Assalto di branco

La pacca sul sedere alla giornalista sportiva Greta Beccaglia ha fatto versare fiumi d’inchiostro e per parecchio tempo giornali locali e nazionali, nonché reti televisive hanno commentato l’increscioso episodio con parole di fuoco. L’aggressione sessuale è stata considerata intollerabile e il tifoso, autore del gesto, è stato additato come un mostro e denunciato per violenza sessuale.

Risulta perciò tanto più incredibile che sulle violenze di gruppo perpetrate a Milano la notte di Capodanno da parte di un branco di maschi nei confronti di giovani ragazze (almeno cinque i casi registrati) per giorni non sia stata data alcuna notizia.Timidamente e solo dopo alcuni giorni Il Corriere della sera per primo e poi, buon ultima, La Repubblica hanno dato spazio alla notizia seguiti dai telegiornali nazionali.

Eppure i fatti rivelano, come si evince dai due video che sono circolati in rete, una carica di aggressività e di ferocia che fa paura. Il cerchio di maschi urlanti e assatanati che si stringono attorno alle giovani vittime denota una prepotenza misogina sconfinata e la convinzione di poter godere dell’impunità. I fatti sono avvenuti in pieno centro, in Piazza Duomo, nel cuore di una Milano in festa illuminata a giorno e presidiata da forze di polizia che avrebbero dovuto garantire il massimo della sicurezza.

La voce della segretaria del Pd milanese ha definito ‘strazianti’ le immagini della violenza di branco contro giovani ragazze inermi, ma ha poi intonato la solita litania generica sulla persistenza del patriarcato nella nostra società e sulla necessità che la scuola educhi al rispetto. Il sindaco Sala ha parlato di molestie indegne di una città come Milano, che si presenta come capitale morale, smart e all’avanguardia. Solo Sardone ha messo in evidenza l’analogia tra i fatti di Milano e quanto accaduto a Colonia nella notte di Capodanno del 2016, quando gruppi di giovani immigrati hanno aggredito e stuprato decine di donne giovani e meno giovani che festeggiavano in piazza.

Perché questa minimizzazione, questo passare sotto traccia il fatto che gli assalitori parlavano arabo? Cosa si vuole nascondere?

Scrive Bhakti Patel, giornalista di Womenplanet: “Si tratta di un attacco sessuale su donne che non avviene in un bosco o in strade solitarie. È l’assalto di un gruppo di uomini a donne nello spazio pubblico, sotto gli occhi di centinaia di altri uomini che possono assistere al crimine odioso cui sono sottoposte la vittime. Questo atto barbarico ha fatto la sua prima comparsa in Egitto più di dieci anni fa e si è diffuso in Europa attraverso immigrati e rifugiati che si sono riversati nel vecchio continente dopo il periodo delle rivoluzioni arabe. Il primo episodio è stato registrato al Cairo, durante le manifestazioni per il referendum costituzionale del 25 Maggio 2005.” In quella occasione furono aggredite attiviste e ragazze egiziane che partecipavano alle manifestazioni.

E come non ricordare Lara Logan, corrispondente della CBS, che è stata assalita da duecento uomini per trenta minuti in piazza Tahrir, prima di essere messa in salvo da un gruppo di donne e soldati. Questa pratica ha un nome preciso si chiama in arabo Taharrush jama’i e da quel lontano 2005 ha preso piede nelle piazze in lotta delle primavere arabe, ma è arrivata anche da noi sia pure in tutt’altro contesto.

Il messaggio esercitato grazie alla forza è chiaro: lo spazio pubblico è di esclusiva appartenenza maschile e va interdetto alle donne. Se osano avventurarsi da sole, in piazza, nel luogo del dominio maschile, sappiano che diventano delle prede. Questo dato va taciuto o la stampa deve metterlo in evidenza? A onor del vero sulla pagina di Wikipedia le aggressioni di Milano sono state subito ascritte alla pratica barbarica del Taharrush jama’i. Ma allora perché stampa e televisioni nazionali, che si fanno vanto di svolgere un compito fondamentale di informazione hanno minimizzato e chiuso gli occhi? Che cosa va nascosto ? Che le differenze culturali ci sono e sono difficili da superare ? Che se un crimine di questa gravita è commesso da giovani immigrati o figli di immigrati è meno grave? Che se gli autori vengono dalle periferie disagiate della città i mass media non devono dedicare alla cosa la stessa attenzione?

Abbiamo combattuto duramente per conquistarci il diritto di uscire e abitare lo spazio pubblico e non ce lo faremo scippare certo per un malinteso senso di compiacenza verso maschi trogloditi che di strada ne devono fare se vogliono vivere tra noi ed essere rispettati.




La scomparsa della compassione: da spettatori a populisti

La prima guerra della mia vita è stata una serata trascorsa a guardare la televisione sorseggiando birra fresca.

Ogni volta che lo dico o lo scrivo, qualcuno s’indigna. Ma l’oscenità è nelle cose, prima ancora di essere nell’occhio di chi guarda. E il trionfo dell’estetica oscena su quella tragica si consumò precisamente nella notte tra il 17 e il 18 gennaio del 1991 quando, per la prima volta nella storia dell’umanità, lo scoppio di una guerra – con un bombardamento devastante sulla popolazione di Baghdad – fu trasmesso in diretta televisiva. Io, allora, avevo vent’anni e – citando Nizan – non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita.

Dopo quella notte, infatti, la condizione di spettatore della distruzione dell’uomo e del mondo è divenuta, per la mia generazione, progressivamente e inesorabilmente, una postura esistenziale e un’attitudine (im)politica. A partire da quel momento, per effetto della comunicazione digitale globale in tempo reale – prima in tv e poi su internet – essere spettatori del disastro ha smesso di essere l’eccezionale condizioni di pochi per divenire una sorta di nuova, oscena condizione umana. Tutti noi siamo stati, giorno dopo giorno, per anni e decenni, testimoni alieni, inerti e apatici, dell’afflizione inferta dall’uomo all’uomo e del dolore, straniero, che provoca. Giù per questa china si è prodotto un sovvertimento della nozione novecentesca di testimone: nello spettacolo tele-visivo della morte e distruzione altrui, il nesso tra testimonianza ed esperienza è stato reciso e il testimone ha smesso di essere associato al destino di colui di cui testimonia. Giù per questa china si è prodotto anche il più importante mutamento dei fondamenti dell’esistere umano nella storia: la riformulazione del differenziale antropologico riguardo alla violenza. A furia di consumare quotidianamente, attraverso i media, scene di violenza estrema nell’impertinenza esperienziale della distinzione tra realtà e finzione, la struttura voyeuristica dello sguardo osceno ci attira verso la posizione, tutta esteriore, dello spettatore anche rispetto alla violenza reale. E rischia di condurci alla indifferenziazione tra vittima e carnefice agli occhi dello spettatore. Fino a ieri, infatti, il differenziale antropologico fondamentale per l’esperienza della crudeltà umana era quello che separava la vittima dal carnefice, oggi tende invece a essere quello che separa la coppia vittima-carnefice, su di un versante dello schermo, dallo spettatore sul versante opposto. Da un lato quelli che infliggono e subiscono la crudeltà, dall’altro quelli che la guardano in tv.

Al termine di questo processo di degenerazione, la postura inerte, apatico e anomica dello spettatore diviene la norma comportamentale anche al cospetto di eventuali casi di violenza prossima e reale e di fronte alla nostra stessa esistenza in quanto cittadini di una comunità politica. Se ci capita di imbatterci in un pestaggio a morte dentro una discoteca o in un attacco terroristico, invece di soccorrere o contrattaccare, ci limitiamo ad alzare tra noi e l’evento lo schermo di uno smartphone per ripristinare al più presto la condizione abituale del telespettatore.

Viviamo, dunque, in un mondo osceno. Viviamo nel tempo dell’oscenità trionfante. Ciò che va perduto in questo tempo è la compassione, ciò che viene espulso da questo mondo è la pietà. Con essa si smarrisce anche la agency politica. L’esistenza che quotidianamente conduciamo nella casa di vetro della trasparenza mediatica è un’esistenza spietata. Spietata ma inerte, impotente.

Violenza e sesso. Sesso e violenza. Entrambi i fondamentali antropologici della nostra “parte maledetta”, se sottoposti ad analisi, dimostrano alla nostra triste scienza questa amara verità.

E’ più facile vederlo riguardo alla violenza. La rivoluzione tecnologica dei media elettronici ci ha messo nella condizione storicamente inaudita di poter assistere immediatamente e continuamente a scene terminali di violenza estrema che annientano vite che non sono la nostra. Da molto tempo, guerre, assassini, catastrofi, cataclismi sono il nostro pasto quotidiano, la nostra abituale dieta mediatica. Ci gonfiamo, così, in una obesità cinica. Ingolfati da questa sugna d’immagini truculente, perdiamo la basilare capacità umanistica di immedesimarci nella sofferenza altrui e, su questa base, di agire di conseguenza.

E’ una drammatizzazione della vita senza tragicità. Quando nella rappresentazione della morte altrui viene meno l’interdetto che nella tragedia greca proibiva di portare in scena il momento cruento, la catarsi, la purificazione dei nostri sentimenti di pietà e terrore, diventa impossibile. In platea rimangono solo passioni impure: sollievo egoistico, godimento perverso, paura onanistica. Nel paesaggio mediatico contemporaneo il tragico è stato sostituito dall’osceno, da ciò che dovrebbe rimanere “fuori dalla scena” (etimologia fasulla ma rivelatrice). Ben presto, noi umani che abitiamo il mediascape di fine millennio ci siamo trasformati in animali anfibi, capaci di vivere simultaneamente in due ambienti opposti: all’asciutto del nostro mondo pacifico e protetto ma anche immersi nella palude insanguinata dalle vittime di apocalissi lontane. La nostra mente incallita, la nostra pelle squamata si sono presto dimostrate impermeabili a entrambi gli ambienti. La crudeltà, scrisse qualcuno, è mancanza d’immaginazione. Vale non solo per la crudeltà inflitta ma anche per quella consumata attraverso i media: non distogliamo lo sguardo dalla sofferenza altrui, non invochiamo il proverbiale velo pietoso perché non siamo più capaci d’immaginarci di essere lui. Alla fine, anche quando e se tocca a noi, ci scopriamo incapaci di qualsiasi reazione che non sia l’emozione futile e caduca del telespettatore.

Solo così si spiega l’inerzia civile e politica in cui ricade l’Europa dopo ogni attacco terroristico sferrato, con cadenza periodica, dall’estremismo islamico.

Perfino riguardo alla violenza terroristica noi siamo, infatti, quasi sempre nella posizione dello spettatore. La nostra inettitudine all’azione politica violenta fa sì che, di fronte all’unica forma reale di brutalità che aggredisca sistematicamente il nostro ambiente sociale, quella dell’islamismo radicale, riusciamo, in apparenza, solo ad assumere l’identità simbolica della vittima, che in verità nasconde la terzietà neutrale del telespettatore. Il medio-oriente islamico è scosso da fenomeni di disintegrazione nazionale apparentabili ai nostri, solo che da quelle parti generazioni cresciute nella guerra rispondono con la violenza terroristica, dalle nostre parti generazioni cresciute in 60 anni di pace e in 30 di consumo televisivo della sofferenza altrui reagiscono con un violento ritiro della delega politica all’establishment che equivale al gesto, al tempo stesso sdegnato e annoiato, di chi cambi canale di fronte a un programma sgradito.

Questo è l’unico aspetto violentemente attivo del nuovo populismo: la brutale, impersuadibile, apocalittica determinazione nel rigetto delle vecchie classi dirigenti, autrici di un palinsesto sfinito. Trump ha affermato che non avrebbe perso uno dei suoi voti nemmeno se avesse aperto il fuoco sulla quinta strada. Aveva ragione. Il suo elettorato è non violento ma la sua ripulsa lo è. In Francia il sovranismo rinunciatario di Marine Le Pen non chiede di riconquistare l’Algeria ma di rigettare l’Europa e di uscire dalla Nato, in Olanda Geert Wilders si richiama all’eredità di un leader anti-islamista e xenofobo ma omosessuale dichiarato, progressista e assassinato da una fanatico (Pim Fortuyn), in Italia tutto si può imputare ai partiti anti-sistema tranne la conquista violenta del potere.

Il populismo reattivo, il sovranismo remissivo, l’accidia post-televisiva. La loro sola violenza è quella del conato di vomito. Rigetto radicale del presente in assenza di un’affermazione dirompente del futuro. Con questa novità dobbiamo fare i conti.