti. Ricordo soprattutto gli occhietti vitrei della bestiola che mi guardavano spaesati e muti.

Il terzo amarcord riguarda mia madre, ed è il più doloroso. Mia madre desiderò tutta la vita la pelliccia (“la pelliccia” era il visone per antonomasia), ma non la ebbe mai. Credo costasse troppo. Un giorno riuscì a comprarsi, dalla pellicciaia amica, uno strano giaccone color latte, tutto ricciolini. Non era una pelliccia per niente pregiata, credo fosse un agnellino. Sembrava un orsetto di peluche. Era buffa, mia madre, quando se lo metteva. Ma mi sembrava, in qualche modo, contenta. Deve aver pensato: meglio che niente.

Fu un po’ come quando decisi di pubblicare il mio primo libro di poesie. Non l’aveva voluto nessuno (gli editori mi dicevano che pubblicavano solo poesie di autori noti; ricordo che pensavo: ma come farò a diventare nota se nessuno mi pubblica?). Così, ritenendomi già “vecchia” (avevo 35 anni), accettai l’idea di pubblicarlo a mie spese. Meglio che niente, pensai. Invece no. Fu uno sbaglio, di cui mi pento ancor oggi. Meglio niente, direi adesso, anche a mia madre. Meglio stare senza pelliccia tutta la vita, che accontentarsi di un agnellino sbiadito.

Resterebbe da capire perché oggi torniamo a portar pellicce. Non so. Non mi viene nessuna illuminazione sull’argomento, se non il pensiero che alla fine tutto ritorna.

Ma per fortuna, giorni fa, incontro una mia giovane amica: anche lei indossa una splendida giacchetta di non so quale pelo, color orso bruno. Le chiedo se è finta, mi risponde di no, che è vera e apparteneva a sua nonna. La indossa con naturalezza, non fa una piega, non si scusa, non balbetta alcuna giustificazione; si limita ad aggiungere, con aria serena: Non hai idea di quanto caldo tenga! ecco perché le nostre nonne portavano sempre la pelliccia…

E allora capisco. Forse non è poi così grave. Forse dovremmo dismettere certe rigidità mentali tipiche del nostro tempo. Portare la pelliccia della propria nonna è un gesto affettuoso, è continuare il dialogo tra generazioni, è non buttar via i ricordi.

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Articolo pubblicato il 31 dicembre 2017 su Il Sole24Ore



La lezione dei lavavetri

Tempo di feste, tempo di regali. Siamo tutti più buoni. Più disposti a spendere, e più disponibili verso gli altri. Per esempio, compriamo dai venditori ambulanti un sacco di sciarpine finta seta, fazzolettini, portachiavi con l’animalino che si illumina e fa il verso, del maiale, del gatto, della rana. E ci lasciamo lavare il vetro del parabrezza infinite volte, anche ogni giorno.

Già, i lavavetri. Complicato il nostro rapporto con i lavavetri. Difficile dire cosa ci passa per la testa quando un lavavetri si avvicina e comincia a lavarci il vetro.

Noi siamo in auto. Fermi al semaforo. Mediamente sospesi nel vuoto, distratti, genericamente pensanti, annoiati, a volte nevrastenici. Siamo al semaforo, insomma. Si avvicina un tale che ovviamente è uno sconosciuto, armato di bastone con spugnetta e sapone liquido. E qui il mondo si divarica: ci sono quelli che fanno di no col capo e ottengono di NON farsi lavare il vetro, e ci son quelli che fanno di no col capo e NON ottengono niente: il lavavetri gli lava il vetro nonostante il loro drastico diniego.

Appartengo alla seconda categoria. Per quanto io dica di no e mi sforzi di fare la faccia più cattiva che posso, per quanto il mio vetro sia pulito anzi splenda di lucentezza, a me il lavavetri di turno, chiunque egli sia, mi lava sempre il vetro. E io da dentro comincio a veder annebbiarsi il mondo. Perdo la visuale, e mi blocco a seguire con lo sguardo le volute del sapone che mi opacizza gli occhi. La prima reazione è di irritata impotenza. Come si permette. Adesso gli faccio vedere io. Tiro giù il vetro e protesto. Non gli darò un soldo, così impara. La seconda reazione è di rabbia verso me stessa: perché a me sì e agli altri no? possibile che io sia così debole e inetta, che alla mia età non abbia ancora imparato a farmi valere? La sensazione prevalente, e fastidiosa, è quella di essere oggetto di una prepotenza, di una specie di violenza. Preda. Vittima innocente.

Poi un giorno trovo la soluzione.

Mi si avvicina il lavavetri. È un ragazzo. Bruno, sorridente. Alza la spugnetta minacciosa e sbrodola il sapone sul mio vetro prima che io possa aprir bocca. Resto come al solito offuscata dalla nebbia di quel sapone che mi avvolge gli occhi, la mente, il sangue. Rimango in quella nuvola sospesa atemporale per lo spazio di trenta secondi, e sento salirmi la solita duplice rabbia. Poi lui mi lava via il buio. Disegna le sue mezzelune di pulito e io torno a vedere. Mi sorride. E io, inaspettatamente, gli sorrido. Mi fa l’occhiolino e sì, anch’io gli faccio l’occhiolino. Prendo un euro e glielo passo. Ridiamo, ci salutiamo. Buona giornata.

Ecco la soluzione, semplicissima: non opporre resistenza. Lasciarsi andare, smollare. E non solo perché è Natale… Un euro non risolverà certo l’esistenza del lavavetri né, tantomeno, il problema dell’immigrazione; ma ci rilassa, ci rimette in pace con noi stessi liberandoci dal vissuto di non saper reagire…

Buona giornata. Buon Anno!

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Articolo pubblicato il 31 dicembre 2017 su Il Sole24Ore



Una parola al giorno

Tra i molti libri che ho ricevuto in dono e mi sono io stessa regalata per Natale, vorrei indicarne uno. Non è un romanzo, non è un saggio, non è scritto da giornalisti, attori, calciatori, quindi non so quanto sia stato scelto come strenna (naturalmente mi auguro lo sia stato, e lo sia ora nel Nuovo Anno, moltissimo): è il Dizionarietto di greco, scritto da due docenti di greco, Paolo Cesaretti e Edi Minguzzi (ELS La Scuola). Il sottotitolo è splendido: Le parole dei nostri pensieri.

Già, il greco è una lingua pensante. Forse lo sono tutte, ma il greco lo è di più e, per noi, lo è prima delle altre. “Come nessun’altra lingua il greco è stata ‘la macchina per pensare’ privilegiata dell’Occidente, in ogni sfera del sapere e dell’esperienza”, dicono gli autori nella Premessa.

Le parole sono sempre così, in fondo: sono pensieri condensati, rappresi. Ogni parola un pensiero, che abbiamo avuto, e che non sappiamo più di avere. Le parole italiane che derivano dal greco ci fanno pensare al nostro inizio, e alla storia che poi è seguita. Hanno dentro la Storia.

Credo che sarebbe bello regalarci una parola al giorno, per tutto l’anno.

Ne scelgo una a caso, “epoca”. Da epoché, che vuol dire sospensione. Noi oggi usiamo “epoca” per dire un periodo di tempo, compreso tra due date, in genere. Ma ha anche altri significati, in altri ambiti. Leggo dal Dizionarietto che per gli Scettici era “un atteggiamento della mente per cui non si sceglie né si rifiuta”, premessa indispensabile per l’atarassia, l’imperturbabilità. Non si sceglie e non si rifiuta…. Bellissimo. E difficile. A quale prezzo? Mettersi fuori, aspettare, rimanere in un tempo sospeso: oggi, per noi, forse, una grande tentazione…

Ho incontrato per la prima volta la parola “epoché” in una poesia di Montale, molto nota. Ho imparato lì cosa vuol dire, quando da giovane leggevo per la prima volta le sue poesie. È all’inizio di Satura, in Botta e risposta I. C’è un’interlocutrice immaginaria, che scrive al poeta chiamandolo col suo alter ego Arsenio: “Arsenio – lei mi scrive – io qui ‘asolante’/ tra i miei tetri cipressi penso che/ sia ora di sospendere la tanto/ da te per me voluta sospensione/ d’ogni inganno mondano; che sia tempo/ di spiegare le vele e di sospendere l’epoché”. La donna rimprovera al poeta il suo immobilismo, il suo “torpore di sonnambulo”; lo sprona a tornare ad affrontare il mondo, sospendendo… la sospensione, anche se il momento storico sembra non essere roseo, propizio: la negatività del momento non può valere da giustificazione: “Non dire che la stagione è nera ed anche le tortore/ con le tremule ali sono volate al sud”.

Credo che questa parola ritrovata grazie al Dizionarietto di greco aiuti tutti noi, nell’Anno Nuovo, ad affrontare il mondo. Può darsi che la stagione sia nera. Ma saremo chiamati a scelte, a giudizi. Votare, per esempio… Non so come faremo. Ma vorremmo… spiegare le vele.

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Articolo pubblicato il 31 dicembre 2017 su Il Sole24Ore