Gli effetti della pandemia economica in Italia: perché la “variante imprese” rischia di dilagare

“È una persona rara chi vuole ascoltare

ciò che non vuole ascoltare”.

Dick Cavett

 

In questo articolo ho cercato di analizzare, sia pure solo in modo semi-quantitativo, l’impatto sull’economia italiana – e in particolare sulle imprese e sulle attività commerciali – dei 10 principali fattori endogeni ed esogeni che in questi due anni di pandemia le hanno messe a durissima prova, avviando una sorta di processo di “estinzione di massa” riguardante interi settori di attività: il lockdown fisico, la concorrenza dell’e-commerce (Amazon), lo smart working, l’aumento dei prezzi delle materie prime, i ritardi nelle consegne delle merci, il Super Green Pass, l’inflazione e il calo dei consumi, il lockdown “burocratico”, il caro-bollette e il caro-carburanti. Il mio non è un puro esercizio accademico, ma una necessità che qualsiasi decisore politico dovrebbe avvertire. Infatti, aspettare di vedere i numeri in materia forniti dai rapporti ufficiali, fra 1 o 2 anni – letteralmente “a babbo morto” – non ci sarà molto utile: è ora che ci serve capire quanto, come e perché la situazione economica dell’Italia è grave. Vi sono forti indizi del fatto che si vada, nel giro di qualche trimestre, verso un calo del PIL (le stime di crescita per quest’anno sono già state fortemente riviste al ribasso), una stagnazione dell’economia, una crescita del numero dei fallimenti, dei disoccupati e della povertà, nonché verso il nuovo massimo storico del debito pubblico (per di più con crescenti pericoli per la stabilità del sistema bancario), nonostante la pressione fiscale sia ormai da record. Ma temo che questi segnali ben evidenti non saranno presi in considerazione dalla politica, poiché presto i partiti saranno di nuovo impegnati, gli uni contro gli altri, in una lunga campagna elettorale.

La mancanza di un’analisi rischi-benefici e il flop delle misure “cura Italia”

Quando, all’inizio del 2020, la pandemia ha iniziato a fare capolino nel nostro Paese, istintivamente la mia preoccupazione non fu tanto per gli aspetti sanitari dell’epidemia (l’avevo già seguita da mesi in Cina e sapevo che le vittime erano prevalentemente anziani e persone con una o più comorbidità), bensì per il possibile impatto sull’economia. Infatti non era difficile capire, già all’epoca, che il numero di vittime sarebbe stato una frazione non significativa della popolazione (all’esame di laboratorio di fisica, ci insegnavano di considerare come non significativa una percentuale inferiore al 5%), mentre i danni del lockdown avrebbero impattato fortemente sul PIL, e quindi sull’intera popolazione.

A quel tempo, non avevo i dati necessari per fare calcoli precisi (non sapevamo ad es. il tasso di letalità reale, cioè considerando gli asintomatici), ma i conti della serva che facevo con le informazioni all’epoca disponibili (ipotizzando una letalità dell’ordine dell’8% e crolli del PIL a due cifre) confermavano le mie preoccupazioni. Da allora, vi sono stati numerosi DPCM che hanno imposto alle persone, alle imprese e in particolare alle attività commerciali chiusure e/o restrizioni fortissime, senza mai – che io sappia – fare, o anche solo tentare, un’analisi preventiva del rapporto rischi-benefici di ogni singola misura, cioè l’impatto economico vs. quello sanitario, come ci si aspetterebbe in un mondo razionale.

Nei primi momenti ciò poteva apparire in parte comprensibile, dato che le decisioni dovevano essere prese rapidamente e che non esisteva una struttura interdisciplinare medico-economica in grado di effettuare in modo approfondito il tipo di conti che io avevo cercato di fare in maniera grossolana. Ma, a partire dalla fine della prima ondata, questa giustificazione non valeva più. Infatti, l’emergenza – intesa nel senso etimologico di “circostanza imprevista”, “affioramento di qualcosa di nuovo” – non era più tale, e c’era tutto il tempo per fare le analisi del caso in preparazione delle possibili ondate successive, puntualmente poi arrivate cogliendo il Governo sempre impreparato e incline all’improvvisazione.

Inoltre, nella mente del decisore politico c’era probabilmente l’idea che le misure economiche via via adottate – i cosiddetti “ristori” alle aziende e alle partite Iva in crisi di fatturato, la cassa integrazione, il blocco dei licenziamenti, le garanzie pubbliche sui prestiti alle PMI, le garanzie di SACE per i prestiti dedicati alle imprese più grandi, il bonus “vacanza” (fino a 500 euro da spendere in strutture alberghiere e per viaggi), il bonus per bici e monopattini, il superbonus del 110%, etc. – avrebbero rappresentato un argine sufficiente ad arrestare la slavina di debiti che altrimenti si sarebbe riversata sulle imprese e sulle famiglie. E, sulla carta, la “potenza di fuoco” messa in campo dal Governo Conte sembrava notevole.

Tuttavia, le cose non sono andate esattamente come previsto. Vediamo brevemente perché. I ristori sono lo strumento che il Governo Conte ha introdotto dal decreto “rilancio” del maggio 2020, ma poi utilizzato anche per ristorare le attività economiche chiuse con le zone rosse-arancioni-gialle nel successivo autunno e inverno. Di 32 miliardi di euro del Decreto Sostegni (marzo 2021), il governo ha deciso di destinare come aiuti alle attività economiche piegate dalla pandemia 11 miliardi [10]. Una goccia in mezzo al mare di fronte agli oltre 420 miliardi di perdita di fatturato stimata per le PMI nel 2020. In pratica, un calo del fatturato del 50% ha corrisposto a indennizzi/ristori medi di circa 3.000 euro.

«Nel decreto Sostegni è stata finalmente eliminata l’iniquità dei codici Ateco ma, che siano 2.500 o 3500 euro quelli che riceverà la platea di oltre 3 milioni di beneficiari, stiamo parlando di cifre tra i 4 e gli 8mila euro tra il 2020 e il 2021 che non coprono nemmeno il 5% dei costi fissi di coloro che sono stati costretti a chiudere per periodi prolungati», denunciò Confassociazioni [10]. E con Draghi le cose sono andate ben peggio. Il suo Governo non farà nuovo deficit, né per ristorare né per rifinanziare la Cassa integrazione Covid. Il no è tanto più netto, quanto più alto è il pressing della politica. Ma intanto lo stato di emergenza è stato prorogato fino alla fine di marzo, per la serie “due pesi e due misure” [11].

La cassa integrazione è stata, all’inizio, un esempio di bonus mal riuscito per combattere la crisi pandemica [9]. Inaugurata con grandi ritardi, in particolare quella in deroga per cui è richiesto anche l’intervento burocratico degli uffici delle regioni, ha recuperato solo in parte con il tempo. E, se a luglio 2020 quasi in 200.000 lavoratori ancora aspettavano l’assegno da più di un mese, in seguito le cose sono in parte migliorate. Con la causale “Covid 19”, introdotta dal Decreto “Cura Italia” di Conte, il raggio di azione della cassa integrazione, ordinaria e in deroga, si è esteso coinvolgendo un’ampia platea di datori di lavoro [12]. Ma il decreto Ristori-ter di novembre scorso non ha rinnovato questa “Cassa Covid”.

Inoltre, nonostante l’importo assai rilevante dei prestiti garantiti dallo Stato alle imprese, le banche ne hanno approfittato largamente per aggiustare i propri bilanci e quindi molti, in realtà, sono crediti già esistenti che sono stati ristipulati per godere delle garanzie, e dunque non sono aggiuntivi. Nel caso dei bonus vacanza, infine, la domanda è stata minore alle attese: ci si aspettava di raggiungere fino a 4,8 milioni di famiglie sotto i 40.000 euro di Isee, ma in realtà i bonus utilizzati sono stati 755.000 [9]. C’è poi un bonus che ancora non si sa se sarà un successo o meno, il superbonus del 110% per le ristrutturazioni edilizie: dipenderà tutto da se si eviterà il blocco della cessione del credito alle imprese [15].

Come avviene l’estinzione in natura: un insegnamento da tenere ben presente

Uno dei libri più istruttivi che io abbia mai letto è “L’estinzione. Cattivi geni o cattiva sorte?”, del noto paleontologo americano David Raup. Sebbene il libro si riferisca allo studio dell’estinzione delle specie animali sulla Terra, in realtà – mutatis mutandis – i suoi insegnamenti sono assai utili per capire i rischi di estinzione della civiltà tecnologica (in fondo, siamo probabilmente alle soglie di una guerra nel cuore dell’Europa) e perfino, assai più modestamente, i rischi di “estinzione” delle imprese italiane (schiacciate da crollo dei consumi, rincari delle materie prime, ritardi nelle consegne, caro-bollette, boom dell’e-commerce, inflazione, etc.). Il libro in questione risulta quindi di estrema attualità.

La copertina dell’edizione inglese del libro di David Raup (nella foto) sull’estinzione delle specie.

 

Va premesso che l’estinzione è un fenomeno che fa parte dell’ordine naturale delle cose, per cui il nostro pianeta certamente sopravviverà alla specie umana – come ho illustrato a suo tempo nel mio libro “Mondi futuri: Viaggio fra i possibili scenari” [14] – perfino nel caso di un’Apocalisse nucleare: sopravviverebbero, infatti, i batteri, gli animali acquatici, le piante, etc. Viceversa, credo di potere dire tranquillamente che la Banca d’Italia ed io non siamo sicuri che tutte le banche italiane sopravviverebbero indenni all’“estinzione” scomposta di altre svariate centinaia di migliaia fra attività e piccole e medie imprese italiane, dopo le 300.000 già chiuse nel 2020 e quelle, non ancora quantificate, chiuse nel 2021.

Ma veniamo al bellissimo saggio citato. «Ciò che predispone una specie all’estinzione», spiega Raup basandosi su numerosi esempi, «è la sua rarità, cioè una scarsa diffusione geografica accompagnata da una popolazione formata da un numero ridotto di individui. Quando le condizioni ambientali si fanno biologicamente o fisicamente difficili, infatti, una specie rara corre davvero grossi rischi: predatori e specie rivali, malattie epidemiche, incendi, violente variazioni climatiche e – se la popolazione è assai piccola – anche il semplice accoppiamento tra consanguinei possono darle l’irrimediabile “colpo di grazia”». In effetti gli animali sperimentano varie “catastrofi”, ma l’uomo moderno, in realtà, molte di più.

«I virus letali sono comuni anche fra gli animali», osserva Raup, «tuttavia non si sono mai registrati casi di una specie ampiamente diffusa estintasi ad opera di un agente patogeno. Le malattie sono in grado solo di spingere una specie verso l’estinzione, riducendone drasticamente la popolazione e la distribuzione geografica, dando cioè il cosiddetto “primo colpo”. A quel punto, per eliminare le specie più diffuse occorrono comunque una serie di avversità che completino l’opera: un’intensa predazione, inverni particolarmente rigidi, incendi di foreste, accoppiamento fra consanguinei, caccia da parte dell’uomo, eccetera». Non so se nel frattempo vi si sia accesa nel cervello qualche lampadina…

L’insegnamento che possiamo trarre dal libro – che può essere applicato facilmente al caso delle imprese italiane e, più in generale, alla nostra civiltà tecnologica – è che anche i sistemi più resilienti, esattamente come le specie biologiche, sono molto più fragili dopo un “primo colpo” violento (come ad es. l’impatto economico della pandemia, con i suoi lockdown ed i risibili ristori) e possono, a quel punto, facilmente soccombere se questo è seguito da violenti colpi successivi (ad es. il caro-bollette, i rincari delle materie prime, etc.) che rappresentano il “colpo di grazia”. Insomma, una sorta di uno-due (o, in qualche caso, di uno-due-tre) micidiale da KO pugilistico. Ma il pugile è qui un’impresa, o un sistema Paese.

L’impatto economico (diretto e indiretto) della pandemia in Italia nel 2020

Limitiamoci, per intanto, alle imprese. In una recente nota del 24 gennaio [1], la Banca d’Italia ha riconosciuto che nel 2020 la pandemia ha avuto un impatto notevole sul PIL italiano, causandone una riduzione intorno al 9%. Dopodiché, gli autori del rapporto si compiacciono del fatto che, a dispetto delle attese, «il numero dei fallimenti e quello delle uscite dal mercato sono stati nel 2020 inferiori a quelli del 2019, rispettivamente del 33 e 27 percento. Ciò suggerisce che le risorse stanziate per il supporto alle imprese siano state utilizzate nei settori produttivi che ne avevano maggiormente bisogno, contribuendo a una valutazione positiva dell’efficacia delle misure nel contenere le crisi di impresa».

Ma, come ho illustrato in dettaglio in un mio precedente articolo [28] e mostrato numeri alla mano nella tabella che realizzai (le due righe rosse), nel 2020 i soldi della Legge di Bilancio e dei vari scostamenti di bilancio con indebitamento netto (deficit) da parte dello Stato soltanto all’apparenza hanno compensato il crollo del PIL avutosi. Infatti, in realtà non è così, perché essi sono stati impiegati per il Fondo di garanzia per i finanziamenti delle banche alle PMI (ne sono stati usati 83 miliardi), per pagare la cassa integrazione Covid (16 miliardi anticipati dall’INPS) e per numerose altre cose (a cominciare dall’acquisto di materiali sanitari, il cash-back, il Superbonus 110%, etc.). Il risultato è che le imprese più colpite, in quell’anno, hanno ricevuto fra il 2% e il 5% del fatturato perso: in pratica “briciole”. Oggi, peraltro, neppure quelle.

L’impatto della pandemia sui conti pubblici e sulle banche italiane nel 2020, dal primo scostamento di bilancio per 20 miliardi dell’11 marzo 2020, al secondo del successivo 24 aprile per 55,3 miliardi, per finire con i 25 miliardi del terzo scostamento (23 luglio), gli 8 miliardi del quarto (20 novembre) – più i 40 miliardi della Legge di Bilancio 2021 (anche per vaccini, assunzione medici, mascherine, etc.) – le risorse stanziate nei famosi “decreti Conte” sono servite solo in piccola parte per indennizzi e ristori, peraltro poco più che simbolici. (fonti: Carlo Cottarelli, Istat e altre citate nel testo del mio precedente articolo [28])

Mi domando quindi se gli autori del citato rapporto vivano su Marte oppure su qualche altro pianeta. Fra l’altro, anche uno studente del liceo capirebbe che “c’è qualcosa che non torna”. Infatti, se le cose fossero così positive come le vuol vedere la Banca d’Italia, allora ci sarebbe quasi da augurarsi di vivere in una eterna pandemia, visto che così avremmo un numero di fallimenti e di uscite dal mercato ben inferiore al normale! Evidentemente, augurarsi questo sarebbe un’idiozia, ma ragionare per paradossi in questo caso aiuta a capire cosa è che gli autori del rapporto di Bankitalia non sembrano comprendere o, peggio, non vogliono comprendere, probabilmente per elogiare l’operato dell’ex governatore Draghi.

Se torniamo da Marte sulla Terra, ci accorgiamo che, come riportato dall’Ufficio Studi Confcommercio nella sua analisi [40] sulle chiusure delle attività nel 2020, «l’effetto combinato del Covid e del crollo dei consumi del 10,8% (pari a una perdita di qualcosa come 120 miliardi di euro rispetto al 2019, sì avete proprio capito bene) porta a stimare la chiusura definitiva di oltre 390.000 imprese del commercio non alimentare e dei servizi di mercato, fenomeno non compensato dalle 85.000 nuove aperture. La riduzione del tessuto produttivo nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305.000 imprese (-11,3%). Di queste, 240.000 esclusivamente a causa della pandemia». Insomma, un vero e proprio disastro.

Per di più, nel 2020 non hanno chiuso tanto start-up o aziende traballanti, come avveniva negli anni precedenti, ma soprattutto aziende e attività che erano sane, ed in molti casi esistenti da generazioni (alcune avevano resistito persino alla Seconda guerra mondiale). In pratica, l’emergenza sanitaria, con tutte le conseguenze che ne sono derivate – restrizioni e chiusure obbligatorie incluse – ha acuito drasticamente il tasso di mortalità delle imprese che, rispetto al 2019, è risultato quasi raddoppiato per quelle del commercio al dettaglio (dal 6,6% all’11,1%) e addirittura più che triplicato per i servizi di mercato (dal 5,7% al 17,3%) [40]. Per non parlare dei 200.000 professionisti lavoratori autonomi “spariti”.

Fra l’altro, questo dilapidare ricchezze, beni e attività che si trasmettevano da una generazione all’altra, pone anche i semi per una frattura profonda fra le nuove generazioni – già costrette a lavoretti precari e malpagati – e quelle più vecchie, più tutelate e meglio pagate. Infatti, in un bel saggio uscito oltre 20 anni fa, un economista universitario di Genova e un giornalista si chiesero perché in Italia non si assisteva a una rottura del “patto generazionale” fra le generazioni dei genitori, che avevano vissuto il “boom economico” e goduto di pensioni e privilegi oggi impensabili, e quelle dei loro figli, non altrettanto fortunati. La loro risposta fu che ciò si doveva alle eredità, al trasmettersi della ricchezza dai padri ai figli.

Secondo una stima della CGIA di Mestre, nel 2020 a causa del Covid sono stati bruciati circa 150 miliardi in termini di ricchezza Paese, intesi come perdita del Prodotto Interno Lordo [2]. Ma una cifra verosimilmente monstre, sebbene difficile da quantificare, è stata bruciata da molte delle aziende e attività commerciali penalizzate dai lockdown per tenersi in piedi in attesa di tempi migliori (in ossequio al famoso “andrà tutto bene”), dato che affitti, bollette energetiche e tassa sui rifiuti non si erano nel frattempo fermati. Nel lockdown fisico, sono anche iniziati a crollare i consumi delle famiglie, che costituiscono la componente più importante del PIL (circa il 60%), in parte intercettati dalla nota piattaforma di e-commerce.

Una delle cose che colpiscono della crisi attuale è che impatta negativamente su quasi tutti i soggetti economici privati, quelli che producono ricchezza ed entrate per lo Stato. Si salvano per il momento dagli effetti della crisi solo i dipendenti pubblici, che però vivono grazie alle entrate prodotte dai primi. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Durante il lockdown, la domanda di e-commerce è infatti aumentata in modo esponenziale. La pandemia ha già avuto conseguenze devastanti su gran parte dell’economia e ha accelerato tendenze a lungo termine che concentreranno il potere nelle mani di alcune grandi aziende multinazionali. La crisi ha inoltre consolidato il ruolo dell’e-commerce, in quanto molti punti vendita hanno chiuso i battenti e si prevede che una parte delle abitudini di acquisto spostate online rimarranno tali, modificando il quadro urbano di tutte le città del mondo. Fra il 18 marzo e il 17 giugno 2020, il patrimonio del fondatore di Amazon, Jeff Bezos, è passato da 113 miliardi a 156,8 miliardi di dollari [3], il che dà un’idea dell’entità del fenomeno.

Amazon controlla già il 50% del settore del commercio elettronico negli Stati Uniti, e durante la crisi dovuta al Covid-19 il traffico sul sito Amazon.com è incrementato del 20%, mentre la domanda di taluni servizi, come la consegna di generi alimentari a domicilio, è cresciuta del 90% quando i punti vendita sono stati temporaneamente chiusi in molti Paesi. Parecchi negozi tradizionali non possono permettersi di restare chiusi per diversi mesi e alcuni – anche per questa concorrenza che fa presa sulle generazioni più giovani ma anche sulle persone di mezza età – potrebbero non riaprire mai più, con una conseguente riduzione della concorrenza per l’e-commerce, alimentando in questo modo un ciclo perverso.

In piena pandemia, il Governo Conte ha poi introdotto lo “smart working”: in pratica, ha deciso che il lavoro agile costituisse la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni, prescindendo dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi previsti dalla legge. L’accelerazione applicativa dell’istituto imposta dall’emergenza ha consentito l’avvio, e in alcuni casi l’implementazione, di un processo di cambiamento nella gestione delle risorse umane. Le recenti parole del ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, sintetizzano il dubbio successo dell’iniziativa: «Vaccini e basta far finta di lavorare!» [7]. E spiegano il suo stop allo smart working.

Da quando c’è lo smart working, alle immagini spettrali delle città deserte durante le pandemia si sono sostituite quelle di città assai meno affollate e ben più silenziose del solito, mettendo ancora più in crisi numerose attività. Come osservato dal Sole 24 Ore, gli effetti sull’indotto sono stati dirompenti [8]: “Trasporti locali, mense aziendali, manutentori, addetti alle pulizie, magazzinieri. Per questi comparti la crisi generata dal lockdown è stata solo l’inizio: l’estrema prudenza con cui continueranno a essere gestiti i rientri nei luoghi di lavoro sarà, di fatto, una minaccia per la continuità dei conti di queste aziende, tranne per chi non ha saputo radicalmente rinnovare il proprio business”. E farlo alla svelta.

La pandemia ha cambiato l’economia favorendo la decentralizzazione e la digitalizzazione, ma al contempo ciò ha avuto conseguenze non secondarie sull’indotto. Alla fine del 2020, almeno 3,5 milioni di persone ancora lavoravano da casa, e anche ora che la Pubblica amministrazione ritorna pian piano sui suoi passi, probabilmente molte aziende – che si sono abituate al new normal – continueranno pure in futuro a utilizzare questa forma di lavoro agile, flessibile. A pagare grandi conseguenze saranno, senza ombra di dubbio, il mercato immobiliare, il mondo dei trasporti, ma anche bar, ristoranti e attività varie dei centri direzionali delle grandi città, che vivevano soprattutto grazie a quel tipo di clientela.

Peraltro, proprio nei giorni scorsi è arrivato, come una doccia gelata per chi ha pagato dazio per il lockdown, uno studio prodotto da ricercatori della prestigiosa Johns Hopkins University che, analizzando una serie di altri studi relativi alla pandemia negli USA e in Europa, conclude [16] che «i lockdown in Europa e negli USA hanno ridotto la mortalità da Covid-19 in media solo dello 0,2%». E gli autori aggiungono: «Ancorché questa meta-analisi concluda che i lockdown hanno avuto effetti minimi o nulli sulla salute pubblica, hanno però imposto enormi costi economici e sociali laddove sono stati adottati. Di conseguenza, le politiche diretta a contrastare la pandemia attraverso l’uso dei lockdown sono infondate».

Secondo i ricercatori Steve Hanke, uno dei fondatori della Johns Hopkins School of Applied Economics, Jonas Herby e Lars Jonung, economista svedese, a fronte di benefici “al massimo marginali” ci sono stati “effetti devastanti” sull’economia e sulla società. Le chiusure «hanno contribuito a ridurre l’attività economica, aumentare la disoccupazione, ridurre l’istruzione, causare disordini politici, contribuire alla violenza domestica e minare la democrazia liberale». Senza contare gli “effetti collaterali”: l’aumento dei decessi per overdose di droga, degli incidenti di violenza domestica, del tasso di disoccupazione. Dunque, «i lockdown dovrebbero essere respinti a priori come strumento politico per la pandemia».

L’impatto economico della pandemia nel 2021-22 e perché il sistema ha “tenuto botta”

Anche i dati sul 2021 emersi dall’analisi sui fallimenti delle aziende italiane di CRIBIS, aggiornati al 30 settembre scorso, parlano chiaro: nei primi nove mesi del 2021 sono state 6.761 le imprese italiane che hanno dichiarato fallimento, in aumento del 43,6% rispetto allo stesso periodo del 2020, quando si sono registrati 4.709 fallimenti e l’attività dei tribunali era ferma per effetto del Covid. Per quanto riguarda i settori, fra gennaio e settembre 2021 è il commercio ad aver fatto segnare il maggior numero di fallimenti aziendali (1.955), seguito dai servizi (1.659), dall’edilizia (1.235) e dall’industria (1.084). Il dato, tuttavia, è al di sotto (del 15,9%) dei livelli pre-pandemia, cioè dello stesso periodo del 2019.

Il motivo per cui non si è (ancora) assistito allo tsunami di chiusure temuto è che i titolari di molte imprese e attività, in tutti questi due anni, hanno creduto al classico “adda passà ‘a nuttata”, immaginando ad esempio che, con l’arrivo dei vaccini e poi del Green Pass, si sarebbe presto tornati alla normalità. Ma questa speranza è andata presto delusa per una serie di cause endogene (in primis, la narrativa del terrore alimentata dal Governo e dal Green Pass stesso, i ristori simbolici per il lockdown, lo smart working, etc.) ed esogene (l’aumento dei prezzi delle materie prime e dei semilavorati, l’allungamento a dismisura dei tempi di consegna dei fornitori, l’aumento dei costi energetici, il boom di Amazon, etc.).

L’atroce meccanismo che ha “intrappolato” tanti imprenditori ed esercenti italiani fino ad arrivare al “punto di non ritorno” è il ben noto principio della “rana bollita” descritto dal filosofo Noam Chomsky [6]: «Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. La temperatura sale, finché è davvero troppo calda. La rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone e si sarebbe salvata».

Il meccanismo della rana bollita di Chomsky declinato nel caso della pandemia in Italia.

E ciò che le “rane imprenditrici” italiane hanno dovuto sopportare è andato davvero al di là di ogni ragionevole limite. Basti pensare, solo per evidenziare la mancanza di rispetto da parte del Governo per il lavoro altrui, alla totale assenza di programmazione, ed in particolare alle decisioni su chiusure e altre limitazioni prese ad es. pochi giorni prima di importanti festività, quando molte attività avevano già fatto acquisti di merci deperibili. Per non parlare delle varie attività a cui sono state imposte delle costosissime misure (separatori in plexiglass, igienizzazione dei locali, dispositivi di protezione individuale, etc.), rispettate scrupolosamente le quali non è stato consentito loro di stare aperte.

Un altro meccanismo che ha impedito a molti imprenditori di limitare il danno economico è quello stesso che frena psicologicamente i trader dilettanti dal chiudere una posizione quando vanno in perdita, per cui si insegna loro di fissare sempre uno “stop loss” protettivo. Si tratta di accettare una piccola perdita certa per evitarne una ben più grande in futuro, ma ciò richiede un grande autocontrollo e autostima. Inoltre, per un imprenditore non era facile fare previsioni sull’evoluzione della pandemia e sulle conseguenti misure che sarebbero state prese dal Governo, per cui si trattava di partecipare a quello che in teoria dei giochi si chiama un “gioco con informazione incompleta”. Insomma, roba da professionisti.

Il motivo per cui anche i numeri sulla disoccupazione prodotta dal Covid sono stati (finora) più bassi di quel che ci poteva aspettare è stato, invece, il blocco dei licenziamenti imposto dal governo. Questa misura è stata introdotta originariamente tramite l’articolo 41 del D.L. 18/2020  (Decreto “Cura Italia”) e prevedeva il divieto per 60 giorni (dalla data di pubblicazione del decreto, 17 marzo, e fino al 16 maggio 2020). Il fine era quello di preservare il livello occupazionale, vietando di procedere a licenziamenti per giustificato motivo. In seguito non sono mancate numerose proroghe, parallelamente al rinnovo dello stato di emergenza; e, per le grandi aziende, il blocco licenziamenti è stato prorogato fino al 31 dicembre 2021.

Tuttavia, la Legge di Bilancio 2022 ha introdotto un’ulteriore proroga per le aziende con almeno 250 dipendenti: (almeno) fino ad aprile 2022, “al fine di salvaguardare il tessuto occupazionale e produttivo” italiano [4]. La norma si riferisce solo a quelle imprese che intendono “procedere alla chiusura di una sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomi situato sul territorio nazionale” e intendono licenziare almeno 50 dipendenti. A oggi, il blocco dei licenziamenti ha evitato la perdita di circa 440.000 posti di lavoro nel 2020 ma è stato stimato che nello stesso anno si siano persi 935.000 posti di lavoro, nonostante un blocco dei licenziamenti che, di fatto, è riuscito nel suo intento solo parzialmente [5].

Il cercare di “tenere botta”, però, è costato in questi due anni a tante imprese e attività il dover bruciare enormi quantità di ricchezza – in molti casi i risparmi di una vita – per cercare di salvare l’azienda ereditata, magari, dai propri genitori, se non attiva da generazioni. L’alternativa era spesso rappresentata dallo svendere e materializzare comunque una perdita pesantissima, come ad esempio nel caso di hotel chiusi e contattati da “squali” e speculatori che vorrebbero acquistarli a prezzi stracciati. Dunque, i fallimenti e le chiusure a cui si è assistito finora rappresentano, assai verosimilmente, soltanto la cosiddetta “punta dell’iceberg”. E non capire questo vuol dire non saper (o non voler) leggere la realtà.

Lo dimostra, ad esempio, il Rapporto 2021 dell’Istat sulla competitività dei settori produttivi pubblicato lo scorso aprile [41], da cui emergeva un dato allarmante che sembra essere stato ignorato dal Governo: a causa della pandemia (il “primo colpo”, nella metafora delle estinzioni), il 45% delle piccole e medie imprese italiane è strutturalmente a rischio, cioè non sono in grado di resistere a una seconda grave crisi esogena (il famoso “colpo di grazia”), poiché subirebbero conseguenze tali da metterne a repentaglio l’operatività. Ma, per ovvie ragioni di date, il rapporto non teneva conto né del caro-bollette, manifestatosi negli ultimi mesi, nè del lockdown di fatto (o “burocratico”) verificatosi nelle ultime settimane.

In Italia, infatti, per il Covid-19 vi sono delle regole che sostanzialmente ci costringono ad un lockdown burocratico. Non stiamo parlando solo dei non vaccinati, che ormai tra Green Pass base, obblighi vaccinali e Super Green Pass non possono fare praticamente nulla. Parliamo anche di chi due dosi di vaccino se l’è fatte, ma non è ancora riuscito a sottoporsi al booster. Se hai la sfortuna di essere il ‘contatto stretto’ di un positivo, anche se asintomatico e con tampone negativo, finisci col doverti fare 5 o 10 giorni di quarantena oppure sei costretto a girare per tutto il giorno con la mascherina Ffp2. Un ‘lockdown burocratico’ di fatto che, nelle scorse settimane, ha letteralmente paralizzato il nostro Paese.

Abbiamo tutti visto, di persona o in televisione, le immagini di “desertificazione” che a molti hanno ricordato il “lockdown” del marzo 2020, quando il Covid, nella sua fase più acuta, mise in ginocchio l’Italia; ma con la differenza che questa volta non ci sono misure economiche rilevanti poste ad arginare l’impatto su imprese e attività commerciali. A Milano, Roma, Venezia, poche persone in strada, turisti quasi zero, traffico “ai minimi storici”, alberghi che chiudono o semplicemente continuano a rimanere chiusi, bar, ristoranti e negozi semivuoti e sempre più a rischio “crac” [13]. I saldi di fine stagione, come era facile aspettarsi in tale situazione, sono stati un flop e gli esercenti lanciano l’allarme.

Prigionieri di Omicron, i cittadini sono rimasti serrati in casa, in permesso per malattia o in smart working, per quarantena, autosorveglianza, ma anche paura di contagiarsi. «Su tutto pesa una cappa di timore e incertezza, un fattore psicologico che certo non invoglia a riappropriarsi della normalità e non incentiva i consumi» osserva Carlo Massoletti, vicepresidente vicario di Confcommercio Lombardia [13]. A certificare invece la crisi del turismo e del settore ricettivo è Federalberghi Roma: «È un cataclisma. Veniamo contattati giornalmente da nuove imprese che ci chiedono come effettuare le procedure di chiusura. Il turismo romano è ormai in cortocircuito e sono migliaia i lavoratori a rischio».

Non è difficile capire perché in parte ciò continuerà a succedere nonostante l’attenuarsi dei contagi. Faccio l’esempio di una coppia di insegnanti che, pur di avere uno stipendio, sono in regola con il Green Pass ma la loro figlia 16-enne non lo possiede in quanto non vuole vaccinarsi essendo stata positiva a dicembre (scelta corretta, poiché è ben noto che, se si vaccinasse, correrebbe un rischio di effetti avversi ben maggiore). Ebbene, ristoranti, terme, alberghi, musei, etc. saranno evitati da quella famiglia. Inoltre, molti Paesi cominciano a sconsigliare apertamente i viaggi in Italia per i disagi (finanche 20 o 30 controlli al giorno per un turista che fa shopping!) a cui andrebbero incontro i turisti stranieri a causa del Green Pass.

Gli aumenti dei prezzi di materie prime, energia, carburanti ed i ritardi nelle consegne  

Il 21 aprile dell’anno scorso, nel mio articolo Il “boom” dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la “tempesta perfetta” [28], scrivevo che «quella che incombe sull’Italia è la “tempesta perfetta”, combinazione tra: (1) effetti della pandemia sulle attività commerciali, (2) forte ascesa dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei trasporti che impatta su industrie e famiglie, e (3) ritardi nella campagna vaccinale italiana rispetto agli altri Paesi industrializzati». Oggi la campagna vaccinale è stata ultimata, sebbene con risultati inferiori alle attese poiché i vaccini anti-Covid attuali sono “leaky” e proteggono dall’infezione solo per circa 5 mesi [29], ma per il resto la “tempesta perfetta” è rimasta.

Infatti, l’aumento dei costi delle materie prime e delle tariffe di trasporto ha iniziato a trasferirsi al consumatore, producendo un effetto al rialzo sui prezzi al consumo. Gli aumenti si concentrano – oltre che sui costi dei carburanti e dell’energia – principalmente sul costo delle materie prime e delle merci importate, e in particolare di quelle che hanno costi di trasporto più alti. L’impatto sui prezzi alla produzione, per un Paese come l’Italia che dipende quasi totalmente dall’estero per materie prime e merci, sta diventando quindi notevole. Inoltre, con le molte partenze annullate delle navi merci e per la carenza di container, le scorte sono diminuite drasticamente, provocando problemi ai produttori.

Le interruzioni della cosiddetta “catena di approvvigionamento” sono diventate una sfida importante per l’economia globale dall’inizio della pandemia. A causa delle chiusure di stabilimenti in Cina all’inizio del 2020, dei lockdown in diversi paesi del mondo, della carenza di manodopera, della forte domanda di beni commerciabili, delle interruzioni delle reti logistiche, i tempi di consegna dei fornitori nell’Unione Europea e negli Stati Uniti hanno raggiunto, negli scorsi mesi, dei livelli record. Per rendersene conto, basta guardare il seguente impressionante grafico, pubblicato a ottobre dal Fondo Monetario Internazionale [26], che riflette la crescente entità dei ritardi nella catena di approvvigionamento di beni e prodotti.

L’indice dei tempi di consegna dei fornitori in Europa e negli USA, a partire dal 2010, costruito a partire da sondaggi aziendali di Purchasing Managers Index. (fonte: International Monetary Fund)

Il recente forte calo dell’indice dei tempi di consegna riflette l’aumento della domanda, i diffusi vincoli dell’offerta o una combinazione di entrambi. Durante tali periodi, i fornitori di solito hanno un maggiore potere di determinazione dei prezzi, causando un aumento dei prezzi. Inoltre, questi ritardi nella catena di approvvigionamento possono ridurre la disponibilità di beni intermedi che, combinati con la carenza di manodopera, possono rallentare la produzione e la crescita della produzione. Via via che i nuovi casi di Covid diminuiranno, i vincoli di capacità e la carenza di manodopera dovrebbero allentarsi, eliminando parte della pressione dalle catene di approvvigionamento e dai tempi di consegna.

Tuttavia è improbabile che si assista a un rapido e significativo calo dei prezzi delle materie prime, data la richiesta del mercato ancora molto elevata, i sempre più numerosi eventi meteorologici estremi (nel caso delle materie prime alimentari) e la crescita sui mercati finanziari mondiali della speculazione, favorita dai nuovi strumenti di investimento sempre più diffusi: mi riferisco sia agli ETF (Exchange Traded Funds), fondi a gestione passiva che trattano anche singole materie prime (ad es. petrolio, rame, grano, etc.) e non riservati più ai soli professionisti, sia a strumenti più professionali come i contratti futures, usati anche da molte aziende per ridurre l’esposizione ai costi crescenti (ad es. del carburante) [27].

La ripresa dell’economia cinese e mondiale ha fatto impennare anche i prezzi delle materie prime energetiche, come ho illustrato nel caso cinese (v. mio articolo del 25/10/21 [30]) e in quello italiano (v. articolo del 10 gennaio [31]). Per quanto riguarda il discorso dei crescenti costi energetici, la situazione a livello europeo e mondiale non è purtroppo per nulla rappresentativa dello stato attuale in cui si trova il nostro Paese, il quale, come già scrissi lo scorso aprile, «presenta delle peculiarità notevoli e tutti gli ingredienti per una “tempesta perfetta” sul breve o medio termine. Insomma, dopo essere stato l’“ombelico” del Covid in Europa, l’Italia rischia di esserlo anche della crisi post-Covid».

Infatti, il nostro sistema Paese è messo in ginocchio dal caro-bollette – con filiere produttive che si sono bloccate (per ora temporaneamente) per non produrre in perdita – perché sconta gli effetti di scelte a dir poco miopi e spesso guidate dalla “manina” delle lobby. Inoltre: (1) l’Italia è fra i Paesi d’Europa con elettricità e gas più cari; (2) l’Italia ha il prezzo del carburante fra i più cari d’Europa; (3) i pedaggi delle autostrade italiane sono i più alti in Europa; (4) L’Italia è ai primi posti nel trasporto su gomma in Europa (secondo i dati forniti da Eurostat, nel 2017 in Italia circa il 60% delle merci totali, e ben l’80% di quelle movimentate su terra, erano veicolate da camion). È evidente che così non si va lontano.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità in Italia negli ultimi mesi, visto all’interno di un arco di 12 anni a cui il grafico si riferisce: è salito di oltre 10 volte dai valori di maggio 2020 (21,8 €/MWh), con una crescita pressoché esponenziale. Il prezzo del gas naturale, negli ultimi 12 anni, è invece salito di circa 6 volte, con lo stesso andamento. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice Ipex per la Borsa elettrica. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

C’è poi il problema del caro-carburanti, con i prezzi alla pompa che anche in questo caso stanno raggiungendo livelli sempre più elevati, influenzati da una parte dal rialzo dei prezzi del petrolio, dato che c’è troppa domanda e non abbastanza offerta, dall’altra dal fatto che le nazioni e le organizzazioni produttrici di petrolio – come l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) – non vogliono rifornire troppo il mercato e far precipitare nuovamente il prezzo. Il risultato è che la benzina è oramai a quota 1,80 euro al litro ed il gasolio va verso la soglia di 1,70 euro; rispetto ai prezzi alla pompa del 2002, si tratta di un +99,4% (quasi il doppio) per il gasolio e di un +81,1% per la benzina [37].

Tuttavia, per una corretta interpretazione della realtà, occorre anche tener conto delle previsioni a breve e medio termine. Fare previsioni non è mai facile, come ben so, visto che il mio Mondi futuri è un saggio di futurologia. Ma ora ci troviamo in una situazione abbastanza prevedibile. In questo momento 6 navi da sbarco della flotta russa del Mar Baltico sono nel Mediterraneo, probabilmente dirette nel Mar Nero. Intanto, l’Ucraina è completamente circondata dalle truppe russe, che hanno finito di montare gli ospedali di campo. Una volta schierate le ultime navi, Putin avrà una breve “finestra di opportunità” per invadere l’Ucraina senza che l’Europa possa muovere un dito sotto il ricatto delle forniture di gas.

Storicamente, le guerre sono uno dei driver dell’aumento dei prezzi del petrolio sui mercati internazionali. D’altra parte, come dimostrato anni fa da due ricercatrici italiane, il prezzo del petrolio e quello del gas sono debolmente co-integrati, per cui un aumento del primo alla lunga causa un aumento del secondo. In ogni caso, anche se non vi fosse una guerra, il trend secolare – cioè la variazione di lungo periodo, non periodica – dei prezzi del petrolio e del gas naturale è da decenni una crescita, in quanto sono risorse non rinnovabili, ed in quanto tali soggette a un depauperamento. Inoltre, il gas naturale viene usato da sempre più paesi al posto del carbone e dell’olio combustibile per la transizione energetica.

Infine, secondo molti esperti, siamo all’inizio di un cosiddetto “superciclo” delle materie prime (di cui quelle energetiche sono un importante sottoinsieme), come quello che nel 2008 portò il prezzo del petrolio al record di 147 $ al barile, causando scioperi e proteste di autotrasportatori e pescatori. In ogni caso, non vi sono ragioni per ritenere – come alcuni erroneamente pensano – che l’impennata dei prezzi dell’energia sia dovuta a dinamiche congiunturali anziché strutturali. Certo, il rimbalzo della domanda dovuto alla ripresa post-pandemia si può considerare congiunturale, ma tutto il resto no. Quindi il non affrontare il problema energetico italiano alle radici, intervenendo sulle sue molteplici cause, è delittuoso.

Il fortissimo rincaro dell’energia e delle altre materie prime sta frenando la produzione industriale italiana. Secondo il Centro studi di Confindustria [34], dopo il calo dello 0,7% di dicembre, in gennaio la caduta è stata dell’1,3% per effetto di aumenti dell’elettricità (+450% su gennaio 2021) e delle altre commodity, che «comprimono i margini delle imprese e, in diversi casi, stanno rendendo non più conveniente produrre». Per viale dell’Astronomia «a questo si sommano le persistenti strozzature lungo le catene globali del valore e la dinamica mette a serio rischio il percorso di risalita del PIL, avviato lo scorso anno». Il rallentamento, peraltro, non potrà non impattare sul mercato del lavoro, già piagato dai contratti a termine.

Se si considera che per l’industria manifatturiera il prezzo di un prodotto è composto da cinque elementi fondamentali – (1) il costo delle materie prime e/o dei componenti utilizzati, (2) il costo dell’energia usata per la lavorazione, (3) il costo del trasporto per consegnare il prodotto al cliente, (4) costi di manodopera, spese fisse, tasse, etc., (5) il margine di guadagno – è evidente che, poiché i costi dei prime tre fattori sono in aumento e, molto verosimilmente, destinati a crescere ulteriormente nei prossimi mesi, il margine di guadagno per aziende già colpite dalla pandemia si riduce di parecchio e il mix può facilmente risultare “letale”. Le attività più piccole, pertanto, sono soltanto le prime ad andare in crisi.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Gli incrementi di tariffe energetiche e carburanti stanno avendo ripercussioni pesantissime anche per i consumatori, per le PMI e per le attività in ogni settore, determinando un forte rialzo dei prezzi al dettaglio, con l’inflazione che a gennaio è balzata al +4,8% [35]. L’impennata dell’inflazione (si tratta del tasso di inflazione più alto degli ultimi 13 anni) sta determinando, a sua volta, un calo dei consumi che impatta soprattutto sul commercio, sulle imprese manifatturiere e sull’economia del “superfluo” (viaggi, cinema, etc.). Il combinato bollette-inflazione, secondo le stime effettuate dal Codacons, potrebbe costare oltre 1.100 euro annui a famiglia, con una contrazione di spesa pari a -3.850 euro a nucleo [36].

A tutto ciò vanno aggiunti fattori ulteriori che rischiano di mettere in ginocchio settori importanti, come ad esempio l’edilizia e l’automotive. Nel primo caso, a seguito delle nuove norme anti-frode sul Superbonus del 110% [38], che secondo le imprese bloccheranno il boom dell’edilizia – che ha trainato la ripresa del 2021 [39] – e l’intera filiera del Superbonus (installatori di impianti idrotermosanitari, efficientamento energetico, etc.). Nel caso dell’industria automobilistica, invece, si sommano gli effetti dello stop alla vendita di auto diesel prevista entro il 2035, che mette a rischio il lavoro di oltre 70.000 operai in tutta Italia, e della carenza di microprocessori, necessari per produrre nuove auto.

Il possibile superamento di “soglie critiche” ed i settori dell’economia più colpiti

Come in tutti i sistemi, esistono delle soglie critiche superate le quali i sistemi stessi “saltano”, con conseguenze solitamente catastrofiche. il problema è che i politici e le autorità di controllo non sembrano minimamente in grado di fare previsioni sulle soglie critiche: ad esempio, riguardo i prezzi dell’energia che porterebbero intere filiere produttive o interi settori di attività a chiudere. Ma il fatto di non avere questa capacità previsionale – come del resto già dimostrato con il Covid, dai ristori inadeguati fino all’assenza di qualsiasi valutazione rischi-benefici dei vaccini – non significa certo che le soglie non esistano e che quindi non verranno superate se si continuano a curare i sintomi e non le cause della malattia.

Tuttavia, i diversi settori dell’economia italiana verranno impattati in misura diversa dai vari fattori avversi fin qui illustrati. Dato che è interessante provare a capire quali siano i più a rischio “estinzione”, ho cercato di evidenziare semi-quantitativamente le differenze – sia pure senza troppe pretese – nella tabella che segue. Chiaramente, quelli più colpiti risultano essere i settori su cui impattano un numero maggiore di fattori e per più tempo; per cui, il prevedibile permanere per le ragioni già illustrate del caro-bollette (complice anche l’obbligo di passaggio al mercato libero scattato per le PMI il 1° gennaio 2021), del caro-carburanti e di misure come Green Pass e smart working può dar loro il “colpo di grazia”.

I settori colpiti dai vari fattori illustrati nel testo. Leggenda: croce se colpito, zero se non colpito.

Si noti come le due misure che hanno impattato sul maggior numero di settori siano state proprio quelle imposte dal governo negli ultimi due anni, ovvero il Green Pass e il lockdown “burocratico” di queste ultime settimane, dovuto a quarantene largamente anacronistiche con “tamponamenti” multipli. Ma il settore che esce più con le ossa rotte – e che rischia una sorta di “estinzione di massa” se non si interviene nell’abolire queste misure e nel limitare l’impatto del caro-bollette – è senza dubbio quello del commercio, colpito da tutti e 10 i fattori considerati dalla mia analisi. Esso è seguito, nella graduatoria dei settori impattati da più fattori, da piccola manifattura e ristorazione (7) e da industria e trasporti (6).

La pandemia economica, come il virus, colpisce là dove vi sono delle debolezze. Per quanto riguarda le piccole e medie imprese manifatturiere, quelle più sul filo del rasoio si concentrano soprattutto nei settori a basso contenuto tecnologico e di conoscenza [41]. Se si tiene conto dell’impatto economico, gli effetti più devastanti riguardano le attività legate alla ristorazione (già secondo il citato rapporto Istat era a rischio chiusura il 95,5% di esse), al turismo (oltre il 73% delle agenzie di viaggio a rischio chiusura), alle attività artistiche, sportive e di intrattenimento (fra il 60% e l’85% a rischio). E nel comparto industriale risaltano le difficoltà della filiera della moda: abbigliamento (oltre 50%), pelli (44%), tessile (35%).

Non si tratta di numeri campati in aria. Nel 2020, delle 240.000 imprese “sparite” dal mercato, fra i settori più colpiti, nell’ambito del commercio, vi sono stati abbigliamento e calzature (-17,1%), ambulanti (-11,8%) e distributori di carburante (-10,1%); nei servizi di mercato le maggiori perdite di imprese si sono registrati, invece, per agenzie di viaggio (-21,7%), bar e ristoranti (-14,4%) e trasporti (-14,2%). C’è poi tutta la filiera del tempo libero che, tra attività artistiche, sportive e di intrattenimento, nel 2020 ha fatto registrare complessivamente un vero e proprio crollo, con la sparizione di un’impresa su tre. Non è quindi difficile immaginare quali possano essere i numeri del 2021 e quelli dell’anno corrente.

Sul settore ristorazione, abbiamo dati completi e affidabili relativi agli ultimi 2 anni che forniscono uno spaccato di ciò che sta realmente accadendo, ed è stata una vera e propria ecatombe. I dati della Fipe [42], la Federazione italiana dei Pubblici esercizi, parlano di ben 45.000 imprese scomparse nel giro di due anni, e di ben 300.000 lavoratori che hanno perduto il proprio impiego, determinando una perdita di competenze essenziali e professionali difficilmente recuperabile. Dal 2019, ci sono state perdite per oltre 566 miliardi: i consumi nella ristorazione sono calati del 37,4% nel 2020 e del 28% nel 2021, rispetto ai livelli del 2019. Altre centinaia di migliaia di realtà sono oggi oberate dai debiti per far fronte alla crisi.

Per quanto riguarda, invece, l’impatto del caro-bollette, esso è naturalmente maggiore per le attività più energivore, ma con rilevanti differenze sulla base delle dimensioni delle imprese e dell’incidenza dei costi energetici sul fatturato. In pratica, sono in difficoltà (con il rischio di interrompere le produzioni, cosa che in alcuni casi si è già verificata, sia pure temporaneamente) le industrie energivore dei settori ceramica, vetro, gomma e plastica, tre settori che occupano circa 210.000 lavoratori. Ma anche il settore ristorazione (bar, gelaterie, ristoranti) e ad es. le lavanderie sono pesantemente colpiti, insieme a tutte le PMI che non hanno l’expertise necessaria per districarsi nella scelta dei contratti di fornitura energetica.

A differenza di quanto succede negli altri Paesi, però, in Italia il danno maggiore sembra essere stato prodotto da scelte scellerate della politica: di quella energetica, fatte nel passato (che causano il caro-bollette), e di quella sanitaria (lockdown, Green Pass, tamponi a go-go, etc.) fatte invece dagli ultimi due governi. Il Green Pass, la burocrazia anti-Covid e lo smart working, unite alla liturgia della paura promossa da Speranza e dai suoi sodali, stanno producendo un lockdown mascherato, desertificando le città turistiche, bloccando il Paese, frenando i consumi. Il gongolarsi di molti media per il “rimbalzo del gatto morto” dell’economia italiana vuol dire non capire nulla di ciò che sta accadendo.

In questo scenario, le risorse del PNRR non sembrano poter fare la differenza nel breve periodo,  ammesso che si riescano a mandare in porto i 100 obiettivi e target in agenda per quest’anno. Un’indagine dell’Istat pubblicata a inizio febbraio mostra che per circa la metà delle imprese questi non hanno “nessuna” rilevanza come fattore di sostegno e di traino dell’attività nel primo semestre 2022. La rilevazione ha interessato un campione di 90.461 imprese con oltre tre addetti attive nell’industria, nel commercio e nei servizi, rappresentative di un gruppo di circa 970.000 aziende che producono il 93,2% del valore aggiunto nazionale e impiegano il 75,2% degli addetti (13,1 milioni) e il 95,5% dei dipendenti [36].

Inoltre, come mostrerò in un futuro articolo, i 17.000 morti Covid ufficiali di questo autunno-inverno (dal 1° settembre al 5 febbraio) sono del tutto simili alle stime dei morti reali per influenza in epoca pre-pandemica (quando i tassi di occupazione delle terapie intensive d’inverno raggiungevano picchi da allarme rosso). E questo senza tener conto del fatto che: (1) oggi il 40% degli ospedalizzati lo è con il Covid e non per il Covid [21]; (2) i morti realmente per Covid sono assai meno di quelli che finiscono nelle statistiche ufficiali, vuoi perché così prevedono i moduli di referto attuali [23], vuoi perché c’è un forte interesse economico in tal senso negli ospedali, che così ricevono rimborsi più alti dal SSN [22].

In realtà, come dichiarato il 3 febbraio da un governatore USA nell’annunciare la fine di ogni restrizione, «l’influenza è parte delle nostre vite quotidiane e il coronavirus può essere gestito allo stesso modo». Questa incapacità delle nostre autorità politiche e sanitarie nel “leggere” i numeri e nel fornirli è grave: sia sui positivi, sia sugli ospedalizzati sia sui morti Covid i dati vengono forniti sempre e soltanto in forma aggregata (impedendo di distinguere ad es. i tamponi multipli, gli ospedalizzati per gambe rotte, i falsi morti Covid, etc.) – al fine di alimentare la paura e difendere la scelta scellerata del Governo di puntare, nella mitigazione dell’epidemia, praticamente tutto e solo su chiusure prima e vaccini poi.

Un virus è “semplicemente una brutta notizia racchiusa in delle proteine”, scrissero i biologi Jean e Peter Medawar nel 1977. Ma, come abbiamo visto, le cattive notizie che arrivano dall’economia reale superano di gran lunga, per il Paese, quelle che arrivano dagli ospedali per il Covid; pure un orbo se ne accorgerebbe. Ma ciò che più dovrebbe preoccupare è il fatto che almeno 6 o 7 dei fattori riportati nella mia tabella permarranno almeno nel prossimo futuro (e potrebbero salire a 8 o perfino di nuovo a 10 se in autunno dovesse arrivare una variante che costringesse di nuovo a lockdown fisici e/o burocratici e allo smart working). Ed a questi si vanno aggiungendo, come visto, fattori ulteriori in settori specifici.

L’inadeguatezza del Governo Draghi ed i possibili rischi sistemici

Il Green Pass ha un impatto negativo sull’economia senza fornire alcuna contropartita, giacché sappiamo ormai che è un “lasciapassare” per il virus [29] e in molti Paesi europei che l’hanno adottato ha spinto meno alla vaccinazione [33], alimentando l’avversione dei dubbiosi ai vaccini e le divisioni sociali fra vaccinati e non. Impedire a intere fasce della popolazione di accedere alla stragrande maggioranza dei negozi e delle attività commerciali vuol dire, in molti casi, condannarli a morte a favore degli ipermercati, dell’e-commerce di Amazon o, in alternativa, alimentare l’illegalità. Per non parlare dell’impatto sull’intero settore turistico, poiché ristoranti e hotel non possono accettare famiglie con un non vaccinato.

Inoltre, per agevolare i turisti che arrivano nel nostro Paese, l’esecutivo ha deciso – nei loro riguardi – di uniformarsi alle regole vigenti oltre i confini nazionali. Questo vuol dire che i turisti che arrivano da Paesi con regole vaccinali diverse dal nostro potranno accedere a tutti i servizi ed attività (alberghi, trasporti, ristoranti, etc.) con il Green Pass base (che viene rilasciato con un semplice tampone), mentre gli Italiani sono obbligati ad avere il Green Pass “rafforzato”. Quello che è ancora più folle è che siamo gli unici al mondo ad essere ridotti così. Anzi, come ha osservato qualcuno, «l’Italia è l’unica nazione, in tutta la Storia, in cui i propri cittadini hanno meno diritti degli stranieri». Un’ingiustizia davvero palese.

Il paradosso è che, ad esempio, un sardo può prendere con un semplice tampone l’aereo per Parigi o per un’altra città europea, ma se non ha il super Green Pass non può prendere un aereo o una nave per raggiungere l’Italia continentale. Analogamente, un lombardo può andare in Svizzera e fare una vita quasi normale, ma in Italia se non è vaccinato non può prendere neppure un treno (peraltro, gli Eurostar viaggiano ora quasi vuoti) o un autobus. Il risultato di tutto ciò è che, da una parte, si è messo in ginocchio il turismo (il 40% degli hotel di una città come Venezia sono oggi chiusi) e, dall’altra, molti giovani (e non solo) stanno lasciando il Paese, ma così si ipoteca ancor più il futuro della nazione.

Ma non si può tacere, riguardo la modalità a mio parere vigliacca con la quale in Italia si è costretta la popolazione a vaccinarsi, la mancanza di humanitas dimostrata, poiché moltissime persone, a causa dell’obbligo del Super Green Pass sul posto di lavoro, non possono ora sfamare i propri figli; mentre altre non possono raggiungere i propri cari lontani, non potendo più prendere un treno. Ma la mancanza di rispetto per i cittadini di questo Governo si è manifestata pure in altre forme. Qui mi limiterò a citare la polizia, che di recente ha picchiato dei giovani che manifestavano [19]. Non è accettabile che un Presidente del Consiglio di un Paese che, sulla carta, è ancora democratico permetta queste cose.

Questo per tacere del fatto che la Costituzione, art. 2 comma 2, dice «La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona». Non parliamo poi del fatto di come siano state calpestate anche le leggi ordinarie dello Stato, giacché lo stato di emergenza non può prolungarsi oltre i 24 mesi, come spiegato da esperti in campo legale [20]. Infine, nessuno sembra aver realizzato che, se si tiene conto degli immunizzatisi naturalmente nella recente ondata di Omicron (v. figura), pari a circa il 10% della popolazione italiana, si scopre che addirittura il 99% degli over 12 è ora immunizzato (e l’immunità naturale è ben più ampia e duratura di quella da vaccino!). Dunque, il Green Pass non è più giustificato [25].

Se si contano gli immunizzati naturalmente dal SARS-CoV-2 contando i guariti dal grafico interattivo mostrato qui sopra (barre scure nel rettangolo rosso), si scopre che dall’1/1 al 5/2 si sono immunizzate ben 5,9 milioni di persone, pari al 10% della popolazione italiana. Se si considera che l’88,4% della popolazione over 12 (quella oggetto della campagna vaccinale) al 6 febbraio era vaccinata, aggiungendo questo ulteriore contributo (non ancora terminato) si scopre che praticamente circa il 99% della popolazione over 12 è immunizzata, non giustificando quindi la permanenza del Green Pass [25]. (fonte: Il Sole 24 Ore)

Un leader “furbo”, poi, è chiusurista al momento giusto e aperturista al momento giusto, come Boris Johnson nel Regno Unito. Il Governo Draghi, invece, abusando della vile arma della paura e del ricatto, ha dilaniato – e sta tuttora dilaniando – sia il tessuto sociale (dividendo il Paese con discriminazioni assurde e inaccettabili anziché compattarlo contro il nemico comune) sia il tessuto economico delle imprese e delle attività commerciali, dilapidando un patrimonio che nessuno restituirà più al Paese e riducendo vaste fasce di popolazione in povertà. Alcuni hanno sottolineato come il freddo burocrate, all’epoca alla BCE, ebbe un ruolo importante anche nella Trojka che nel 2015 affossò la Grecia e la sua economia [18].

Per chi non lo ricordasse, quell’anno la BCE decise di togliere al governo greco una delle sue principali linee di credito: le banche greche non avrebbero più potuto accedere alla “normale” liquidità della BCE. Da quel momento in poi, le banche avrebbero dovuto fare affidamento sul più costoso Emergency Liquidity Assistance (ELA). Questa decisione dette alla Grecia pochi giorni di vita se non fosse stato raggiunto, in appena tre settimane, un nuovo accordo con i creditori. Iniziò un’estenuante trattativa che ebbe una svolta negativa il 28 giugno del 2015, quando la BCE rifiutò alla Banca centrale greca il diritto di aumentare la propria liquidità nel quadro dell’ELA. Draghi pose così un macigno sulle spalle della Grecia.

Il pragmatismo di Johnson è sembrato mancare del tutto al Governo Draghi, che con la complicità del CTS e dell’ISS ha raccontato agli Italiani bugie su bugie [17] (ad es. sull’immunità di gregge, sulla non contagiosità dei vaccinati, sulla sicurezza garantita dal Green Pass, etc.), nascondendo i dati sui morti realmente per Covid, sugli effetti avversi dei vaccini, ed il fatto che, se il Sistema Sanitario va in crisi con il 17% di terapie intensive occupate è perché: (a) molti medici e infermieri sono stati sospesi perché non vaccinati; (b) in tutti questi anni la politica ha tagliato posti letto nella Sanità, che non portano voti. Ed i nuovi tagli di 6 miliardi imposti da Draghi [24] andranno a danneggiare ulteriormente il nostro SSN.

Insomma, ora si rischia sul serio un’“estinzione di massa” come quelle che si sono verificate alcune volte sulla Terra, portando alla scomparsa di una frazione rilevante delle specie animali del pianeta. Ma, nel caso dell’Italia, il danno non si fermerebbe alle estinzioni in sé di imprese e attività commerciali (ed alla perdita di occupazione associata), bensì si accompagnerebbe a maggiori rischi sistemici e ad una maggiore povertà. Infatti, i sussidi del Governo Conte alle imprese hanno comportato un enorme aumento del debito pubblico e, al tempo stesso, i prestiti garantiti dallo Stato hanno prodotto un forte aumento del debito privato. È l’alto costo economico di questa pandemia, senza contare l’impatto sulle diseguaglianze.

Per quanto riguarda il debito pubblico, soprattutto a causa del deficit per gli “scostamenti” è passato dal 135% del PIL del 2019 a circa il 160%, ed è ora di circa 2.670 miliardi [43]. Fra l’altro molti Paesi europei, tra cui la stessa Italia, non hanno ancora ratificato il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) [32], per cui in questo momento non c’è un “paracadute” per i paesi della zona euro (e per i loro sistemi bancari) che si trovassero a dover affrontare gravi difficoltà finanziarie. Il che non è uno scenario da fantascienza: per chi non se ne fosse accorto, lo spread BTP-Bund dalla fine di settembre sta salendo in modo prepotente, segno che i mercati non credono a Draghi, e direi che la mia precedente analisi dà loro ragione.

Lo spread BTP-Bund è in forte risalita, dopo un breve periodo di stabilizzazione. (fonte: borse.it)

Quel che potrebbe accadere nei prossimi mesi o 1-2 anni non sembra così imprevedibile né così improbabile. Già a ottobre 2020 il Governatore della Banca d’Italia Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati: “Questo shock senza precedenti della crisi COVID potrebbe causare qualche vittima fra le banche” [46]. Ed a novembre 2020 la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ma l’Europa è ancora una volta in ritardo, perché nel frattempo non ha varato veicoli appositi per gestire i crediti non deteriorati né ha modificato le norme sul tema. Già a gennaio 2021 nelle banche italiane c’erano circa 70 miliardi di crediti deteriorati a causa della pandemia.

Come Andrea Muratore ha molto ben illustrato nei suoi articoli [49, 50], “il rischio di fallimenti a catena di imprese e di istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shock bancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile”. Il successivo downgrade del rating dei Titoli di Stato italiani potrebbe completare l’opera, poiché sarebbe di fatto come il crollo di una diga. E infine, come ricordava Il Sole 24 Ore: “Rimuovere troppo presto gli aiuti potrebbe avere l’effetto collaterale di provocare un aumento dei crediti deteriorati nei bilanci bancari. Nonché problemi per gli stessi governi a cui gli istituti potrebbero escutere le garanzie pubbliche che i governi hanno stanziato in abbondanza durante la crisi sanitaria”.

Secondo quanto emerso da un’analisi della Fabi, sono stati 311 miliardi gli aiuti pubblici ai prestiti bancari garantiti per fronteggiare la pandemia (con oltre 2,5 milioni di domande presentate), che si aggiungono a sostegni per quasi 100 miliardi. Nel panorama europeo, l’Italia non solo si distingue – insieme alla Spagna – per la percentuale di ricorso ai finanziamenti assistiti da garanzia pubblica (circa il 5% di quelli in essere nel sistema bancario), ma fa registrare il primato del grado di copertura più elevato, con un 85% medio. Così, ora tutto il sistema produttivo e finanziario converge nelle richieste di allungare i sostegni e le garanzie statali a crediti e simili “fino alla fine della pandemia”. Occorre chiedersi: basterà?

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari.

La “nottata” del Covid-19 è ormai quasi passata, complice anche l’acclarata semi-innocuità della variante Omicron (circa 10 volte meno letale della Delta), ma il ritorno alla normalità non è ancora arrivato, anzi non appare neppure all’orizzonte, dove si vanno al contrario addensando varie nubi che non lasciano presagire nulla di buono. «Il pericolo oggi è la rassegnazione delle persone, il pessimismo che hanno. E questo lo vedo ogni giorno, pochi che viaggiano o vanno al cinema e al teatro. L’Italia è depressa psicologicamente, non è tutto finito ma dobbiamo uscire dall’emergenza». E a dirlo non è “uno che passa di lì per caso” o un no-vax, ma il prof. Matteo Bassetti. Il Governo lo ascolti e tolga il Green Pass, o si rischia il “Game over”.

Mario Menichella – Fisico e science writer

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Riferimenti bibliografici

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Il martello o la danza: rileggere Pueyo alla luce dei fatti

Le vicende dei paesi del Pacifico, così ben documentate su questo sito dagli articoli di Silvia Milone, richiedono a mio avviso un ripensamento, almeno parziale, del giudizio sugli articoli di Tomas Pueyo, che sono da molti ritenuti il miglior “manuale di istruzioni” per la gestione del Covid-19.

Pueyo, che non è né un medico né un biologo, ma sostanzialmente un esperto di informatica, anche se ha studiato un po’ di tutto, si è imposto all’attenzione generale con un articolo intitolato Coronavirus: Why you must act now (Coronavirus: perché dobbiamo agire adesso, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-act-today-or-people-will-die-f4d3d9cd99ca). Apparso il 10 marzo 2020 sulla piattaforma digitale Medium, in soli 9 giorni l’articolo ha avuto oltre 40 milioni di visualizzazioni e 53 traduzioni spontanee fatte dagli utenti di Internet per un totale di ben 42 lingue (43 contando l’inglese dell’originale), risultando ancor oggi l’articolo sul Covid più letto in assoluto.

Nonostante l’articolo, lungo ben 31 pagine, contenesse decine di grafici e tabelle, il concetto che intendeva comunicare era fondamentalmente uno solo e anche abbastanza semplice, benché della massima importanza: le epidemie presentano una crescita di tipo esponenziale, per cui bisogna agire con la massima decisione il più presto possibile, anche se la situazione non sembra ancora così grave da giustificare misure drastiche, perché guadagnare anche solo pochi giorni può fare un’enorme differenza.

Purtroppo, al grande interesse teorico per l’articolo di Pueyo non fece seguito una sua coerente traduzione in pratica, perché, come più volte è stato spiegato su questo sito da me e da altri, a cominciare da Ricolfi, i governi occidentali, seguendo il (pessimo) esempio di quello italiano guidato da Giuseppe Conte, fecero esattamente il contrario, rincorrendo l’andamento dell’epidemia anziché anticiparlo. Così ben presto ci si ritrovò con un livello elevatissimo di contagi, proprio come Pueyo aveva previsto.

Nel frattempo, però, appena 9 giorni dopo, il 19 marzo, Pueyo aveva già pubblicato il suo secondo articolo, The hammer and the dance (Il martello e la danza, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-hammer-and-the-dance-be9337092b56), in cui intendeva spiegare come dovevano comportarsi quei paesi (tra cui l’Italia) nei quali il virus si era ormai diffuso su vasta scala. L’idea di base era anche qui abbastanza semplice: in un primo tempo occorre usare il “martello”, cioè delle misure restrittive molto dure per abbattere i contagi, dato che se questi sono troppo numerosi nessun metodo di contenimento può funzionare, per poi passare non appena possibile alla “danza”, cioè, appunto, a un metodo di contenimento, che per Pueyo, come vedremo fra poco, coincide di fatto con il metodo coreano.

Il 2 aprile uscì Out of many, one (Dai molti, uno, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-out-of-many-one-36b886af37e9), dedicato specificamente alla situazione degli Stati Uniti (il titolo dell’articolo riprende infatti il motto “E pluribus unum” che compare nel loro stemma), che perciò non considererò, se non per notare che anche qui la sua stella polare continua ad essere la Corea del Sud e che per la prima volta Pueyo afferma chiaramente e dimostra persuasivamente che la strategia eliminativa è non solo più efficace, ma anche meno costosa di quella che punta alla sola mitigazione («a Suppression strategy would likely be less costly than a Mitigation strategy», p. 26): un concetto, questo, che i governi occidentali sembrano non aver mai capito, neppure ora, dopo quasi due anni di pandemia.

Il 20 aprile uscì A dancing masterclass (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-learning-how-to-dance-b8420170203e), scritto in collaborazione con decine di esperti di varie discipline e paesi, prima parte di Learning how to dance (Imparare a danzare), un lavoro monumentale (forse anche troppo, visto che è rimasto incompiuto) in cui Pueyo intendeva tradurre in analisi e istruzioni dettagliate le idee-guida descritte nelle loro linee fondamentali in Il martello e la danza.

A questo articolo seguirono: il 23 aprile il secondo capitolo, The basic dance steps everybody can follow (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-basic-dance-steps-everybody-can-follow-b3d216daa343); il 28 aprile il terzo, How to do testing and contact tracing (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-how-to-do-testing-and-contact-tracing-bde85b64072e); e infine il 13 maggio il quinto, Prevent seeding and spreading (https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-prevent-seeding-and-spreading-e84ed405e37d), che fu anche l’ultimo.

Il quarto capitolo, infatti, pur annunciato, non è ancora stato pubblicato (così come, di conseguenza, la sintesi finale) e verosimilmente non lo sarà mai. Il motivo non è mai stato spiegato dall’autore, ma non si può fare a meno di notare la progressiva perdita di interesse da parte del pubblico. I suoi primi tre articoli, infatti, hanno avuto complessivamente oltre 60 milioni di visualizzazioni, più di 40 dei quali, però, dovute al primo. Considerando che Out of many, one aveva interesse solo per gli USA e confrontando il numero di like e commenti (rispettivamente 8.100 e 50 contro 106.000 e 526), si può dire che con ogni probabilità Il martello e la danza ha avuto oltre il 90% degli altri 20 milioni di visualizzazioni, cioè più di 18 milioni, mentre Out of many, one ne ha avute meno di 2 milioni.

Pueyo non ha mai fornito dati sulle visualizzazioni degli articoli successivi (il che già di per sé è un segnale negativo), ma non devono essere state molte, dato che all’inizio del suo ultimo articolo, The Swiss cheese strategy (La strategia del groviera, https://tomaspueyo.medium.com/coronavirus-the-swiss-cheese-strategy-d6332b5939de), uscito l’8 novembre 2020, continuava a riportare lo stesso dato («Our Coronavirus articles have been read more than 60 million times»). Ciò è inoltre confermato dal crollo verticale sia dei like e dei commenti, sia (dato ancor più significativo) delle lingue in cui gli articoli sono stati tradotti dagli utenti: rispettivamente 18, 15, 13 e 8 per i quattro capitoli pubblicati di Imparare a danzare.

Dopo altri tre articoli dedicati a temi più specifici e sempre di basso impatto, Pueyo concluse provvisoriamente la sua opera sul Covid l’8 novembre 2020 con l’appena menzionato La strategia del groviera, scritto di nuovo da solo e molto più vicino allo stile dei primi due, dopodiché se ne disinteressò per quasi un anno. Ci è ritornato solo il 15 settembre 2021 con The most alarming problem about Long COVID, un articolo sugli effetti di lungo periodo del Covid (https://tomaspueyo.medium.com/the-most-alarming-problem-about-long-covid-9929af7fabb9) che però è sostanzialmente caduto nel nulla, anche perché si tratta di un tema specificamente medico, campo cui lui non ha alcuna competenza e in cui non basta l’abilità nell’analizzare i dati per dire qualcosa di significativo.

Quindi Pueyo si è dedicato ad altri temi, ma anche qui senza mai avvicinarsi nemmeno lontanamente allo sfolgorante e probabilmente irripetibile successo degli inizi: basti dire che l’articolo più recente da lui pubblicato su Medium, How to fight ocean plastic (https://tomaspueyo.medium.com/?p=3dfd38edd824), al 31 dicembre 2021 aveva ottenuto appena 178 like e 5 commenti, contro i 247.000 like e i 902 commenti del suo primo articolo.

Che dobbiamo pensare di tutto ciò? Si potrebbe semplicemente dire che “sic transit gloria mundi” e soprattutto quella del mondo di Internet, ma credo che stavolta ci sia qualcosa di più.

Infatti, mentre Perché dobbiamo agire adesso è ancor oggi condivisibile quasi al 100%, lo stesso non si può dire di Il martello e la danza, cioè il lavoro di Pueyo che ha avuto le maggiori probabilità di influire sulle decisioni reali dei governi (anche se è praticamente impossibile dire in che misura l’abbia fatto davvero). Esso è infatti uscito proprio nel momento in cui i principali paesi occidentali cominciavano a adottare le prime vere misure di contenimento, venendo subito tradotto in ben 39 lingue (40 con l’originale inglese) e, soprattutto, potendo sfruttare l’effetto di trascinamento prodotto dal successo planetario del primo articolo.

Purtroppo, però, a differenza di quest’ultimo, qui c’è veramente tutto e il contrario di tutto, sicché, insieme a molte idee sicuramente giuste (peraltro quasi tutte riconducibili al “dobbiamo agire subito” del primo articolo), vi ritroviamo anche tutti i principali errori che abbiamo commesso: dall’eccessiva insistenza sul lavaggio delle mani e sull’uso delle mascherine alla mancanza della prevenzione del contagio via aerosol, dalla sottovalutazione dei contagi negli uffici e nelle fabbriche all’eccessiva insistenza sugli assembramenti all’aperto, fino alla valutazione positiva del coprifuoco (la misura più stupida di tutte e, in certo senso, la sintesi di tutti i nostri errori, dato che unisce tutte le idee sbagliate appena elencate al “linguaggio di guerra” irresponsabilmente adottato dai governi occidentali).

Questa tendenza si è ulteriormente accentuata nelle varie parti di Imparare a danzare, che per di più sono state scritte col contributo di così tante persone che è impossibile perfino dire esattamente quante. Questo ricorda da vicino gli errori commessi dai nostri governi anche dal punto di vista del metodo, dato che essi sono stati (e continuano purtroppo ad essere) il frutto di una babele di opinioni che si intrecciano freneticamente, senza una chiara idea di fondo che le unifichi e soprattutto senza una guida autorevole che si prenda la responsabilità di indicarla, col risultato che le decisioni vengono prese sostanzialmente a caso, in base a chi grida più forte o sulla spinta dell’emotività. Non è dunque tanto strano che l’interesse dei lettori di Pueyo sia rapidamente scemato, visto che è altrettanto rapidamente scemata anche la qualità dei suoi articoli.

Questo, però, non è tutto. È proprio l’idea di fondo che lascia a dir poco perplessi, secondo me già allora, ma in ogni caso di certo almeno oggi, alla luce dei fatti successivi. Infatti, se si può capire che all’inizio dell’epidemia si possa preferire la “danza” al “martello” in quanto meno traumatica, quello che invece appare del tutto incomprensibile è perché mai, una volta che (per necessità o per scelta) si sia optato per la “martellata”, non si dovrebbe poi tirarla fino in fondo, cioè fino alla totale eliminazione del virus. E ciò suona ancora più strano considerando che poco prima Pueyo aveva affermato in modo inequivocabile che la strategia che punta all’eliminazione del virus non solo è la migliore, ma è l’unica accettabile («Everybody should follow the Suppression Strategy»).

Eppure, poco oltre non solo Pueyo afferma che una volta che il tasso di trasmissione (il famoso R) sia sceso sotto 1 si deve fermare il “martello” per passare alla “danza”, cioè al contenimento, ma addirittura sostiene che quest’ultimo dovrebbe essere calibrato in modo tale che R resti sempre il più possibile vicino a 1, anche se in media sempre al di sotto di esso («during the Dance of the R period, they want to hover as close to 1 as possible, while staying below it over the long term term», The hammer and the dance, p. 28).

Ora, questo non è solo concettualmente sbagliato, ma è un’autentica follia, perché significa auto-costringerci a vivere perennemente sul filo del rasoio, con il rischio continuo (che alla lunga inevitabilmente si realizzerà) che la situazione ci sfugga di mano e si debba tornare al “martello”. E, di fatto, questo è esattamente ciò che è accaduto (e continua tuttora ad accadere) in Italia e un po’ in tutto l’Occidente, con i catastrofici risultati che ben conosciamo.

La spiegazione che dà Pueyo di questa clamorosa contraddizione è che ciò permetterebbe di eliminare le misure più pesanti, che alla lunga risulterebbero troppo onerose («That prevents a new outbreak, while eliminating the most drastic measures», The hammer and the dance, p. 28). Ma questo è falso (cfr. Luca Ricolfi, La notte delle ninfee, La Nave di Teseo, Milano 2021) e la cosa più sconcertante è che, come abbiamo detto prima, in Out of many, one, uscito appena due settimane dopo, Pueyo stesso dimostrerà che in realtà sono proprio le misure più drastiche ad essere le meno costose. Anche ammettendo che al momento della pubblicazione di Il martello e la danza non l’avesse ancora capito, perché non correggerlo successivamente, trattandosi di un articolo online pubblicato in un suo spazio personale e quindi modificabile in qualsiasi momento?

A questo punto, come suol dirsi, la domanda sorge spontanea: da dove vengono queste apparentemente inspiegabili incongruenze all’interno di un’analisi che per tanti altri aspetti è invece così precisa?

In realtà una spiegazione c’è, ed è che per Pueyo sembra esistere un unico modello di successo, cioè quello della Corea del Sud. Ciò si spiega col fatto che all’inizio della pandemia la Corea era sembrata per qualche tempo il paese messo peggio al mondo dopo la Cina e poi quello che si era ripreso più rapidamente, sempre dopo la Cina. Così, lasciata da parte quest’ultima, che, essendo una dittatura, non poteva costituire un modello per i paesi democratici, Pueyo si è concentrato sulla Corea e non ha mai considerato seriamente nessun’altra strategia,

Ciò si vede chiaramente dal fatto che ogni volta che parla di qualcuno degli altri paesi che hanno avuto successo nella lotta al virus tende invariabilmente ad assimilare la loro strategia a quella coreana (senza rendersi conto delle differenze) oppure a sottovalutarla (senza rendersi conto dei risultati). Per esempio, in Il martello e la danza Pueyo equipara sbrigativamente i sistemi di Taiwan e Singapore a quello coreano. Inoltre, nella nota finale a tutte le 4 parti pubblicate di Imparare a danzare scrive esplicitamente che i suoi modelli sono «Taiwan, Singapore, Cina e Corea del Sud» («In Part 1, we discuss best practices from Taiwan, Singapore, China and South Korea»), nemmeno menzionando Australia e Nuova Zelanda.

Peraltro, contraddittoriamente, Pueyo conclude la nota suddetta scrivendo che «la maggior parte dei paesi non stanno approcciando bene il tracciamento dei contatti» e che «continuando così faranno la fine di Singapore» («Most countries are not approaching contact tracing right. If they continue their current path, they will end up like Singapore»), il che non solo è contrario a quanto lui stesso aveva scritto poche righe prima, ma anche e soprattutto ai fatti, visto che Singapore è uno dei paesi che meglio hanno gestito l’epidemia, benché non abbia mai adottato il tracciamento elettronico in stile coreano (cfr. Silvia Milone, Il successo del sistema misto di Singapore, https://www.fondazionehume.it/societa/il-successo-del-sistema-misto-di-singapore/).

È vero che tra i primi di aprile e la fine di maggio del 2020, cioè esattamente nel periodo in cui sono uscite le quattro parti di Imparare a danzare, a Singapore c’era stata un’improvvisa impennata dei contagi nei dormitori destinati ai lavoratori stranieri. È altrettanto vero, però, che si era trattato di un focolaio grande ma isolato e che il numero di contagi poteva essere considerato alto solo in relazione a quello, bassissimo, dei mesi precedenti, mentre il numero dei decessi (20 in due mesi, cioè uno ogni 3 giorni) era stato bassissimo in qualsiasi modo lo si volesse considerare. Forse all’epoca questo non era ancora così evidente, ma, di nuovo, perché non correggere questa affermazione nemmeno successivamente, quando è diventato chiaro che era clamorosamente sbagliata?

Certo, su questa indisponibilità a modificare il suo punto di vista e sulla sua apparente indifferenza verso le contraddizioni suddette ha probabilmente influito anche l’inatteso successo planetario del primo articolo, che ha spinto Pueyo a scrivere tutti gli altri nel giro di appena due mesi (a parte l’ultimo, che infatti è molto più coerente). Con ritmi del genere e con una così grande quantità di tematiche, non c’è da stupirsi che non abbia avuto il tempo (né, probabilmente, la voglia) di rimettere in discussione la sua stella polare, su cui si basava tutta la sua impostazione teorica e a cui doveva tutta la sua fortuna.

Se però questa può essere la spiegazione del suo comportamento, non può esserne anche la giustificazione, soprattutto considerando che, come si è detto, Pueyo non ha modificato le sue convinzioni neanche successivamente, quando i limiti del modello coreano sul lungo periodo sono diventati sempre più evidenti, così come la maggiore efficacia di altri modelli, soprattutto quello della Nuova Zelanda. Ma la Nuova Zelanda è esattamente l’unico paese di cui Pueyo non parla mai: in tutti i suoi articoli a parte l’ultimo la nomina in tutto due volte e sempre di sfuggita, il che è davvero incredibile, ma certamente niente affatto casuale.

L’unico articolo in cui ne ha parlato (e anche qui brevemente) è stato La strategia del groviera, non a caso molto meno ambizioso, ma sicuramente molto più utile di Imparare a danzare. In esso Pueyo auspica l’uso contemporaneo di diverse strategie di difesa, in modo tale che se il virus ne supera una venga bloccato da un’altra, proprio come accade in una serie di fette di groviera sovrapposte: ciascuna di esse ha dei buchi che la attraversano da parte a parte, ma se le fette sono abbastanza numerose nessun buco riuscirà ad attraversarle tutte.

Qui Pueyo ha dedicato un breve paragrafo anche alla Nuova Zelanda e all’Australia, ma senza coglierne la specificità e minimizzando i successi da loro ottenuti (che a quel punto, a novembre del 2020, erano veramente clamorosi, anche rispetto agli altri paesi del Pacifico) con il solito ritornello per cui essi sarebbero dovuti essenzialmente al fatto di essere isole con una densità di popolazione molto bassa. Ma questa è una considerazione superficiale e fuorviante, che stupisce molto in un autore che certamente superficiale non è.

Infatti, la bassa densità di popolazione dei due paesi oceanici è un mero dato statistico, del tutto irrilevante ai nostri fini, dato che si deve essenzialmente al fatto che gran parte del loro territorio è disabitato. Tuttavia, nella parte abitata la loro densità di popolazione è sostanzialmente la stessa dei paesi europei: oltre il 60% dei neozelandesi vivono infatti in due sole città, Auckland e Wellington, entrambe più grandi di Milano, mentre gli australiani stanno quasi tutti sulle strette fasce costiere orientali e meridionali, lasciando l’immenso Outback desertico ai canguri e ai pochi aborigeni sopravvissuti, nonché ad alcuni gruppi di coloni sparpagliati in qualche migliaio di chilometri quadrati intorno ad Alice Springs.

Di conseguenza, i problemi che hanno dovuto affrontare sono stati del tutto simili ai nostri, ma i loro risultati sono stati enormemente migliori. E questo si deve, evidentemente, alla loro strategia, che è molto diversa da quella coreana, ma non meno efficace: anzi, sul lungo periodo si è addirittura rivelata più efficace, così come anche quella di Singapore, altro paese poco capito da Pueyo.

Ma c’è di più. Infatti, non solo l’alternanza martello-danza è chiaramente insensata, ma la stessa idea della “danza”, cioè del contenimento del virus in stile coreano messa in atto fin dal principio, appare oggi assai più discutibile, alla luce di quanto accaduto negli ultimi mesi. Infatti, rispetto al 13 maggio 2020, quando Pueyo pubblicava l’ultima parte di Imparare a danzare, la Corea del Sud ha avuto uno dei peggiori incrementi di mortalità al mondo: ben 21 volte, mentre in Italia, per esempio, nello stesso periodo la mortalità è cresciuta “solo” di circa 5 volte.

Certo, questo si deve al fatto che allora la sua mortalità era bassissima (centinaia di volte più bassa della nostra), per cui è bastato un piccolo numero di morti per farla crescere moltissimo in termini relativi, benché in termini assoluti sia tuttora enormemente inferiore alla nostra. Ma questo vale anche per la Nuova Zelanda, la cui mortalità è invece cresciuta di appena 2 volte. E ciò dipende dal fatto che, diversamente da quelle di Nuova Zelanda, la strategia coreana non è realmente eliminativa: è anch’essa una strategia di convivenza con il virus, che si differenzia dalla nostra solo per il fatto di essere molto più efficiente e, di conseguenza, “a bassa intensità”.

Questo spiega anche perché Pueyo abbia sempre detto che il lockdown non può eliminare completamente il virus. Infatti, il lockdown coreano è molto più simile (benché molto più efficiente) al semi-lockdown all’italiana che non al vero lockdown in stile neozelandese, che invece, come i fatti hanno dimostrato, è in grado di azzerare il contagio (cfr. Paolo Musso, Jacinda forever: perché il metodo neozelandese è migliore di quello coreano, https://www.fondazionehume.it/societa/jacinda-forever-perche-il-metodo-neozelandese-e-migliore-di-quello-coreano/).

Insomma, a conti fatti non sarei così sicuro che Pueyo in Occidente non sia stato ascoltato. Non lo è stato di certo (purtroppo) per quanto riguarda il suo primo articolo, che era anche il più importante, ma per il resto quello che abbiamo fatto non è stato poi così diverso da ciò che lui auspicava, anche se di sicuro non lo abbiamo fatto (neanche lontanamente) con l’efficienza che lui auspicava. Ma l’esempio della Corea ci dimostra che sul breve periodo la “danza” può funzionare, ma sul lungo periodo non è la strategia migliore, neanche se eseguita con il massimo di efficienza umanamente possibile. Quindi, anche se avessimo seguito alla lettera tutti i suggerimenti di Pueyo le cose sarebbero andate sicuramente meglio di come sono andate, ma probabilmente non tanto quanto lui e i suoi ammiratori ritengono.

Concludendo, ciò che si può ricavare da una rilettura delle teorie di Pueyo alla luce dei fatti successivi è innanzitutto la necessità di agire sempre e comunque il più rapidamente possibile. Quanto alla strategia da scegliere, se un’epidemia viene presa per tempo e se ci si può ragionevolmente aspettare che non duri troppo a lungo, allora la “danza”, cioè il metodo coreano, può andar bene, perché certamente crea meno traumi. Ma se così non è, allora è meglio passare subito al “martello” (ovvero al lockdown alla neozelandese) e usarlo fino in fondo, il che, se fatto con sufficiente decisione e rapidità in tutto il mondo, potrebbe addirittura stroncare l’epidemia sul nascere e impedirle di trasformarsi in pandemia. La “strategia del groviera” può essere usata come “rinforzo” del “martello” oppure come suo sostituto se per una qualsiasi ragione esso non dovesse avere successo (come è purtroppo accaduto da noi): anche in questo caso, però, bisognerebbe sempre puntare alla eliminazione del virus e non alla convivenza con esso, perché è ormai chiaro che sul lungo periodo quest’ultima non funziona.

Se questi sono dunque i principali insegnamenti di Pueyo, il suo principale errore si può invece riassumere tutto in una congiunzione: infatti non è “il martello e la danza”, ma “il martello o la danza”. E tutti i nostri guai sono nati non dal dover scegliere tra le due alternative, ma dal non aver saputo (o voluto) farlo.




La frattura tra ragione e realtà

Ogni volta che mi capita di parlare con Luca Ricolfi, sia in pubblico che in privato, finiamo invariabilmente col rivolgerci a vicenda una domanda, ciascuno sperando che l’altro abbia la risposta: perché? Come è possibile che nella vicenda del Covid così tanti abbiano agito in modo così assurdo?

Qualche risposta parziale abbiamo tentato di darla, sia nelle nostre discussioni che nei nostri scritti, e qualcuno di tali frammenti di risposta ha anche una certa plausibilità.

Per esempio, è vero che gli esseri umani hanno una forte tendenza all’autoinganno e, in particolare, a cercare la soluzione più comoda anziché quella più efficace, atteggiamento che spesso viene chiamato “sindrome del lampione”, dalla famosa barzelletta dell’ubriaco che cerca le chiavi di casa sotto il lampione anziché dove le ha perse perché lì c’è più luce (il che è vero, ma il problema è che non ci sono le chiavi). Tuttavia, questa tendenza ha dei limiti, altrimenti la specie umana non sarebbe sopravvissuta a lungo. Dunque, si può forse spiegare in questo modo l’errore iniziale, ma non la successiva persistenza nell’errore, né, soprattutto, la sua giustificazione teorica, per cui i nostri governi e i nostri esperti non si limitano a negare che degli errori siano stati commessi, ma addirittura pretendono, contro ogni evidenza e ragionevolezza, di essere elogiati per avere fatto tutto nel miglior modo possibile.

Altrettanto vera è l’influenza nefasta di quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” (ma che forse andrebbe chiamata “ideologia atlantica”, perché coinvolge anche il Nordamerica), che ha prodotto quello che io ho chiamato “pandemically correct” (cfr. Paolo Musso, Il virus dell’autoritarismo, https://www.fondazionehume.it/politica/il-virus-dellautoritarismo/).

Inoltre, influisce certamente molto il nostro essere in certo senso “viziati” (tanto che Ricolfi ci ha giustamente definito una “società signorile di massa”), dato che dal “boom economico” degli anni Cinquanta fino alla crisi finanziaria del 2007 non abbiamo più dovuto affrontare problemi davvero drammatici, cioè tali da influire pesantemente sulla vita personale di tutti (anche gli Anni di Piombo e Mani Pulite, al di là del clima di emergenza nazionale che hanno creato, in realtà a livello pratico hanno toccato solo una piccolissima parte della popolazione). E anche se il fenomeno è nato in Italia, come molti altri si sta ormai da anni estendendo lentamente anche a buona parte del resto d’Europa.

Né si può negare il peso che ha avuto sulla gestione dell’emergenza la strumentalizzazione politica che se ne è fatta, non solo da destra, ma anche e anzi soprattutto da sinistra. Da almeno trent’anni, infatti, nei principali paesi occidentali le identità politiche tradizionali stanno scomparendo, per lasciare il passo alla formazione di due blocchi contrapposti: da una parte quello delle “persone civili”, che corrisponde all’incirca alla cosiddetta “maggioranza Ursula” e la cui ideologia unificante è il politically correct (di cui il pandemically correct è un sottogenere); dall’altra quello degli “impresentabili”, che non ha un’ideologia altrettanto precisa e trova la sua identità principalmente nel contrapporsi a quella degli avversari, per cui può essere legittimamente definito “reazionario”, ma solo in questo senso puramente descrittivo e non invece, come generalmente accade, in senso valutativo (sostanzialmente sinonimo di “fascista”).

Ora, è semplicemente un fatto, sotto gli occhi di tutti, che il Covid abbia impresso una fortissima accelerazione a tale processo, fornendo a tutte quelle “persone civili” che già nutrivano, più o meno coscientemente, tendenze autoritarie sia l’opportunità pratica ideale sia la giustificazione teorica perfetta per esprimerle alla luce del sole senza timore, mettendole al servizio di una causa – quella della salute – che poteva essere riconosciuta e accettata come “buona per definizione” da un numero di persone molto maggiore rispetto, per esempio, al matrimonio omosessuale o ai diritti degli immigrati. D’altra parte, è altrettanto innegabile che anche gli “impresentabili” hanno attivamente contribuito a tale processo, abbracciando spesso teorie complottiste e negazioniste davvero impresentabili e usandole per attaccare i governi per le ragioni sbagliate anziché per quelle giuste, che pure abbonderebbero.

E nemmeno si possono trascurare, infine, le semplici coincidenze, che sfortunatamente hanno fatto sì che il virus facesse la sua prima apparizione europea in un paese, l’Italia, guidato in quel momento dal peggior governo della sua storia, con il partito di maggioranza relativa che aveva un programma basato sulla pseudoscienza da blog (cfr. Paolo Musso, Il partito di Internet, in Paolo Bellini, Fabrizio Sciacca, Emilio Silvio Storace (eds.), Miti, simboli e potere. Scritti in onore di Claudio Bonvecchio, Albo Versorio, Milano, 2018, pp. 333-344) e che per questo, non sapendo che pesci pigliare, è stato totalmente succube dei disastrosi suggerimenti della OMS, a sua volta guidata dal peggior direttore della sua storia, il signor Tedros Adhanom Ghebreyesus, la cui familiarità con i dittatori è decisamente superiore a quella che ha con i problemi sanitari.

Tutte queste spiegazioni e molte altre ancora che abbiamo nel tempo proposto contengono certamente degli elementi di verità. E tuttavia, per quanto vere, restano, per l’appunto, frammenti: è come se avessimo trovato i tasselli sparsi di un mosaico, ma non fossimo ancora riusciti a ricostruirlo. Ed è chiaro che questo non basta, perché:

– Quando l’organizzazione che dovrebbe vegliare sulla salute dell’umanità (la OMS) aiuta un regime dittatoriale come quello cinese, che notoriamente se ne frega della vita umana, a insabbiare l’inizio di una pandemia.

– Quando questa stessa organizzazione pretende per mesi di fermare tale pandemia suggerendo di lavarsi le mani e starnutire nel gomito della giacca (!) e indica come esempio da seguire il paese che ha agito peggio di tutti al mondo (l’Italia, ahimè), mentre quello che ha agito meglio di tutti (Taiwan) per il suo sito ufficiale nemmeno esiste.

– Quando ci vogliono 7 mesi perché il più celebre immunologo del mondo (Anthony Fauci) riconosca che un virus respiratorio si trasmette principalmente attraverso la respirazione.

– Quando ci vogliono 9 mesi perché lo stesso Fauci la smetta di dire che gli USA dovrebbero imitare l’Italia, benché abbiano sempre avuto molti meno morti di noi.

– Quando ci vogliono 11 mesi perché la più importante istituzione medica del mondo (il Center for Disease Control and Prevention degli USA) riconosca che un virus respiratorio raramente si trasmette per contatto, eppure continua a dire che la disinfezione delle superfici è la prima misura di prevenzione.

– Quando ci vogliono 14 mesi perché finalmente i virologi ammettano pubblicamente ciò che sapevano fin dall’inizio e cioè che il 99,9% dei contagi avviene al chiuso (cfr. Antonella Viola, La prudenza e il sorriso, editoriale di La Stampa del 22 giugno 2021) e ciononostante appena i contagi salgono la prima cosa che si fa è imporre l’obbligo di mascherina all’aperto e nessuno di loro ha nulla da ridire.

– Quando non bastano 20 mesi a sfatare la balla cosmica del “virus-sconosciuto-di-cui-non-sappiamo-nulla”, benché, pur (ovviamente) con alcune peculiarità proprie, sia un coronavirus fondamentalmente simile agli altri e, in particolare, a quello della Sars, che conosciamo da quasi vent’anni.

– Quando ci si accapiglia per settimane per decidere se spostare o no dalle 22 alle 23 il coprifuoco, come se questo facesse qualche differenza e soprattutto come se il coprifuoco servisse a qualcosa.

– Quando tutti i governi dei paesi più progrediti, ricchi e organizzati del mondo, insieme ai loro consulenti scientifici e alle autorità mediche non sanno far altro che reiterare all’infinito misure palesemente inefficaci, senza chiedersi neanche per un istante come sia possibile che ci siano più morti in Europa che nel Terzo Mondo.

– Quando costoro, che dovrebbero essere i campioni del pensiero critico e razionale, si autocelebrano come salvatori dei paesi che stanno distruggendo e dei popoli che stanno massacrando.

– Quando i suddetti popoli, che dovrebbero essere i più istruiti e i più informati del mondo, non trovano di meglio che cantare sui balconi e mandarsi messaggi insulsi su Whatsapp e quando (dopo un anno e mezzo!) decidono finalmente di scendere in piazza a protestare se la prendono con l’unica cosa che funziona, cioè i vaccini, mentre continuano ad accettare passivamente tutte quelle che invece non funzionano.

– Quando i magistrati, che da decenni per qualsiasi cosa vada storta cercano a tutti i costi i colpevoli anche quando non ce ne sono, rinunciano a farlo proprio di fronte a una catastrofe in cui invece le responsabilità sono chiare come la luce del sole.

– Quando i mass media occidentali, che dovrebbero essere i più democratici e trasparenti del mondo, mettono in atto una vera e propria censura verso qualunque critica alle politiche governative.

– Quando questi stessi mass media nascondono sistematicamente, spesso ricorrendo a sotterfugi grotteschi, i risultati di quei paesi che hanno ottenuto i risultati migliori.

– Quando perfino i medici, che pure non possono non rendersi conto di cosa sta accadendo e rischiano la vita in prima persona, preferiscono morire a centinaia piuttosto che dire che si sta sbagliando tutto.

– Quando quei pochi di loro che vanno ancora a visitare i malati a casa vengono trattati come irresponsabili che mettono a rischio la salute della cittadinanza, anziché come gli unici che ce l’hanno davvero a cuore.

– Quando i pochi che si ribellano ai dogmi del pandemically correct preferiscono aderire alle più folli teorie complottiste anziché cercare di capire cosa si è sbagliato e individuare alternative sensate.

– Quando questa sterile contrapposizione tra negazionismo e conformismo (in realtà due facce della stessa medaglia) arriva addirittura a coinvolgere i sommi vertici del paese più progredito al mondo (il Presidente USA Donald Trump e il suo sfidante e successore Joe Biden).

– Quando quegli stessi politici e scienziati che hanno deciso (sbagliando) di puntare esclusivamente sui vaccini sono poi i primi a sabotarli, avanzando dubbi irragionevoli sulla loro sicurezza.

– Quando quegli stessi politici e scienziati pensano di rimediare a questi errori con un pasticcio pericolosissimo come il Green Pass anziché chiedere al Parlamento di approvare, in modo trasparente e democratico, l’obbligo di vaccinazione per tutti, come si è già fatto in passato senza tanti drammi per molte altre malattie.

– Quando il progressivo emergere delle evidenze scientifiche dimostra che abbiamo sbagliato tutto e tuttavia non riesce a cambiare nulla.

Quando tutto questo e molto altro ancora accade, allora è evidente che nessuna spiegazione parziale è più possibile, perché qui siamo di fronte a una crisi della ragione in quanto tale.

Si era parlato molto, negli ultimi anni, di “crisi delle evidenze”, intendendo con questo essenzialmente la crescente difficoltà di trovare ancora delle evidenze morali condivise da tutti, ma qui ormai siamo molto, molto al di là di tutto questo: qui siamo di fronte ad un rifiuto, o meglio, ad una vera e propria incapacità di guardare la realtà.

Del virus prima o poi ce ne libereremo e, per quanto oggi possa sembrarci inconcepibile, nel giro di qualche anno ce ne dimenticheremo, come ci dimentichiamo di tutto, in questo nostro strano tempo. Ma di questa incapacità di vedere ciò che abbiamo davanti al naso non ce ne libereremo tanto presto, temo. Soprattutto se continueremo a non comprenderne le cause.

E siccome per poter cercare le cause di un fenomeno bisogna prima riconoscere che il fenomeno in questione esiste, ecco perché ho premesso quel lungo (e tuttavia pur sempre largamente incompleto) riepilogo delle principali follie che abbiamo commesso davanti al virus, sperando contra spem che possa aiutare a prendere coscienza di quanto grave sia la situazione.

Ciò fatto, vorrei ora provare a dare un contributo alla comprensione di ciò che ci è accaduto, dato che mi sembra sempre più chiaro che la pazzesca vicenda del Covid non abbia fatto altro che spingere ulteriormente verso il suo limite estremo (che per il bene di tutti spero non venga mai raggiunto, anche se mi sembra ormai pericolosamente vicino) un processo iniziato oltre quattrocento anni fa e che sto studiando da molto tempo, potrei dire da sempre o almeno da quando ho iniziato ad essere in grado di pensare autonomamente.

Per farlo, tuttavia, prenderò le mosse da qualcosa di molto più recente, vale a dire la bellissima Lettera sulla cattiva gestione della pandemia del medico fiorentino Paolo De Bonfioli Cavalcabò, pubblicata su questo sito l’11 maggio 2021 (https://www.fondazionehume.it/societa/lettera-sulla-cattiva-gestione-della-pandemia/). Dopo aver fatto anche lui un elenco delle principali assurdità a cui gli era toccato assistere durante il suo lavoro di medico di base, egli scriveva infatti (i corsivi sono miei):

«Molte cose non tornavano nelle scelte dei governanti, nelle rivendicazioni degli operatori, nelle dispute scientifiche e, a copertura di tutto questo, nell’informazione scandalosamente unidirezionale (e spesso fuorviante ad arte) che è stata data. Ed è stata proprio questa univocità dell’informazione, da regime anche se non c’è un regime, che mi ha fatto pensare che una parte importante nelle scelte prese ce l’ha avuta una mentalità prevalente su tutto che è l’esagerata avversione al rischio che permea tutta la nostra società. […]

All’inizio c’è stata soprattutto l’avversione al rischio di ammalarsi, che ha fatto chiudere la maggior parte degli studi medici (con l’avallo stupefacente del ministero della salute che non voleva essere accusato di “mandare al macello” i medici, pensi un po’ come avrebbero fatto con questa mentalità a spegnere la centrale di Cernobyl…). Poi accanto a questa è comparsa una marea di burocrazia con una gara a chi metteva più regole (sempre per tutelare le persone ovviamente!) […].

Chi emana queste regole non vuole rischiare di essere considerato poco attento alla sicurezza dei suoi dipendenti e dei pazienti e di prendersi una denuncia o un rimbrotto dai suoi superiori sempre per lo stesso motivo e così via fino al ministro della sanità che oltre alle denunce della magistratura teme anche di scontentare i suoi elettori che ormai sono abituati a pretendere un bassissimo livello di rischio.

Cosa è successo negli ultimi anni per produrre questo atteggiamento? […] Ho solo delle idee vaghe e confuse ma sento che quello che è successo con questa pandemia non si spiega solo con “la superbia e l’arroganza dei governanti e la loro incapacità di imparare dagli errori” che pur ci sono.»

Credo che il dottor Cavalcabò abbia ragione. Anch’io, infatti, sono convinto che alla base del problema ci sia il rifiuto viscerale del rischio, anche minimo, da parte dell’uomo moderno, che lo porta a rifugiarsi nella falsa sicurezza delle regole. Tuttavia, nessuna regola potrà mai eliminare il rischio dalla vita, perché le due cose sono inestricabilmente connesse, sicché l’unico modo per riuscirci sarebbe eliminare la vita stessa. E non si pensi che sia solo una battuta: come proprio l’esperienza della pandemia ha messo in chiaro, infatti, nella nostra società ci sono ormai moltissime persone, forse addirittura la maggioranza, disposte a rinunciare a vivere per paura di morire, nonostante la palese assurdità di un tale atteggiamento (se non altro perché alla fine moriremo tutti comunque).

Quanto al “cosa è successo negli ultimi anni”, io credo, come accennavo prima, che stia semplicemente giungendo a maturazione un processo culturale iniziato moltissimo tempo fa, che però era rimasto a lungo confinato tra le élites intellettuali e solo in tempi relativamente recenti, con l’avvento della società di massa, è diventato mentalità comune.

Attenzione, però: io non penso che dietro a tutto questo vi sia un qualche piano organizzato a livello mondiale, giacché, come ripeto continuamente, ritengo il complottismo un tentativo illusorio di “ingabbiare” in schemi semplicistici l’immensa complessità del reale. Quello che penso, invece, è che siamo di fronte ad un caso di auto-organizzazione perversa della società: quello che nella teoria dei sistemi non lineari viene chiamato “effetto Qwerty”, dal nome delle tastiere che tutti continuiamo ad usare da quasi 150 anni benché la disposizione delle lettere sia notoriamente inefficiente (cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, 2a ed. ampliata, Mimesis, Milano 2019, cap. 7).

Ho già citato al proposito in un precedente articolo una frase di Luca Palamara, quel gentiluomo che per anni è stato il “garante” del sistema che manipolava le nomine dei vertici della magistratura italiana: «Non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono» (Il Sistema, Rizzoli 2021, p. 221). Ecco, questo è quello che secondo me ci sta succedendo.

Ciò spiega perché ci sia un’informazione “da regime anche se non c’è un regime”, come acutamente notato da Cavalcabò. Ma soprattutto spiega perché il prodotto finale di questa dinamica abbia una certa coerenza globale, ma sia spesso confuso e perfino contraddittorio nei dettagli, dato che essi sono perlopiù il risultato casuale dell’interazione fra le diverse componenti di tale blocco (mass media, correnti di pensiero, centri di potere economico, governi, burocrazie e anche semplici cittadini), che hanno interessi e scopi molto diversi e spesso conflittuali, diffidano gli uni degli altri, cercano di fregarsi a vicenda e a volte addirittura si combattono apertamente, anche se sul lungo periodo finiscono sempre per muoversi tutti nella stessa direzione, perché ragionano tutti allo stesso modo..

La vera domanda è dunque cosa è successo negli ultimi secoli, perché ci sono voluti secoli per creare un “blocco culturale” così “omogeneo” da determinare la mentalità di tutto l’Occidente e, almeno in parte, addirittura di tutto il mondo. La storia completa si trova nel mio libro appena citato, La scienza e l’idea di ragione, a cui rimando per ogni approfondimento. Qui invece, per forza di cose, sarò costretto a riassumerla in una forma così sintetica da apparire quasi “dogmatica”.

In breve, io sono convinto che il “peccato originale” della modernità stia nella frattura tra ragione ed esperienza che si è prodotta nell’ambito della filosofia all’inizio del Seicento, paradossalmente proprio nello stesso periodo in cui nasceva la moderna scienza sperimentale, che si basa invece sulla loro inscindibile unità.

Tale frattura, a sua volta, è stata in realtà solo lo sbocco finale di un processo secolare e in gran parte “sotterraneo”, proprio come è stato per quello che ha dato origine alla scienza e come in generale accade per tutte le grandi rivoluzioni. Tuttavia, perché i mille rivoli sparsi si uniscano a formare un nuovo grande fiume in cui incanalare il corso della Storia occorre che a un certo punto arrivi qualcuno che faccia una sintesi, il che è sempre opera di pochi e a volte addirittura di uno solo. Nel caso della scienza l’uomo della sintesi fu Galileo Galilei, mentre in campo filosofico a incaricarsene fu René Descartes, meglio noto col nome latinizzato di Cartesio.

Se quest’ultima affermazione è condivisa praticamente da tutti, non si può dire lo stesso circa il fatto (innegabile, eppure negato pressoché da tutti) che Cartesio avesse una concezione della conoscenza diametralmente opposta a quella propria del metodo scientifico, di cui è generalmente considerato addirittura uno dei fondatori. Infatti, come ritengo di aver dimostrato al di là di ogni dubbio nel mio libro, al quale pertanto rimando chi non volesse credermi sulla parola, non solo Cartesio non diede alcun contributo alla nascita della scienza, ma addirittura, in una lettera scritta nel 1638 all’amico Mersenne, rifiutò esplicitamente il metodo galileiano, che riteneva sbagliato in quanto rinunciava a cercare l’essenza delle cose per limitarsi a studiare alcune proprietà. In altre parole, Cartesio rifiutò proprio quella che fu la chiave di volta del successo del metodo galileiano, ritenendo che la scienza naturale dovesse essere ricavata deduttivamente dalla filosofia, in questo essendo, di fatto, completamente d’accordo con gli aristotelici, che pure a parole osteggiava.

Quanto alla frattura tra ragione e realtà, fu Cartesio stesso che disse esplicitamente che alla base del suo metodo c’era il rifiuto aprioristico di basarsi sull’esperienza sensibile («Quindi, dato che i sensi a volte ci ingannano, volli supporre che nessuna cosa fosse tal quale ce la fanno immaginare», Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. I, p. 312, corsivi miei). Anche la sua celebre ipotesi del “genio ingannatore” (alla cui esistenza ovviamente egli non credeva davvero) nacque proprio per assicurarsi di non basarsi mai, neanche per sbaglio, sull’infida esperienza, ma solo ed esclusivamente sulla ragione. Dunque, l’esaltazione della ragione in Cartesio indubbiamente c’è, ma non è il suo punto di partenza, giacché si tratta di una conseguenza della sua radicale sfiducia nell’esperienza, che pertanto è anche la vera origine della filosofia moderna, la quale, col tempo, ha poi finito per determinare la mentalità dominante nel mondo moderno.

Oggi quasi nessuno accetta più la filosofia cartesiana nel suo insieme, ma se tutti continuano a ritenerlo il padre della modernità vuol dire che evidentemente qualcosa di lui è sopravvissuto: ed è facile constatare che ciò che è sopravvissuto è proprio la suddetta frattura tra ragione ed esperienza, che per questo ho chiamato «il dogma centrale della modernità» e ho definito come la convinzione che «la ragione non può mai incontrare la verità dentro l’esperienza» (cfr. Paolo Musso, La scienza e l’idea di ragione, § 2.9).  Dopo Cartesio, infatti, questi due aspetti essenziali della conoscenza umana si sono definitivamente separati, andando ciascuno per suo conto e dando origine ai due eccessi opposti e speculari del materialismo e dello spiritualismo, che nella filosofia dei successivi 4 secoli hanno continuato ad alternarsi senza che più nessuno riuscisse a rimetterli insieme, come risulta evidente anche semplicemente guardando l’indice di un qualsiasi manuale di storia della filosofia.

Questo spiega, tra l’altro, anche come è possibile che le due filosofie più caratteristiche della modernità siano il razionalismo e il relativismo, cosa di cui nessuno dubita, ma che, a pensarci bene, è piuttosto paradossale, dato che a prima vista sembrano diametralmente opposte. Infatti, se quel che ho appena detto è vero, allora esse appaiono come due facce di una stessa medaglia, giacché il razionalismo pensa che alla verità si possa arrivare attraverso la pura ragione, mentre il relativismo lo nega. Entrambi, tuttavia, condividono il dogma suddetto, negando che alla verità si possa arrivare attraverso l’esperienza. In questo senso, il relativista è in fondo un razionalista deluso, perché continua a pensare che se si potesse arrivare alla verità, l’unico modo sarebbe attraverso la pura ragione, ma poiché lo ritiene impossibile nega che ci si possa arrivare in qualsiasi modo.

Si potrebbe pensare che questa sia solo una faccenda per addetti ai lavori, che non ha molto a che fare con le scelte concrete della nostra vita quotidiana. In realtà non è così. Lo è stato per lungo tempo, anche perché non dovremmo mai dimenticare che fino a pochi decenni fa le persone erano in grande maggioranza analfabete e anche chi sapeva leggere, scrivere e far di conto perlopiù se ne serviva per scopi molto semplici e non certo per leggere libri impegnativi (che oltretutto anche dopo l’invenzione della stampa per molto tempo rimasero molto rari e molto cari). Quindi, quando parliamo delle rivoluzioni culturali del passato dovremmo sempre ricordare che i cambiamenti di cui parliamo interessarono solo delle ristrette élites, mentre la maggior parte delle persone nemmeno se ne accorse, anche se ciò non significa che i cambiamenti culturali non avessero già allora conseguenze per tutti, giacché erano le suddette élites a decidere come il mondo doveva funzionare.

Tale fenomeno divenne tuttavia molto più accentuato verso fine Ottocento, quando, almeno nelle città, l’istruzione cominciò a diffondersi, sicché i cambiamenti culturali cominciarono a determinare la vita della gente comune non più solo per via indiretta e inconsapevole, ma anche direttamente e consapevolmente. Tuttavia, la vera svolta è avvenuta solo con la diffusione su scala planetaria del mass media, che ha certo avuto molti effetti positivi, ma ha reso anche sempre più facile la creazione di un vero e proprio “pensiero unico” che pretende di stabilire a tavolino non solo che cosa si deve fare, ma addirittura che cosa esiste. Questa tendenza negli ultimi tempi si è accentuata moltissimo (basti pensare alla teoria del gender, secondo cui il sesso di una persona può essere deciso a tavolino senza alcun riferimento alla biologia) e il Covid le ha dato ulteriore impulso, tanto che sta ormai cominciando ad assumere le caratteristiche di un pensiero autoritario e, almeno tendenzialmente, totalitario.

L’aspetto più insidioso è che tale pensiero può mantenere le forme democratiche, dato che il suo potere si esercita soprattutto attraverso l’introduzione di una quantità sempre crescente di regole in apparenza puramente “tecniche”, che solo in piccola parte richiedono una legge. Gran parte di esse vengono infatti imposte dalle burocrazie ministeriali attraverso atti di natura amministrativa, che però spesso condizionano le nostre vite assai più delle leggi stesse, oppure, a un livello più elevato, dalle grandi burocrazie internazionali, attraverso la definizione di “obiettivi”, “linee guida”, “best practices” e simili, che, pur presentendosi come tecnicismi ideologicamente “neutrali”, in realtà hanno sempre alla loro base (e come potrebbe essere altrimenti?) una precisa visione del mondo. Inoltre, anche indipendentemente dal contenuto, per loro natura le regole tendono sempre alla standardizzazione e, di conseguenza, a penalizzare (e alla lunga eliminare) ogni forma di pensiero originale e creativo.

Questo lo aveva capito benissimo, già 43 anni fa, Václav Havel (1936-2011), il più geniale dei dissidenti del blocco sovietico, successivamente Presidente della Cecoslovacchia liberata e poi della Repubblica Ceca, nel suo straordinario libro Il potere dei senza potere, pubblicato clandestinamente nel 1978 tramite il samizdat.

In quest’opera Havel parlava infatti di «sistema post-totalitario», specificando che «con quel “post” non intendo dire che si tratta di un sistema che non è più totalitario; al contrario, voglio dire che esso è totalitario in modo sostanzialmente diverso rispetto alle dittature totalitarie “classiche” a cui nella nostra coscienza si collega normalmente il concetto di totalitarismo. A differenza della dittatura “classica”, dove la volontà del potere si realizza in misura di gran lunga maggiore direttamente e senza norme, […] il sistema post-totalitario è invece ossessionato dal bisogno di legare ogni cosa con un regolamento. La vita in esso è percorsa da una rete di ordinanze, avvisi, direttive, norme, disposizioni e regole (non per niente lo si definisce un sistema burocratico)» (Václav Havel, Il potere dei senza potere, La Casa di Matriona – Itacalibri, Milano – Castel Bolognese 2013, p. 36, corsivi dell’autore).

Che il totalitarismo moderno abbia un’essenziale componente burocratica lo aveva in realtà compreso (e magistralmente spiegato) già Hannah Arendt nel suo famosissimo libro La banalità del male, dedicato al processo ad Adolf Eichmann, l’uomo che aveva organizzato con scrupolosissima efficienza la deportazione degli ebrei verso i campi di concentramento, benché non avesse nulla contro di loro e anzi non avesse mai neanche veramente condiviso l’ideologia nazista («Eichmann non s’iscrisse al partito per convinzione, né acquistò mai una fede ideologica […]. Kaltenbrunner gli disse: “Perché non entri nelle S.S.?”, e lui rispose: “Già, perché no? Andò così.», Hannah Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2016, p. 40). Quando gli chiesero perché l’avesse fatto, la sua unica risposta fu che quelle erano le regole e tutta la sua difesa consistette in lunghe discettazioni volte a dimostrare che gli ordini di Hitler erano formalmente legali e che quindi lui era tenuto ad eseguirli con il massimo impegno, indipendentemente dal fatto che li condividesse.

Eichmann «non si sarebbe sentito la coscienza a posto se non avesse fatto quello che gli veniva ordinato. […] Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi della realtà in quanto tale, non lo toccavano. […] Non era uno stupido; era semplicemente senza idee (una cosa molto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d’idee ne faceva un individuo predisposto a diventare uno dei più grandi criminali di quel periodo. […] Quella lontananza dalla realtà e quella mancanza d’idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell’uomo» (Hannah Arendt, op. cit., pp. 33, 57, 290, 291, corsivi miei). Infatti, avendo rinunciato a pensare e ad avere idee in proprio, egli era pronto ad adottare quelle di chiunque gli offrisse una possibilità di entrare «nella “storia” […] e far carriera», applicando senza discutere le regole stabilite dai superiori e avendo, quando queste non gli piacevano, «una capacità spaventosa di consolarsi con frasi vuote» (Hannah Arendt, op. cit., pp. 40 e 61).

La Arendt aveva così capito che i totalitarismi moderni hanno sì il volto degli Hitler e degli Stalin, ma le loro braccia e soprattutto i loro artigli sono costituiti dagli Eichmann, senza i quali nessun regime potrebbe esistere, perché i primi sono sì dei mostri, ma per fortuna sono pochi, mentre i secondi sono uomini qualsiasi (banali, appunto), ma in compenso sono moltissimi, anche ai giorni nostri (anzi, oggi probabilmente sono ancora di più). Havel fece un altro passo avanti e comprese che i sistemi post-totalitari possono esistere anche senza un mostro che dia loro un volto, essendo formati interamente dagli Eichmann ed essendo quindi interamente burocratici (il che peraltro non li rende meno, bensì più mostruosi).

Del resto, anche se si legge attentamente 1984, l’opera più celebre del terzo grande studioso del totalitarismo moderno, George Orwell, si capisce che il Grande Fratello in realtà non esiste, ma soprattutto che non ha importanza che esista o meno, perché tanto a comandare non è questo o quell’individuo, bensì il Partito nel suo insieme, proprio come accadeva anche nella realtà in Unione Sovietica. Havel esplicitò pienamente tale meccanismo, che in Orwell era rimasto sullo sfondo, estendendolo inoltre a tutta la società post-totalitaria e chiamandolo «autototalitarismo sociale». Con ciò intendeva che in questi sistemi non esistono vittime e tiranni in un senso assoluto, ma solo persone che rivestono in maggior grado l’uno o l’altro ruolo, certo con differenze anche molto grandi, ma tuttavia senza che vi sia nessuno che, almeno a qualche grado, non li rivesta entrambi, sicché tutti sono al tempo stesso le vittime e i tiranni di sé stessi, oltre che degli altri.

Ma la vera genialità di Havel, che lo rende diverso da tutte le altre pur straordinarie figure del dissenso, da Sacharov a Solženicyn a Wałęsa, sta nell’aver compreso, con lucidità profetica, che ciò che stava accadendo da loro era un’anticipazione di ciò che sarebbe accaduto da noi. Infatti, «la crisi planetaria della condizione umana penetra sia il mondo occidentale sia il nostro: in Occidente assume solo forme sociali e politiche diverse. […] Si potrebbe anzi dire che quanto più grande è […], rispetto al nostro mondo, lo spazio per le intenzioni reali della vita, tanto meglio […] nasconde all’uomo la situazione di crisi e più profondamente ve lo immerge» (Havel, op. cit., p. 125).

È importante capire che quando Havel parla di “automatismo” si riferisce certamente anche all’automatismo tipico della tecnica, per cui spesso basta l’introduzione di un nuovo tipo di tecnologia per introdurre con essa degli obblighi di fatto, che nessuno ha esplicitamente definito come tali, ma a cui è praticamente impossibile sottrarsi (basti pensare a come oggi sia praticamente impossibile vivere nella nostra società senza un cellulare, benché nessuna legge ci imponga di averlo), ma ancor più si riferisce a certi comportamenti “automatici” che certo coinvolgono la tecnologia, ma in ultima analisi sono messi in atto dagli esseri umani.

Ciò non vuol dire, naturalmente, che non vi siano anche gruppi organizzati che spingono in certe direzioni, per motivi ideologici e/o economici, come d’altronde vi erano anche al tempo di Havel. Tuttavia, essi non sono la forza principale che sta determinando l’attuale involuzione autoritaria delle democrazie occidentali. Infatti, come dice ancora Havel, «che l’uomo si sia creato e continui, giorno per giorno, a crearsi un sistema finalizzato a sé stesso, attraverso il quale si priva da sé della propria identità, non è una incomprensibile stravaganza della storia, una sua aberrazione irrazionale o l’esito di una diabolica volontà superiore che per oscuri motivi ha deciso di torturare in questo modo una parte dell’umanità. Questo è potuto e può succedere solo perché evidentemente ci sono nell’uomo moderno determinate inclinazioni a creare o per lo meno a sopportare un tale sistema» (Havel, op. cit., p. 51).

Se ho ragione, le suddette “inclinazioni” sono nate nel Rinascimento (contemporaneamente alla scienza moderna, ma tuttavia contro di essa) e consistono nel rifiuto della realtà così come ci si dà nell’esperienza (cioè come qualcosa che non facciamo noi e che perciò non dominiamo) e del conseguente rischio di fidarci di essa per rifugiarci nella falsa sicurezza delle “regole”, che soddisfano, benché solo illusoriamente, la mania del controllo, che è la vera ossessione dell’uomo moderno

Ciò ha prodotto, nel tempo, le varie ideologie totalitarie che hanno insanguinato il Novecento, ovvero degli insiemi di regole immaginate a tavolino prescindendo dall’esperienza, volte a dirigere il corso delle cose verso un “bene” anch’esso immaginato a tavolino prescindendo dall’esperienza.

Il loro tragico fallimento ci ha portati negli ultimi decenni a prendere finalmente le distanze da esse, ma non dalla logica perversa che le aveva prodotte, cosicché ne sono nate delle altre, con obiettivi apparentemente più modesti e “realistici”, ma in effetti solo più meschini, come quella tutela isterica di qualsiasi capriccio o suscettibilità soggettiva che va sotto il nome di politically correct o come quell’astratto “aperturismo” a tutti i costi che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e le altrettanto astratte reazioni ad esso che in genere vengono sbrigativamente riassunte sotto il nome di “populismo”.

Il risultato è stato che quando la realtà ci è improvvisamente piombata addosso con tutto il suo peso, sotto forma di problemi così grossi che non potevano più essere ignorati, come la crisi finanziaria, i problemi ecologici e adesso il Covid, eravamo così disabituati ad affrontarla che, salvo alcune lodevoli ma rarissime eccezioni, quasi tutti hanno reagito nell’unico modo che conoscevano: costruendo al più presto un insieme di regole immaginate a tavolino prescindendo dall’esperienza.

È chiaro che in questo modo è difficile elaborare strategie efficaci, ma questo è ancora il meno. Dopotutto, nessuno può pretendere che, davanti a problemi nuovi e gravi, si trovino subito tutte le risposte e si potrebbero ancora perdonare gli errori iniziali, compresi i più gravi, se si fosse poi disposti ad ammetterli e a cambiare strada di fronte all’evidenza dei fatti. E invece no! La cosa veramente grave è che nel nostro mondo, appena delle regole (quali che siano) vengono stabilite, diventa subito difficilissimo cambiarle. E la ragione di fondo è appunto la paura del rischio, che prevale su qualunque altra cosa.

Questo spiega perché i popoli dell’Occidente abbiano accettato senza reagire e spesso, almeno all’inizio, addirittura di buon grado (vi ricordate gli “Andrà tutto bene”, le bandiere e i canti sui balconi, manco avessimo vinto i Mondiali?) una serie di regole in gran parte inefficaci e a volte addirittura folli, che hanno distrutto la nostra economia e minato le radici stesse della convivenza sociale (vedi Green Pass) senza risolvere il problema del virus. Chi ha questo atteggiamento di viscerale rifiuto del rischio, infatti, dalle regole vuole innanzitutto essere rassicurato, per cui tende a non chiedersi se sono realmente efficaci, anzi, è tanto meno disposto a farlo quanto più è evidente che non lo sono, perché ammetterlo sarebbe psicologicamente devastante.

D’altra parte, i governanti sanno benissimo che oggi basta un solo caso in cui qualcosa va storto perché la gente inizi a gridare allo scandalo. Perciò non hanno nessuna voglia di cambiare le regole in vigore, anche quando la loro efficacia è minima, per non rischiare di essere accusati di negligenza. Piuttosto preferiranno aggiungerne delle altre, senza preoccuparsi più di tanto che le nuove siano coerenti con le vecchie, anche se ciò finirà in genere per creare un sistema meno efficiente. Ma non ha importanza, perché, come abbiamo appena detto, quanto più uno è fissato con le regole tanto meno è interessato a verificare se funzionano e anzi alla lunga non è nemmeno più capace di farlo.

Infatti, chi adotta questo atteggiamento si allontana sempre più dalla realtà, fino a quando non è più in grado di vedere nemmeno quello che ha davanti al naso e a quel punto gli si può far credere praticamente qualsiasi cosa, dalle false rassicurazioni dei governi fino alle più assurde teorie complottiste, che in fondo non sono che l’altra faccia della medaglia, avendo anch’esse la stessa funzione rassicurante: benché infatti prospetti in genere scenari apocalittici, il complottismo dà ai suoi adepti l’illusione di conoscere come stanno davvero le cose e quindi di avere il controllo della situazione.

E, per convincervi che quanto ho fin qui detto non è solo una teoria, ma ciò che sta accadendo realmente, farò tre esempi, tutti pre-Covid, in cui questa dinamica appare con clamorosa evidenza.

Il primo esempio è il disastro del volo Germanwings 9525, che il 24 marzo 2015 il copilota Andreas Lubitz, affetto da una grave depressione, fece deliberatamente schiantare al suolo, uccidendo tutti i suoi 150 passeggeri, compreso sé stesso. Benché fosse il primo caso nella storia in cui un pilota decideva di suicidarsi mentre era al comando di un aereo di linea, tutti decisero che era “inaccettabile” che la porta della cabina non si potesse aprire dall’esterno. Peccato che questa misura fosse stata presa perché dopo l’11 settembre tutti avevano ritenuto “inaccettabile” che la porta della cabina si potesse aprire dall’esterno, favorendo i dirottamenti. In qualche servizio televisivo la cosa venne fatta notare, ma nessuno si azzardò a dire esplicitamente che, essendo le due richieste contraddittorie, era assurdo sostenerle entrambe e bisognava inevitabilmente accettare o l’uno o l’altro dei due rischi, possibilmente scegliendo quello minore.

Il secondo esempio è quello della sparatoria del 9 aprile 2015 nel Tribunale di Milano, dove un uomo accusato di bancarotta fraudolenta uccise tre persone a colpi di pistola. Era la seconda volta che un fatto simile si verificava nella storia della Repubblica italiana, durante la quale nei suoi tribunali si erano celebrati milioni di processi. Considerando che in un processo si incontrano persone che perlopiù si odiano e che in moltissimi casi vorrebbero uccidersi a vicenda, che ciò fosse accaduto solo due volte in 69 anni avrebbe dovuto essere considerato uno straordinario successo. E invece no! Tutti dissero in coro che era “inaccettabile” e pretesero che si installassero i metal detector anche all’ingresso da cui passano giudici e avvocati, poiché era stato usato dall’assassino per introdurre la pistola. Ciò comportò spese assolutamente sproporzionate al rischio che si intendeva prevenire e, naturalmente, interminabili code, che rallentarono ulteriormente il già troppo lento svolgimento dei processi: tutti (c’era da dubitarne?) dissero in coro che ciò era “inaccettabile”, ma nessuno si sognò di mettere in discussione l’assurda richiesta di “rischio zero” che ne era la causa.

Ma il mio esempio preferito è il terzo, cioè quello dei seggiolini “intelligenti”, che vennero resi obbligatori proprio poche settimane prima dello scoppio del Covid, con una legge votata all’unanimità e tra l’entusiasmo generale (il che, tra parentesi, è qualcosa di cui bisogna sempre diffidare, giacché, soprattutto in un tempo come il nostro, in cui nessuna idea gode di un consenso unanime, solo la demagogia riesce talvolta a produrlo). Lo scopo era (ed è tuttora) impedire che qualche genitore distratto dimentichi il bambino in auto, grazie ad un sistema automatico che manda un avviso sul cellulare. Ho fatto un calcolo approssimativo, da cui è risultato che il costo di questa innovazione per i prossimi 12 anni sarà di circa 500 milioni di euro, tutti a carico dei cittadini (ma anche se fossero a carico dello Stato sarebbe lo stesso, perché lo Stato siamo noi e i suoi soldi escono sempre dalle nostre tasche). Considerando che nei 12 anni precedenti l’approvazione della legge in tutta Italia erano morti in auto 8 bambini, ciò significa che nei prossimi 12 anni spenderemo mezzo miliardo per salvare un bambino ogni 18 mesi su una popolazione di 60 milioni di persone (sempre poi che lo salviamo davvero, perché se uno si abitua che se dimentica il pupo in macchina glielo dice il seggiolino è molto più facile che non ci faccia attenzione e poi cosa succede se il seggiolino si guasta o se dimentica il cellulare a casa?). Se disponessimo di risorse illimitate potremmo anche farlo, ma poiché non è così dovrebbe essere chiaro a qualunque persona sana di mente che ciò è assurdo, perché in qualsiasi altro modo spendessimo quei soldi salveremmo molte più vite. Eppure, provate a dirlo in giro è la risposta unanime sarà sempre e soltanto una: “è inaccettabile”.

È con queste aspettative irragionevoli e con questo drammatico livello di disconnessione dalla realtà che abbiamo affrontato l’emergenza del Covid e che ci prepariamo ora ad affrontare quella ambientale.

Non è certo un caso che i paesi che meglio di tutti hanno gestito il virus, cioè quelli del Pacifico, o (come quelli asiatici) hanno una cultura molto diversa dalla nostra o (come quelli oceanici) hanno la nostra stessa cultura, ma non sono stati influenzati né dalla nefasta “ideologia europea” né, soprattutto, dal sistema di “scaricabarile incrociato” che essa consente. Infatti, di fronte a qualsiasi critica l’Italia può sempre rispondere (e di fatto risponde) «ma fanno così anche la Germania, la Francia, l’Inghilterra… », la Germania può sempre rispondere (e di fatto risponde) «ma fanno così anche l’Italia, la Francia, l’Inghilterra… », ecc. Ma, soprattutto, tutte insieme possono sempre rispondere (e di fatto rispondono) «ma fa così anche l’Europa», che tanto non si sa cosa sia (essendo sempre, pirandellianamente, una, nessuna e centomila) e non deve quindi mai rispondere di niente a nessuno.

Proprio la necessità di rispondere ai propri cittadini (insieme a quella di doversi confrontare molto più direttamente di noi con una superpotenza a loro profondamente ostile come la Cina) ha costretto invece le classi dirigenti di quei paesi ad un realismo molto maggiore rispetto al resto dell’Occidente. Poi, certo, di Jacinda Ardern ce n’è una sola, ma, come in qualsiasi altro campo, anche nella politica i fuoriclasse nascono per caso o per Destino (a seconda di come uno la vede), ma per permettere loro di emergere e di esprimersi al meglio bisogna prima creare un ambiente favorevole. E per questo non servono fuoriclasse: bastano dei normali esseri umani, che però non abbiano paura di guardare la realtà per quello che è e siano disposti ad imparare da essa.

Dopo avere esposto le sue sette “leggi” sull’urto dei corpi (in cui, incredibilmente, molti pretendono di vedere la prima enunciazione del principio di azione e reazione, nonostante che siano sette e non una e, soprattutto, che siano tutte e sette sbagliate) Cartesio scrisse: «E le dimostrazioni di tutto questo sono così certe, che anche se l’esperienza sembrasse farci vedere il contrario, noi dovremmo, nondimeno, prestare maggior fede alla nostra ragione che ai nostri sensi» (Cartesio, I principi della filosofia, in Opere filosofiche, Laterza, Bari 1986, vol. III, p. 102).

Se questa idea di ragione, tutta chiusa su sé stessa e pronta a negare perfino l’evidenza pur di difendere le proprie rassicuranti ma false certezze, sta (come io credo) alla base della mentalità moderna, non c’è da stupirsi troppo per quello che è accaduto con il Covid. Ma, se non c’è da stupirsi, c’è però da preoccuparsi, perché, come ebbe a scrivere il vero fondatore del metodo scientifico, Galileo Galilei, «la natura, Signor mio, si burla delle costituzioni e decreti de i principi, degl’imperatori e de i monarchi, a richiesta de’ quali ella non muterebbe un iota delle leggi e statuti suoi» (Lettera a Francesco Ingoli, in Opere, Giunti Barbera, Firenze 1890-1909, vol. VI, p. 538).

Non lo farà neanche a richiesta di governanti democraticamente eletti e ossequiosamente politically correct.

Di quanti altri disastri avremo ancora bisogno per capirlo?




Investire sui figli: meglio un delinquente in meno che 50 studenti preparati in più?

Martin Luther King diceva: “può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.

La scorsa settimana io e mio marito Salvatore, d’accordo con nostro figlio Federico, abbiamo deciso che doveva cambiare scuola. L’argomento è stato fonte di molte discussioni. E non so come la pensate sul tema e se siamo noi i “dissidenti” e i rompi scatole. E non solo nel mondo della consulenza finanziaria.

inizio anno avevamo scelto di comune accordo dopo le Medie un Istituto Tecnico con specializzazione Amministrazione Finanza e Marketing, perché Federico aveva dimostrato “curiosamente” questa inclinazione, forse anche perché ha due genitori che parlano mattina e sera di questi argomenti.

Da quando poi Salvatore a 10 anni gli aveva regalato 1000 euro (poi quasi raddoppiati di valore) di azioni della Walt Disney, nostro figlio era andato su Google e aveva capito (da solo) che esistevano gli analisti, che le notizie e i bilanci potevano avere un impatto significativo sui corsi dei titoli e che c’è un circo di analisti finanziari che sparano target price ogni settimana.

Quando parlavamo di economia e finanza, mentre sua sorella ci guardava annoiata, lui era incuriosito, quindi spinti anche dall’endorsement del Sole 24 Ore di iscrivere i ragazzi agli istituti tecnici, e non volendo ricadere nel cliché per cui i ragazzi di buona famiglia vanno tutti al liceo, lo abbiamo iscritto a un istituto tecnico commerciale versione 2.0.

Anche perché Salvatore ha frequentato un I.T.C. a Torino fra i migliori d’Italia, il Germano Sommeiller (che ha avuto illustrissimi docenti e allievi tranne naturalmente alcune eccezioni) e ne parla solo bene. E speriamo che la nostra esperienza complicata in un istituto tecnico non sia lo standard.

Il primo giorno di scuola di nostro figlio Federico si è rivelato in verità subito un delirio, tanto da meritarsi una nota di classe collettiva per il comportamento “selvaggio” di numerosi suoi compagni.

Dopo poco più di un mese, la scorsa settimana, la scuola convoca tutti i genitori nell’auditorium e schiera mezzo corpo docente e il dirigente dell’istituto: “mai vista una classe così rumorosa, indisciplinata, sregolata in quarant’anni di insegnamento. Su quasi 30 ragazzi quasi la metà ha problemi anche certificati di deficit dell’attenzione”.

I professori, sostanzialmente, dicono che non solo non è possibile fare lezione, ma è quasi impossibile anche fare l’appello. È una corsa a ostacoli e una guerra di nervi. Un papà chiede un esempio pratico, l’insegnante spiega e lui se ne esce con una frase che rende bene l’idea “Ma questi ragazzi sono usciti da Scampia?” (e grande rispetto naturalmente per i ragazzi e i genitori di Scampia). Una madre al mio fianco (un’insegnante) dice che fra gli “indisciplinati” c’è sicuramente suo figlio e che lei e suo marito non sanno cosa fare nemmeno a casa.

Alcuni genitori invitano a usare le maniere forti (note e sospensioni) e il dirigente dice che apposta hanno convocato la riunione, per avvertire tutti i genitori, quasi a chiedere il permesso che da domani si cambia.

Poi però all’invito di un genitore di usare tutte le misure consentite per assicurare competenze a quelli che la voglia di studiare e imparare ce l’hanno, punendo, sospendendo e, in qualche modo, contingentando i ragazzi difficili, interviene una coordinatrice della scuola, che forte di decenni di insegnamento, intima: “noi dobbiamo favorire l’inclusione, non dobbiamo lasciare indietro nessuno. Perché domani così avremo forse un delinquente in meno. Peraltro, è anche un obbligo di legge e un dovere della scuola: l’inclusione“.

Interviene la psicologa “la collega ha ragione. Mi metto a disposizione delle famiglie in difficoltà“.

Sullo sfondo poi c’è un altro argomento che io e Salvatore (che abbiamo avuto, peraltro, due madri insegnanti vecchia scuola) abbiamo conosciuto in questi anni da genitori quando ci si relaziona con la scuola: la mitica “autonomia scolastica”. Che in pratica vuol dire che gli insegnanti e il preside possono prendere anche una direzione ostinata e contraria al buon senso e non affrontare di petto nulla.

Lo scopo, quindi, oggi della scuola moderna e del politicamente corretto – per il poco che capisco io – è avere (forse) un delinquente in meno. E gli altri 50 che avrebbero potuto imparare qualcosa in più che fanno mi chiedo? E penso che tra cinque anni mio figlio non avrà imparato niente, o meglio non così tanto come quelli con cui nel mondo dovrà competere per un posto di lavoro. Ma magari il suo vicino di banco non finirà in carcere.

Mi spiace, non ci sto. Con mio marito decidiamo che non c’è via di uscita (anche se in questa scuola il corpo docente non è certo male e abbiamo trovato grande sensibilità, compreso il fatto che hanno convocato un’assemblea sul tema) e Salvatore che è nato problem solver “inside” dice : “Si fa come in Borsa, si vota con i piedi (traduzione: in Borsa se un titolo non ti piace lo vendi e vai da un’altra parte”). E poi il nostro lavoro porta a prendere decisioni veloci e sotto stress, questo contesto non è diverso“. In effetti io sono un po’ stressata.

Ri-esaminiamo tutte le scuole della provincia (siamo nel nord ovest fra Liguria e Toscana) nel fine settimana con nostro figlio Federico e guardiamo decine di video di presentazione. Troviamo un liceo a indirizzo Economico (dopo la riforma Gelmini ci sono più indirizzi di studio che professori) che ha materie simili anche se non è uguale uguale (Salvatore storce solo un po’ il naso: “la partita doppia non la fanno”.)

Eh pazienza la prendono più dall’alto, dico io, sono un liceo e la partita doppia (il dare e l’avere come il conto economico) un giorno la capirà anche lui come funziona nella Borsa come nella Vita.

Lo scorso giovedì Federico ha fatto la sua prima lezione in questo gineceo scolastico in cui ci sono 9 donne per ogni uomo. Mai viste tante ragazze in vita mia (Salvatore è già molto preoccupato).

E abbiamo trovato nel dirigente scolastico di questo istituto una persona super valida che ha compreso il nostro smarrimento.

Mamma a scuola i ragazzi sono silenziosi – racconta Federico al suo primo giorno – e nel pomeriggio ho chiesto i compiti nella chat dei miei compagni e in due minuti me li hanno mandati. È un altro mondo“.

Io e mio marito tiriamo un sospiro di sollievo e incrociamo le dita. Non siamo responsabili per la situazione in cui ci siamo trovati, ma lo saremmo diventati se non avessimo fatto nulla per cambiarla.

Per consolarmi, Salvatore mi regala un libro “Il danno scolastico” di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, edito da “La Nave di Teseo”. In questo libro i due autori, lui uno dei più importanti sociologi italiani e docente universitario, lei scrittrice, finalista al Premio Strega, articolista de Il Sole 24 Ore, ma anche insegnante nei licei per tanti anni, dicono che in nome dell’uguaglianza e dei diritti dei deboli, la scuola italiana è diventata una gigantesca macchina della disuguaglianza. Perché?

I figli di chi ha di più in tutti i sensi, ovvero benessere economico, migliore preparazione culturale, trovano sempre il modo di trovare una soluzione attingendo alle proprie risorse. E ricorrendo a lezioni private, per esempio, o potendo accedere a scuole più selezionate e magari più distanti o costose, i loro figli proseguiranno gli studi e ce la faranno anche se non sono particolarmente dotati. Ma i capaci e i meritevoli, si chiedono gli autori, se privi di mezzi, come potranno farcela ad acquisire i più alti gradi di istruzione? Secondo gli autori, per come è strutturata oggi la scuola italiana, non ce la faranno.

E consiglio per chi avesse un’oretta di tempo di ascoltare l’intervista sempre attuale che avevamo fatto con Salvatore al professor Ricolfi su Radioborsa sul suo libro precedente “La società signorile di massa” in cui si parlava anche della scuola e del perché da tempo in Italia l’ascensore sociale non funziona più. Povera patria.

Stai bene, investi bene




Barbero, le donne e quel dogma dei cervelli identici

Rapida e puntuale come un riflesso condizionato, è scoppiata la polemica sulle differenze di genere, stavolta a seguito di una domanda “eretica” dello storico Alessandro Barbero: “vale la pena di chiedersi se non ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. È possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che aiutano ad affermarsi?”

Queste parole hanno scatenato uno tsunami di commenti scandalizzati su giornali e media, con toni variabili tra l’indignazione e il compatimento. Tra le tante risposte, mi è stata segnalata quella di Antonella Viola, immunologa con un dottorato in biologia evoluzionistica e quindi dotata di una voce autorevole con cui dare pareri sulla questione delle differenze biologiche tra maschi e femmine. In un articolo uscito sulla Stampa, la prof.ssa Viola liquida come una “stupidaggine colossale” l’idea che il successo lavorativo nel mondo contemporaneo possa essere influenzato da differenze biologiche. Prosegue affermando che “dal punto di vista strutturale e funzionale, i cervelli di uomini e donne si somigli[a]no moltissimo”, e che “quando si analizza il cervello, a meno di non studiare i neonati, è impossibile distinguere il contributo del sesso da quello del genere”, attribuendo quest’ultimo agli stereotipi culturali. Anche ammettendo che esistano differenze nella personalità di maschi e femmine, queste sono dovute all’azione degli stereotipi a partire dall’infanzia, non certo a predisposizioni biologiche. Per finire, le disparità di genere nel mondo del lavoro non riflettono le differenze psicologiche tra i sessi ma “una storica gestione del potere da parte degli uomini, che hanno definito il gioco e le sue regole fino a pochissimo tempo fa”.

La prof.ssa Viola è una scienziata eccellente e una divulgatrice di primo piano. È un peccato notare che queste affermazioni, presentate come verità assodate, non rispecchiano tanto lo stato della ricerca scientifica in questo campo quanto certi dogmi ideologici di vecchia data, cristallizzati nel femminismo a partire almeno dagli anni ’70 e in alcuni casi da più di un secolo. Che questi preconcetti continuino a circolare in modo acritico anche tra scienziati e intellettuali di livello testimonia quanto la narrazione sulle questioni di sesso e genere sia diventata semplicistica e distorta, anche sulla scia delle accuse di “neurosessismo” lanciate da ricercatrici e divulgatrici femministe come Cordelia Fine, Gina Rippon, Angela Saini e altre. Questa visione del mondo, che dipinge il cervello come una tabula rasa su cui la cultura incide i suoi stereotipi e pregiudizi, può esercitare un grande fascino su chi ha a cuore valori di giustizia e uguaglianza. Lo so bene anche perché ci sono passato nel corso della mia formazione, prima di cominciare a capire che l’evidenza puntava da un’altra parte e che esisteva un modello alternativo in grado di integrare la psicologia delle differenze di genere con i dati dell’antropologia, della biologia e delle neuroscienze all’interno di una cornice evoluzionistica. Un modello che non è solo meglio fondato dal punto di vista scientifico ma che a mio parere si rivela anche molto più interessante, sofisticato, e rispettoso della realtà psicologica di uomini e donne.

Nel resto di questo articolo rispondo, in estrema sintesi, ai punti sollevati dalla prof.ssa Viola, che rappresentano bene il modello a “tabula rasa” delle differenze di genere. Per ogni punto cerco di offrire una breve panoramica di quello che è lo stato dell’arte della ricerca, con l’obiettivo di ampliare lo spazio della discussione e offrire una prospettiva alternativa. Per non appesantire la lettura, i riferimenti bibliografici si trovano alla fine dell’articolo. A chi volesse approfondire questi e altri aspetti delle differenze di genere, consiglio lo splendido libro di David Geary Male, Female: The Evolution of Human Sex Differences, che purtroppo non è stato ancora tradotto in italiano. Ho discusso alcuni di questi temi in questa intervista per il canale YouTube Il pub del lunedì sera, e a breve ne uscirà un’altra per il canale Liberi oltre le illusioni – STEM. Un’intervista più approfondita (in inglese) si può trovare qui e qui. Come nota a margine, penso che fare distinzioni tra “sesso” (riferito alla biologia del corpo) e “genere” (riferito al comportamento e culturalmente determinato) non sia molto utile a fare chiarezza; è una distinzione che sembra intuitiva ma, esaminata da vicino, si rivela fumosa e incoerente (come ho discusso qui). Per questo motivo uso “sesso” e “genere” come sinonimi, a seconda del contesto.

Distinguere tra natura e cultura: mission impossible?

Dando per scontato che nelle società umane “natura” e “cultura” si intrecciano sempre in modo complesso e creativo, è davvero impossibile identificare i contributi della biologia alle differenze tra i sessi, come sembra implicare la prof.ssa Viola nel suo intervento? Sicuramente è un compito difficile e laborioso, ma (per fortuna) tutt’altro che impossibile. Ci sono almeno quattro fonti di informazione che permettono, in modi diversi tra loro, di separare parzialmente natura e cultura. Ciascuna ha i suoi limiti, ma diventano estremamente potenti quando vengono integrate tra loro.

Per prima cosa ci sono i modelli della biologia evoluzionistica, come quelli che riguardano la selezione sessuale (cioè la selezione naturale che avviene attraverso la scelta del partner e l’accoppiamento). I modelli teorici, di solito espressi in forma matematica, permettono di spiegare le ragioni profonde di alcuni motivi ricorrenti: ad esempio il fatto che, nella maggior parte delle specie animali, i maschi tendono ad essere più aggressivi, competitivi e indiscriminati nella scelta del partner, mentre le femmine tendono ad avere criteri di scelta più stringenti e ad occuparsi di più (quando non in modo esclusivo) della cura dei piccoli. Gli stessi modelli permettono di capire quando e perché queste asimmetrie comportamentali possono attenuarsi (come accade spesso nelle specie in cui entrambi i genitori provvedono alla cura dei piccoli) e di spiegare le eccezioni alla norma (come nei cavallucci marini, dove la gestazione delle uova è portata a termine dai maschi).

La seconda fonte di informazione (strettamente legata alla prima) è il confronto tra specie diverse, più o meno strettamente imparentate e più o meno simili nelle loro caratteristiche ecologiche. Per esempio le differenze di genere negli esseri umani possono essere illuminate dal confronto con altri primati, ma anche con alcune specie di uccelli, che hanno sistemi di accoppiamento e riproduzione per molti versi più vicini a quelli della nostra specie. Per sfatare un luogo comune molto diffuso, vorrei sottolineare che gli studi comparativi possono dare informazioni preziose anche quando evidenziano differenze e unicità; lo scopo è descrivere i fattori che spiegano la variazione e le somiglianze tra specie diverse, non dimostrare che gli esseri umani “sono proprio come” gli scimpanzé, i bonobo o qualche altro animale.

La terza fonte è la comparazione cross-culturale, sia nello spazio (diverse culture nello stesso periodo storico) che nel tempo (la stessa cultura in tempi ed epoche diverse). A dispetto di certi stereotipi, i ricercatori evoluzionisti hanno una lunga tradizione di studi cross-culturali, non solo tra diversi Paesi occidentali ma estesi anche all’Asia e all’Africa. Un ruolo particolare è ricoperto dallo studio dei cacciatori-raccoglitori, che sono in larga parte isolati dall’influenza dei mass media e dei modelli culturali occidentali, oltre a vivere in condizioni molto più simili a quelle in cui la nostra specie si è evoluta per centinaia di migliaia di anni. Le notevoli differenze economiche, sociali e di stile di vita che esistono tra diversi Paesi e regioni del mondo possono essere usate in modo efficace per mettere alla prova ipotesi alternative sulle cause delle differenze di genere.

Per finire, ci sono gli studi in cui tratti, comportamenti e differenze cerebrali vengono correlati a variazioni negli ormoni sessuali, soprattutto estrogeni e androgeni. Naturalmente le correlazioni, prese da sole, non permettono di fare affermazioni certe rispetto alle cause del comportamento. Però i dati correlazionali diventano molto più forti quando l’esposizione agli ormoni avviene all’inizio dello sviluppo, o addirittura prima della nascita durante la gestazione. Con le dovute cautele, i dati raccolti negli esseri umani possono essere confrontati e integrati con quelli degli studi animali, dove invece è possibile applicare controlli sperimentali e manipolare direttamente i meccanismi ormonali. I ricercatori sfruttano anche quelli che possono essere considerati “esperimenti naturali”: patologie o condizioni di sviluppo atipiche in cui vengono modificati i normali processi di differenziazione sessuale. Un esempio è il trasferimento ormonale prenatale tra gemelli, per cui (ad esempio) le gemelle femmine ricevono una dose maggiore di androgeni se passano la gestazione insieme ad un gemello maschio, rispetto a quelle che si sviluppano insieme ad un’altra gemella. Un altro è l’iperplasia surrenale congenita, una patologia che causa un’iper-produzione di androgeni nelle femmine che ne sono affette. Si tratta di dati difficili da ottenere, ma molto utili per isolare in modo preciso gli effetti degli ormoni sessuali nello sviluppo. Ad esempio, gli studi che hanno seguito nel corso degli anni dei campioni di bambine con iperplasia surrenale hanno rivelato effetti importanti degli androgeni sugli stili di gioco e sull’aggressività, e più tardi sugli interessi lavorativi, su certe abilità cognitive, e sull’orientamento sessuale (ma solo in modo marginale sull’identità di genere, nel senso di identificazione con il sesso maschile o femminile).

L’ipotesi di Barbero: realtà o fantasia?

Cosa possiamo dire dell’idea che, in media, le donne manifestino meno “aggressività, spavalderia e sicurezza di sé” degli uomini per ragioni in parte biologiche? Traducendo nel linguaggio della psicologia della personalità, “spavalderia e sicurezza di sé” indicano tratti come assertività, dominanza, autostima e propensione al rischio. Insieme all’aggressività fisica e verbale (la cosiddetta “aggressività relazionale” fa eccezione), tutti questi tratti sono più elevati nei maschi, soprattutto a partire dalla media fanciullezza (il periodo dai 6 agli 11 anni circa, in cui avvengono importanti cambiamenti ormonali) e proseguendo con la pubertà. Queste differenze di genere non sono particolarmente grandi, nel senso che, dal punto di vista statistico, c’è una larga sovrapposizione tra i punteggi di maschi e femmine. Ma sono molto robuste, e vanno nella stessa direzione in culture molto diverse tra loro, comprese le popolazioni di cacciatori-raccoglitori. Contrariamente a quello che ci si aspetterebbe sulla base dei modelli di socializzazione (che attribuiscono lo sviluppo della personalità ad aspettative sociali, stereotipi e discriminazione), queste differenze non diminuiscono nei Paesi con livelli più alti di parità di genere (che tendono anche ad essere più ricchi ed economicamente avanzati). Anzi, nella maggior parte dei casi i dati mostrano l’effetto opposto: al diminuire delle disparità di genere a livello socio-culturale, le differenze di personalità diventano più marcate, come se in presenza di una società più aperta e individualista (e probabilmente una maggiore libertà data al benessere economico) le persone tendessero a esprimere in modo più netto le loro predisposizioni biologiche. Questo è un dato importante, anche perché risulta molto difficile da spiegare con un modello di socializzazione.

Aggressività, dominanza, assertività, autostima e propensione al rischio non sono un assortimento casuale: sono tutti tratti che contribuiscono alla competizione diretta per lo status, cioè la forma di competizione tipica dei maschi, non solo negli esseri umani ma in molti altri primati e mammiferi. Questo è assolutamente in accordo con i modelli di selezione sessuale, che (sulla base delle caratteristiche fisiche riproduttive della nostra specie) predicono una maggiore tendenza maschile alla competizione. Un altro aspetto da considerare è che, in tutte le culture studiate finora, le donne tendono a trovare più attraenti i partner che hanno un alto status sociale; questo implica che, attraverso la nostra storia evolutiva, la selezione per tratti e comportamenti rivolti alla competizione diretta per lo status è stata particolarmente forte nei maschi. Non a caso, la ricerca di dominanza è probabilmente il tratto comportamentale che si associa in modo più robusto agli effetti del testosterone negli adulti. Naturalmente, tutti questi tratti si esprimono e manifestano in modi diversi a seconda del contesto culturale e di sviluppo; lo fanno con luci e ombre, costi e benefici, sia per l’individuo che per la società. La stessa competizione per lo status può avvenire con modalità molto differenti, dall’aggressività fisica alla conquista di ricchezza e ruoli prestigiosi, dall’esibizione di abilità fisiche o intellettuali a quella di qualità morali e di leadership. La cultura incanala, dirige e dà forma alle nostre predisposizioni biologiche, ma non le elimina e soprattutto non le crea dal nulla.

Prima di chiudere questa sezione, c’è un punto fondamentale da chiarire rispetto alle dimensioni delle differenze di genere. Come ho notato prima, le differenze nei tratti di personalità aggressivi e competitivi sono abbastanza contenute, con una larga sovrapposizione tra i punteggi di maschi e femmine. Ma anche quando la differenza media è relativamente piccola, le disparità si amplificano via via che ci si muove verso gli estremi. L’ “uomo medio” non è molto più fisicamente aggressivo della “donna media”, ma se andiamo a vedere chi sono le persone estremamente aggressive, troveremo molti uomini e poche donne. Bisogna anche considerare che, nella maggior parte dei tratti di personalità (così come in molte caratteristiche fisiche come l’altezza), i maschi sono più variabili delle femmine, e quindi hanno una maggiore probabilità di trovarsi sia all’estremo più alto che a quello più basso della distribuzione. Questo vuol dire, per esempio, che ci sono più uomini che donne tra le persone con alta propensione al rischio, ma anche (in misura minore) tra quelle con livelli particolarmente bassi di propensione al rischio. La maggiore variabilità del sesso maschile non è una particolarità degli esseri umani; è una caratteristica comune che si ritrova nella maggior parte delle specie animali e sembra legata, almeno in parte, all’asimmetria della selezione sessuale (che di solito è più intensa nei maschi).

Le stesse considerazioni si applicano anche agli altri tratti discussi qui sopra, e l’effetto si amplifica quando si prendono in considerazione più tratti contemporaneamente. Se so che una persona è piuttosto aggressiva, estremamente dominante e assertiva nelle situazioni sociali, ha l’autostima alle stelle, e non vede l’ora di provare il brivido del rischio e trovarsi in situazioni in cui “o la va o la spacca”, la probabilità che quella persona sia un uomo è davvero molto alta. Da un altro punto di vista: esistono donne con personalità fortemente dominanti, assertive, aggressive, eccetera? Certo che sì, ma sono molte meno degli uomini con le stesse caratteristiche. Anche senza arrivare agli estremi, avere livelli più alti o più bassi della media in questi tratti può influire in modo notevole nei più svariati ambiti di vita. Pensare che queste tendenze a livello della popolazione non abbiano alcun impatto sulle differenze nel successo lavorativo, soprattutto in campi con una forte componente di competizione e/o rischio, è semplicemente assurdo. C’è anche un altro lato della medaglia, che di solito non viene considerato: per i motivi discussi fin qui, possiamo aspettarci che, rispetto alle donne, gli uomini (considerati come gruppo) corrano un rischio più alto di fallimento, spesso proprio negli stessi campi in cui hanno più probabilità di successo. Come ha potuto constatare Barbero, anche solo sfiorare questi temi scatena dei fortissimi tabù intellettuali; ma sono tabù che non hanno motivo di esistere e che non aiutano nessuno a capire le dinamiche sociali, né tantomeno a trovare modi realistici e costruttivi per cambiarle in meglio.

I cervelli di uomini e donne: uguali o diversi?

Anche se Barbero non lo ha nominato, il cervello ha un ruolo di primo piano nell’intervento della prof.ssa Viola, che sottolinea come quest’organo sia “plastico: ciò significa che i circuiti neuronali non sono statici ma si modificano e si creano nel tempo in base agli stimoli ricevuti”. Sicuramente la plasticità è una caratteristica basilare del cervello, dal momento che rende possibili l’apprendimento e la memoria. Però è anche importante non interpretare questo concetto in modo troppo “libero”. La ricerca genetica ha mostrato chiaramente che le caratteristiche anatomiche e funzionali del cervello a livello macroscopico (come il volume e lo spessore di diverse aree, le connessioni tra aree, e i profili di attività sia a riposo che durante compiti cognitivi) sono influenzate in modo sostanziale dalle differenze genetiche tra le persone, e che gli effetti genetici sono spesso più forti di quelli ambientali. Questi dati suggeriscono un certo scetticismo rispetto all’idea che le differenze cerebrali tra maschi e femmine possano essere spiegate facilmente come prodotti dell’esperienza e dell’apprendimento.

Dal punto di vista anatomico, la principale differenza di genere sta nel volume del cervello, che è maggiore del 10-15% negli uomini rispetto alle donne (uno scarto piuttosto ampio dal punto di vista statistico). Questa differenza è solo in parte spiegata dal fatto che gli uomini in media hanno un corpo più grande, e al momento non è per nulla chiaro cosa significhi dal punto di vista funzionale; per esempio, il volume del cervello è correlato al quoziente intellettivo (QI), ma non ci sono differenze marcate nel QI medio tra maschi e femmine. Poi ci sono molte altre differenze, sia nelle dimensioni delle varie regioni cerebrali che nelle connessioni tra regioni. Grazie a queste differenze, è possibile creare algoritmi che, partire dall’anatomia di un cervello, riescono a “indovinare” correttamente il sesso della persona in più del 90% dei casi. Ma una porzione importante di queste differenze è una conseguenza (diretta o indiretta) del maggior volume del cervello dei maschi; quando lo scarto nel volume totale viene corretta con metodi statistici, le differenze diventano nettamente più piccole e l’accuratezza nella classificazione scende al 60-70%.

Che conclusioni si possono trarre da questi dati? Non molte, a dire la verità. Alcuni ricercatori hanno messo in evidenza le piccole dimensioni delle differenze (una volta corrette per il volume totale) e i risultati contrastanti degli studi in questo campo; su questa base hanno sostenuto che le differenze di genere nella struttura e funzione cerebrale sono sostanzialmente trascurabili, come sostiene anche la prof.ssa Viola. Ma proprio perché le differenze sono statisticamente deboli mentre le misurazioni sono imprecise e piene di difficoltà tecniche, è probabile che anche gli studi più grandi eseguiti finora siano in realtà troppo piccoli per dare risultati affidabili. Proprio adesso stanno iniziando a uscire i primi studi con decine di migliaia di soggetti, e i risultati sono molto più precisi e robusti di quanto si sia visto finora. Il problema più profondo è che, dal momento che sappiamo molto poco di come la struttura fisica del cervello influisce sul funzionamento cognitivo, risulta molto difficile decidere se differenze che ci sembrano “piccole” possano invece avere effetti rilevanti sul comportamento.

Ancora più importante è il fatto che, se non si correggono statisticamente le misure per eliminare le differenze di genere nel volume cerebrale totale, i cervelli di uomini e donne risultano piuttosto diversi in tutta una serie di caratteristiche anatomiche. Rimuovere queste differenze equivale ad assumere che non abbiano nessuna importanza dal punto di vista funzionale, ma non abbiamo idea se sia davvero così. Per esempio, uno studio recente sulle associazioni tra tratti di personalità e anatomia cerebrale ha trovato le correlazioni più forti proprio con il volume totale e altre misure globali. Anche queste correlazioni però tendono ad essere piuttosto piccole in senso assoluto, in linea con l’idea che la personalità sia determinata soprattutto da meccanismi neurochimici (neurotrasmettitori, ormoni, ecc.) piuttosto che da differenze anatomiche. È probabile che il funzionamento cerebrale sia ancora più differenziato dal punto di vista neurochimico di quanto non lo sia dal punto di vista puramente anatomico.

Anche se capiamo ancora poco del funzionamento del cervello nei due sessi, ne sappiamo molto di più sulle loro abilità cognitive. Come accennavo prima, il QI è una misura dell’intelligenza generale (indipendente dal tipo specifico di compito). Anche se alcuni studi hanno trovato una media leggermente più alta dei maschi, si tratta di differenze abbastanza piccole e statisticamente difficili da misurare con precisione. Le differenze tra maschi e femmine non stanno tanto nel livello generale di intelligenza quanto nella distribuzione delle abilità cognitive specifiche. Soprattutto a partire dall’adolescenza, le femmine sono in media più brave nei compiti basati sul ragionamento verbale, mentre i maschi hanno prestazioni più alte nei compiti che richiedono abilità visivo-spaziali (per esempio visualizzare oggetti tridimensionali complessi), quantitative, e meccaniche. Inoltre le femmine hanno un vantaggio nei compiti che richiedono di dividere l’attenzione tra molti elementi diversi, mentre i maschi sono avvantaggiati nel prestare attenzione in modo focalizzato. Questi “profili cognitivi” tipici dei due sessi sono robusti dal punto di vista statistico, hanno dei paralleli funzionali in molti altri mammiferi, si ritrovano in culture differenti tra loro, e influenzano in modo sostanziale le scelte accademiche e professionali (per esempio, le persone che hanno abilità visivo-spaziali e quantitative relativamente più sviluppate di quelle verbali tendono a scegliere più spesso di iscriversi a facoltà scientifico-matematiche, le cosiddette STEM).

Come nei tratti di personalità, anche nelle abilità cognitive si osserva il fenomeno della maggiore variabilità maschile. I maschi sono più variabili delle femmine nelle misure generali di QI, nelle abilità cognitive specifiche (verbali, visivo-spaziali, matematiche…) e nei punteggi ai test di creatività, oltre che in molti aspetti dell’anatomia cerebrale. Il risultato è che ci sono più maschi che femmine agli estremi più bassi delle abilità cognitive (e molti più maschi che soffrono di ritardo mentale), ma anche agli estremi più alti delle stesse abilità. Se andiamo a vedere chi sono le persone con capacità quantitative e visivo-spaziali fuori dal comune, troveremo una netta preponderanza maschile, perché il vantaggio medio dei maschi in questo tipo di abilità viene amplificato dalla loro maggiore variabilità. Ovviamente ci sono donne a tutti i livelli della distribuzione, fino ai profili di abilità più estremi; ma, come nel caso della personalità, sono meno degli uomini con le stesse caratteristiche. Come si può immaginare, i tabù sulle differenze di genere nella cognizione sono ancora più incandescenti di quelli sulla personalità. Per questo motivo, i dati che ho presentato in questa sezione rimangono spesso confinati nell’ambito specialistico della ricerca sull’intelligenza, nonostante siano robusti, replicabili e importanti dal punto divista sociale.

C’è un altro aspetto delle differenze di genere che si interseca con quello delle abilità, ma probabilmente risulta ancora più importante nel determinare le scelte lavorative di uomini e donne. Si tratta delle preferenze rispetto alla cosiddetta dimensione cose-persone: mentre gli uomini tendono a preferire lavori centrati su oggetti inanimati o concetti astratti, le donne (in media) hanno una preferenza per lavori centrati sulle persone o con una forte componente relazionale. Si tratta di una delle differenze di genere più marcate tra quelle studiate in psicologia; gli interessi per cose e persone emergono molto presto nello sviluppo (forse addirittura alla nascita), e sono influenzati dall’esposizione agli androgeni durante lo sviluppo. La socializzazione sembra avere poco a che fare con l’origine di queste differenze, anche perché lo scarto tra maschi e femmine sulla dimensione cose-persone è rimasto praticamente invariato per più di 50 anni, nonostante i cambiamenti massicci che sono avvenuti nel mondo del lavoro e della formazione. L’origine evoluzionistica di queste predisposizioni si trova, molto probabilmente, nella divisione del lavoro in base al sesso che ha caratterizzato la nostra storia per centinaia di migliaia (se non milioni) di anni. Non c’è alcun dubbio sul fatto che, nel passato degli esseri umani, alcuni compiti (come la caccia e la produzione di utensili) siano stati appannaggio maschile, mentre altri (come la cura dei piccoli) siano stati delle occupazioni prevalentemente femminili. Dal punto di vista evoluzionistico, è davvero difficile pensare che aver ricoperto ruoli specializzati per decine o centinaia di migliaia di generazioni non abbia plasmato anche i nostri interessi e i nostri profili cognitivi.

Il dibattito natura-cultura in quest’ambito si è concentrato soprattutto sulle abilità visivo-spaziali, vista la loro rilevanza per le carriere nell’ambito STEM. I dati indicano chiaramente che queste abilità mostrano un certo livello di plasticità possono essere migliorate con l’esercizio, almeno nel breve periodo. Insieme al fatto che lo scarto tra maschi e femmine aumenta progressivamente durante lo sviluppo, questo risultato è spesso visto come una dimostrazione che le differenze di genere nelle abilità visivo-spaziali sono prodotte dalla socializzazione. Ma si tratta di un’argomentazione debolissima: anche i muscoli sono plastici, e la massa muscolare si può aumentare con l’esercizio, ma questo non toglie che la differenza nella forza fisica di uomini e donne abbia una chiara base biologica. Così come nelle abilità cognitive, anche le differenze nella forza fisica e nella massa muscolare emergono gradualmente nello sviluppo, aumentando nella media fanciullezza e poi con la pubertà. Il fatto che una certa differenza non sia presente alla nascita dice molto poco sulla sua natura biologica o culturale, come si può capire immediatamente pensando a tratti sessualmente differenziati come la voce, la barba, e così via. Sicuramente esiste uno “stereotipo” sul fatto che gli uomini abbiano la voce più profonda delle donne, ma sarebbe surreale argomentare che questo stereotipo è la causa dell’abbassamento della voce nei ragazzi. Lo stesso discorso si può fare rispetto alle differenze nella personalità, nelle preferenze e nelle abilità cognitive: la semplice esistenza di stereotipi di genere (che, messi alla prova empirica, di solito si rivelano sorprendentemente accurati) non dimostra che siano gli stereotipi a causare le differenze e non viceversa. Alcuni lettori avranno sentito parlare della ricerca sullo stereotype threat, secondo cui “attivare” gli stereotipi di genere (per esempio leggendo un brano sul fatto che i maschi sono più bravi in matematica) è sufficiente per far calare la prestazione di donne e ragazze in certi compiti cognitivi. Questo filone di ricerca ha ricevuto una grandissima pubblicità, perché sembrava dimostrare in modo inequivocabile il potere degli stereotipi di plasmare cognizione e comportamento. Quello che pochi sanno è che i risultati iniziali non sono stati replicati negli studi più grandi e meglio controllati, e che una volta corretti i dati per la tendenza a pubblicare più facilmente i risultati positivi, l’effetto si riduce di molto o addirittura scompare.

Le differenze nelle abilità cognitive e quelle nelle preferenze cose-persone si rinforzano tra loro, e insieme contribuiscono a spiegare la minore rappresentazione delle donne nelle professioni STEM (anche se molto probabilmente non la spiegano del tutto). Se c’è un fattore che sicuramente non spiega le differenze nelle discipline STEM, si tratta della disparità di genere a livello socio-culturale. Infatti, nei paesi con più alta parità di genere i profili delle prestazioni cognitive di maschi e femmine tendono a diventare ancora più sbilanciati, e la proporzione di ragazze che si iscrivono a facoltà STEM tende a diminuire invece che aumentare. È probabile che, anche in quest’ambito, l’allentamento delle pressioni sociali ed economiche porti le persone ad esprimere più liberamente le proprie inclinazioni, con il risultato che le differenze di genere vengono amplificate piuttosto che eliminate.

Per concludere

Nel suo intervento, Barbero ha espresso in modo colloquiale un’idea di senso comune ma tutt’altro che ridicola, che di fatto (e con le dovute precisazioni) collima con i risultati della ricerca sulle differenze di genere. Ma le differenze nei tratti competitivi come assertività e propensione al rischio sono solo una tessera di un puzzle molto più ampio, che spazia dalla personalità fino alle abilità cognitive, agli interessi e alle preferenze. Lo studio di queste differenze rivela un panorama complesso e affascinante, collega tra loro diverse discipline scientifiche, e permette di spiegare in modo coerente moltissimi fenomeni del mondo reale. Tra le altre cose, mostra chiaramente che la discriminazione non è l’unica spiegazione possibile delle differenze di genere, e in molti casi neanche la più rilevante. Il tema della discriminazione in campo formativo e lavorativo è troppo ampio per poterlo aprire qui, ma è importante sottolineare che i dati a riguardo non sono né facili da interpretare né tantomeno “a senso unico”; in bibliografia ho messo degli articoli utili da cui partire per esplorare questo tema, soprattutto rispetto all’ambito accademico e alle discipline STEM.

Purtroppo la nostra cultura intellettuale ha un’enorme difficoltà a fare i conti con le differenze, e le risposte a Barbero ne sono una dimostrazione tra le tante. La cosa più grave è che, a forza di ignorare ostinatamente i dati “scomodi” e reagire attaccando chiunque esca dal recinto stretto del politicamente corretto, la narrazione su questi temi diventa sempre più autoreferenziale, povera di contenuti e sganciata dalla realtà. Con questo articolo ho cercato di dare il mio contributo ad una conversazione più aperta e bilanciata. Che il dibattito continui!


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Uno scambio tra un gruppo di psicologi evoluzionisti e uno di “neurofemministe”, che tocca molti dei temi discussi in questo articolo:

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https://www.psychologytoday.com/us/blog/sexual-personalities/201904/sex-differences-in-brain-and-behavior-eight-counterpoints

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  1. Distinguere tra natura e cultura: mission impossible?

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  1. L’ipotesi di Barbero: realtà o fantasia?

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Predizione del sesso a partire dall’anatomia cerebrale, correzione per il volume:

Anderson, N. E., Harenski, K. A., Harenski, C. L., Koenigs, M. R., Decety, J., Calhoun, V. D., & Kiehl, K. A. (2019). Machine learning of brain gray matter differentiates sex in a large forensic sample. Human brain mapping, 40(5), 1496-1506. Link

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Luo, Z., Hou, C., Wang, L., & Hu, D. (2019). Gender identification of human cortical 3-D morphology using hierarchical sparsity. Frontiers in human neuroscience, 13, 29. Link

Sanchis-Segura, C., Ibañez-Gual, M. V., Aguirre, N., Cruz-Gómez, Á. J., & Forn, C. (2020). Effects of different intracranial volume correction methods on univariate sex differences in grey matter volume and multivariate sex prediction. Scientific Reports, 10(1), 1-15. Link

Xin, J., Zhang, Y., Tang, Y., & Yang, Y. (2019). Brain differences between men and women: evidence from deep learning. Frontiers in neuroscience, 13, 185. Link

Un articolo recente di Lise Eliot e colleghi sulla natura (secondo loro trascurabile) delle differenze cerebrali, e alcune risposte critiche:

Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Goldman, D. (2021). On Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Link

Hirnstein, M., & Hausmann, M. (2021). Sex/gender differences in the brain are not trivial-a commentary on Eliot et al. (2021). Neuroscience and Biobehavioral Reviews, 130, 408-409. Link

Williams, C. M., Peyre, H., Toro, R., & Ramus, F. (2021). Sex differences in the brain are not reduced to differences in body size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

Correlazioni tra personalità e anatomia cerebrale:

Hyatt, C. S., Sharpe, B. M., Owens, M. M., Listyg, B. S., Carter, N. T., Lynam, D. R., & Miller, J. D. (2021). Searching High and Low for Meaningful and Replicable Morphometric Correlates of Personality. Journal of Personality and Social Psychology. Link

Differenze nelle abilità cognitive:

Arribas-Aguila, D., Abad, F. J., & Colom, R. (2019). Testing the developmental theory of sex differences in intelligence using latent modeling: Evidence from the TEA Ability Battery (BAT-7). Personality and Individual Differences, 138, 212-218. Link

Johnson, W., & Bouchard Jr, T. J. (2007). Sex differences in mental abilities: g masks the dimensions on which they lie. Intelligence, 35(1), 23-39. Link

Reilly, D., Neumann, D. L., & Andrews, G. (2015). Sex differences in mathematics and science achievement: A meta-analysis of National Assessment of Educational Progress assessments. Journal of Educational Psychology, 107(3), 645. Link

Reilly, D., Neumann, D. L., & Andrews, G. (2019). Gender differences in reading and writing achievement: Evidence from the National Assessment of Educational Progress (NAEP). American Psychologist, 74(4), 445. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2020). Sex-specific academic ability and attitude patterns in students across developed countries. Intelligence, 81, 101453. Link

Wai, J., Hodges, J., & Makel, M. C. (2018). Sex differences in ability tilt in the right tail of cognitive abilities: A 35-year examination. Intelligence, 67, 76-83. Link

Wai, J., Putallaz, M., & Makel, M. C. (2012). Studying intellectual outliers: Are there sex differences, and are the smart getting smarter?. Current Directions in Psychological Science, 21(6), 382-390. Link

Warne, R. T. (2020). In the know: Debunking 35 myths about human intelligence. Cambridge University Press. Link

Scelte formative e professionali:

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Variabilità:

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He, W. J., & Wong, W. C. (2011). Gender differences in creative thinking revisited: Findings from analysis of variability. Personality and Individual Differences, 51(7), 807-811. Link

Johnson, W., Carothers, A., & Deary, I. J. (2008). Sex differences in variability in general intelligence: A new look at the old question. Perspectives on psychological science, 3(6), 518-531. Link

Karwowski, M., Jankowska, D. M., Gralewski, J., Gajda, A., Wiśniewska, E., & Lebuda, I. (2016). Greater male variability in creativity: a latent variables approach. Thinking Skills and Creativity, 22, 159-166. Link

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Wierenga, L. M., Doucet, G. E., Dima, D., Agartz, I., Aghajani, M., Akudjedu, T. N., … & Wittfeld, K. (2020). Greater male than female variability in regional brain structure across the lifespan. Human brain mapping. Link

Preferenze cose-persone:

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Morris, M. L. (2016). Vocational interests in the United States: Sex, age, ethnicity, and year effects. Journal of Counseling Psychology, 63(5), 604. Link

Su, R., Rounds, J., & Armstrong, P. I. (2009). Men and things, women and people: a meta-analysis of sex differences in interests. Psychological bulletin, 135(6), 859. Link

Dibattito sulle abilità spaziali:

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Eliot, L., Ahmed, A., Khan, H., & Patel, J. (2021). Dump the “dimorphism”: Comprehensive synthesis of human brain studies reveals few male-female differences beyond size. Neuroscience & Biobehavioral Reviews. Link

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Wood, B. M., Harris, J. A., Raichlen, D. A., Pontzer, H., Sayre, K., Sancilio, A., … & Jones, J. H. (2021). Gendered movement ecology and landscape use in Hadza hunter-gatherers. Nature human behaviour, 5(4), 436-446. Link

Accuratezza degli stereotipi:

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Löckenhoff, C. E., Chan, W., McCrae, R. R., De Fruyt, F., Jussim, L., De Bolle, M., … & Terracciano, A. (2014). Gender stereotypes of personality: Universal and accurate? Journal of Cross-Cultural Psychology, 45(5), 675-694. Link

Fallimenti della teoria dello stereotype threat:

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Flore, P. C., & Wicherts, J. M. (2015). Does stereotype threat influence performance of girls in stereotyped domains? A meta-analysis. Journal of school psychology, 53(1), 25-44. Link

Flore, P. C., Mulder, J., & Wicherts, J. M. (2018). The influence of gender stereotype threat on mathematics test scores of Dutch high school students: a registered report. Comprehensive Results in Social Psychology, 3(2), 140-174. Link

Ganley, C. M., Mingle, L. A., Ryan, A. M., Ryan, K., Vasilyeva, M., & Perry, M. (2013). An examination of stereotype threat effects on girls’ mathematics performance. Developmental psychology, 49(10), 1886. Link

Shewach, O. R., Sackett, P. R., & Quint, S. (2019). Stereotype threat effects in settings with features likely versus unlikely in operational test settings: A meta-analysis. Journal of Applied Psychology, 104(12), 1514. Link

Parità di genere, profili cognitivi e STEM:

Stoet, G., & Geary, D. C. (2018). The gender-equality paradox in science, technology, engineering, and mathematics education. Psychological science, 29(4), 581-593. Link

Stoet, G., & Geary, D. C. (2020). Sex-specific academic ability and attitude patterns in students across developed countries. Intelligence, 81, 101453. Link

  1. Per concludere

Ceci, S. J., Ginther, D. K., Kahn, S., & Williams, W. M. (2014). Women in academic science: A changing landscape. Psychological science in the public interest, 15(3), 75-141. Link

Ceci, S. J., Kahn, S., & Williams, W. M. (2021). Stewart-Williams and Halsey argue persuasively that gender bias is just one of many causes of women’s underrepresentation in science. European Journal of Personality, 35(1), 40-44. Link

Ceci, S. J., & Williams, W. M. (2011). Understanding current causes of women’s underrepresentation in science. Proceedings of the National Academy of Sciences, 108(8), 3157-3162. Link

Stewart-Williams, S., & Halsey, L. G. (2021). Men, women and STEM: Why the differences and what should be done? European Journal of Personality, 35(1), 3-39. Link

Sito di Marco Del Giudice: https://marcodg.net