Elezioni, partiti e analisi: intervista a Luca Ricolfi

Professore, andiamo verso le elezioni più incerte della Storia repubblicana?

No, i risultati elettorali sono sempre incerti. Quel che è nuovo è che questa volta, anche se sapessimo con precisione assoluta (all’ultimo seggio), quali saranno i numeri in Parlamento, nessuno potrebbe dedurne che governo avremo. Al momento ci sono ben cinque governi verosimili: Fi-Lega-FdI, Fi-Pd, Pd-Leu-Grillo, Leu-Grillo, Grillo-Lega.

L’ultima volta le previsioni non ci hanno preso, chi dice che a marzo vada proprio come tutti prevedono?

Questa volta i sondaggisti sbaglieranno di meno, per ragioni che ha spiegato in modo eccellente Paolo Natale in un articolo pubblicato sul sito della Fondazione David Hume. Si potrebbe parafrasare (ed estremizzare un po’) l’analisi di Paolo Natale così: più diventiamo un paese di disinibiti che non si vergognano di niente, più rendiamo facile il lavoro dei sondaggisti.

E secondo lei come andrà invece?

Penso che il centro-destra prenderà leggermente meno voti di quelli che gli assegneranno i sondaggi, e il Pd di Renzi qualche voto in più.

Oltre all’incertezza pesano una certa apatia generale e sondaggi negativi sul voto dei giovani…

Sì, ma il trend di distacco dalla politica non è nuovo. La novità è che il partito di Grillo ha perso di appeal, nessuno pensa seriamente che votare Raggi o Appendino sia uno sberleffo al sistema.

Secondo lei l’Italia è una vera democrazia compiuta?

No, ma non è l’unica. Quasi nessun paese occidentale è ormai più una vera democrazia, la differenza è solo che alcuni paesi in passato si sono avvicinati ad esserlo, noi ne siamo sempre rimasti lontani.

Ma perché nessun paese è più una democrazia compiuta?

Perché la spettacolarizzazione della politica, senza un sistema di partiti funzionante, crea un cortocircuito.

Mattarella ha invitato i politici ad un uso responsabile dei numeri. Lei cosa pensa delle proposte elettorali in formazione?

Penso quel che, immagino, ne pensa Mattarella, con la differenza che io posso dire quel che penso: i numeri dei partiti o non ci sono (vedi il silenzio sul debito pubblico), o non stanno in piedi.

In un recente editoriale lei ha criticato l’impostazione di fondo del M5s: dirigismo e tassazione.È il pericolo maggiore?

Secondo me sì, il programma e il personale politico dei Cinque Stelle sono il maggiore pericolo per la stabilità economica del Paese. Tuttavia anche Lega e Leu non scherzano…

Da dove viene secondo lei questa nouvelle vague anti-sistema, anti-scienza, anti-industria alimentare che pervade anche i grillini?

Non è nuova. I sociologi da almeno mezzo secolo descrivono l’Italia come un paese in cui la cultura anti-industriale ha radici profonde.

In questa situazione la sinistra è tornata a dividersi ed è in crisi d’identità e di leadership, come lei ha rilevato da tempo nel suo libro Sinistra e popolo (Longanesi). Come vede quel campo ora?

Lo vedo mal messo, e ostaggio di un incantesimo da cui non intende liberarsi. Il Pd, di fatto, è diventato un “partito radicale di massa” (copyright: Marcello Veneziani), che si occupa quasi esclusivamente di temi sovrastrutturali: unioni di fatto, fine vita, discriminazioni, fecondazione eterologa, tutela delle minoranze, diritti umani, eccetera. Niente di male: a Renzi è riuscito in 4 anni quello che a Pannella e Bonino non è riuscito in 40. Il punto, però, è che, pur essendo diventato il partito dei “ceti medi riflessivi”, che si credono la parte migliore del paese, anziché prendere coscienza di questa mutazione culturale e sociale, si ostina a proclamarsi di sinistra, difensore dei ceti popolari, eccetera. Qualcuno si può stupire che i ceti popolari dicano “no grazie” e si rivolgano altrove?

Renzi merita la sua decadenza?

Sì e no. Umanamente la merita tutta, perché quando si ha poca cultura è buona regola non alzare i toni e stare a sentire chi ha più cultura (e esperienza) di te. Politicamente sarei più indulgente: Renzi è uno dei pochi politici che non vedono la modernizzazione del Paese come una disgrazia. Ma così torniamo al punto di partenza di questa chiacchierata, la profondità dei sentimenti anti-industriali e anti-moderni degli italiani: a noi la modernizzazione piace solo come elargitrice di doni insperati, dai telefonini, al turismo, all’intrattenimento, mentre la detestiamo quando pretende di cambiare i nostri costumi, le nostre abitudini, i nostri privilegi.

Come giudica l’avventura di Liberi e uguali?

Interessante espressione di conservatorismo politico, in un paese in cui tutti vogliono presentarsi come innovatori.

Il campo liberale è ancora dominato da Berlusconi. Che ne pensa?

Non ho mai capito perché, in un quarto di secolo, in quel campo non si sia mai affermata una personalità comparabile a quella di Berlusconi, capace di sfidarlo o di raccogliere il testimone. È forse il segno che in Italia di cultura liberale ce n’è assai poca, anche a destra.

Quali sono le tre riforme urgenti che suggerirebbe al prossimo governo?

Potrei dire: fisco, giustizia civile, Pubblica Amministrazione. Ma preferisco dire: riformate quel che vi pare, ma che siano vere riforme, ben studiate e davvero modernizzatrici, non i modesti e pasticciati ritocchi cui ci avete abituati, sia a sinistra sia a destra.

Su immigrazione e cittadinanza quali le paiono i provvedimenti urgenti da prendere?

La questione della cittadinanza non è una battaglia di civiltà, ma una normalissima questione di tempi, condizioni, verifiche. Non sono sfavorevole a rendere più rapida l’acquisizione dei diritti di cittadinanza, ma penso che le condizioni per concederla dovrebbero essere più stringenti di quelle attuali. Ma il vero problema non sono i residenti regolari che vogliono la cittadinanza, il vero problema sono gli irregolari che alimentano la criminalità (anche su questo, rimando ai dossier della Fondazione David Hume)

Davvero si possono abbassare in qualche modo le tasse o col debito presente sarebbe una follia?

È inutile nasconderselo: se si vogliono abbassare le tasse l’unica strada seria è una la spending review permanente, “di legislatura” (ordine di grandezza: fra 5 e 10 miliardi l’anno, per 5 anni). Però la mia opinione, basata sulle analisi statistiche che ho condotto ne L’enigma della crescita (Longanesi 2014), è che il nodo vero sia quali tasse abbassare: con poche risorse meglio concentrare l’intervento su Ires e Irap. Se si vogliono aiutare le famiglie è molto più efficace accelerare la crescita del Pil e dell’occupazione, che concedere sgravi fiscali e contributivi a pioggia.

Da torinese come valuta l’operato della sindaca Appendino?

Senza infamia e senza lode. Torino è una città in declino, oppressa da un debito mostruoso, di cui nessuno vuole parlare.

Rifacendosi a Hume lei si definisce un liberale? E di sinistra?

No, io non mi considero un liberale, ma piuttosto un empirista, del resto è precisamente l’empirismo il contributo più importante di Hume alla storia delle idee. Quanto alla sinistra, che dire? la sinistra non è ancora di sinistra, aspetto che impari ad apprezzare il merito e la libertà.

Chi sono gli analisti, commentatori e giornalisti che ama leggere o consultare?

Purtroppo Natalia Ginzburg, Pasolini e Montanelli non ci sono più.

Al sito della Fondazione collabora anche sua moglie, la scrittrice Paola Mastrocola, come vi dividete il lavoro e che effetto le fa condividere vita personale e impegno pubblico con lei?

Lei si occupa della sezione Humanities, che raccoglie contributi letterari ed artistici, io mi occupo della ricerca empirica. Ma in realtà collaboriamo da sempre (da 30 anni!) in modo naturale, per affinità di vedute, specie per la comune insofferenza per il conformismo. Attualmente stiamo varando uno studio sugli effetti che l’abbassamento della qualità degli studi può aver esercitato sulla mobilità sociale. L’ipotesi è che 50 anni di scuola e università facile abbiano danneggiato i poveri e favorito i ricchi.

Da La Stampa al Sole 24 Ore, adesso al Messaggero, lei ha scritto per tanti giornali, come mai tutti questi passaggi?

Per ragioni ogni volta diverse, ma mai per dissensi sulla linea del giornale. Semplicemente ho ceduto al corteggiamento di alcuni direttori.

In definitiva, quando pensa al suo lavoro di analista si sente ancora speranzoso? Può fare qualche esempio pratico di quando ha avuto l’impressione di influire o cambiare in meglio qualche situazione?

Tutte le volte in cui ho prodotto informazioni o analisi che prima non esistevano: fra quelle recenti, il nostro indice VS, che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese.

Intervista di Francesco Rigatelli per Libero pubblicata l’8 gennaio 2018



Riformisti e radicali/ Lezione tedesca per le sinistre di casa nostra

Pensavo che, alla fine, il tentativo di Piero Fassino di unire il centro-sinistra sarebbe andato in porto. E invece no, è stato un disastro su tutta la linea. Prima l’annuncio che Pietro Grasso avrebbe guidato una lista di sinistra “purosangue”, denominata Liberi e uguali, con dentro Mdp (Bersani-D’Alema-Speranza), Sinistra Italiana (Fratoianni), Possibile (Civati). Poi la notizia della rinuncia di Pisapia, che avrebbe dovuto guidare una lista di sinistra “meticcia”, su cui far confluire un segmento elettorale molto importante: quello di quanti non amano Renzi ma non vogliono disperdere il voto.

Questo doppio fallimento consegna al Pd e al suo leader un problema molto serio: come evitare che, con un Pd sempre più indistinguibile dalla figura di Renzi, l’elettorato di sinistra-sinistra si diriga verso i due unici sbocchi possibili, ovvero Liberi e uguali, il neo-nato partito di Pietro Grasso, e il Movimento Cinque Stelle, che non pochi elettori percepiscono come una formazione di sinistra anomala, ma pur sempre di sinistra. Una percezione, bisogna dire, che le ultime esternazioni di Di Maio rendono tutto sommato plausibile: tassare i ricchi, reintrodurre l’articolo 18, sussidiare i poveri, sono tutte misure che piacciono a una parte non trascurabile dell’elettorato progressista. Non ci fosse quella fastidiosa (e politicamente scorrettissima) critica delle politiche di accoglienza, non ci fosse quell’attenzione ai piccoli imprenditori e al lavoro autonomo, non ci fosse quella un po’ aberrante forma di democrazia del web, il partitone di sinistra-sinistra, sognato da milioni di nostalgici del tempo che fu, ci sarebbe già, perché ci ha pensato Grillo a fondarlo, giusto dieci anni fa.

Ma che cosa sposta, la nascita di Liberi e uguali, avvenuta quasi in simultanea con l’estinzione di Campo progressista, il movimento di Giuliano Pisapia?

La mia impressione è che l’effetto in termini di seggi complessivi per il centro-sinistra potrebbe essere modesto. L’esistenza di una lista di sinistra purosangue, che corre separata dal Pd, tende infatti a produrre due conseguenze di segno opposto: fa perdere seggi nella parte maggioritaria, ma ne fa guadagnare in quella proporzionale. Le simulazioni suggeriscono che diversi candidati Pd potrebbero non farcela a causa della concorrenza fratricida di Liberi e uguali, ma alcuni sondaggi suggeriscono anche che una parte dell’elettorato di sinistra potrebbe scegliere Liberi e uguali anziché il Movimento Cinque Stelle. Quale possa essere il saldo fra questi due movimenti nessuno lo sa, ma il paradosso è che un successo elettorale a due cifre della lista di Grasso dissanguerebbe non solo il Pd ma anche, o forse ancora più, il Movimento Cinque Stelle. Un meccanismo che è già visibile nei sondaggi delle ultime settimane, la maggior parte dei quali vedono i Cinque Stelle in costante discesa.

Ben più importante dell’impatto in termini di seggi, invece, potrebbe rivelarsi l’impatto della nuova lista sugli equilibri parlamentari complessivi, ossia, in definitiva, sul funzionamento del nostro sistema politico. Un successo a due cifre (intorno al 10%) di una lista di sinistra-sinistra, accompagnato da una prestazione mediocre del Pd (fra il 25 e il 30%), renderebbe improvvisamente lo stato della nostra sinistra alquanto simile a quello della sinistra in Germania negli ultimi 12 anni. Lì le forze riformiste, ovvero la somma di socialdemocratici (Spd) e Verdi, devono accontentarsi del 30% circa dei consensi, perché il 10% è congelato in una lista di estrema sinistra (la Linke), nata dalla fusione fra gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti duri e puri della Spd, guidati da Oskar Lafontaine.

E’ forse istruttivo ricordare come quella lista nacque. Oskar Lafontaine negli anni ’90 era stato il presidente della Spd, e aveva contribuito a portare al governo Gerhard Schröder, l’ultimo cancelliere socialdemocratico della storia tedesca prima del lungo regno di Angela Merkel. Ma quel cancelliere, nei primi anni 2000, avrebbe impresso alla politica tedesca una spinta riformista tanto decisiva per la salvezza dell’economia tedesca (allora la Germania era considerata “il malato d’Europa”), quanto indigeribile per la sinistra Spd, ostile alle riforme del mercato del lavoro (le famose riforme Hartz), attuate dal secondo governo Schröder fra il 2003 e il 2005. E’ contro questa svolta riformista radicale (e, aggiungo io, assai coraggiosa) che nasce, in Germania, una sinistra fondamentalista e anti-governativa, che riunisce gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti socialdemocratici.

Da allora la Germania è salva (è l’unico paese dell’euro che ha retto bene alla lunga crisi di questi anni), ma i benefici della svolta riformista sono stati in massima parte incassati dall’opposizione, ossia dal partito popolare (Cdu/Csu) di Angela Merkel, che regna incontrastata da 12 anni, ora con l’appoggio dei socialdemocratici (1° e 3° governo Merkel), ora con quello dei liberali (2° governo Merkel). Ai socialdemocratici, da allora, non è mai più stato possibile guidare un governo, e anche ora, dopo le elezioni del 2017 in cui hanno toccato il fondo (20.5% dei voti), il massimo in cui possono sperare è di partecipare al 4° governo della signora Merkel.

Non c’è bisogno di sottolineare le analogie con la situazione italiana, dove la nascita di una lista di sinistra-sinistra si deve in gran parte al rifiuto delle riforme del mercato del lavoro, peraltro assai più blande di quelle tedesche, attuate da governi di sinistra riformista, e specialmente dal governo Renzi con il Jobs Act; e dove è perfettamente possibile che la presenza stabile di una lista di sinistra purosangue, che sequestra il 10% dell’elettorato, sbarri per lungo tempo alla sinistra riformista l’accesso al governo.

Quel che è più interessante, semmai, sono le differenze con la situazione tedesca. La prima differenza è che, in Germania, le forze genuinamente populiste, rappresentate soprattutto da Alternative für Deutschland di Alice Weidel, raccolgono meno del 15% dell’elettorato, mentre in Italia, in base agli ultimi sondaggi, i tre partiti populisti (Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia) sfiorano il 50%.

La seconda differenza è che, in Germania, il baricentro delle forze riformiste è decisamente spostato a destra, dove i popolari della Merkel e i liberali attraggono il 45% dei consensi, contro il 30% circa di socialdemocratici e verdi, mentre in Italia il baricentro delle forze riformiste è a sinistra, dove il Pd attira il 25-30% dei consensi, e Forza Italia poco più del 15%. Questo significa che un ipotetico governo di Grosse-Koalition (ma, dati i numeri, sarebbe meglio cominciare a chiamarlo di Kleine Koalition, di piccola coalizione) in Italia sarebbe un governo di sinistra allargato alla destra, mentre in Germania – se riusciranno a vararlo – sarà un governo di destra allargato alla sinistra.

La differenza più importante, tuttavia, a me pare ancora un’altra: quando la Merkel ebbe ad insediarsi al potere (2005), il duro lavoro delle riforme più impopolari era già stato in gran parte compiuto dal suo predecessore socialdemocratico, il cancelliere Schröder. In Italia, invece, chiunque governi dopo Renzi erediterà un paese in cui qualcosa (non senza errori e concessioni alla ricerca del consenso) si è cominciato a fare, ma il più deve essere ancora fatto. Il debito pubblico è ancora lì; le tasse sono scese, ma di pochi decimali; il Pil è ripartito, ma ancora troppo lentamente; burocrazia e giustizia civile continuano ad essere un freno alla crescita. Insomma, in Italia il cantiere delle riforme è appena stato aperto, e ci vorranno parecchi anni per raccogliere i frutti del lavoro che si è iniziato a fare.

Quindi, in fondo, la questione è assai semplice. Salvo sorprese, la nascita di una Linke italiana renderà più difficile sia la formazione di un governo Cinque Stelle, sia la formazione di un governo di sinistra, guidato dal Pd. Questo significa che, se escludiamo l’ipotesi di un “governo di unità popolare”, guidato dalla troika Di Maio-Renzi-Grasso, le alternative realistiche in campo restano solo due: una vittoria del centro-destra, o la formazione di un governo di Kleine Koalition Pd-Forza Italia.

Ma in entrambi i casi la mission sarebbe la stessa: portare a termine un lavoro che, con le riforme di questi anni, è soltanto iniziato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 9 dicembre 2017



La scomparsa della compassione: da spettatori a populisti

La prima guerra della mia vita è stata una serata trascorsa a guardare la televisione sorseggiando birra fresca.

Ogni volta che lo dico o lo scrivo, qualcuno s’indigna. Ma l’oscenità è nelle cose, prima ancora di essere nell’occhio di chi guarda. E il trionfo dell’estetica oscena su quella tragica si consumò precisamente nella notte tra il 17 e il 18 gennaio del 1991 quando, per la prima volta nella storia dell’umanità, lo scoppio di una guerra – con un bombardamento devastante sulla popolazione di Baghdad – fu trasmesso in diretta televisiva. Io, allora, avevo vent’anni e – citando Nizan – non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita.

Dopo quella notte, infatti, la condizione di spettatore della distruzione dell’uomo e del mondo è divenuta, per la mia generazione, progressivamente e inesorabilmente, una postura esistenziale e un’attitudine (im)politica. A partire da quel momento, per effetto della comunicazione digitale globale in tempo reale – prima in tv e poi su internet – essere spettatori del disastro ha smesso di essere l’eccezionale condizioni di pochi per divenire una sorta di nuova, oscena condizione umana. Tutti noi siamo stati, giorno dopo giorno, per anni e decenni, testimoni alieni, inerti e apatici, dell’afflizione inferta dall’uomo all’uomo e del dolore, straniero, che provoca. Giù per questa china si è prodotto un sovvertimento della nozione novecentesca di testimone: nello spettacolo tele-visivo della morte e distruzione altrui, il nesso tra testimonianza ed esperienza è stato reciso e il testimone ha smesso di essere associato al destino di colui di cui testimonia. Giù per questa china si è prodotto anche il più importante mutamento dei fondamenti dell’esistere umano nella storia: la riformulazione del differenziale antropologico riguardo alla violenza. A furia di consumare quotidianamente, attraverso i media, scene di violenza estrema nell’impertinenza esperienziale della distinzione tra realtà e finzione, la struttura voyeuristica dello sguardo osceno ci attira verso la posizione, tutta esteriore, dello spettatore anche rispetto alla violenza reale. E rischia di condurci alla indifferenziazione tra vittima e carnefice agli occhi dello spettatore. Fino a ieri, infatti, il differenziale antropologico fondamentale per l’esperienza della crudeltà umana era quello che separava la vittima dal carnefice, oggi tende invece a essere quello che separa la coppia vittima-carnefice, su di un versante dello schermo, dallo spettatore sul versante opposto. Da un lato quelli che infliggono e subiscono la crudeltà, dall’altro quelli che la guardano in tv.

Al termine di questo processo di degenerazione, la postura inerte, apatico e anomica dello spettatore diviene la norma comportamentale anche al cospetto di eventuali casi di violenza prossima e reale e di fronte alla nostra stessa esistenza in quanto cittadini di una comunità politica. Se ci capita di imbatterci in un pestaggio a morte dentro una discoteca o in un attacco terroristico, invece di soccorrere o contrattaccare, ci limitiamo ad alzare tra noi e l’evento lo schermo di uno smartphone per ripristinare al più presto la condizione abituale del telespettatore.

Viviamo, dunque, in un mondo osceno. Viviamo nel tempo dell’oscenità trionfante. Ciò che va perduto in questo tempo è la compassione, ciò che viene espulso da questo mondo è la pietà. Con essa si smarrisce anche la agency politica. L’esistenza che quotidianamente conduciamo nella casa di vetro della trasparenza mediatica è un’esistenza spietata. Spietata ma inerte, impotente.

Violenza e sesso. Sesso e violenza. Entrambi i fondamentali antropologici della nostra “parte maledetta”, se sottoposti ad analisi, dimostrano alla nostra triste scienza questa amara verità.

E’ più facile vederlo riguardo alla violenza. La rivoluzione tecnologica dei media elettronici ci ha messo nella condizione storicamente inaudita di poter assistere immediatamente e continuamente a scene terminali di violenza estrema che annientano vite che non sono la nostra. Da molto tempo, guerre, assassini, catastrofi, cataclismi sono il nostro pasto quotidiano, la nostra abituale dieta mediatica. Ci gonfiamo, così, in una obesità cinica. Ingolfati da questa sugna d’immagini truculente, perdiamo la basilare capacità umanistica di immedesimarci nella sofferenza altrui e, su questa base, di agire di conseguenza.

E’ una drammatizzazione della vita senza tragicità. Quando nella rappresentazione della morte altrui viene meno l’interdetto che nella tragedia greca proibiva di portare in scena il momento cruento, la catarsi, la purificazione dei nostri sentimenti di pietà e terrore, diventa impossibile. In platea rimangono solo passioni impure: sollievo egoistico, godimento perverso, paura onanistica. Nel paesaggio mediatico contemporaneo il tragico è stato sostituito dall’osceno, da ciò che dovrebbe rimanere “fuori dalla scena” (etimologia fasulla ma rivelatrice). Ben presto, noi umani che abitiamo il mediascape di fine millennio ci siamo trasformati in animali anfibi, capaci di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del nostro mondo pacifico e protetto ma anche immersi nella palude insanguinata dalle vittime di apocalissi lontane. La nostra mente incallita, la nostra pelle squamata si sono presto dimostrate impermeabili a entrambi gli ambienti. La crudeltà, scrisse qualcuno, è mancanza d’immaginazione. Vale non solo per la crudeltà inflitta ma anche per quella consumata attraverso i media: non distogliamo lo sguardo dalla sofferenza altrui, non invochiamo il proverbiale velo pietoso perché non siamo più capaci d’immaginarci di essere lui. Alla fine, anche quando e se tocca a noi, ci scopriamo incapaci di qualsiasi reazione che non sia l’emozione futile e caduca del telespettatore.

Solo così si spiega l’inerzia civile e politica in cui ricade l’Europa dopo ogni attacco terroristico sferrato, con cadenza periodica, dall’estremismo islamico.

Perfino riguardo alla violenza terroristica noi siamo, infatti, quasi sempre nella posizione dello spettatore. La nostra inettitudine all’azione politica violenta fa sì che, di fronte all’unica forma reale di brutalità che aggredisca sistematicamente il nostro ambiente sociale, quella dell’islamismo radicale, riusciamo, in apparenza, solo ad assumere l’identità simbolica della vittima, che in verità nasconde la terzietà neutrale del telespettatore. Il medio-oriente islamico è scosso da fenomeni di disintegrazione nazionale apparentabili ai nostri, solo che da quelle parti generazioni cresciute nella guerra rispondono con la violenza terroristica, dalle nostre parti generazioni cresciute in 60 anni di pace e in 30 di consumo televisivo della sofferenza altrui reagiscono con un violento ritiro della delega politica all’establishment che equivale al gesto, al tempo stesso sdegnato e annoiato, di chi cambi canale di fronte a un programma sgradito.

Questo è l’unico aspetto violentemente attivo del nuovo populismo: la brutale, impersuadibile, apocalittica determinazione nel rigetto delle vecchie classi dirigenti, autrici di un palinsesto sfinito. Trump ha affermato che non avrebbe perso uno dei suoi voti nemmeno se avesse aperto il fuoco sulla quinta strada. Aveva ragione. Il suo elettorato è non violento ma la sua ripulsa lo è. In Francia il sovranismo rinunciatario di Marine Le Pen non chiede di riconquistare l’Algeria ma di rigettare l’Europa e di uscire dalla Nato, in Olanda Geert Wilders si richiama all’eredità di un leader anti-islamista e xenofobo ma omosessuale dichiarato, progressista e assassinato da una fanatico (Pim Fortuyn), in Italia tutto si può imputare ai partiti anti-sistema tranne la conquista violenta del potere.

Il populismo reattivo, il sovranismo remissivo, l’accidia post-televisiva. La loro sola violenza è quella del conato di vomito. Rigetto radicale del presente in assenza di un’affermazione dirompente del futuro. Con questa novità dobbiamo fare i conti.

 




Geografia del populismo in Europa

La crisi economica, il crollo delle ideologie, la pressione migratoria, gli scandali di corruzione non hanno fatto altro che allontanare gli elettori dai partiti tradizionali. Sempre più spesso la popolazione preferisce dare la propria fiducia a partiti definibili come “partiti di protesta”. La protesta può essere indirizzata verso le élite politiche o economiche, ma anche verso gli organismi sovranazionali colpevoli di aver indebolito le sovranità nazionali a discapito della popolazione.

Lo scopo di questo lavoro è fornire una mappa dei diversi movimenti anti- sistema che agitano l’Europa, valutandone il successo elettorale alle ultime elezioni europee nei 27 paesi dell’Unione. Sono state perciò analizzate le performance di tutti i partiti che hanno ottenuto almeno un seggio alle elezioni europee del 2009 o del 2014, e che presentano tratti euroscettici e/o populisti. Ci si è per questo basati su informazioni ricavate da studi precedenti o sui programmi elettorali pubblicati dai partiti.  Le diverse formazioni politiche sono state definite con due acronimi: ESP nel caso di partiti euroscettici e/o populisti ed ES&P nel caso di gruppi euroscettici e populisti.

Le elezioni europee sono il terreno su cui questi movimenti di protesta riescono, nella grande maggioranza dei casi, ad ottenere i risultati migliori. Da una parte perché i cittadini comunitari vedono le elezioni europee come elezioni di second’ordine. Ciò significa che votare per movimenti più estremisti viene considerato come assai meno rischioso rispetto a quanto succede alle politiche. Dall’altra parte il sistema elettorale adottato dalla stragrande maggioranza degli stati membri, il proporzionale, dà anche a gruppi più piccoli maggiori chance di ottenere una rappresentanza parlamentare.

La scelta di esaminare la performance elettorale alle consultazioni europee, (2014 e 2009) sia dei gruppi ES&P che dei partiti soltanto euroscettici o soltanto populisti, è stata fatta per sondare l’andamento e la consistenza di tutti quei gruppi che si pongono in qualche modo contro il sistema attuale. Di partiti populisti ce ne sono di vario tipo. Si va da movimenti di estrema destra come Alba Dorata (Laïkós Sýndesmos – Chrysí̱ Av̱gí̱) in Grecia, a partiti il cui populismo prende più che altro forma nel modo di fare propaganda come nel caso dell’Italia dei Valori di Di Pietro.

Anche la critica all’Europa ha diverse sfumature. C’è chi si batte per l’uscita del proprio paese dall’Unione, come ha fatto l’UKIP, e chi critica non tanto il progetto in sé ma ciò che è diventata oggi l’UE, come i Verdi Svedesi contrari alla centralizzazione decisionale portata avanti dalle istituzioni europee.

I gruppi più conosciuti dai media, come il Front National, l’UKIP, Podemos, SYRIZA, il Movimento 5 Stelle, sono ottimi esempi di partiti ESP, poiché al discorso populista di richiamo alla gente comune e di lotta contro le élite si unisce una forte carica critica nei confronti delle istituzioni europee. In Europa esistono anche partiti (non molti) che al discorso populista affiancano una certa eurofilia, come il movimento lettone di Alleanza Nazionale (Nacionālā apvienīb), partito populista e nazionalista che è oggi sostenitore dell’UE in chiave soprattutto anti-russa. D’altra parte esiste anche un gruppo di movimenti che si dichiarano critici nei confronti delle istituzioni comunitarie, ma che non possono essere definiti populisti. Ne è un esempio il partito slovacco Libertà e Solidarietà (SaS), movimento di centro-destra liberale che critica la troppa burocrazia presente nelle istituzioni comunitarie e si è opposto all’operazione di salvataggio della Grecia nel 2010.

Non sempre la posizione dei partiti o la loro natura sono chiare. I Conservatori inglesi sono realmente euroscettici o sono stati travolti dal loro stesso tentativo di arginare l’UKIP? Il movimento Ciudadanos della Catalogna, l’alternativa di centro a Podemos, è un gruppo populista?

Quando in un paese risultano presenti partiti di difficile collocazione, sono state proposte due diverse stime, una più restrittiva che considera soltanto quei movimenti di sicura natura euroscettica e/o populista e un’altra più inclusiva in cui rientrano anche i partiti dubbi.

Geografia del populismo.pdf




Il boom euroscettico e populista del 2009-2014

Questo lavoro è strettamente collegato al Dossier Geografia del populismo in Europa pubblicato su questo sito.

In quel lavoro veniva descritta sia la geografia delle forze politiche populiste ed euroscettiche (forze ESP) nei paesi dell’Unione europea, sia la loro dinamica fra il 2009 e il 2014, ossia nell’ultima legislatura del Parlamento Europeo.

Qui, invece, viene si cerca di spiegare l’avanzata delle forze ESP verificatasi nella maggior parte dei paesi europei fra il 2009 (anno peggiore della lunga crisi 2007-2016) e il 2014, anno delle ultime elezioni europee.

Sull’origine e le cause di tale avanzata, come noto, gli osservatori sono spesso divisi lungo fratture politico-idelogiche più che sulla base dell’adesione a teorie ben definite e empiricamente collaudate.

A destra prevale una lettura dell’avanzata populista come reazione alla dinamica incontrollata dei flussi migratori. A sinistra si preferisce attribuire l’avanzata delle forze populiste alle politiche di austerità adottate in molti paesi europei.

In questo contributo della Fondazione David Hume si preferisce affrontare il problema in una prospettiva empirista, ovvero sottoponendo le principali letture del fenomeno a controlli di natura matematico-statistica.

A questo scopo abbiamo preso in considerazione i 27 paesi Europei rappresentati nel Parlamento Europeo sia nel 2009 (quando al Croazia non era ancora entrata nell’Unione) sia nel 2014 e abbiano raccolto decine di variabili potenzialmente candidate a spiegare l’avanzata delle forze ESP. A partire da esse, variando la specificazione di alcune equazioni di regressione, abbiamo costruito diversi modelli esplicativi dell’avanzata delle forze ESP.

Determinanti del populismo.pdf