Troppi paradisi

2008-2018, anniversario della lunga crisi

15 settembre 2008, esattamente 10 anni fa. Fu allora che, dopo un anno difficile, in cui la crisi americana dei mutui subprime aveva interrotto un lungo periodo di crescita, l’economia mondiale ricevette il colpo di grazia. A infliggere quel colpo fu il fallimento di Lehmann Brothers, una banca d’affari americana che, a differenza di altre società, venne lasciata fallire dal governo USA e dalla Federal Reserve.

Anche se, allora, vi fu chi salutò il fallimento di Lehman Brothers come “una buona giornata per il capitalismo”, col senno di poi sono quasi tutti concordi nel considerare quel mancato salvataggio come uno dei fattori cruciali che, nel giro di poche ore, trasformarono una recessione in una crisi epocale.

Ma come si presentano le economie dei paesi avanzati a un decennio di distanza?

La prima cosa che si può notare è che la crisi ha agito in modo fortemente asimmetrico: ci sono paesi che, oggi, hanno un tenore di vita e un tasso di occupazione superiori a quello del 2008 (è il caso della Germania, ma anche di Regno Unito, Polonia, Svezia, Giappone), ci sono paesi che, tutto all’opposto, nemmeno in 10 anni sono riusciti a recuperare i livelli di reddito e di occupazione pre-crisi: è questo il caso della Grecia, di Cipro, della Finlandia, dell’Italia.

Altrettanto diseguale è stata la evoluzione della vulnerabilità dei conti pubblici dei vari paesi. L’indice VS (vulnerabilità strutturale), calcolato dalla Fondazione David Hume per 40 economie relativamente avanzate, è peggiorato in molti paesi dell’eurozona (Grecia, Cipro, Spagna, Finlandia, Slovacchia, Slovenia) ma è sensibilmente migliorato per la maggior parte dei paesi dell’est, in particolare Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Lettonia, Lituania.

La vera domanda, però, forse è un’altra: dopo 10 anni di passione, le nostre economie hanno imparato la lezione? Le nostre economie, oggi, sono meno fragili di 10 anni fa?

La mia impressione è che la risposta sia negativa. Dieci anni, infatti, non sono bastati a rimuovere quelli che, per molti analisti, restano i due principali elementi di fragilità del sistema capitalistico quale si è affermato negli ultimi decenni.

Il primo è la mancata separazione fra banche commerciali e banche di investimento. La grande crisi del ’29, come la lunga crisi del 2007, sono entrambe figlie del medesimo errore di regolazione. Consentire al medesimo intermediario finanziario di raccogliere il risparmio, finanziare l’economia reale, e supportare la speculazione finanziaria è stato uno dei fattori della crisi del ’29, ma anche di quella del 2008. La sovrapposizione fra queste funzioni è fra le concause della crisi del ’29, mentre la loro separazione per legge (sancita dal Glass Steagall Act del 1933) è stata una delle condizioni dei “gloriosi trent’anni”, il lungo periodo di stabilità e crescita che seguì la fine della seconda guerra mondiale. Specularmente, l’abolizione della separazione (avvenuta nel 1999, sotto la presidenza di Bill Clinton) è stata una delle concause della crisi scoppiata nel 2007-2008.

Ma c’è anche un secondo elemento di fragilità, forse ancora più importante, che non è stato rimosso, ed è la possibilità di operare su mercati non regolamentati, i cosiddetti mercati OCT, in cui le transazioni avvengono “over the counter”, ossia sul bancone, come per le transazioni in contanti. Nessuno sa esattamente a quanto ammontino le attività finanziare negoziate su questi mercati rispetto a quelle negoziate sui mercati regolamentati, ma l’ordine di grandezza è conosciuto: secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali il loro valore nozionale è dell’ordine di 10 volte il Pil mondiale. E anche se il loro valore lordo di mercato è molto inferiore (circa un quinto del Pil globale, secondo alcune valutazioni), resta il fatto che si tratta di una massa di denaro enorme, i cui movimenti hanno un potenziale di destabilizzazione molto elevato. Un potenziale, peraltro amplificato dalle Agenzie di rating, spesso in sonno quando avrebbero dovuto avvertire dei pericoli, e fin troppo severe a cose fatte, ovvero quando i pericoli erano già stati segnalati dai mercati.

Se questo è il quadro, viene naturale chiedersi: ci attende una nuova crisi?

Ovviamente nessuno lo sa, ma se devo esprimere un’opinione la mia risposta è: sì, e piuttosto presto. La ragione è abbastanza semplice, e la riassumerei in quattro punti.

Primo. Quel che doveva essere fatto, separare banche commerciali e di investimento, imporre limiti ai mercati non regolamentati, attenuare i conflitti di interessi delle Agenzie di rating, non è stato fatto, o è stato fatto in modo insufficiente. Non aver corretto questi fattori di instabilità ci rende vulnerabili in caso di crisi.

Secondo. Il principale rimedio escogitato, negli Stati Uniti come in Europa, è stato inondare di liquidità i mercati, con i bassi tassi di interesse e le iniezioni di liquidità (Quantitative Easing e affini). Ma la liquidità è, al tempo stesso, il lenimento che attenua le crisi e il combustibile che le prepara.

Terzo. Diversi indicatori segnalano che la crescita di questi anni, in particolare quella dell’economia americana, sia arrivata al limite. Quel che si è formato in questi anni non è una bolla speculativa di tipo immobiliare, come nel 2007-2008, ma una bolla speculativa di tipo azionario, come nel 2000, quando crollò l’indice dei titoli tecnologici (NASDAQ). Per accorgersene basta osservare la corsa degli indici borsistici in rapporto al Pil: la capitalizzazione della Borsa americana rispetto al Pil USA ha superato il livello record del 2000, quando scoppiò la bolla tecnologica. E anche se, verosimilmente, i fondamentali delle aziende tecnologiche americane sono migliori di quelli di vent’anni fa, il rischio di una brusca frenata è tutt’altro che trascurabile.

Quarto. Anche in Europa si manifestano segni di tensione, in particolare sul mercato dei titoli di stato decennali. Il coefficiente di variazione dei rendimenti, una delle più semplici misure di allerta dei mercati, dopo aver toccato un minimo alla fine di gennaio di quest’anno, da 7 mesi è in costante ascesa. Anche se non siamo ancora entrati in una fase di “flight to quality” (cercare rifugio nei titoli sicuri, come i bund tedeschi), potremmo già essere nell’anticamera che la precede.

Se una crisi verrà, nei prossimi anni o già nei prossimi mesi, essa sarà anche il frutto delle omissioni di questi anni. Dopo aver proclamato ai quattro venti che l’importante era l’economia reale, non quella di carta (Main Street contro Wall Street), i regolatori dell’economia ben poco hanno fatto per ridurre le nostre fragilità, prime fra tutte una legislazione bancaria troppo permissiva e l’estensione del cosiddetto Sistema bancario ombra (Shadow Banking System), fondamentalmente sottratto ad ogni forma di vigilanza: “troppi paradisi”, verrebbe da dire, riprendendo il titolo del romanzo di Walter Siti. Perché quel che si è fatto, o meglio non si è fatto, è proprio questo: permettere la sopravvivenza di troppi luoghi in cui l’economia di carta soggioga e inquina l’economia reale.

 




I conti pubblici vanno male, ma non è tutta colpa dei grillini

Prima ancora di insediarsi, questo governo ha già conquistato un record: ieri pomeriggio, poco dopo le 15, lo spread ha toccato i 217 punti base. Non succedeva dal 28 gennaio 2014, pochi giorni prima che il traballante governo Letta fosse dimissionato dall’assalto di Renzi. Da allora lo spread ha attraversato alti e bassi, con un solo periodo critico paragonabile a quello attuale (il trimestre febbraio-aprile 2017), ma mediamente è rimasto sempre abbondantemente al di sotto dei livelli di oggi.

Ancor più inedita è la ripidità della salita dello spread: se guardiamo alla sua velocità di crescita, bisogna risalire alla grande crisi del 2011-2012 per ritrovare degli aumenti altrettanto vertiginosi di quelli delle ultime due settimane. Per non parlare della Borsa, che fino a qualche settimane fa era una delle più dinamiche del vecchio continente, mentre nelle ultime due settimane ha perso oltre il 6%, il che corrisponde a una perdita di oltre 30 miliardi di euro. Difficile fare dei conti precisi, perché le perdite di capitale dei possessori di titoli di Stato sono molto differenziate in funzione delle scadenze (massime per chi ha titoli a lungo termine, minime per chi ha titoli a breve), ma credo che, se si sommano i miliardi bruciati in Borsa e i miliardi bruciati sul mercato dei titoli di Stato, si possa tranquillamente affermare che la cifra che risparmiatori e investitori hanno perso in queste due settimane di incubazione del nuovo governo sia dello stesso ordine di grandezza, se non superiore, a quella (50 miliardi) che il nuovo governo spera di rastrellare con l’ennesimo condono (benignamente ridenominato “pace fiscale”), dai cui proventi spera di ricavare i quattrini per flat tax e reddito di cittadinanza.

Fin qui i disastri imputabili al duo Salvini-Di Maio, di cui non si sa se pensare che siano degli sprovveduti, che non hanno la minima idea di come funzionano i mercati finanziari, o se abbiano intenzionalmente voluto far precipitare la situazione (alcuni analisti si sono spinti a ipotizzare che provocare una crisi finanziaria sia un obiettivo intermedio, coscientemente perseguito, in modo da trovarsi presto “costretti” a uscire dall’euro).

Quella che ho esposto fin qui, tuttavia, è solo una faccia della medaglia. Ce n’è un’altra, che tendiamo a non vedere, ma che a mio parere è ancora più rilevante. Quando si parla di spread, troppo spesso si dimentica che di spread ne esistono due: uno è lo spread ordinario (quello di cui si parla dal 2011), ovvero la differenza di rendimento fra titoli di Stato italiani e tedeschi, l’altro è lo spread relativo, ovvero il rapporto fra il nostro spread e quello degli altri paesi a rischio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna (l’Irlanda è da tempo tornata nel gruppo dei paesi virtuosi). Questo secondo tipo di spread è molto più informativo, perché riflette solo le specificità dell’Italia, evitando di attribuire alle virtù o ai vizi di un singolo paese fenomeni che trascinano interi gruppi di paesi. Detto per inciso, questa è stata una obiezione giustamente sollevata nei giorni scorsi dai difensori del governo giallo-verde, che più volte hanno fatto notare che lo spread stava aumentando non solo in Italia ma anche in altri paesi. Ecco perché la storia di questi anni, vista in termini di spread relativo, potrebbe rivelarsi alquanto diversa da quella che abbiamo imparato attraverso lo spread assoluto.

E allora vediamo come sono andate le cose. Assumendo come metro lo spread dei due Paesi a noi più comparabili (Portogallo e Spagna), la storia è questa (vedi grafico seguente).

Fatto 100 lo spread di Spagna e Portogallo, il nostro spread è sempre stato inferiore a quota 100 sotto tutti i governi succedutisi fra il 2011 (anno di scoppio della crisi) e l’insediamento del governo Gentiloni. Ciò significa che i mercati si fidavano dei conti pubblici italiani più di quanto si fidassero di quelli spagnoli e portoghesi (non a caso messi sotto sorveglianza dalla Troika). Lo spread relativo era mediamente a livello 48 sotto Berlusconi, è salito a 62 sotto Monti, si è portato un po’ sopra quota 70 con Letta e Renzi. La vera svolta, però, è intervenuta nella seconda metà del 2016, con la campagna per il referendum istituzionale del 4 dicembre e in concomitanza con i molti appuntamenti elettorali critici in Europa e in America. Da allora lo spread relativo ha iniziato a crescere ininterrottamente e a un ritmo senza precedenti, fino a portarsi in prossimità della soglia critica dei 100, che indica che i nostri titoli di Stato sono considerati altrettanto rischiosi di quelli portoghesi e spagnoli. Il Rubicone del 100 punti è stato attraversato d’un balzo il 18 settembre dell’anno scorso, regnante Gentiloni. Da allora il nostro spread relativo, pur fra qualche oscillazione, non è mai sceso sotto i 100 punti, e anzi ha continuato a crescere inesorabilmente fino alla vetta attuale di 150 punti.

Ma non è tutto. Se osserviamo attentamente la curva che mostra il deterioramento della nostra posizione rispetto a quella di Spagna e Portogallo (grafico seguente), possiamo notare un paio di cose interessanti. La prima è che i mercati si sono accorti del voto del 4 marzo, perché l’andamento della curva si inverte precisamente a cavallo del 4 marzo (prima l’indice stava migliorando leggermente, poi altrettanto leggermente peggiora).

La seconda, ben più importante, è che al di là di questa piccola fluttuazione intorno alla data del voto, l’andamento generale dello spread relativo non è mutato per nulla: certo, è molto preoccupante oggi, perché siamo sopra quota 100 e la tendenza è alla crescita, ma era altrettanto preoccupante prima: dal gennaio del 2017, ossia da 15 mesi, lo spread relativo non ha fatto che crescere, e il Rubicone dei 100 punti lo ha attraversato ben 6 mesi prima delle elezioni del 4 marzo.

Questo significa che le domande con cui abbiamo a che fare sono due: perché lo spread relativo cresce oggi?, ma anche: perché cresceva pure ieri, quando eravamo saggi ed europeisti?

La mia risposta è che i mercati sono molto imperfetti ma non stupidi. I mercati si sono accorti che alcuni paesi, come Portogallo e Spagna, stanno riducendo il grado di vulnerabilità dei loro conti pubblici, se non altro perché sono tornati a crescere prima e più di noi. Ma, presumibilmente, si sono anche accorti che, dopo un periodo in cui abbiamo fatto qualcosa per risanare l’economia (soprattutto nel 2015-2016), ora il grado di vulnerabilità dei nostri conti pubblici è di nuovo in aumento. Secondo l’indice VS, elaborato dalla Fondazione David Hume, la svolta è avvenuta intorno all’aprile del 2017, circa 13 mesi fa: da allora l’indice segnala una lenta ma non per questo meno preoccupante risalita della vulnerabilità dei nostri conti. Questa circostanza, unita al fatto che, Grecia a parte, siamo giudicati il peggiore dei Piigs (paesi a rischio), dovrebbe farci molto riflettere: in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari, verosimilmente il paese più esposto sarebbe l’Italia.

Ecco perché le preoccupazioni per le intenzioni del nuovo governo sono più che giustificate. Con una sola postilla: se un governo Lega-Cinque Stelle costituisce un pericolo, è anche perché l’eredità che i governi della scorsa legislatura lasciano al governo entrante, al di là delle autolodi con cui essi amano raccontarsi, non è delle più rassicuranti.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 26 maggio 2018



I conti pubblici vanno male, ma non è tutta colpa del governo giallo-verde

Quando si parla di spread, troppo spesso si dimentica che di spread ne esistono due: uno è lo spread ordinario (quello di cui si parla dal 2011), ovvero la differenza di rendimento fra titoli di Stato italiani e tedeschi, l’altro è lo spread relativo, ovvero il rapporto fra il nostro spread e quello degli altri paesi a rischio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna (l’Irlanda è da tempo tornata nel gruppo dei paesi virtuosi). Questo secondo tipo di spread è molto più informativo, perché riflette solo le specificità dell’Italia, evitando di attribuire alle virtù o ai vizi di un singolo paese fenomeni che trascinano interi gruppi di paesi. Detto per inciso, questa è stata una obiezione giustamente sollevata nei giorni scorsi dai difensori del governo giallo-verde, che più volte hanno fatto notare che lo spread stava aumentando non solo in Italia ma anche in altri paesi. Ecco perché la storia di questi anni, vista in termini di spread relativo, potrebbe rivelarsi alquanto diversa da quella che abbiamo imparato attraverso lo spread assoluto.

E allora vediamo come sono andate le cose. Assumendo come metro lo spread dei due Paesi a noi più comparabili (Portogallo e Spagna), la storia è questa (grafico 1).

Fatto 100 lo spread di Spagna e Portogallo, il nostro spread è sempre stato inferiore a quota 100 sotto tutti i governi succedutisi fra il 2011 (anno di scoppio della crisi) e l’insediamento del governo Gentiloni. Ciò significa che i mercati si fidavano dei conti pubblici italiani più di quanto si fidassero di quelli spagnoli e portoghesi (non a caso messi sotto sorveglianza dalla Troika). Lo spread relativo era mediamente a livello 48 sotto Berlusconi, è salito a 62 sotto Monti, si è portato un po’ sopra quota 70 con Letta e Renzi. La vera svolta, però, è intervenuta nella seconda metà del 2016, con la campagna per il referendum istituzionale del 4 dicembre e in concomitanza con i molti appuntamenti elettorali critici in Europa e in America. Da allora lo spread relativo ha iniziato a crescere ininterrottamente e a un ritmo senza precedenti, fino a portarsi in prossimità della soglia critica dei 100, che indica che i nostri titoli di Stato sono considerati altrettanto rischiosi di quelli portoghesi e spagnoli. Il Rubicone del 100 punti è stato attraversato d’un balzo il 18 settembre dell’anno scorso, regnante Gentiloni. Da allora il nostro spread relativo, pur fra qualche oscillazione, non è mai sceso sotto i 100 punti, e anzi ha continuato a crescere inesorabilmente fino alla vetta attuale di 150 punti.

Ma non è tutto. Se osserviamo attentamente la curva che mostra il deterioramento della nostra posizione rispetto a quella di Spagna e Portogallo (grafico 1), possiamo notare che l’andamento generale dello spread relativo prima e dopo il voto del 4 marzo è molto simile. Certo, è molto preoccupante oggi, perché siamo sopra quota 100 e la tendenza è tuttora alla crescita, ma era altrettanto preoccupante prima: dal gennaio del 2017, ossia da 15 mesi, lo spread relativo non ha fatto che crescere, e il Rubicone dei 100 punti lo ha attraversato ben 6 mesi prima delle elezioni del 4 marzo.

Questo significa che le domande con cui abbiamo a che fare sono due: perché lo spread relativo cresce oggi?, ma anche: perché cresceva pure ieri, quando eravamo saggi ed europeisti?

La mia risposta è che i mercati sono molto imperfetti ma non stupidi. I mercati si sono accorti che alcuni paesi, come Portogallo e Spagna, stanno riducendo il grado di vulnerabilità dei loro conti pubblici, se non altro perché sono tornati a crescere prima e più di noi. Ma, presumibilmente, si sono anche accorti che, dopo un periodo in cui abbiamo fatto qualcosa per risanare l’economia (soprattutto nel 2015-2016), ora il grado di vulnerabilità dei nostri conti pubblici è di nuovo in aumento. Secondo l’indice VS, elaborato dalla Fondazione David Hume, la svolta è avvenuta intorno all’aprile del 2017, circa 13 mesi fa: da allora l’indice segnala una lenta ma non per questo meno preoccupante risalita della vulnerabilità dei nostri conti (grafico 2).

Questa circostanza, unita al fatto che, Grecia a parte, siamo giudicati il peggiore dei Piigs (paesi a rischio), dovrebbe farci molto riflettere: in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari, verosimilmente il paese più esposto sarebbe l’Italia.

L’articolo completo esce oggi su Il Messaggero e sarà disponibile da domani sul sito della Fondazione David Hume



La spada di Damocle

Apparentemente, è calma piatta. Il 4 marzo si è votato, poi è cominciato il balletto. Un mese per non decidere nulla. Un giro di consultazioni al Quirinale in cui tutti i partiti hanno “ribadito” le rispettive posizioni. Una richiesta di ulteriore tempo al Capo dello Stato, come se di tempo non ne avessero avuto abbastanza, o come se fino a questo punto avessero dimostrato di saperlo usare proficuamente.

Però mentre la politica dorme, le autorità europee, l’economia, i mercati fingono di sonnecchiare, ma sono più vigili che mai. La autorità europee attendono al varco il nuovo governo. Entro la fine di aprile l’Italia dovrebbe comunicare a Bruxelles le sue linee programmatiche sui conti pubblici. Ma è molto improbabile che entro quella data “Lor signori” (i parlamentari neo-eletti) si siano degnati di trovare un accordo che permetta la nascita di un esecutivo. Quindi la Commissione Europea, che già l’anno scorso aveva segnalato all’Italia il mancato rispetto degli impegni presi, dovrà sì attendere che in Italia ci sia un governo, ma poi difficilmente potrà evitare di intervenire. Proprio negli ultimi giorni l’Istat non solo ha confermato gli scostamenti, ma ha dovuto correggere (in peggio) le stime del deficit e del debito pubblico, che a causa dei soldi spesi per i salvataggi bancari sono oggi ancora più preoccupanti di quel che si pensava. Il minimo che si può prevedere è che, una volta insediato il nuovo governo e rese note tutte le cifre, Bruxelles ci chieda una manovra correttiva. Fino a ieri si parlava di 3-4 miliardi, oggi non si esclude che la cifra possa essere maggiore. Una cifra cui, comunque, si dovrà aggiungere qualcosa come 12-13 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che altrimenti scatterà inesorabilmente dal 1° gennaio 2019.

Questi probabili aumenti delle tasse, peraltro, si inseriscono in un quadro di rallentamento e soffocamento dell’economia. La stima della pressione fiscale del 2017 è stata rivista al rialzo. Fra il 2017 e il 2016 sono saliti sia l’ammontare delle imposte dirette sia, ancor più, quello delle imposte indirette. Nell’anno appena trascorso il potere di acquisto è aumentato leggermente, ma molto meno che l’anno precedente. Il numero di disoccupati resta in prossimità dei 3 milioni di unità, mentre la formazione di posti di lavoro continua a riguardare i contratti a termine assai più che i contratti a tempo indeterminato. Quanto al debito, le ultime correzioni dell’Istat non lasciano dubbi sul fatto che, nonostante gli impegni solennemente e puntualmente assunti ogni anno dal Ministro dell’Economia, il promesso percorso di riduzione del rapporto debito-Pil non sia ancora iniziato.

A fronte di questi numerosi e concordi segnali negativi, si potrebbero mettere in luce alcuni elementi relativamente rassicuranti. Ad esempio, a fine ottobre 2017 Standard & Poor’s, per la prima volta da 29 anni, ha leggermente alzato il rating dell’Italia. Ed era dal 2002, ossia da 15 anni, che nessuna agenzia di rating faceva un passo del genere. Soprattutto, sembra fornire qualche conforto la circostanza che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto il successo delle forze più anti-europee e più disinvolte sui conti pubblici (Cinque Stelle e Lega), nulla si sia mosso. Ferme le altre agenzie di rating, fermi i mercati finanziari, che hanno lasciato sostanzialmente invariato (intorno a 130 punti) lo spread fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Ma è una lettura ingannevole, per diverse ragioni.

Le Agenzie di rating, come la Commissione europea, semplicemente hanno deciso di aspettare le elezioni e la nascita del nuovo governo prima di esprimersi. Una delle tre agenzie principali, Moody’s, lo ha affermato esplicitamente. Il 9 febbraio una sua esponente, l’analista senior per i rating sovrani Kathrin Muehlbronner, ha dichiarato: «Moody’s risolverà l’outlook sul rating dell’Italia dopo le elezioni ma è improbabile che questo avvenga già il 16 marzo» (il 16 marzo è una delle date previste dall’Agenzia per emettere giudizi sull’Italia). E’ verosimile che la medesima linea di condotta sia adottata dalle altre Agenzie.

Una seconda ragione che dovrebbe indurre a una certa cautela è che, per ora, al governo non ci sono i barbari anti-euro e anti-Europa ma il super-rassicurante premier Gentiloni, e l’ultra-europeo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. È presumibile che anche i mercati, come i governi e le Agenzie di rating, attendano la nascita del nuovo esecutivo prima di emettere i propri giudizi.

Ma l’elemento che più dovrebbe farci riflettere è l’andamento dell’indice VS, uno strumento messo a punto dalla Fondazione David Hume per misurare la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici delle economie avanzate. Ebbene, i calcoli effettuati per il primo trimestre del 2018 (a breve disponibili su questo sito) mostrano che la vulnerabilità dei nostri conti, che era stata in leggera in diminuzione dall’inizio del 2014 all’inizio del 2017, da circa un anno mostra una pericolosa tendenza all’aumento. C’è solo da augurarsi che di tale vulnerabilità non si sia presto costretti ad accorgerci tutti quanti, quando i mercati dovessero rialzare la testa.

Articolo pubblicato su Panorama del 12 aprile 2018



La quiete prima della tempesta?

Mentre i politici italiani, fra una consultazione quirinalizia e l’altra, non smettono di offrire ai cittadini lo spettacolo della loro inconcludenza, la realtà esterna al Palazzo è tutt’altro che immobile. I segnali che vengono dal mondo reale, tuttavia, non sono certo univoci. Sul versante dei consumi, nonostante la crisi e i suoi strascichi, il numero di famiglie che “non riescono ad arrivare alla fine del mese”, e quindi sono costrette a ricorrere ai risparmi o all’indebitamento, continua a diminuire. Sfioravano il 30% nel 2012-2013, al culmine della crisi dello spread, ora sono meno del 15%, il livello più basso da dieci anni. Sul versante della produzione, invece, si sente qualche scricchiolio. Giusto nei giorni scorsi l’Eurostat ha diffuso i dati della produzione industriale nell’eurozona, che per il terzo mese consecutivo segnalano un calo sia nell’eurozona stessa sia nell’Europa a 28. Anche in Italia la produzione è in calo (da 2 mesi), mentre le previsioni dei centri studi sulla dinamica del Pil nel 2018 diventano via via più caute.

Dove le cose si fanno più inquietanti, però, è sul versante finanziario. A livello europeo i timori sono legati a tre fattori fondamentali. Primo, l’inizio di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, ma anche, se non soprattutto, fra l’Europa e gli stati con cui commerciamo. Secondo, l’attesa di un aumento dei tassi di interesse non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Terzo l’esaurimento del Quantitative Easing (già alla fine di quest’anno) e la fine del mandato di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea (alla fine del 2019).

Ai timori per le sorti dell’economia europea si aggiungono, in Italia, le incertezze e le preoccupazioni legate alla nascita del nuovo governo. Quel che inquieta non è tanto l’eventualità che il Paese stia per qualche mese senza un governo, o la facile previsione secondo cui il governo che verrà sarà debole e paralizzato dai dissensi interni, quanto il rischio che, a prescindere da quel che il nuovo governo effettivamente farà, e anche a prescindere da quel che la Commissione europea gli permetterà di fare, si riapra una fase in cui sono i mercati finanziari a dettare l’agenda politica al Paese.

Il fatto curioso è che i più acerrimi difensori della nostra sovranità, i più risoluti nemici della finanza internazionale e delle sue interferenze nella vita degli stati nazionali, sono i Cinque Stelle e la Lega, che però sono anche le forze che, con i loro programmi economici, hanno le maggiori probabilità di riconsegnare l’Italia all’arbitrio dei mercati e alla tutela delle autorità sovranazionali (la famigerata Troika, ossia Fondo Monetario, Bce e Commissione europea). Mentre i più preoccupati di una perdita di autonomia dell’Italia, se non di un vero commissariamento, paiono il Pd e Forza Italia, cioè precisamente le due forze che vengono accusate di subalternità verso i diktat dell’Europa.

Ma è reale il rischio di una nuova offensiva della speculazione verso l’Italia? Più precisamente: è realistico pensare che, di fronte a un esecutivo populista e anti-europeo, scatti una reazione a catena che, come nel 2011, possa distruggere la reputazione economica del Paese e mettere a repentaglio i suoi risparmi?

Per certi versi penso di no, soprattutto per un motivo: l’eventualità di un collasso dell’euro, profetizzata nel 2011-2012 da tanti luminari dell’economia, dopo il “whatever it takes” di Draghi (luglio 2012) sembra divenuta estremamente improbabile.

Ma per altri versi quella preoccupazione non andrebbe presa troppo sottogamba. Magari non si ripeterà il 2011, ma anche una crisi la cui entità fosse la metà di quella di allora sarebbe estremamente pericolosa. Finora abbiamo contenuto i nostri timori soprattutto sulla base di una circostanza: dopo il voto del 4 marzo lo spread dei titoli di Stato decennali dell’Italia con quelli della Germania è rimasto sostanzialmente invariato, intorno ai 130 punti base. Ma questa rassicurante staticità è altamente fuorviante. Se come termine di riferimento, anziché i titoli tedeschi, prendiamo quelli spagnoli e portoghesi (cioè quelli dei due Piigs a noi più comparabili), scopriamo che lo spread fra i nostri titoli e i loro era in miglioramento (diminuzione) fino al 2 marzo, il venerdì prima del voto, ed è in costante peggioramento (aumento) dal 5 marzo a oggi: il punto di svolta è esattamente il 4 marzo, giorno del voto. Apparentemente in sonno, i mercati di fatto hanno già reagito alla potenziale instabilità italiana.

Fonte: Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg

Né le cose appaiono più rassicuranti se, anziché al comportamento dei mercati, guardiamo alla salute dei conti pubblici e ai fondamentali dell’economia. L’indice VS (elaborato dalla Fondazione Hume), che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese, segnala che, dopo un biennio di miglioramento, da circa 12 mesi la tendenza dei nostri fondamentali è di nuovo al peggioramento.

È vero dunque, come ha scritto qualche giorno fa Romano Prodi su questo giornale, che “ci troviamo ancora in una fase di quiete”, ma è ancora più vero (cito ancora Prodi) che “si tratta solo di un intervallo che, in quanto tale non sarà troppo lungo”. Il rischio è che, quella di oggi, sia la quiete che precede la tempesta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2018