Lockdown a rilento

C’è un certo strabismo, ultimamente, nella comunicazione sul Covid. Il messaggio principale è che dobbiamo stare rinchiusi, e che se ci rinchiudono è “per il nostro bene”, come si dice ai bambini per fargli accettare qualche sacrificio. Il numero dei morti (che viaggia verso quota 1000 al giorno) serve assai bene allo scopo.

C’è però anche un messaggio secondario, che accomuna una parte dei media, qualche analista ingenuo, una parte (minoritaria) del governo, e sostanzialmente tutta l’opposizione: le misure sono eccessive, la curva epidemica sta già piegando verso il basso, le terapie intensive si stanno svuotando, è già tempo di allentare un po’ il freno.

Due visioni opposte, insomma.

E allora proviamo a vedere come stanno le cose. Consideriamo il numero di persone contagiose (in grado di trasmettere il virus) nel mese di giugno, e chiediamoci di quanto è aumentato il loro numero nel tempo. La risposta è che, posto a 100 il numero di soggetti contagiosi a giugno, nella prima settimana di settembre erano 250, nella prima di ottobre erano diventati 500, e nella prima settimana di novembre – quando è decollato il semi-lockdown in corso, erano 2500, a dispetto delle (blande) misure adottate nel corso di ottobre. Dopo due settimane di semi-lockdown la curva epidemica era ulteriormente salita (il nostro numero-indice a base giugno segnava quasi 3000), e solo negli ultimi 10-15 giorni ha cominciato a scendere. Ora siamo a circa 2500, cioè allo stesso livello di un mese fa: il semi-lockdown è stato così blando che, nella prima settimana di dicembre, siamo messi più o meno come lo eravamo nella prima settimana di novembre. In breve, siamo ancora lontanissimi dalla situazione di giugno.

Eppure, ci viene obiettato, le terapie intensive si stanno svuotando, il sistema sanitario non è più sotto pressione come fino a poche settimane fa. Dimenticano che, con 7-800 morti al giorno, le terapie intensive cominciano (lentamente) a svuotarsi semplicemente perché il numero di decessi è ancora più grande del numero di nuovo ingressi: se entrano 700 pazienti al giorno, ma ne escono in quanto deceduti 750, si “liberano” 50 posti. Non mi sembra un bel modo di “alleggerire” la pressione sul sistema sanitario.

La realtà è che, per ora, il semi-lockdown sta dando risultati estremamente deludenti. Il valore di Rt è sceso finalmente sotto la soglia critica 1, ma lo ha fatto in una misura così piccola da rendere lentissimo il percorso di abbassamento della curva epidemica. Al ritmo attuale, occorrono 5-6 mesi di chiusura per riportare il numero di infetti al livello di sicurezza raggiunto a giugno. E anche si tornasse a un lockdown totale, come quello attuato dal 22 marzo al 3 maggio, di mesi ne occorrerebbero 2.

E’ una situazione paradossale. Il governo si vanta di non avere imposto un lockdown generalizzato, duro come quello di marzo. L’opposizione, anziché fare due conti e obiettare che di questo passo andiamo a finire a Pasqua, non trova di meglio che invocare aperture, veglioni, sciate e messe in presenza: un insperato assist al governo, che ne esce con l’aureola della saggezza e della prudenza.

Che cos’è che non va?

Non va che non ci stanno dicendo le cose come stanno. Ai ritmi attuali il semi-lockdown ci porterà, dopo l’Epifania, a quota 1400, ossia 14 volte più contagiati che a giugno. E anche immaginando che il valore di Rt dovesse essere abbastanza simile a quello toccato nel lockdown di marzo, tutto quel che potremmo sperare entro l’Epifania è di arrivare vicino a quota 500, dunque 5 volte il numero di contagiati di giugno. Insomma, in una situazione di rischio non trascurabile.

Dunque, dove ci stanno portando?

Temo che stiano navigando a vista, come hanno fatto dal primo giorno. Non possono fare un lockdown totale, perché hanno promesso di non farlo, e comunque non basterebbe. Non possono aprire, o allentare il lockdown come pretende l’opposizione, perché sarebbe un disastro. Non possono ammettere che a gennaio il numero di persone contagiose sarà ancora troppo alto, e che la riapertura porterà di nuovo Rt sopra 1. Non sono abbastanza umili da chiedere scusa, e fare oggi quel che dovevano fare ieri sui terreni chiave: tamponi, tracciamento, medicina territoriale, trasporti.

Una sola cosa sembrano avere in testa: che il vaccino, salvando noi, salverà loro.

E’ l’errore più grande. Perché, anche dovesse tutto filare liscio, il vaccino non risolverà certo l’emergenza del primo semestre 2021, quando milioni di persone avranno l’influenza, la curva epidemica tornerà a salire, e l’arma del lockdown non potrà più essere usata senza distruggere definitivamente l’economia.

Meglio pensarci ora, all’emergenza che verrà, e “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. Parola di Trapattoni.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 dicembre 2020




Vaccini, la scienza non è corifeo del Potere

Due cose mi hanno infastidito della polemica nata attorno alle parole di Andrea Crisanti: 1. il conformismo al limite del pensiero unico del potere politico e della stampa; 2. la pretesa immaturità del popolo italiano.

Crisanti, che non è un negazionista, un no vax e tantomeno uno scienziato sprovveduto, ha fatto una dichiarazione corretta: prima di esprimermi su questi vaccini voglio vedere i dati. È quanto ha dichiarato anche un altro scienziato, tutt’altro che mediocre, Alberto Mantovani: per Crisanti «massimo rispetto scientifico». E pure lui invita alla «cautela» sui vaccini anti Covid,  «perché non si sono visti i dati, saranno sottoposti a un’autorizzazione d’emergenza e bisogna vedere cosa succederà». Per l’immunologo dell’Humanitas nelle parole di Crisanti «vanno colti elementi costruttivi come la necessità e il rispetto dei dati».

Non diverso il parere di Silvio Garattini, Presidente dell’Istituto Mario Negri di Milano: “Sono dello stesso parere di Crisanti, purtroppo mancano le pubblicazioni per poter dare un giudizio”.

E ancora: “Le industrie stanno facendo dei comunicati che non sono molto positivi perché danno l’impressione alla gente che ci sia una specie di gara e questo non può generare fiducia. Bisogna che pubblichino i dati e poi potremo dire la nostra, sono relativamente ottimista, sono favorevole a farmi vaccinare ma voglio vedere i dati naturalmente, senza vedere i dati è impossibile dare un giudizio”.

E anche Massimo Galli, che non è affatto uno sciocco, un superficiale o uno sprovveduto, si è espresso in maniera analoga a quella di Crisanti: “Vaccino anti-covid? La posizione di Crisanti, che ha tutta la mia stima, è stata molto travisata. Era seccato di continuare a vedere annunci sul vaccino attraverso i media e non dati concreti. Siamo tutti un po’ indispettiti dalla politica degli annunci. Continuiamo a vedere annunci e continuiamo a non vedere dati. E continuiamo anche a vedere una gara a chi ha il vaccino migliore. Se questa fosse una gara nei fatti e nei numeri e non solo negli annunci, sarebbe una bellissima cosa”.

Del resto pure all’estero si chiede trasparenza sui dati. Peter Doshi, sul prestigioso British Medical Journal, scrive, per esempio, a proposito dei vaccini anti Covid: “Solo la piena trasparenza e il controllo rigoroso dei dati consentiranno un processo decisionale informato. I dati devono essere resi pubblici”.

Da ultimo Guido Rasi, fino a pochi giorni fa direttore dell’EMA, l’agenzia europea del farmaco, ha dichiarato: “Sui vaccini finora dalle aziende farmaceutiche numeri da bar sport”. E ancora: “Nonostante i comunicati stampa, le ditte non hanno ancora sottomesso i dati alle autorità regolatorie. Fra le informazioni che mancano: si bloccano i sintomi o anche il contagio? È essenziale saperlo per capire a chi dare le prime dosi”.

Lo scienziato non ha il compito di aiutare la politica, o di rabbonire le masse, ma quello di sviluppare la critica e la ricerca della verità scientifica. Altrimenti non è un uomo di scienza ma un imbonitore. Insomma un ciarlatano. La stampa, piuttosto, come pure i suoi illustri e spesso strapagati commentatori, dovrebbe avere, in un Paese democratico, il ruolo di mosca cocchiera della verità, non di puntello di questo o quel governo o di amplificatore di luoghi comuni.

E veniamo al popolo italiano. Conte, Speranza e soci hanno il terrore che gli italiani si spaventino e che il vaccino sia un flop. Tutti noi auspichiamo invece che il vaccino sia sicuro ed efficace e che la campagna vaccinale abbia pieno successo.

Immagino però che prima di iniziare una campagna di vaccinazione di massa quei famosi dati saranno resi noti in tutta la loro completezza e adeguatezza e saranno attentamente vagliati dalle agenzie regolatorie internazionali. A quel punto delle due l’una: o siamo circondati da una massa di idioti belanti e allora il governo ha pur sempre il potere di usare la “forza” imponendo una vaccinazione obbligatoria. Oppure siamo un popolo maturo e le critiche costruttive degli scienziati avranno dato un bel contributo a non rendere sempre più opaca la gestione delle crisi nel nostro Paese.




Vaccini, la posizione di Andrea Crisanti

Pubblichiamo qui di seguito la lettera che il professor Andrea Crisanti (Ordinario di Microbiologia e Direttore del Dipartimento di Medicina molecolare, Università di Padova) ha scritto al Corriere della Sera.

Caro Direttore,

In una recente intervista a Focus life in risposta alla domanda se mi sarei vaccinato a gennaio ho affermato che non lo avrei fatto fino a che i dati di efficacia e sicurezza non fossero stati messi a disposizione sia della comunità scientifica sia delle autorità che ne regolano la distribuzione.

Ho formulato un concetto di buon senso che non esprimeva alcun giudizio negativo sulla bontà del vaccino né tantomeno metteva in discussione la validità della vaccinazione come il mezzo più efficace per prevenire la diffusione delle malattie trasmissibili. La mia storia personale e scientifica ne è la testimonianza.

La mia dichiarazione, che credo abbia interpretato il sentimento dei tanti che hanno a cuore e danno valore al metodo scientifico, è stata ispirata dalla modalità con cui le aziende produttrici hanno comunicato i risultati raggiunti senza accompagnarli ad una adeguata informazione almeno per quanto riguarda la Fase III.

La trasparenza è la misura del rispetto che si nutre nei confronti degli altri e genera un bene prezioso, la fiducia. In questi giorni le aziende produttrici, invece di condividere i dati con la comunità scientifica, hanno privilegiato una comunicazione basata su proclami non sostanziati da evidenze.

Noi tutti riponiamo in questi vaccini delle grandi aspettative; se le aziende in questione sono in possesso di informazioni che giustificano annunci che possono apparire rivolti in particolare ai mercati finanziari, devono essere rese pubbliche anche in considerazione del fatto che la ricerca è stata largamente finanziata con quattrini dei contribuenti.

La notizia che dirigenti delle due aziende produttrici abbiano esercitato il loro diritto, ne sono certo legittimo, a vendere le azioni per sfruttare i vantaggi legati al rialzo di prezzo non ha contribuito a generare un sentimento di fiducia.
A poche ore dalla mia intervista si è scatenato un inferno mediatico senza precedenti, illustri colleghi in coro hanno fatto a gara per censurare le mie parole definite irresponsabili. Secondo alcuni avrei addirittura messo in pericolo la sicurezza nazionale!

I custodi della ortodossia scientifica non ammettono esitazioni o tentennamenti, reclamano un atto di fede a coloro che non hanno accesso a informazioni privilegiate «il vaccino funzionerà», tuonano indignati. Io sono il primo ad augurarmelo, mi permetto tuttavia di obiettare che il vaccino non è un oggetto sacro. Lasciamo la fede alla religione e il dubbio ed il confronto alla scienza che ne sono lo stimolo e la garanzia.

Tra gli indignati si annoverano alcuni che durante l’estate ci hanno raccontato che le evidenze cliniche portavano a pensare che la crisi sanitaria fosse superata e che il virus fosse meno contagioso, e purtroppo possono avere inconsapevolmente incoraggiato comportamenti che hanno dato un contributo importante alla trasmissione del virus in quei mesi. Altri sono autorevoli membri del comitato tecnico scientifico a cui l’Italia si è affidata fiduciosa per prevenire una possibile seconda ondata, tutelare le attività commerciali, favorire la ripresa produttiva e garantire le attività didattiche.

Lascio agli italiani e agli storici il giudizio sul loro operato. Sono ormai settimane che si registrano più di 35.000 casi di infezione e circa 700 morti al giorno.

A partire dal mese di luglio il virus ha ucciso circa 15.000 persone e ne ha infettate 1.140.000: vorrei scriverlo «ad alta voce» perché per questa strage silenziosa non si indigna nessuno. Chi racconterà la storia di questa epidemia in futuro non troverà eco delle mie parole di qualche giorno fa, ma rimarranno impietose le statistiche a denunciare questi numeri e a mettere a nudo gli errori commessi.

La mia dichiarazione sul vaccino pronunciata con schiettezza ha toccato un nervo scoperto. Senza strumenti per controllare l’epidemia a meno di affidarsi a severe misure restrittive e senza una linea di difesa contro una seconda e possibile terza ondata, le opzioni a disposizione sono drammaticamente ridotte.

A questo punto tutte le speranze sono riposte nel vaccino come la pioggia per un popolo assetato nel deserto. Questo non giustifica la demonizzazione di chi possa avere dubbi, di chi chiede spiegazioni e di chi chiede trasparenza. Continuare su questa strada è il modo migliore per alimentari sospetti e fornire argomenti a chi si oppone all’uso dei vaccini.

Pubblicato su Il Corriere della Sera del 23 novembre 2020




Stop and go?

Chi è abbastanza vecchio da avere memoria degli anni ’70, o è abbastanza curioso da averli studiati, ricorderà di sicuro la politica dello stop and go, o “politica del semaforo”, con cui, in quel periodo, molti paesi occidentali cercavano di domare l’inflazione, senza però frenare troppo l’economia. La conseguenza era una crescita a singhiozzo, in cui a brevi periodi di espansione seguivano altrettanto brevi periodi di rallentamento, per tenere l’inflazione sotto controllo.

Qualcosa di simile, forse, si sta preparando ora sul versante della gestione dell’epidemia, con il Covid in un ruolo simile a quello che fu dell’inflazione. Se davvero, come appare sempre più verosimile, il 3 dicembre il governo consentirà una serie di riaperture, in modo che la corsa ai regali di Natale dia un po’ di ossigeno all’economia, e se nel periodo delle feste dovessero esserci di nuovo limitazioni, più o meno volontarie, magari seguite da un nuovo allentamento delle regole a gennaio, allora sì, dovremmo concludere che il governo ha deciso per lo stop and go.

Il che significherebbe: non riusciamo a stroncare l’epidemia, ma nemmeno vogliamo che ci arrivi in faccia la terza ondata, quindi navighiamo a vista. Teniamo aperto finché gli ospedali respirano, tiriamo il freno appena ci accorgiamo che gli ospedali potrebbero riempirsi di nuovo di pazienti Covid.

E’ razionale questa strategia?

Probabilmente sì, se l’obiettivo è solo di non far saltare il sistema sanitario e dare un po’ di ossigeno all’economia. E, naturalmente, se i sensori del governo sono meno arrugginiti di quelli usati fin qui, rivelatisi incapaci di avvisare in tempo dell’arrivo della seconda ondata.

Se però l’obiettivo fosse quello di minimizzare sia i morti sia i punti di Pil perduti, non sono sicuro che mesi e mesi di andamento a fisarmonica, con le Regioni impegnate in una danza senza fine fra i quattro colori di cui possono fregiarsi (verde-giallo-arancio-rosso), sarebbero la via più efficace. E questo per due motivi, uno relativo alla salute, l’altro relativo all’economia.

Sul versante della salute, non si può non osservare che mantenere le terapie intensive costantemente un po’ sotto il livello di guardia (diciamo al 20% della capacità anziché al 30%), obiettivo comprensibilissimo dal punto di vista dell’equilibrio del sistema sanitario, comporta circa 300 morti al giorno, dunque oltre 100 mila all’anno: più o meno 100 volte il numero annuo di morti sul lavoro, che già ci appare inaccettabilmente elevato.

Sul versante dell’economia i conti sono più ardui, perché mancano due informazioni cruciali: quanti saranno i mesi di vera apertura all’anno, e quanta mobilità in meno (spostamenti e consumi) comporterà lo stato di paura permanente indotto da un regime di stop and go, specie se nulla cambia nella medicina di base (una quota importante delle nostre paure è dovuta alla credenza, del tutto fondata, che in caso di infezione difficilmente riceveremo cure domiciliari). Secondo un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, il rischio che la paura congeli la mobilità, e la mancanza di mobilità spenga l’economia, è molto forte. Se la paura non scende sotto un certo livello, è inutile illudersi che l’economia riparta.

Immagino che qualcuno, arrivati a questo punto, obietterà: e il vaccino? Non sarà il vaccino la nostra salvezza? Perché pensare a un lungo periodo di stop and go quando il vaccino è alle porte?

Personalmente nutro un misto di ammirazione e di invidia per chi è dotato di tanto ottimismo. Può darsi che, a differenza del vaccino influenzale, il vaccino contro il Covid arrivi presto, ed entro l’estate prossima sia disponibile per tutti. Può darsi che la maggior parte della popolazione si vaccini con entusiasmo, e non dia alcun credito alle cautele del prof. Crisanti, secondo cui assumere un vaccino non testato è rischioso (“senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio”).

Ma temo che lo scenario più verosimile sia un altro. E cioè che il vaccino diventi per qualche mese l’argomento preferito dei talk show, e insieme uno specchietto per le allodole che permette ai politici, ancora una volta, di eludere le domande importanti e di non fare le molte cose che spetta loro di fare. A partire dai dieci punti della petizione che, in 35 mila, abbiamo firmato una decina di giorni fa, e cui né il premier Conte, né il ministro Speranza (ai quali era indirizzata), hanno sentito il dovere di dare una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 novembre 2020