I conti pubblici vanno male, ma non è tutta colpa del governo giallo-verde

Quando si parla di spread, troppo spesso si dimentica che di spread ne esistono due: uno è lo spread ordinario (quello di cui si parla dal 2011), ovvero la differenza di rendimento fra titoli di Stato italiani e tedeschi, l’altro è lo spread relativo, ovvero il rapporto fra il nostro spread e quello degli altri paesi a rischio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna (l’Irlanda è da tempo tornata nel gruppo dei paesi virtuosi). Questo secondo tipo di spread è molto più informativo, perché riflette solo le specificità dell’Italia, evitando di attribuire alle virtù o ai vizi di un singolo paese fenomeni che trascinano interi gruppi di paesi. Detto per inciso, questa è stata una obiezione giustamente sollevata nei giorni scorsi dai difensori del governo giallo-verde, che più volte hanno fatto notare che lo spread stava aumentando non solo in Italia ma anche in altri paesi. Ecco perché la storia di questi anni, vista in termini di spread relativo, potrebbe rivelarsi alquanto diversa da quella che abbiamo imparato attraverso lo spread assoluto.

E allora vediamo come sono andate le cose. Assumendo come metro lo spread dei due Paesi a noi più comparabili (Portogallo e Spagna), la storia è questa (grafico 1).

Fatto 100 lo spread di Spagna e Portogallo, il nostro spread è sempre stato inferiore a quota 100 sotto tutti i governi succedutisi fra il 2011 (anno di scoppio della crisi) e l’insediamento del governo Gentiloni. Ciò significa che i mercati si fidavano dei conti pubblici italiani più di quanto si fidassero di quelli spagnoli e portoghesi (non a caso messi sotto sorveglianza dalla Troika). Lo spread relativo era mediamente a livello 48 sotto Berlusconi, è salito a 62 sotto Monti, si è portato un po’ sopra quota 70 con Letta e Renzi. La vera svolta, però, è intervenuta nella seconda metà del 2016, con la campagna per il referendum istituzionale del 4 dicembre e in concomitanza con i molti appuntamenti elettorali critici in Europa e in America. Da allora lo spread relativo ha iniziato a crescere ininterrottamente e a un ritmo senza precedenti, fino a portarsi in prossimità della soglia critica dei 100, che indica che i nostri titoli di Stato sono considerati altrettanto rischiosi di quelli portoghesi e spagnoli. Il Rubicone del 100 punti è stato attraversato d’un balzo il 18 settembre dell’anno scorso, regnante Gentiloni. Da allora il nostro spread relativo, pur fra qualche oscillazione, non è mai sceso sotto i 100 punti, e anzi ha continuato a crescere inesorabilmente fino alla vetta attuale di 150 punti.

Ma non è tutto. Se osserviamo attentamente la curva che mostra il deterioramento della nostra posizione rispetto a quella di Spagna e Portogallo (grafico 1), possiamo notare che l’andamento generale dello spread relativo prima e dopo il voto del 4 marzo è molto simile. Certo, è molto preoccupante oggi, perché siamo sopra quota 100 e la tendenza è tuttora alla crescita, ma era altrettanto preoccupante prima: dal gennaio del 2017, ossia da 15 mesi, lo spread relativo non ha fatto che crescere, e il Rubicone dei 100 punti lo ha attraversato ben 6 mesi prima delle elezioni del 4 marzo.

Questo significa che le domande con cui abbiamo a che fare sono due: perché lo spread relativo cresce oggi?, ma anche: perché cresceva pure ieri, quando eravamo saggi ed europeisti?

La mia risposta è che i mercati sono molto imperfetti ma non stupidi. I mercati si sono accorti che alcuni paesi, come Portogallo e Spagna, stanno riducendo il grado di vulnerabilità dei loro conti pubblici, se non altro perché sono tornati a crescere prima e più di noi. Ma, presumibilmente, si sono anche accorti che, dopo un periodo in cui abbiamo fatto qualcosa per risanare l’economia (soprattutto nel 2015-2016), ora il grado di vulnerabilità dei nostri conti pubblici è di nuovo in aumento. Secondo l’indice VS, elaborato dalla Fondazione David Hume, la svolta è avvenuta intorno all’aprile del 2017, circa 13 mesi fa: da allora l’indice segnala una lenta ma non per questo meno preoccupante risalita della vulnerabilità dei nostri conti (grafico 2).

Questa circostanza, unita al fatto che, Grecia a parte, siamo giudicati il peggiore dei Piigs (paesi a rischio), dovrebbe farci molto riflettere: in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari, verosimilmente il paese più esposto sarebbe l’Italia.

L’articolo completo esce oggi su Il Messaggero e sarà disponibile da domani sul sito della Fondazione David Hume



La spada di Damocle

Apparentemente, è calma piatta. Il 4 marzo si è votato, poi è cominciato il balletto. Un mese per non decidere nulla. Un giro di consultazioni al Quirinale in cui tutti i partiti hanno “ribadito” le rispettive posizioni. Una richiesta di ulteriore tempo al Capo dello Stato, come se di tempo non ne avessero avuto abbastanza, o come se fino a questo punto avessero dimostrato di saperlo usare proficuamente.

Però mentre la politica dorme, le autorità europee, l’economia, i mercati fingono di sonnecchiare, ma sono più vigili che mai. La autorità europee attendono al varco il nuovo governo. Entro la fine di aprile l’Italia dovrebbe comunicare a Bruxelles le sue linee programmatiche sui conti pubblici. Ma è molto improbabile che entro quella data “Lor signori” (i parlamentari neo-eletti) si siano degnati di trovare un accordo che permetta la nascita di un esecutivo. Quindi la Commissione Europea, che già l’anno scorso aveva segnalato all’Italia il mancato rispetto degli impegni presi, dovrà sì attendere che in Italia ci sia un governo, ma poi difficilmente potrà evitare di intervenire. Proprio negli ultimi giorni l’Istat non solo ha confermato gli scostamenti, ma ha dovuto correggere (in peggio) le stime del deficit e del debito pubblico, che a causa dei soldi spesi per i salvataggi bancari sono oggi ancora più preoccupanti di quel che si pensava. Il minimo che si può prevedere è che, una volta insediato il nuovo governo e rese note tutte le cifre, Bruxelles ci chieda una manovra correttiva. Fino a ieri si parlava di 3-4 miliardi, oggi non si esclude che la cifra possa essere maggiore. Una cifra cui, comunque, si dovrà aggiungere qualcosa come 12-13 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che altrimenti scatterà inesorabilmente dal 1° gennaio 2019.

Questi probabili aumenti delle tasse, peraltro, si inseriscono in un quadro di rallentamento e soffocamento dell’economia. La stima della pressione fiscale del 2017 è stata rivista al rialzo. Fra il 2017 e il 2016 sono saliti sia l’ammontare delle imposte dirette sia, ancor più, quello delle imposte indirette. Nell’anno appena trascorso il potere di acquisto è aumentato leggermente, ma molto meno che l’anno precedente. Il numero di disoccupati resta in prossimità dei 3 milioni di unità, mentre la formazione di posti di lavoro continua a riguardare i contratti a termine assai più che i contratti a tempo indeterminato. Quanto al debito, le ultime correzioni dell’Istat non lasciano dubbi sul fatto che, nonostante gli impegni solennemente e puntualmente assunti ogni anno dal Ministro dell’Economia, il promesso percorso di riduzione del rapporto debito-Pil non sia ancora iniziato.

A fronte di questi numerosi e concordi segnali negativi, si potrebbero mettere in luce alcuni elementi relativamente rassicuranti. Ad esempio, a fine ottobre 2017 Standard & Poor’s, per la prima volta da 29 anni, ha leggermente alzato il rating dell’Italia. Ed era dal 2002, ossia da 15 anni, che nessuna agenzia di rating faceva un passo del genere. Soprattutto, sembra fornire qualche conforto la circostanza che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto il successo delle forze più anti-europee e più disinvolte sui conti pubblici (Cinque Stelle e Lega), nulla si sia mosso. Ferme le altre agenzie di rating, fermi i mercati finanziari, che hanno lasciato sostanzialmente invariato (intorno a 130 punti) lo spread fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Ma è una lettura ingannevole, per diverse ragioni.

Le Agenzie di rating, come la Commissione europea, semplicemente hanno deciso di aspettare le elezioni e la nascita del nuovo governo prima di esprimersi. Una delle tre agenzie principali, Moody’s, lo ha affermato esplicitamente. Il 9 febbraio una sua esponente, l’analista senior per i rating sovrani Kathrin Muehlbronner, ha dichiarato: «Moody’s risolverà l’outlook sul rating dell’Italia dopo le elezioni ma è improbabile che questo avvenga già il 16 marzo» (il 16 marzo è una delle date previste dall’Agenzia per emettere giudizi sull’Italia). E’ verosimile che la medesima linea di condotta sia adottata dalle altre Agenzie.

Una seconda ragione che dovrebbe indurre a una certa cautela è che, per ora, al governo non ci sono i barbari anti-euro e anti-Europa ma il super-rassicurante premier Gentiloni, e l’ultra-europeo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. È presumibile che anche i mercati, come i governi e le Agenzie di rating, attendano la nascita del nuovo esecutivo prima di emettere i propri giudizi.

Ma l’elemento che più dovrebbe farci riflettere è l’andamento dell’indice VS, uno strumento messo a punto dalla Fondazione David Hume per misurare la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici delle economie avanzate. Ebbene, i calcoli effettuati per il primo trimestre del 2018 (a breve disponibili su questo sito) mostrano che la vulnerabilità dei nostri conti, che era stata in leggera in diminuzione dall’inizio del 2014 all’inizio del 2017, da circa un anno mostra una pericolosa tendenza all’aumento. C’è solo da augurarsi che di tale vulnerabilità non si sia presto costretti ad accorgerci tutti quanti, quando i mercati dovessero rialzare la testa.

Articolo pubblicato su Panorama del 12 aprile 2018



La quiete prima della tempesta?

Mentre i politici italiani, fra una consultazione quirinalizia e l’altra, non smettono di offrire ai cittadini lo spettacolo della loro inconcludenza, la realtà esterna al Palazzo è tutt’altro che immobile. I segnali che vengono dal mondo reale, tuttavia, non sono certo univoci. Sul versante dei consumi, nonostante la crisi e i suoi strascichi, il numero di famiglie che “non riescono ad arrivare alla fine del mese”, e quindi sono costrette a ricorrere ai risparmi o all’indebitamento, continua a diminuire. Sfioravano il 30% nel 2012-2013, al culmine della crisi dello spread, ora sono meno del 15%, il livello più basso da dieci anni. Sul versante della produzione, invece, si sente qualche scricchiolio. Giusto nei giorni scorsi l’Eurostat ha diffuso i dati della produzione industriale nell’eurozona, che per il terzo mese consecutivo segnalano un calo sia nell’eurozona stessa sia nell’Europa a 28. Anche in Italia la produzione è in calo (da 2 mesi), mentre le previsioni dei centri studi sulla dinamica del Pil nel 2018 diventano via via più caute.

Dove le cose si fanno più inquietanti, però, è sul versante finanziario. A livello europeo i timori sono legati a tre fattori fondamentali. Primo, l’inizio di guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina, ma anche, se non soprattutto, fra l’Europa e gli stati con cui commerciamo. Secondo, l’attesa di un aumento dei tassi di interesse non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa. Terzo l’esaurimento del Quantitative Easing (già alla fine di quest’anno) e la fine del mandato di Mario Draghi alla Banca Centrale Europea (alla fine del 2019).

Ai timori per le sorti dell’economia europea si aggiungono, in Italia, le incertezze e le preoccupazioni legate alla nascita del nuovo governo. Quel che inquieta non è tanto l’eventualità che il Paese stia per qualche mese senza un governo, o la facile previsione secondo cui il governo che verrà sarà debole e paralizzato dai dissensi interni, quanto il rischio che, a prescindere da quel che il nuovo governo effettivamente farà, e anche a prescindere da quel che la Commissione europea gli permetterà di fare, si riapra una fase in cui sono i mercati finanziari a dettare l’agenda politica al Paese.

Il fatto curioso è che i più acerrimi difensori della nostra sovranità, i più risoluti nemici della finanza internazionale e delle sue interferenze nella vita degli stati nazionali, sono i Cinque Stelle e la Lega, che però sono anche le forze che, con i loro programmi economici, hanno le maggiori probabilità di riconsegnare l’Italia all’arbitrio dei mercati e alla tutela delle autorità sovranazionali (la famigerata Troika, ossia Fondo Monetario, Bce e Commissione europea). Mentre i più preoccupati di una perdita di autonomia dell’Italia, se non di un vero commissariamento, paiono il Pd e Forza Italia, cioè precisamente le due forze che vengono accusate di subalternità verso i diktat dell’Europa.

Ma è reale il rischio di una nuova offensiva della speculazione verso l’Italia? Più precisamente: è realistico pensare che, di fronte a un esecutivo populista e anti-europeo, scatti una reazione a catena che, come nel 2011, possa distruggere la reputazione economica del Paese e mettere a repentaglio i suoi risparmi?

Per certi versi penso di no, soprattutto per un motivo: l’eventualità di un collasso dell’euro, profetizzata nel 2011-2012 da tanti luminari dell’economia, dopo il “whatever it takes” di Draghi (luglio 2012) sembra divenuta estremamente improbabile.

Ma per altri versi quella preoccupazione non andrebbe presa troppo sottogamba. Magari non si ripeterà il 2011, ma anche una crisi la cui entità fosse la metà di quella di allora sarebbe estremamente pericolosa. Finora abbiamo contenuto i nostri timori soprattutto sulla base di una circostanza: dopo il voto del 4 marzo lo spread dei titoli di Stato decennali dell’Italia con quelli della Germania è rimasto sostanzialmente invariato, intorno ai 130 punti base. Ma questa rassicurante staticità è altamente fuorviante. Se come termine di riferimento, anziché i titoli tedeschi, prendiamo quelli spagnoli e portoghesi (cioè quelli dei due Piigs a noi più comparabili), scopriamo che lo spread fra i nostri titoli e i loro era in miglioramento (diminuzione) fino al 2 marzo, il venerdì prima del voto, ed è in costante peggioramento (aumento) dal 5 marzo a oggi: il punto di svolta è esattamente il 4 marzo, giorno del voto. Apparentemente in sonno, i mercati di fatto hanno già reagito alla potenziale instabilità italiana.

Fonte: Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg

Né le cose appaiono più rassicuranti se, anziché al comportamento dei mercati, guardiamo alla salute dei conti pubblici e ai fondamentali dell’economia. L’indice VS (elaborato dalla Fondazione Hume), che misura la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici di un paese, segnala che, dopo un biennio di miglioramento, da circa 12 mesi la tendenza dei nostri fondamentali è di nuovo al peggioramento.

È vero dunque, come ha scritto qualche giorno fa Romano Prodi su questo giornale, che “ci troviamo ancora in una fase di quiete”, ma è ancora più vero (cito ancora Prodi) che “si tratta solo di un intervallo che, in quanto tale non sarà troppo lungo”. Il rischio è che, quella di oggi, sia la quiete che precede la tempesta.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 aprile 2018



Quel che i mercati finanziari pensano davvero dell’Italia

Ha suscitato una certa sorpresa il fatto che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto la netta affermazione dei partiti populisti, lo spread dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi sia rimasto sostanzialmente immutato, intorno ai 130 punti base.

Fonte Bloomberg

L’andamento dello spread con la Germania, tuttavia, è uno strumento di valutazione molto imperfetto, e potenzialmente fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, dell’evoluzione degli spread degli altri paesi, in particolare quelli a noi più comparabili, che possono muoversi in modo più o meno favorevole di quelli italiani.

Un indice alternativo può essere costruito facendo la differenza fra i rendimenti dell’Italia e la media dei rendimenti di Spagna e Portogallo, ovvero dei due Piigs a noi più comparabili (Irlanda e Grecia lo sono assai meno, anche se per ragioni opposte).

Fonte Bloomberg

In questo caso la traiettoria dello spread appare molto diversa: prima nettamente discendente (miglioramento dell’Italia), poi nettamente ascendente (peggioramento).

L’elemento più sorprendente, tuttavia, è il punto di svolta fra i due andamenti. Sia un’ispezione visiva sia l’analisi statistica mostrano che il punto di svolta fra le due traiettorie si colloca fra venerdì 2 marzo e lunedì 5 marzo, ovvero esattamente nel momento del voto. E ciò vale sia nel caso dello spread Italia-Spagna, sia nel caso di quello Italia-Portogallo.

Fonte Bloomberg
Fonte Bloomberg

In entrambi i casi lo spread raggiunge un minimo venerdì 2 marzo, alla vigilia del voto, e inverte la rotta, cominciando a salire, lunedì 5 marzo, primo giorno dopo il voto. Ormai il rendimento dei titoli italiani supera non solo quello dei titoli spagnoli, ma anche di quelli portoghesi.

Questo andamento non sarebbe preoccupante se, dal punto di vista obiettivo, i conti pubblici dell’Italia fossero in miglioramento. Ma non è così, sfortunatamente.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

L’indice VS, di Vulnerabilità Strutturale dei conti pubblici, messo a punto dalla Fondazione David Hume, mostra che, dopo un periodo favorevole durato circa due anni (dalla primavera del 2015 alla primavera del 2017), ora la tendenza dominante è tornata di nuovo negativa: la vulnerabilità dei nostri conti è in aumento.

[Per maggior dettagli vedi, sul sito della Fondazione David Hume

a)     il report “Conti pubblici & voto di marzo”;

b)    il saggio “La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici”.




Conti pubblici & voto di marzo

1. Tendenze di lungo periodo

La serie storica dell’indice VS dal 2009 a oggi permette di riconoscere abbastanza nitidamente alcune tendenze e processi.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Possiamo descriverli così:

a)     nel quindicennio che va dal 2000 al 2015 la tendenza di fondo è ad un aumento della vulnerabilità;

b)    il picco di vulnerabilità del 2009, legato essenzialmente al crollo del Pil, risulta completamente riassorbito alla fine del 2011, quando scoppia la crisi dello spread;

c)     nel triennio che va dall’inizio del 2012 all’inizio del 2015 si assiste a un aumento della vulnerabilità;

d)    dalla primavera del 2015 la tendenza dominante è alla riduzione della vulnerabilità;

e)     tuttavia dalla primavera del 2017 a oggi il processo di riduzione della vulnerabilità sembra essersi arrestato, e si assiste invece a una lieve tendenza all’aumento.

Un confronto con l’andamento effettivo dei rendimenti mostra un notevole grado di incongruenza, e questo nonostante l’indice sia stato costruito per emulare la “mente dei mercati”. Questo segnala che, nel caso dell’Italia, l’orientamento della politica monetaria e i fattori contingenti e/o extraeconomici hanno avuto un ruolo molto rilevante.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Ecco alcune osservazioni:

a)     per ben 15 anni, dal 1999 fino a tutto il 2013, i rendimenti richiesti dai mercati per i titoli di Stato italiani, salvo nel picco della recessione 2008-2009, sono sempre stati superiori a quelli suggeriti dall’indice di vulnerabilità strutturale (i mercati sono stati severi con l’Italia);

b)     dal 2014 in poi, invece, i rendimenti richiesti sono sempre stati relativamente modesti (i mercati sono stati indulgenti);

c)     solo nella primavera del 2017, per un breve periodo, rendimenti effettivi e indice VS sono risultati allineati.

d)    negli ultimi 12 mesi la tendenza principale dell’indice di vulnerabilità è all’aumento, mentre quella dei mercati è alla riduzione dei rendimenti.

Un’analisi dell’andamento degli indicatori che contribuiscono alla definizione dell’indie VS permette di individuare i meccanismi principali che hanno condotto al suo peggioramento tendenziale negli ultimi 3-4 trimestri. Essi sono essenzialmente due: un livello di inflazione ancora troppo basso, la tendenza alla contrazione delle entrate pubbliche rispetto al Pil.

2. Uno zoom sul 2018

Un’analisi più dettagliata delle tendenze degli ultimi mesi può essere condotta osservando l’andamento settimanale dello spread e confrontandolo con quello di altri paesi, in particolare i due Piigs a noi più simili, ossia Spagna e Portogallo (l’Irlanda è da tempo fuori della crisi, la Grecia ha tuttora rendimenti fuori scala).

Fonte: Bloomberg

Come si vede lo spread dell’Italia rispetto alla Germania tende a diminuire fino alla prima settimana di febbraio, per poi invertire la tendenza: negli ultimi due mesi il trend dominante è a un leggero aumento.

Un confronto con Spagna e Portogallo, tuttavia, rivela un importante punto di svolta. Se anziché lavorare sullo spread dell’Italia considerato singolarmente, lavoriamo sullo spread relativo, ovvero sulla differenza fra lo spread dell’Italia e quello di Spagna e Portogallo (il che, ovviamente, equivale a calcolare la differenza fra i rendimenti dell’Italia e quelli di Spagna e Portogallo) possiamo notare due circostanze poco rassicuranti.

Fonte: Bloomberg
Fonte: Bloomberg

Primo. A partire dai primi di marzo di quest’anno, i rendimenti dei tre paesi cessano di evolvere in parallelo, e si assiste a un aumento del differenziale fra i rendimenti italiani e quelli di Spagna e Portogallo.

Secondo. A partire dalla seconda settimana di marzo il rendimento dei titoli italiani, che in tutto il mese di febbraio era rimasto sostanzialmente allineato a quello dei titoli portoghesi, supera sistematicamente quello di questi ultimi.

La svolta è ancora più chiara se condensiamo tutto in un unico indice, calclalndo la differenza fra i rendmenti italiani e la media dei rendimenti spagnoli e portoghesi.

Fonte: Bloomberg

Uno sguardo all’evoluzione di lungo periodo dello spread dell’Italia in confronto a quelli di Spagna, Portogallo, Irlanda (con la Francia come benchmark), rende il quadro ancora più preoccupante.

Fonte: Bloomberg

Il grafico mostra che mai, prima del 2018, il rendimento dei titoli di Stato italiani aveva superato quello dei titoli portoghesi, e mai il divario con i titoli spagonli era stato alto come oggi.

Che questa recente evoluzione dello spread sia da connettere all’esito del voto del 4 marzo è difficile da stabilire, anche perché è da circa un anno (e non da un mese) che l’indice VS segnala una tendenza all’aumento della vulnerabilità.

Resta il fatto che, sui mercati, la svolta è coincisa con la settimana del voto in Italia.

Luca Ricolfi

(Responsabile scientifico Fondazione David Hume)

 

Nota metodologica

L’indice VS, messo a punto dalla Fondazione David Hume e presentato per la prima volta il 25 ottobre 2017 a un seminario presso il MISE, misura il grado di vulnerabilità dei conti pubblici di 40 economie avanzate o relativamente avanzate. Dettagli sull’indice sono disponibili sul sito della Fondazione, saggio “La mente dei mercati: indice VS e vulnerablità dei conti pubblici”).

La principale caratteristica dell’indice è di non basarsi su valutazioni soggettive, ma esclusivamente sul comportamento effettivo dei mercati nel periodo cruciale della crisi, dall’inizio del 2009 a tutto il 2016.

L’indice è espresso in punti-base e si interpreta come una stima del rendimento che i mercati richiederebbero per i titoli di Stato decennali di un paese in assenza di fattori di perturbazione quali speculazione, vicende politiche, orientamento marcatamente restrittivo o espansivo della politca monetaria.

Una relazione riservata, e più tecnica, è stata fornita alla Compagnia di San Poalo (che ha in parte sostenuto la ricerca) e al MISE.