Della stoltezza

Il risultato delle elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia, che segue quello delle Regionali in Molise, è chiarissimo almeno su un punto: il tracollo del Movimento 5 Stelle e l’exploit della Lega.

Con un misero 7% alla lista, e un modesto 12% al candidato, i pentastellati risultano in arretramento sia sulle Regionali del 2013, dove avevano ottenuto il 13.8% alla lista e il 19.2% al candidato, sia sulle elezioni politiche, dove avevano avuto il 24.6% due mesi fa e il 27.2% nel 2013. Quanto alla Lega, con il 35% di voti alla lista e il 57% di voti a Massimiliano Fedriga (candidato di tutto il centro-destra), la sua avanzata è andata ben oltre le più rosee speranze di Salvini: circa 10 punti in più rispetto alle Politiche del 4 marzo, 27 punti in più (dall’8.3% al 35%) rispetto alle Regionali del 2013.

È vero, naturalmente, che i confronti Regionali-Politiche vanno presi con prudenza, come è vero che le regionali del 2013 sono un termine di paragone relativamente lontano, vista la quantità di eventi che sono intervenuti nel frattempo. Però, la prudenza non può arrivare al punto di nascondere l’ampiezza dello scossone che ha sconvolto i rapporti di forza fra partiti. Uno scossone che, in entrambe le regioni, ha lasciato sostanzialmente inalterati i consensi al Pd e ai suoi alleati, ma in compenso ha visto un ingente spostamento di voti dai Cinque Stelle alla Lega.

A che cosa è dovuto questo repentino cambiamento di umore degli elettori?

Qualcuno, nelle ultime ore, ha sostenuto che il Movimento Cinque Stelle abbia pagato lo scotto di non essere riuscito a formare un governo dopo 56 giorni di estenuanti trattative dal giorno del voto. Questa sarebbe una spiegazione ragionevole se i voti fossero tornati al Pd: ma i voti sono andati alla Lega di Salvini. Se davvero il punto fosse la lentezza nella formazione di un governo, perché mai gli elettori avrebbero dovuto punire Di Maio e non Salvini, visto che fino a pochi giorni fa sono stati entrambi a condurre il ballo?

Io penso invece che vi sia una spiegazione molto più semplice: in questa lunga vicenda post-elettorale Luigi Di Maio, forse inebriato dal successo o accecato dai riflettori sotto i quali è vissuto per quasi due mesi, ha dilapidato il capitale di consenso che Grillo gli aveva generosamente conferito. Se fossimo nell’antica Roma, si direbbe che si è comportato con stoltezza, una parola che stranamente è sparita dal lessico, giusto quando il comportamento dei politici la renderebbe estremamente attuale.

In che cosa è consistita la stoltezza del capo del Movimento Cinque Stelle?

Fondamentalmente nel non rendersi conto che, nel momento in cui inaugurava la “politica dei due forni”, facendo intendere che per i Cinque Stelle Lega e Pd pari sono, esponeva il Movimento ad una drammatica emorragia di voti. Tutti sappiamo, da anni, che la provenienza dell’elettorato Cinque Stelle è mista: una parte viene da sinistra e mai vorrebbe un accordo con la Lega, un’altra parte viene da destra, e mai vorrebbe un accordo con il Pd. È quindi perfettamente logico che, nel momento in cui Luigi Di Maio dichiara esplicitamente (prima del 4 marzo non lo aveva mai fatto) di potersi alleare indifferentemente con l’una o con l’altro, l’elettore si metta sulla difensiva quale che sia il proprio orientamento, perché nessuno è contento di rilasciare un assegno in bianco. Chi ha una matrice di sinistra teme un accordo con la Lega, chi ne ha una di destra teme un accordo con il Pd. La fortuna di Matteo Salvini è che si sia votato precisamente nel momento in cui Di Maio minacciava un accordo con il Pd, mostrando di infischiarsene del fatto che la maggior parte degli elettori Cinque Stelle non lo volessero. È verosimile che, se le elezioni regionali si fossero tenute quando Di Maio minacciava un accordo con la Lega, una parte dei voti Cinque Stelle (quelli “di sinistra”) sarebbero tornati al Pd.

A questo errore strategico di fondo, Luigi Di Maio ne ha aggiunti altri, non meno dannosi per i destini elettorali dei Cinque Stelle. Affidando a un pool di esperti la missione di comparare i programmi di Pd e Lega con quello del Movimento Cinque Stelle cercandone le possibili intersezioni (i punti comuni), di fatto ha trasmesso un messaggio assai insidioso: a noi interessa andare al governo, non importa se su un programma “di destra” o su uno “di sinistra”, purché il premier lo faccia io. Il contro-messaggio che il Movimento avrebbe desiderato mandare, ossia “a noi interessano i programmi, non le poltrone”, poteva risultare credibile solo se il suo leader avesse specificato in modo chiaro che cosa, del programma Cinque Stelle, era irrinunciabile con entrambi gli alleati, e soprattutto non avesse fatto intendere che l’unico punto veramente irrinunciabile era la sua ascesa alla presidenza del Consiglio (in barba alla sempre ostentata indifferenza al basso commercio delle “poltrone”). L’esatto contrario di Salvini, che fin dall’inizio ha avuto il buon senso, o se preferite l’astuzia, di non presentarsi come l’unico candidato premier possibile.

Si può pensare che, quella delle ultime elezioni regionali, sia una vicenda marginale e temporanea. Dopotutto l’elettorato ha mostrato di poter capovolgere i propri orientamenti nel giro di pochissimo tempo. La mia sensazione, invece, è che l’errore commesso dai Cinque Stelle sia così grave da essere difficilmente recuperabile. Con un sistema elettorale come quello attuale, l’ambiguità è un’arma a doppio taglio: puoi illudere i tuoi elettori una prima volta, ma è molto difficile illuderli la seconda.

Paradossalmente, la spregiudicatezza delle alleanze di Di Maio potrebbe avere l’effetto di ridare qualche speranza elettorale agli sconfitti, e in particolare al Pd. Una parte degli elettori di sinistra hanno votato Cinque Stelle soprattutto perché temevano il cosiddetto “Renzusconi” (un governo Pd-Forza Italia), e non volevano dare un voto a scatola chiusa, che avrebbe potuto essere usato per fare un’alleanza sgradita. Ora sanno che anche il voto ai Cinque Stelle è a scatola chiusa, e potrebbe benissimo essere usato per far nascere un governo con la Lega. Ecco perché non si può escludere che una parte di essi possa essere tentata di ritirare la fiducia ai Cinque Stelle, e di tornare a votare Pd. Anche perché, a sinistra, a differenza che a destra, di veri partiti ce n’è uno solo.

Pubblicato su Il Messaggero il 01 maggio 2018



Intervista a Luca Ricolfi su Aldo Moro

· Nella fine degli anni ’70 Eric J. Hobsbawn ha individuato il punto di rottura del compromesso tra politica ed economia che aveva retto la cosiddetta età dell’oro dello Stato sociale. Secondo lei, Aldo Moro, e con lui su un versante opposto Enrico Berlinguer, comprese la natura di questo momento di crisi e la sua proposta politica di allargamento dell’area di governo al Pci può dirsi un’ipotesi che nasce per fronteggiarlo?

Se proprio vogliamo periodizzare, preferisco la periodizzazione di Jean Fourastié, l’autore del celebre libro sui “Trenta gloriosi anni” dal 1946 al 1975. Sul piano della storia economica le cesure fondamentali a me paiono da un lato la crisi fiscale dello Stato, denunciata da James O’Connor fin dal 1973, e la grande recessione del 1973-1975 innescata dalla crisi del petrolio e seguita dagli anni della stagflazione.

· Il progetto di Moro – solidarietà nazionale per andare a una democrazia dell’alternanza – sarebbe stato utile al sistema italiano oppure ritiene che lo schema generale delle forze politiche allora già mostrava insufficienze nell’affrontare i temi della modernizzazione?

In realtà non sono poi così sicuro che, a metà degli anni ’70, il progetto di Moro fosse quello di rendere possibile l’alternanza fra Dc e Pci, almeno nel periodo medio-breve. Non sono uno storico, né nutro una particolare passione per la storia di allora, ma per quel che mi risulta non esiste alcun documento scritto o alcun evento pubblico in cui Moro abbia caldeggiato esplicitamente l’alternanza al governo fra Dc e sinistra. L’unica testimonianza è quella di Scalfari, ma mi sono sempre chiesto se non ci fosse stata, nel resoconto di quell’intervista, anche una proiezione dei desideri di Scalfari.

Ad ogni buon conto, ho sempre visto la solidarietà nazionale semplicemente come l’espediente che una politica debole usa quando non ha la forza o il coraggio di fare scelte difficili.  E’ successo allora, ma si è ripetuto nel 2011-2012 con Monti, nel 2013 con Letta, e probabilmente si ripeterà con il “governo di tutti” che si formerà nelle prossime settimane.

·La crisi degli ultimi anni ’70 ebbe anche importanti conseguenze sul piano sociale. Il terrorismo di sinistra ne fu un’espressione o si tratta di un fenomeno di altra natura?

Il terrorismo di sinistra è un fenomeno di altra natura e origine, e infatti precede di molti anni la crisi di fine anni ’70.

·Gli anni ’80 sono da molti considerati come carichi di speranze e aspettative, per qualcuno addirittura il periodo di maggiore interesse della storia recente d’Italia. Non le sembra contraddittoria questa valutazione, in considerazione dei nodi non sciolti degli anni ’70 avuti in eredità?

Proprio così, nella memoria nazionale gli anni ’80 sono un po’ mitizzati, perché si scambia lo spensierato edonismo di allora con una stagione di prosperità. Invece negli anni ’80 avremmo dovuto fare i conti con i problemi che, nel cuore degli anni ’70, erano già chiarissimi alle menti più lucide. Anche se i primi scricchiolii risalgono addirittura al 1963-1964, ai tempi della “congiuntura” e dei primi deficit di bilancio preoccupanti, il sistema Italia entra pienamente in crisi proprio verso la metà degli anni ’70. Sono gli anni in cui Ugo La Malfa pubblica La Caporetto economica (1974), Giorgio Galli e Alessandra Nannei Il capitalismo assistenziale (1976), Franco Reviglio (1977) Spesa pubblica e stagnazione dell’economia italiana (1977). La stagione dell’unità nazionale non servì ad affrontare i problemi, ma servì a Dc e PCI per neutralizzarsi a vicenda, evitando che una delle due forze prendesse nettamente il sopravvento sull’altra. Era questa la vera preoccupazione di Berlinguer, e la radice della politica del “compromesso storico”. Che a sua volta non fa che riprendere la preoccupazione dai padri costituenti, più attenti alle esigenze di limitazione del potere che a quelle della governabilità.

·L’Italia di oggi, dei primi anni Duemila, quanto può dirsi un prodotto delle scelte non compiute – o parzialmente compiute o malamente compiute – tra gli anni ’70 e ’80?

Sì, però non trascurerei le non-scelte, o le scelte sbagliate, dei 30 anni successivi. Gli anni ’80 furono un’occasione mancata, ma non furono l’ultimo treno che il Paese poteva prendere. L’ultimo treno è passato dopo, negli anni della seconda Repubblica. Ora non vedo altri treni all’orizzonte.

 

Intervista (versione integrale) a cura di Generoso Picone su il Mattino



Rivolta anti-establishment e sindacati

Il decennio della crisi si è aperto con il “vaffa day”, l’8 settembre del 2007, giusto un mese dopo lo scoppio della crisi dei mutui subprime. Erano i tempi in cui Stella e Rizzo pubblicavano La casta, forse l’unico libro veramente incisivo dopo la fioritura di pamphlet anti-politici della stagione di Tangentopoli. Il quinquennio della scorsa Legislatura (2013-2018) si è aperto con il fulmineo successo del Movimento Cinque Stelle, l’umiliazione di Bersani nel famoso incontro in streaming, la faticosa nascita del governo Letta, con il sostegno di tutti e l’opposizione del Movimento Cinque Stelle. Un anno dopo Letta veniva spodestato da Renzi, dopo il famoso “stai sereno”, che ha reso per sempre inquietante quell’espressione della lingua italiana.
In quei sette anni, che vanno dal 2007 al 2014, il rapporto fra cittadini e Palazzo è profondamente mutato. Quando Renzi si insedia al potere, al centro del discorso della politica non ci sono né veri programmi, né veri ideali, né veri progetti ma una cosa soltanto, montata e cresciuta nel lungo periodo di incubazione che va dal vaffa day alla defenestrazione del troppo educato Enrico Letta: la furia anti-establishment.
Questo sentimento, sicuramente comprensibile e per molti versi giustificato, da quel momento è stato la stella polare di quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento. Anziché contrastare i grillini mostrando di non meritare il loro disprezzo, le forze politiche tradizionali, Pd in testa, hanno ingaggiato una campagna di delegittimazione contro tutti i poteri e tutte le caste. Al populismo classico, che prendeva di mira l’Europa, le banche, la Confindustria, la magistratura, l’informazione, la cultura, i tecnici, gli esperti, si è unito il populismo di governo a sua volta ostile ai “professoroni”, ai giudici, ai vecchi (“rottamiamo D’Alema”), ai giornalisti, ai sindacati, alle istituzioni politiche (ricordate la campagna contro le auto blu?), agli organi costituzionali (“aboliamo il Senato”).
Il risultato doveva essere la riconquista di milioni di elettori, sedotti da Grillo. E’ stato invece che milioni elettori di destra, di centro e di sinistra hanno ritenuto più credibile la battaglia anti-establishment del Movimento Cinque Stelle. Come si dice in questi casi, i cittadini, posti di fronte alla scelta fra l’originale e la copia, hanno preferito l’originale. Il populismo dall’alto non è riuscito a battere il populismo dal basso.
L’esito finale è stato una generale delegittimazione di tutto ciò che, anche alla lontana, aveva il sapore di establishment, di potere costituito, forte o debole che fosse. Un esito che le recenti elezioni hanno certificato: oggi in Parlamento, se si esclude il manipolo europeista dei radicali di Emma Bonino, la grandi forze politiche non si distinguono fra populiste e anti-populiste, ma fra genuinamente populiste (Lega e Cinque Stelle) e ambiguamente populiste (Pd e Forza Italia).
In tutto questo sconquasso, tuttavia, ci sono piccole e grandi eccezioni. Due piccole eccezioni sono i magistrati e i giornalisti, spesso attaccati dalla politica ma mai veramente rimessi in riga. Una grande, grandissima eccezione sono invece i sindacati. Tradizionalmente attaccati dalle forze di destra, fin dai tempi di Marco Biagi e dei primi tentativi di modificare l’articolo 18, negli ultimi anni sono entrati anche nel mirino dei Cinque Stelle e soprattutto del Pd renziano. Per due volte sfidati, sulla riforma delle pensioni e sull’articolo 18, per due volte sono stati sconfitti, con il varo della riforma Fornero prima, con il Jobs Act poi. E tuttavia, nonostante le battaglie perse, da questo lungo periodo di delegittimazione delle istituzioni e dei corpi intermedi, sembrano uscire tutt’altro che malconci. La grande rivolta contro l’establishment andata in scena negli ultimi 10 anni ha provato a travolgere anche loro, ma non è riuscita a eroderne più di tanto il consenso e il radicamento. Soprattutto, non è riuscita a innescare, nei sindacati, un qualsiasi visibile processo di autotrasformazione. Mentre un po’ tutte le forme di rappresentanza cambiavano (e continuano a cambiare), mentre i partiti tradizionali o evaporavano, o si dematerializzavano, o si riorganizzavano su basi diverse dal passato, i sindacati restavano sostanzialmente quelli di sempre, con le loro forme organizzative, i loro rituali, i loro slogan, le loro uscite pubbliche. Una trattativa con il Governo o la Confindustria, una manifestazione di piazza, uno sciopero, un congresso non sono oggi molto diversi da come si presentavano mezzo secolo fa.
Qualche anno fa si sarebbe potuto supporre che questa incapacità di cambiare, questo restare ancorati a una visione novecentesca della dinamica sociale, questo per molti versi sorprendente “conservatorismo progressista”, avrebbero finito per renderli sempre più marginali. Oggi non più. I limiti dell’azione sindacale sono evidenti, specie nel mondo delle nuove professioni, ma il peso politico dei sindacati è tornato ad essere notevole, probabilmente più alto di qualche anno fa, quando la durezza della crisi sembrava averne fiaccato le energie. Si potrebbe sostenere, anzi, che i due partiti vincitori delle elezioni, Cinque Stelle e Lega, abbiano attirato consensi anche perché hanno fatto proprie le due rivendicazioni fondamentali del mondo sindacale in questi anni: l’abolizione della riforma Fornero e, nel caso dei Cinque Stelle, anche il ripristino dell’articolo 18, ovvero la cancellazione del Jobs Act. Può accadere così che i dipendenti di un comune come Roma, che a suo tempo non avevano esitato a scioperare contro il sindaco Pd Ignazio Marino, si trovino oggi in relativa sintonia con la sindaca Raggi. Ma, soprattutto, può accadere che il tentativo in corso di varare un governo Cinque Stelle-Pd, osteggiato dalla base del Partito Democratico, possa trovare una sponda nel mondo sindacale. Perché è da lì che derivano non pochi dei consensi che i Cinque Stelle hanno conquistato nelle ultime elezioni. Ed è lì che un governo Cinque Stelle può sperare di trovare legittimazione e sostegno.
Dopotutto entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro. Per i Cinque Stelle la sponda sindacale è essenziale per contenere la prevedibile rivolta dei ceti produttivi del Centro-Nord verso un governo destinato a sacrificare la flat tax in nome del reddito di cittadinanza. Per i sindacati la sponda governativa è essenziale per continuare ad avere un ruolo centrale nelle scelte politiche del paese. Sarà forse un matrimonio di interesse, ma in politica i matrimoni di interesse funzionano quasi sempre.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 28 aprile 2018



Attenti alla rabbia secessionista: intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, riprendendo la mappa giallo-blu (grillini e centrodestra) dell’Italia uscita dalle elezioni del 4 marzo, balza agli occhi che se andasse in porto l’ipotesi di un governo giallo-rosso (M5S-Pd) un pezzo del Paese rischierebbe di essere tagliato fuori, è così?

Sì, il Nord si sentirebbe ulteriormente tosato, e prenderebbe assai male qualsiasi cosa che venisse battezzata “reddito di cittadinanza”. Anche perché i calcoli statistici mostrano che circa l’80% dei sussidi ai poveri finirebbero a due soli gruppi sociali: i cittadini meridionali e gli immigrati.

Secondo la Lega non solo sarebbe esclusa la coalizione che ha preso più voti, un centrodestra che per la verità ora appare diviso, ma il Nord Italia ribollirebbe. E’ una minaccia concreta?

Sì, un governo Pd-Cinque Stelle farebbe resuscitare istanze anti-fiscali e separatiste.

Quale governo potrebbe dare risposte più consone a quelle che lei giudica le priorità politico-economiche del Paese?

Il governo meno dannoso per l’Italia sarebbe un governo che promuovesse una rivoluzione liberale, soprattutto in campo fiscale, e al tempo stesso non spaventasse l’Europa e i mercati finanziari. In termini politici: un governo di grande coalizione destra-sinistra, come in Germania, con la destra che guida la politica economica e la sinistra che le impedisce di esagerare.
Peccato che una simile alternativa, pur avendo più numeri di tutte le altre (a parte ovviamente il governo di tutti senza il Pd), sia l’unica che il nostro Presidente della Repubblica non pare avere alcuna intenzione di esplorare.

Andando con ordine, dal punto di vista fiscale se venisse archiviata l’ipotesi Flat tax e, al contrario, si procedesse nella direzione del reddito di cittadinanza che ripercussioni ci sarebbero per il Settentrione?

Un po’ più di tasse, e tanta rabbia di chi il reddito se lo guadagna lavorando duramente.

Il reddito di cittadinanza è destinato al fallimento come per esempio è successo in Finlandia?

No, può benissimo essere varato, purché l’Italia accetti di continuare sul sentiero di declino su cui è avviata da 25 anni: “dimagrire insieme, dimagrire tutti” potrebbe essere la nuova frontiera. Ci piace una prospettiva del genere?

Salvini, che nelle regioni locomotiva del Paese, tocca punte percentuali tra il 30 e il 40%, ha sbagliato secondo lei a smorzare le ragioni autonomistiche a vantaggio di una politica nazionale?

No, egoisticamente ha fatto benissimo, era l’unico modo per non restare un partito territoriale. Il problema è che, con un governo Pd-Cinque Stelle, le ragioni autonomistiche del Nord sono destinate a risorgere da sé, senza bisogno di una Lega che le promuova.

Le regioni del Nord registrano un Pil pro capite medio superiore alla media europea. Moody’s ha appena confermato il rating della Lombardia su un gradino superiore a quello dell’Italia. Perché siamo ancora alla Questione meridionale, mentre anche la Spagna ci supera?

Perché la Questione meridionale abbiamo sempre preteso di affrontarla con poco Stato dove serviva (mafia, criminalità, evasione fiscale, assenteismo, inefficienza della sanità e della scuola), e con troppo Stato dove era meglio farne a meno (sussidi, clientele, finti posti di lavoro).

Popolo delle partite Iva e piccole imprese contro dipendenti pubblici. E’ ancora corretto pensare all’Italia spaccata a metà sulla base di queste categorie produttive?

No, non è corretto. Adesso la frattura sanguinosa sarà fra chi lavora e chi vive del lavoro altrui.

Un patto di governo grillino-leghista potrebbe mettere assieme le esigenze del Nord e del Sud o non è realistico?

Non lo si può escludere a priori, perché comunque il Sud ha le sue ragioni e il Nord pure, però ci vorrebbero De Gasperi e Di Vittorio, non Di Maio e Salvini.

Il Pd, che da Roma in giù il 4 marzo non ha vinto nemmeno una sfida diretta, sarebbe secondo lei malvisto dagli elettori del Sud nell’ipotesi di governo giallo-rosso?

No, credo che in tal caso il Pd sarebbe visto meglio di oggi, ma solo perché accodato ai Cinque Stelle, ossia all’unico partito che ha mostrato di prendere sul serio le rivendicazioni dei cittadini meridionali. In compenso verrebbe cancellato dalla geografia politica del Centro-Nord.

Intervista a cura di Marcella Cocchi pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 26 aprile 2018



Pd e Forza Italia, verso l’estinzione?

Secondo gli ultimi sondaggi, Cinque Stelle e Lega, ossia i vincitori di queste elezioni, stanno accrescendo ancora i loro consensi. Simmetricamente, Pd e Forza Italia li stanno riducendo. Il Pd sta scendendo pericolosamente verso la soglia del 15%, mentre Forza Italia sta scivolando addirittura verso quella del 10%, oltre la quale si entra inesorabilmente nel regno dei partitini.

È vero che, dopo un successo elettorale, c’è sempre un po’ di effetto band-wagon, ovvero “salita sul carro del vincitore”, ma è anche vero che, da qualche tempo, in Europa, i cambiamenti di umore degli elettorati sono diventati repentini e molto ampi. Un partito o un leader possono affermarsi in un baleno, come Macron in Francia, ma pure, altrettanto rapidamente, sparire dalla scena, come Hollande e il partito socialista (sempre in Francia). Non siamo, in altre parole, in tempi di lenti declini o graduali ascese, bensì in tempi di improvvisi e drammatici uragani politici. Ecco perché, forse, non è fuori luogo porci la domanda: la crisi del Pd e di Forza Italia è una parentesi passeggera, o è l’inizio di un processo irreversibile, che li condannerà presto all’irrilevanza?

Credo che questa domanda sia importante non solo in sé (dopotutto stiamo parlando delle due forze politiche che hanno dominato la vita politica nella seconda Repubblica), ma perché, se non ce la poniamo, diventa difficile capire tutte le mosse che i partiti stanno mettendo in atto in questa tormentata fase di ricerca di una maggioranza e di un accordo di governo. Le mosse dei vincitori (Cinque Stelle e Lega) sono dettate dall’ovvio desiderio di accrescere il proprio potere, ma quelle dei perdenti (Pd e Forza Italia) non possono non essere dettate anche da un istinto ben più basico, quello della pura e semplice sopravvivenza. Perché, che lo riconoscano o lo neghino più o meno sdegnosamente, questo l’hanno capito sia i dirigenti del Pd che quelli di Forza Italia: fra qualche anno i loro partiti potrebbero scomparire (è appena successo a Ncd e a Scelta civica), o precipitare nel limbo dei partiti piccoli e marginali.

Ma veniamo al nocciolo della questione: ce la possono fare a sopravvivere, o addirittura a tornare sopra il 20% dei consensi?

La mia impressione è che, se nulla cambia, la risposta sia negativa. Con queste classi dirigenti, con questo immobilismo culturale, con questa mancanza di idee nuove, non ce la possono fare. Per salvarsi, entrambi dovrebbero attuare una sorta di rivoluzione nei rispettivi mondi, rivoluzione che, per definizione, l’establishment di un partito non può essere portato a fare.

Non è solo questo, però. Sia Forza Italia, sia il Pd, scontano anche altri due fattori di debolezza. Il primo è il rischio di frammentazione legato alla nascita di un nuovo governo. Se ci sarà un accordo Di Maio-Salvini, è possibile che una parte di Forza Italia non ci stia (Brunetta lo ha già annunciato esplicitamente, parlando di sé). Se ci sarà un governo Cinque Stelle – Pd, è praticamente certo che una parte del Pd non ci starà (il che creerà degli enormi problemi di governabilità, visti i numeri in Senato). Per non parlare della ferita che si aprirebbe nel Pd ove, grazie ai suoi voti, si dovesse formare un governo di centro-destra.

Ma il fattore di debolezza maggiore, e il rischio di estinzione più serio, viene da un altro fronte ancora, e cioè quello dell’elettorato. Può piacerci o no (a me non piace), ma sta di fatto che, in una parte molto rilevante dell’elettorato, Movimento Cinque Stelle e Lega sono visti come declinazioni più pure, più chiare, più comprensibili di quel che partiti come Pd e Forza Italia dovrebbero rappresentare. Per molti elettori il Movimento Cinque Stelle, con il suo impegno contro la povertà, il suo giustizialismo, il suo moralismo anti-casta, il suo anti-berlusconiano, è una sorta di sinistra più sana, più genuina, meno innamorata del potere. E, specularmente, per molti elettori la Lega, con il suo programma radicale contro l’immigrazione irregolare, contro la legge Fornero, per una flat tax ultra-piatta (aliquota unica al 15%), è una sorta destra più netta, più chiara, meno disposta al compromesso.

Se Pd e Forza Italia saranno fagocitati da Cinque Stelle e Lega sarà per tanti motivi, compresi gli incredibili errori e le sorprendenti inadeguatezze delle rispettive classi dirigenti, ma verosimilmente sarà innanzitutto per l’ultima ragione di cui abbiamo parlato: l’incapacità di essere, ma forse sarebbe meglio dire di apparire, una vera sinistra e una vera destra.