Un paese elettorale in stallo

In attesa delle elezioni, questo è il tempo delle simulazioni. Lo so, mancano ancora molti elementi per poter fornire stime previsive un po’ più sensate. I confini dei collegi del Rosatellum non sono ancora definitivi; le alleanze di coalizione sono ancora lontane dall’essere decise; i candidati nei diversi collegi non sono ancora ovviamente noti; gli orientamenti di voto sembrano cambiare ormai molto rapidamente negli ultimi anni, talora in pochi mesi, e i mesi che ci separano dalle prossime consultazioni sono almeno tre o quattro. Dunque, visto che nessuna simulazione può tener correttamente conto di questi elementi, secondo alcuni critici sarebbe meglio non farle; sarebbero quanto meno fuorvianti, se non del tutto erronee.

E però da queste prime ipotesi di scenario elettorale qualche indicazione, sia pur provvisoria e revocabile, ci arriva sicuramente, ed è opportuno tenerne conto, per seguire gli sviluppi e i movimenti compiuti dalle diverse forze politiche in avvicinamento alla campagna e all’appuntamento di voto. Quali sono dunque queste prime indicazioni?

1. Il Rosatellum, ormai è chiaro a tutti, favorisce nettamente il centro-destra e sfavorisce il Movimento 5 stelle. L’unica area politica che, con un impianto proporzionale, avrebbe scarse chance di vittoria, recupera parecchie posizioni competitive in un quadro di collegio uninominale, in particolare per l’assenza di voto disgiunto. Nell’antico Mattarellum, gli elettori di Lega e Forza Italia rinunciavano talvolta a votare candidati dell’altro partito della propria coalizione, preferendo scelte diverse. Oggi non potrebbero farlo, e certo non rinunceranno a votare la propria lista anche in presenza di un candidato proveniente da un altro partito della coalizione.

2. I pentastellati sono la sola forza che non intende coalizzarsi con nessuno, pena la rinuncia della propria specificità, e potrà dunque contare solamente sul suo seguito elettorale, senza l’aggiunta di altri elettorati possibili. Nel proporzionale sarà molto probabilmente il primo “partito”, mentre nella competizione di collegio rischierà spesso di precipitare al terzo posto. Per recuperare questo difetto coalizionale, dovrebbe incrementare di molto il proprio bagaglio di consensi, andando oltre il 35%. Non molto facile.

3. Il Partito Democratico sta un po’ a metà strada tra le due altre formazioni politiche: ha infatti la possibilità di presentarsi in coalizione con qualcuno, per poter vincere in più collegi, ma il suo problema riguarda la scelta dei partiti con cui coalizzarsi (si vedano le tabelle 1 e 2). O, se si vuole, di quali partiti vogliano coalizzarsi con lui. Le simulazioni ci mostrano in maniera evidente che una coalizione con i partiti di centro, unitamente ad altre forze politiche (si parla dei radicali, dei socialisti, di ciò che resta di Scelta Civica), non renderebbe i Dem molto competitivi, e rischierebbero di vincere un numero di collegi simile ai 5 stelle, tra i 50 e i 60, lasciando la fetta maggiore al centro-destra. Una coalizione con la sinistra li renderebbe al contrario molto più forti, ma qui il vero problema sta nella controversa volontà dei tanti gruppi alla sua sinistra di scendere in campo con il partito di Renzi, se Renzi rimane in sella. Un dilemma non da poco.

Ipotesi 1: Centro-Destra unito e Pd+sinistra*

Ipotesi 2: Centro-Destra unito e Pd+Ap+altri*

4. Dal punto di vista territoriale (tabelle 3 e 4), le simulazioni mostrano chiaramente una spaccatura dell’Italia in 3 zone assai differenziate nei risultati elettorali, per quanto riguarda le probabili vittorie all’uninominale. Il Nord vede la netta prevalenza della coalizione di centro-destra, che dovrebbe conquistare oltre i tre quarti dei collegi; il centro-nord (le tradizionali zone rosse) ribadisce la consueta predominanza del centro-sinistra, cui andrebbero almeno i due terzi dei collegi, e ancor di più nell’ipotesi di coalizione con la sinistra; nelle aree meridionali del paese, dal Lazio in giù, la competizione più serrata è tra 5 stelle e centro-destra, con il movimento di Grillo in buon vantaggio, il che sottolinea la evidente meridionalizzazione del voto pentastellato.

Ipotesi 1: Centro-Destra unito e Pd+sinistra*

Ipotesi 2: Centro-Destra unito e Pd+Ap+altri*

5. La situazione al Senato, di cui si parla poco, vedrebbe peggiorare il risultato dei 5 stelle, che perderebbero una fetta importante del proprio elettorato (giovanile), lasciando ancor più collegi al centro-sinistra e soprattutto al centro-destra, dove l’elettorato meno giovane è fortemente prevalente.

6. Ma l’elemento più certo di questo sistema di voto (come peraltro di molti altri), che le simulazioni evidenziano in maniera chiara, è che non pare possa esserci una maggioranza per nessuna forza od area politica e che le stesse possibili coalizioni post-voto, per governare il paese, saranno di difficile attuazione, a meno di un (improbabile) coinvolgimento del M5s. La stessa ventilata ipotesi di un esecutivo Forza Italia-Partito Democratico non ha sicuramente numeri sufficienti, nemmeno con l’altrettanta improbabile cooptazione della sinistra. Saremo in stallo. Poi torneremo a votare?

*Fonte: elaborazioni curate da Paolo Natale sulla base di circa 60mila interviste effettuate da Ipsos di Milano
Ripartizioni utilizzate: Nord-Ovest (Piemonte-Lombardia-Liguria), Nord-Est (Veneto-TrentinoAA-FriuliVG), Centro-Nord (Emilia Romagna-Toscana-Umbria-Marche), Centro-Sud (Lazio-Abruzzo-Molise-Campania), Sud e Isole (Puglia-Basilicata-Calabria-Sicilia-Sardegna)



Conti pubblici, una farsa che dura da molti anni

La Commissione europea non è soddisfatta dei nostri conti pubblici. Nel linguaggio paludato e un po’ criptico che caratterizza gli scambi fra gli uffici del ministero dell’Economia e quelli della Commissione, ci ha fatto sapere che i nostri conti non la convincono, né sul 2017 né per il 2018.

Una prima lettera è partita alla fine di ottobre. Ma la risposta del ministro Padoan non ha convinto. Lo ha detto chiaramente il vicepresidente della Commissione, il finlandese Jyrki Katainen, la settimana scorsa: “Tutti possono vedere che la situazione in Italia non migliora”.

Quindi un’altra lettera è in corso di preparazione, e sarà inviata a breve al nostro Governo. Ma il giudizio finale della Commissione sui conti pubblici dell’Italia arriverà solo a maggio 2018, quando i buoi della spesa pubblica saranno già scappati dalle stalle.

Questo rituale, che si ripete tutti gli anni, è curioso. In autunno il Governo vara la cosiddetta Finanziaria, con relativo assalto alla diligenza da parte di sindacati e gruppi di pressione. La Commissione europea esprime dubbi e richieste di chiarimento, ma poi lascia fare, rimandando il giudizio definitivo alla primavera dell’anno dopo. Quando la primavera arriva si comincia a capire che i numeri dei conti pubblici non potranno mai essere quelli promessi perché l’economia, quella birichina, vuol fare tutto di testa sua e non si adegua alle previsioni dei governanti italiani. A quel punto però è tardi, e tutto quel che la Commissione Ue può fare è raccomandare una “manovrina” correttiva, e di comportarsi meglio l’anno successivo. Il nostro governo risponde che sì, si impegnerà molto (da un po’ di tempo però preferisce parlare di “sforzi” messi in atto, o da mettere in atto), e che gli obiettivi mancati quest’anno saranno raggiunti l’anno prossimo. L’anno prossimo arriva, le cifre non sono quelle messe nero su bianco l’anno prima, e la commedia ricomincia.

Poiché si tratta di una commedia, è abbastanza inutile rileggersi il copione nei minimi dettagli, entrando nelle infinite diatribe che caratterizzano questi balletti di cifre, apparentemente tecnici ma in realtà tutti politici: con quale modello statistico calcolare il PIL potenziale e l’output gap, come determinare l’avanzo primario strutturale, quali sono i margini di flessibilità cui l’Italia ha diritto.

Meglio andare direttamente al punto: come stanno evolvendo i conti pubblici dell’Italia?

Per rispondere a questa domanda occorre, a mio parere, distinguere due aspetti del problema. Il primo aspetto è la salute delle nostre finanze pubbliche, il secondo è la loro capacità di resistere ad un’eventuale impennata dei tassi di interesse. Anche se, nel lungo periodo, si tratta di due facce della stessa medaglia, nel breve periodo possono divergere un po’: un paese come il nostro, con conti in cattiva salute, può risultare più o meno vulnerabile a seconda dell’andamento di altri aspetti della sua economia.

Se ragioniamo sulla salute, quel che dobbiamo chiederci è come stanno evolvendo i due fondamentali indicatori di malattia, ovvero il rapporto debito/PIL e l’avanzo primario strutturale (corretto per il ciclo e le una tantum). Ebbene, su entrambi i fronti le cose non vanno bene, come ha mostrato in modo inoppugnabile Veronica De Romanis usando serie storiche prodotte da organismi internazionali (dati e grafici reperibili sul nostro sito). Nonostante le promesse renziane di ridurlo, il rapporto debito/PIL è oggi più alto che nel 2013-2014, e presumibilmente non inizierà a scendere in modo apprezzabile neanche quest’anno (anzi, secondo la Commissione europea aumenterà leggermente). Ancora più grave la situazione dell’avanzo primario corretto per il ciclo, che negli ultimi anni è sempre peggiorato, e presumibilmente continuerà a farlo quest’anno.

Se dalla salute dei conti pubblici passiamo alla capacità di resistenza (o al suo opposto: la vulnerabilità), il quadro si fa un po’ meno scoraggiante. La vulnerabilità dei conti pubblici, ovvero il rischio che una nuova crisi finanziaria faccia schizzare in alto lo spread (come nel 2011-2012), non dipende solo dall’ampiezza del debito pubblico ma anche da altri fattori, come il debito privato, l’andamento del Pil e quello dell’inflazione. Se, per misurare la vulnerabilità, usiamo l’indice di vulnerabilità strutturale elaborato dalla Fondazione David Hume, possiamo notare che la vulnerabilità dei nostri conti pubblici è leggermente aumentata nel triennio 2014-2016, ma nel corso del 2017 risulta in diminuzione, cioè in sensibile miglioramento (dati e grafici sul nostro sito). La ragione è molto semplice: grazie alla ripresa in atto in tutta Europa, anche l’economia italiana sta andando meglio, e questo rende i nostri conti pubblici un po’ meno vulnerabili di quanto lo fossero negli anni scorsi.

Possiamo stare tranquilli, dunque?

Direi proprio di no. Sfortunatamente stiamo per entrare in un periodo di forti rischi finanziari, non solo perché lo scudo del Quantitative Easing della Bce sta per venir meno, ma perché è piuttosto probabile che, in futuro, cambino le regole che oggi consentono alle banche di contabilizzare fra gli attivi i titoli di Stato del proprio Paese, anche se quest’ultimo è fortemente indebitato. Se queste regole venissero cambiate, e i titoli del debito pubblico venissero svalutati in base al grado di deterioramento dei conti pubblici di ogni paese, l’Italia correrebbe rischi molto seri. E, forse, qualche politico si pentirebbe amaramente di aver sciupato questi anni, in cui – grazie alla riduzione dei tassi di interesse – qualcosa si poteva fare e invece così poco è stato fatto.

Articolo pubblicato su Panorama



Pd e Sinistra Purosangue

Dev’essere un bel dilemma, quello con cui devono fare i conti il Pd e la “Sinistra Purosangue” (d’ora in poi SP), ovvero la microgalassia di sigle e gruppi che cercano di occupare lo spazio alla sinistra del Pd: Sinistra Italiana (Fratoianni), Mdp (Bersani e D’Alema), Campo progressista (Pisapia), Possibile (Civati), la sinistra “civica” del Brancaccio (Falcone e Montanari), giusto per citare i raggruppamenti di cui più si parla.

Il dilemma è questo. Se si presentano separatamente, conquistano pochissimi seggi e decretano la sconfitta della sinistra, ripetendo il copione del 2001, quando bastò la corsa solitaria di Bertinotti a spianare la strada a Berlusconi. Se si presentano alleati, conquistano più seggi, ma rendono ridicola e incomprensibile la scissione di qualche mese fa.

Personalmente penso che, alla fine, il bisogno di poltrone prevarrà, e qualche tipo di alleanza vedrà la luce. Però penso anche che non sia questo il punto. Il punto interessante sono le differenze programmatiche. Perché un eventuale programma comune potrà anche smussarle o camuffarle, ma non cancellarle. Anche se prima del voto venisse trovato un accordo, un minuto dopo le elezioni quelle differenze tornerebbero a galla. E non è neppure escluso che il Pd tenti un governo con Forza Italia, e SP, la Sinistra Purosangue, tenti un governo con i Cinque Stelle.

Ma quali sono le differenze importanti?

Sono sostanzialmente tre. Pd e SP dissentono sul Jobs Act, sulle tasse e sui migranti. Più esattamente, la Sinistra Purosangue vuole reintrodurre l’articolo 18, pensa che molti problemi si possano risolvere aumentando le tasse ai ricchi, disapprova le politiche di contenimento dei flussi migratori del ministro Minniti. E traduce queste sue critiche in una tesi politica tanto semplice quanto efficace: il Pd “non è più di sinistra”.

Sul fatto che il Pd non sia un partito di sinistra, che rappresenta le istanze dei ceti popolari, sono sostanzialmente d’accordo. Lo penso anch’io, e lo penso semplicemente perché è quel che risulta dalle analisi empiriche, quando si va a vedere chi vota chi. Il Pd è sovra rappresentato fra i ceti medi e più in generale nel mondo dei garantiti, mentre i ceti bassi, ovvero il mondo degli esclusi, dei precari, e di chi è esposto ai rischi del mercato, preferiscono guardare altrove: ieri ai partiti di destra, ora anche al Movimento Cinque Stelle. Il punto, però, è che anche la Sinistra Purosangue non è radicata nei ceti popolari, ma pesca semmai fra i “ceti medi riflessivi”, impegnatissimi nelle grandi “battaglie civili”, dal divorzio all’aborto, dal testamento biologico allo Ius soli, ma lontanissimi dalla sensibilità popolare.

Insomma, quel che voglio dire è che, se ammettiamo che una forza di sinistra deve essere capace di rappresentare almeno il nucleo delle istanze popolari, allora non sono di sinistra né il Pd né la Sinistra Purosangue, che in fondo, in un modo o nell’altro, si richiama semplicemente a quel che il Pd era prima di Renzi. La politica del Pd non è in sintonia con i ceti popolari non perché ha varato il Jobs Act, ma perché il suo atto più significativo, gli 80 euro in busta paga, ha tagliato fuori precisamente gli strati sociali più bassi: chi non ha un lavoro, e chi guadagna così poco da non poter usufruire dello sconto fiscale. La politica della Sinistra Purosangue, invece, non è in sintonia con i ceti popolari perché sul nodo scottantissimo delle politiche migratorie invoca l’esatto contrario di quel che la gente vuole, ovvero una stretta sugli ingressi irregolari in Italia.

Se una differenza politica si vuole trovare fra Pd e SP, a me sembra che la si possa descrivere così. Checché ne dica Bersani, non è il Pd di Renzi che “non è più di sinistra”, visto che è almeno da vent’anni che gli eredi del Pci non rappresentano più i ceti subordinati. Quell’etichetta nostalgica, che allude ai bei tempi in cui la sinistra faceva la sinistra, si applica semmai alla Sinistra Purosangue, che si illude che basti rispolverare le vecchie ricette – più tasse, più vincoli alle imprese – per resuscitare un mondo che è definitivamente tramontato. Del Pd renziano, non direi che “non è più” di sinistra, come se prima di Renzi ancora lo fosse, ma semmai che “non è ancora” di sinistra, se essere di sinistra significa innanzitutto – oggi come ieri – promuovere l’emancipazione di chi sta in basso. Un’emancipazione che, nelle condizioni dell’Italia di oggi, a mio modesto parere significa soprattutto tre cose: mettere le imprese in condizione di creare posti di lavoro veri, fermare il declino della qualità dell’istruzione nella scuola e nell’università, fornire risposte alla domanda di sicurezza, particolarmente intensa nelle periferie e nelle realtà più degradate.

Tutti compiti per cui la sinistra non è attrezzata, ma per i quali la Sinistra Purosangue sembra esserlo ancora meno del Pd. Dalla prima, realisticamente, mi aspetto solo una cosa: nostalgia, nostalgia, nostalgia. Dal Pd mi aspetto che, finalmente, faccia una scelta: prendere sul serio la domanda di protezione, economica e sociale, che sale dai ceti popolari, o lasciare che siano solo la destra e i Cinque Stelle a farsene interpreti.




Uno spregiudicato, Grasso. Un irresponsabile, Berlusconi

Grazie a Pierluigi Bersani—a mio avviso uno degli sfascisti più catastrofici della storia italiana (e della sinistra) di questi anni—una legione di pretoriani è riuscita in un’impresa che sarebbe stata impensabile nella Prima Repubblica democristiana, quella di ‘piazzare’ alle tre più alte cariche dello Stato—Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama—tre presidenti di parte, nessuno dei quali concordato con l’opposizione. Il fair play ormai è un lontano ricordo: il leone non si riserva la parte più grossa (quia est leo) ma prende per sé tutto il mazzo sapendo di poter contare sulla maggioranza dei voti.

Vedendo le mosse di Pietro Grasso di questi giorni, il suo grande elettore può ben  dirsi  soddisfatto. La prima performance fu l’estromissione dell’ex Cavaliere dal Parlamento grazie all’imposizione del voto palese: un’autentica vergogna giacché si è impedito il voto segreto per sfiducia nella propria base parlamentare–se nessun senatore del centro destra, infatti, avrebbe votato contro Berlusconi, non pochi senatori di sinistra avrebbero potuto obbedire alla loro coscienza e votare a suo favore, senza attenersi alle direttive dei gruppi parlamentari. Oggi si è avuta la seconda, con la scomunica pubblica del PD renziano e la restituzione della tessera. Sennonché quella tessera Grasso non avrebbe dovuto restituirla nel momento dell’elezione alla presidenza del Senato, come gesto simbolico e impegno a tenersi, nell’esercizio dell’alta carica, super partes? In passato, non tutti i titolari delle tre più alte cariche dello Stato hanno dato   prova di ‘stile’, è vero: non hanno abbandonato i rispettivi partiti né Casini, né Bertinotti, né Fini. Sennonché, a parte il fatto che, nello svolgimento delle loro funzioni, Casini, Bertinotti e Fini hanno cercato di far dimenticare le aree politiche  di provenienza (persino Gianfranco Fini–come dimostra il libro non simpatizzante che gli ha dedicato Paolo Armaroli—come Presidente della Camera  non ha demeritato), nessuno dei tre ha fatto sentire la sua voce per delegittimare pesantemente un partito, dicendo agli Italiani che il vero PD non è quello che pretende di essere tale ma quello del suo ‘benefattore’ Bersani.

 Intendiamoci, nessuno vieta a Grasso di scendere in campo—un liberale è decisamente contrario non soltanto al mandato imperativo ma anche a leggi che impediscano agli eletti del popolo di cambiare casacca—ma non può farlo senza deporre nell’armadio la giacca nera dell’arbitro per indossare la maglietta del giocatore. Mi rendo conto che a ragionare in termini di buon gusto e di correttezza etica in un periodo in cui conta solo il reato accertato dal tribunale e la colpa morale è relegata, come il peccato, nella privacy, si corre il rischio di abbaiare alla luna ma ricordare i codici del ‘mondo di ieri’ forse può configurarsi come un nuovo dovere civico.

 In questo mondo di iene e di sciacalli, è passata inosservata una notizia alla quale ha dato ampio risalto domenica scorsa il quotidiano ‘Libero’ con un articolo di Renato Farina, Sostenere Grasso per colpire Renzi. La tentazione (pericolosa) del Cav. Farina è un giornalista che non mi piace: il suo antirisorgimentismo, il suo tradizionalismo cattolico quasi lefevriano, il suo eccessivo gusto per il politicamente scorretto sono irritanti, almeno per un liberale ottocentesco come me, ma la sua denuncia di un centro-destra pronto, su ordine di Berlusconi, «a far di tutto, pur di facilitare la caduta di Renzi, allo scopo di favorire il consolidamento politico del presidente del Senato  alla testa di una sinistra di sapore comunista e giustizialista» me l’ha fatto apparire come il protagonista del Rinoceronte di Ionesco, l’unico ad essersi mantenuto lucido in una congrega politica  resa fin troppo euforica dal voto siciliano. Giustamente Farina ha ricordato il Kaiser che nel 1917 finanziò la rivoluzione bolscevica, Carter che nel 1979 armò Bin Laden per sconfiggere i sovietici in Afghanistan.« Così non va—ha rilevato—Non è roba liberale, non è lealtà, non porta bene la logica comunista del tanto peggio tanto meglio».

 Non è solo questione di lealtà, tuttavia. Ammettiamo pure che la sinistra antirenziana riesca a spaccare l’attuale PD e che, accanto al vecchio, se ne formi uno nuovo—in sostanza, una riedizione di Rifondazione comunista—di pari entità, quale vantaggio ne trarrebbe il paese? Se assieme—ipotesi dell’irrealtà—i due tronconi della sinistra ottenessero la maggioranza dei seggi parlamentari, che probabilità avrebbe il vecchio di impedire al nuovo di cancellare le poche leggi buone fatte nella breve era renziana? E se il partito antirenziano—rafforzato anche dalla desistenza berlusconiana– potesse far maggioranza col M5S, non sarebbe il trionfo del giustizialismo più disinibito e non comporterebbe per l’ex Cavaliere la ricerca di una sua Hammamet?

 Renzi gioca (malamente) la carta del riformismo socialdemocratico, il centro-destra gioca (o dovrebbe giocare) la carta del riformismo liberale: nemici oggettivi di entrambi sono gli antiriformisti della destra populista e della sinistra neo-massimalista—contro i quali potrebbero essere costretti, centro-destra e centro-sinistra, a coalizzarsi un domani non lontano, seguendo, d’altra parte, un trend europeo ben illustrato recentemente da Sergio Fabbrini sul ‘Sole-24 Ore’. La strategia che ha in mente Berlusconi–se Renato Farina non s’è inventato il foglio d’ordini partito da Arcore—non è la riprova del suo machiavellismo .Machiavelli si rivolterebbe nella tomba sapendo che un uomo politico per eliminare un competitore che gli contende il potere, favorisce l’avversario del suo avversario ovvero un estremista che una volta al governo, gli toglierebbe non solo il potere, ma anche la libertà, i beni e la vita).La strategia di Berlusconi, in realtà, è solo la riprova  della sua irresponsabilità—che rischia di rimanere l’unica caratteristica che lo accomuna ai giovani.




L’anomalia italiana/ La Repubblica degli allenatori senza chances di governare

E’ un po’ di tempo che, nei palazzi della politica, e di riflesso sui mezzi di informazione, non si fa altro che parlare del candidato premier dei vari schieramenti. Sembra che sia vitale decidere chi è il candidato premier di ciascuno dei tre schieramenti, e qualcuno (Di Maio) è persino arrivato a ritirarsi da un confronto televisivo perché non era sicuro che il suo interlocutore (Renzi), da lui stesso sfidato a singolar tenzone, sarebbe effettivamente stato il candidato del centro-sinistra. Immagino che, con la stessa ferrea logica, Di Maio si sottrarrà anche al confronto con Berlusconi e Salvini, visto che il candidato premier del centro-destra si conoscerà solo dopo il voto, quando si saprà chi, fra i due, avrà ottenuto più voti.

E’ un dibattitto surreale, però. Non solo perché, finché la Costituzione resta quella che è, le elezioni non servono a scegliere un premier ma a formare un Parlamento, ma per il semplice motivo che chiunque sia scelto come candidato premier dal proprio schieramento ha pochissime possibilità di diventarlo effettivamente. Se uno aspira a diventare Presidente del Consiglio, non dovrebbe brigare per essere il prescelto, ma semmai implorare i suoi di non candidarlo.

E’ difficile, infatti, che nel prossimo parlamento uno dei tre schieramenti abbia la maggioranza dei seggi sia alla camera sia al Senato. Ed è ancora più difficile che, in mancanza di una maggioranza politica omogenea, il premier su cui i partiti dovranno convergere possa essere, anziché una figura di mediazione, il candidato premier di uno solo dei tre schieramenti. E’ questa, per inciso, la ragione per cui sempre più sovente si sente evocare la figura di Gentiloni, immagine vivente di prudenza, mediazione, moderazione, understatement.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui, a mio parere, l’ossessione per la designazione  dei candidati premier è abbastanza fuorviante. Il dibattitto sui candidati premier sembra ignorare che oggi quasi tutto il potere politico, inteso come potere di nomina e di investitura, è in mano a tre personaggi, ovvero Renzi, Grillo e Berlusconi, nessuno dei quali siede in Parlamento, e nessuno dei quali trae il suo potere dal ruolo di candidato premier.

Grillo non vuole fare il premier, Berlusconi non può farlo (la Corte di Strasburgo si pronuncerà fuori tempo massimo), a Renzi piacerebbe tantissimo ma sfortunatamente ha ottime possibilità di essere stoppato dai suoi, o dai suoi alleati, chiunque essi siano. Ve lo immaginate un governo Renzi sostenuto da Mdp? O un governo Renzi sostenuto da Forza Italia? O un governo Renzi con l’appoggio dei Cinque Stelle?

Forse dovremmo smettere di arrovellarci sull’indicazione del premier, come se fossimo ancora nella seconda Repubblica, in cui la finzione dell’elezione diretta, pur non avendo alcun appoggio nel nostro assetto costituzionale, almeno ne aveva uno nella legge elettorale, che in entrambe le sue varianti (mattarellum e porcellum) forniva un certo impulso al bipolarismo, nonché alla formazione di maggioranze in Parlamento.

Ma ora?

Ora, dicono alcuni, si torna alla prima Repubblica. La maggioranza che ci governerà sarà il frutto di accordi fra partiti, e anche il Capo dello Stato, cui spetta indicare il presidente del Consiglio, di quegli accordi dovrà prendere atto.

Apparentemente è proprio così. Però ci sono due novità cruciali, rispetto alla logica della prima Repubblica. La prima è che allora (fino al 1992), a fronte di un elettorato statico e diffidente con i comunisti, i governi erano effettivamente espressione delle scelte degli elettori, e quel che i partiti (attraverso il Parlamento) decidevano era solo il mix di satelliti che avrebbero ruotato intorno alla Dc. Ora invece, con un sistema politico tripolare, se nessuno dei tre schieramenti prevarrà sugli altri due, gli accordi parlamentari non decideranno i dettagli, bensì la sostanza. Oggi può sembrare fanta-politica, e tutti i diretti interessati si affretterebbero a escluderlo, ma in assenza di un vincitore i negoziati fra partiti potrebbero partorire tranquillamente: un governo Pd-Forza Italia, un governo Lega-Forza Italia-Pd, un governo Cinquestelle-Lega, un governo Cinquestelle-Mdp, un governo Pd-Cinquestelle.

C’è però anche un’altra, forse più importante novità, rispetto alla prima Repubblica: l’accentramento del potere di scelta dei candidati. Mentre ci chiediamo chi sarà il prossimo premier, rischiamo di non accorgerci che quella in cui stiamo entrando non è la prima Repubblica ma è, mi si permetta l’espressione, la Repubblica dei trainer. Dove i trainer, gli allenatori, sono tre-quattro leader, che per una ragione o per l’altra assai difficilmente faranno il premier, ma in compenso hanno potere di vita e di morte sulle carriere dei loro giocatori. Perché se è vero che chi entrerà in Parlamento lo decideranno gli elettori con il loro voto, è ancor più vero che il diritto di giocare la partita, e le possibilità di successo con cui la si gioca, sono nelle mani degli allenatori. Tutti rigorosamente fuori del Parlamento.

E’ sempre stato così? Sì, ma mai in questa misura, mi pare. Finché ci sono stati partiti veri, in Parlamento si arrivava al termine di un cursus honorum, fatto di tappe, responsabilità, esperienze amministrative. Oggi ci si arriva in modo più diretto e rapido, spesso per fedeltà a un capo, a una corrente, a una cordata, ma altrettanto repentinamente si può finire in panchina, o semplicemente fuori squadra. Tutto dipende dall’allenatore.

Articolo pubblicato su Il Messaggero