I vaccini anti-COVID: perché ci attende un futuro pieno di incognite

Essendo il comunicatore scientifico l’interfaccia, il trait d’union, fra gli scienziati e il mondo politico, la divulgazione scientifica ha fra i suoi compiti principali quello – assai elevato ma spesso disatteso – di informare la classica “casalinga di Voghera” e, soprattutto, il politico di turno di quel che davvero si pensa nel mondo internazionale della ricerca su temi di attualità, affinché i singoli individui, ma principalmente i decisori politici, possano adottare a ragion veduta misure e comportamenti quanto più consoni e lungimiranti possibile, non limitandosi ad “inseguire gli eventi” come è finora accaduto nella gestione italiana della pandemia di COVID-19. Perché stanno nascendo nuove e preoccupanti varianti del virus SARS-CoV-2? Quali sono i rischi conseguenti per una campagna multi-vaccinale ed, a cascata, per la nostra società sempre più stremata dal punto di vista economico e sociale? Quali sono gli scenari futuri che dobbiamo aspettarci nel caso migliore e in quello peggiore? Questo articolo cerca di rispondere in modo chiaro e documentato a tutte queste domande, o quanto meno di fornire al lettore gli elementi fattuali e gli strumenti culturali affinché possa arrivare da solo a una facile risposta.

Se non venissero usati vaccini per cercare di indurre un’immunità protettiva, la pandemia di COVID-19 – secondo i maggiori esperti mondiali – si attenuerebbe lentamente nel tempo fino a diventare una malattia endemica, come l’influenza. Quest’ultima famiglia di virus ha mostrato lo stesso andamento almeno quattro volte negli ultimi 100 anni, così come i coronavirus stagionali. Ma nonostante la maggior parte dei vaccini anti-COVID provochino una reazione immunitaria molto più forte dell’infezione naturale con il virus, senza i vaccini anti-COVID e senza un piano di prevenzione e cura domiciliare precoce vi sarebbero nel frattempo (cioè fino alla svilupparsi di un’immunità naturale nella popolazione) molti morti in poco tempo fra gli over 70 e/o si sarebbe costretti, in Paesi come l’Italia che non sono stati in grado di implementare alcuna misura alternativa, a frequenti lockdown per non saturare terapie intensive e ospedali.

Immagine ottenuta mediante microscopio elettronico a trasmissione (MET) di particelle del virus SARS-CoV-2 (in rosso), isolate da un paziente affetto da COVID-19, mentre attaccano le cellule del tessuto polmonare circostante. (fonte: NIAID Integrated Research Facility in Fort Detrick, Maryland).

Ora, sebbene la pressione di selezione operi raramente durante una pandemia, poiché l’infezione di solito si risolve rapidamente (anche prima che la produzione di anticorpi sia completa), durante la fase endemica la situazione è diversa, poiché la presenza di anticorpi in individui già guariti e in persone che ricevono un’immunità passiva sotto forma di plasma convalescente, o anticorpi monoclonali terapeutici, esercita una pressione selettiva sul virus. Ciò determinerà quindi la selezione di varianti virali con la capacità di eludere questi anticorpi. Negli individui, nel tempo possono emergere diverse varianti dello stesso virus, dando origine a quasi-specie che possono soppiantare le versioni preesistenti [1].

I vaccini tentano di contrastare questo problema, ma possono introdurre anch’essi una pressione selettiva.  L’impiego di vaccini, dunque, non è neutrale rispetto a un virus, ma in generale ne può influenzare l’evoluzione, come del resto possono farlo anche altri tipi di misure di sanità pubblica. Ciò può portare all’emergere di mutazioni nel genoma virale, per cui il ceppo endemico può eludere la risposta immunitaria provocata da ceppi precedenti dello stesso virus, complicando potenzialmente la vita sia ai ricercatori (che devono monitorare l’efficacia dei vaccini ed eventualmente adattarli alle nuove varianti) sia alle persone (cui potrebbero essere date nei prossimi mesi o anni “terze” dosi e forse anche “quarte” o “quinte”).

L’importanza della “teoria evolutiva della virulenza” nel controllo delle epidemie

L’opinione che la maggior parte dei medici e degli autori di testi di medicina aveva, fino a non molti anni fa, sull’evoluzione della “virulenza” – cioè, in pratica, del grado di aggressività per l’ospite umano – di un agente patogeno (virus, batterio o altro parassita), era che, quando la nostra specie e il parassita coevolvono per un lungo periodo di tempo, quest’ultimo tende a diventare meno virulento, evolvendo in definitiva verso una forma più benigna per l’uomo. Quest’idea era peraltro supportata da esempi famosi come quello del virus della mixomatosi, in cui un “nuovo” virus introdotto dall’uomo fra i conigli australiani si era evoluto, nel giro di pochi anni, in un germe assai meno virulento [2].

Sin dalla fine degli anni Settanta, tuttavia, alcuni biologi evoluzionisti, tra cui il prof. Paul W. Ewald dell’Università di Louisville (USA), hanno proposto un modo completamente nuovo di vedere le cose, che ha permesso di giungere a una vera e propria “teoria evolutiva della virulenza”, ben illustrata dallo stesso Ewald nel suo bel libro Evolution of Infectious Disease [3], che ebbi modo di studiare poco dopo la sua pubblicazione, quasi 25 anni fa. Secondo questi scienziati, la coevoluzione tra un agente patogeno e l’ospite umano – e, più in generale tra un parassita e una specie ospite – non evolve necessariamente verso una coesistenza benigna, bensì può rendere il germe più o meno virulento.

Il biologo evolutivo Paul Ewald e il suo libro in cui illustra la “teoria evolutiva della virulenza”.

Difatti, secondo la teoria evolutiva della virulenza, che ha reso ormai superata la vecchia teoria dei medici (basata sull’idea che i parassiti arrecanti poco o nessun danno ai loro ospiti hanno, come specie, la massima probabilità di sopravvivere sul lungo termine: essi prosperano – si pensava – perché anche gli organismi loro ospiti prosperano, per cui la selezione naturale deve favorirne una minore virulenza), in realtà la selezione naturale premia i parassiti che hanno la massima probabilità di sopravvivere sul lungo termine non come specie, bensì come singoli individui, secondo una visione darwiniana dell’evoluzione applicabile perfettamente non solo agli animali e alle piante ma anche ai microrganismi (e di cui il recente sviluppo della resistenza dei batteri agli antibiotici non è altro che l’ennesima conferma) [28].

Ma è proprio questo il punto, secondo gli evoluzionisti. Un patogeno resta innocuo o poco virulento finché le probabilità di contagio sono basse. Se però quel parassita “scopre” che passare da un individuo all’altro è diventato facile (come avvenne ad es. all’influenza “Spagnola” durante la Prima guerra mondiale, quando l’infezione poteva trasmettersi facilmente fra i soldati nelle trincee), allora può avere tutto l’interesse a riprodursi – e quindi a diffondersi – più rapidamente, anche a costo di uccidere il suo ospite. Viceversa, se nel caso di un patogeno altamente virulento il contagio di altre persone diventa per qualche ragione più difficoltoso, il germe avrà interesse a diventare meno virulento, per permettere all’ospite di restare attivo e assicurare al parassita la possibilità di entrare in contatto con altri potenziali ospiti.

Pertanto, la virulenza di un agente patogeno può diminuire o aumentare nel tempo, a seconda di quale opzione sia più vantaggiosa per i suoi geni, e ciò dipende dalla complessa influenza e interazione reciproca di vari: (1) fattori biologici, come la modalità e capacità di trasmissione del parassita, la sua capacità di sopravvivere per lunghi periodi di tempo al di fuori di un organismo ospite e la resistenza opposta dal sistema immunitario dell’ospite stesso; (2) fattori sociali, quali la densità di popolazione di una comunità umana, l’ambiente di vita e il comportamento delle persone (quest’ultimo, in particolare, determina la via e il momento della trasmissione del patogeno tra gli individui) [3].

Più della modalità di trasmissione e degli altri fattori biologici, comunque, è il comportamento dell’uomo a giocare, insieme agli altri fattori sociali, un ruolo fondamentale nell’evoluzione della virulenza di un agente patogeno che affligga la nostra specie. Certe scelte comportamentali delle singole persone nella vita di tutti i giorni, e quelle collettive in tema di sanità pubblica, oltre a preservare direttamente i singoli individui dal contrarre una determinata infezione, hanno un effetto meno immediato, ma fondamentale, nel ridurre il grado di virulenza del patogeno associato. In questo senso, il distanziamento sociale ed i lockdown con il COVID hanno avuto un’utilità accessoria: tenere sotto controllo la virulenza.

La letteratura medica offre ampie prove a favore di tali effetti, prodotti per lo più ostacolando la trasmissione degli agenti patogeni per via “culturale”: cioè, nel caso di molte malattie batteriche, informando sulla necessità di migliorare le condizioni igieniche (personali, delle fonti idriche, ospedaliere, eccetera); nel caso dell’AIDS, spingendo i soggetti delle categorie a rischio a usare siringhe non contaminate e ad adottare pratiche sessuali sicure (uso di preservativi, diminuzione della promiscuità e dei comportamenti ad alto rischio), e così via. Non è un caso, secondo Ewald, che del virus HIV si sia prodotta, in Africa, una variante molto più virulenta di quella che circola in Europa. [3]

L’applicazione sistematica alla medicina dell’approccio darwiniano alla virulenza costituisce, insomma, una nuova strada assai utile per contrastare i nuovi agenti patogeni, soprattutto virali, compresi quelli che attaccheranno in futuro l’uomo – per i quali non saranno disponibili subito vaccini – e per tenere sotto controllo quelli che già ci affliggono, sempre più difficilmente contrastabili dai trattamenti tradizionali con antibiotici o con altri farmaci. Infatti, esaminando i vari fattori biologici e sociali che influenzano la virulenza di un determinato patogeno, i biologi evoluzionisti possono prevedere i suoi decorsi evolutivi, scoprire ciò che più ci rende vulnerabili ad esso, e mettere a punto le terapie e i comportamenti sociali più adeguati per trasformare un pericoloso parassita in un germe meno temibile [2].

La “resistenza ai vaccini”: un pericolo legato a certi nuovi tipi di vaccini

La maggior parte delle persone ha sentito parlare di “resistenza agli antibiotici”, ma difficilmente di resistenza ai vaccini. Questo perché la resistenza agli antibiotici è un enorme problema globale che uccide ogni anno quasi 25.000 persone in Europa e egli Stati Uniti, e più del doppio in India. Invece, la maggior parte dei programmi di vaccinazione in tutto il mondo hanno avuto – e continuano ad avere – un enorme successo nel prevenire le infezioni e nel salvare vite umane. Addirittura, grazie ai vaccini il virus del vaiolo è stato del tutto eliminato dalla faccia della Terra, sebbene ciò abbia richiesto molto tempo.

Ma l’immunizzazione vaccinale sta anche rendendo più diffuse varianti genetiche di patogeni una volta rare o inesistenti, presumibilmente perché gli anticorpi sviluppati dai vaccinati non possono riconoscere e attaccare facilmente i ceppi mutanti che sembrano diversi dai ceppi vaccinali. Ed i vaccini in fase di sviluppo contro alcuni dei patogeni peggiori del mondo – ad esempio, malaria, antrace, etc. – si basano su strategie che potrebbero potenzialmente, secondo modelli evolutivi ed esperimenti di laboratorio, incoraggiare i patogeni a diventare ancora più pericolosi [4]; e, come vedremo, lo stesso potrebbe in linea teorica accadere con i vaccini anti-COVID, o almeno con alcuni di essi, dato che in realtà ne sono in corso di sviluppo nel mondo davvero moltissimi: circa 200.

I biologi evolutivi, in realtà, non sono sorpresi che ciò stia accadendo. Si tratta, infatti, di un ennesimo esempio della teoria evolutiva della virulenza al lavoro. Un vaccino rappresenta una nuova pressione selettiva esercitata su un agente patogeno e, se il vaccino non sradica completamente il suo bersaglio, i patogeni rimanenti maggiormente adattatisi – quelli in grado di sopravvivere, in qualche modo, in un mondo immunizzato – diventeranno più comuni. Questi agenti patogeni, insomma, si evolvono in risposta ai vaccini per il processo di selezione naturale applicata ai microrganismi.

La scienza dei vaccini è incredibilmente complicata, ma il meccanismo sottostante è in realtà molto semplice. Un vaccino espone il tuo corpo a dei patogeni vivi ma indeboliti o uccisi, o anche solo a determinati frammenti di essi (come nel caso della maggior parte dei vaccini anti-COVID, che utilizzano quale antigene, o bersaglio, la famosa proteina “spike”, una sorta di uncino che aggancia le cellule dell’ospite, in particolare – inizialmente – quelle delle vie respiratorie superiori). Questa esposizione incita il tuo sistema immunitario a creare degli eserciti di cellule immunitarie, alcune delle quali secernono proteine ​​anticorpali per riconoscere e combattere i patogeni, se mai invadono di nuovo il corpo.

Questa immagine è un modello generato dal computer della proteina “spike” di una cellula SARS-CoV-2 (COVID-19), che si lega al recettore della proteina ACE-2 di una cellula umana. Attraverso questa connessione, le cellule virali sono in grado di trasferire il loro DNA e riprodursi.

Anche l’immunità indotta dai vaccini può variare, diminuendo nel tempo. Dopo aver ricevuto il vaccino per il tifo, ad esempio, i livelli di anticorpi protettivi di una persona diminuiscono nel corso di diversi anni, motivo per cui le agenzie di sanità pubblica consigliano richiami periodici per coloro che vivono o visitano regioni in cui il tifo è endemico. La ricerca suggerisce che un simile calo della protezione nel tempo si verifica anche con il vaccino contro la parotite. E ci aspettiamo che lo stesso accada con i vaccini anti-COVID, che quindi verosimilmente richiederanno dei richiami, con cadenze ancora non ben chiare.
I fallimenti dei vaccini causati dall’evoluzione indotta dal vaccino, invece, sono di natura diversa. Questi cali dell’efficacia del vaccino sono stimolati dai cambiamenti nelle popolazioni di patogeni che certi vaccini stessi causano direttamente. Gli scienziati hanno di recente iniziato a studiare in parte il fenomeno perché oggi possono farlo: i progressi nel sequenziamento genetico, infatti, hanno reso più facile vedere come i patogeni cambiano nel tempo. E molti di questi nuovi vaccini – come vedremo – hanno rafforzato la velocità con cui i patogeni mutano e si evolvono in risposta ai segnali ambientali.
Si può pensare alla vaccinazione come a una specie di setaccio, che impedisce a molti agenti patogeni di passare e sopravvivere. Ma se ne passano alcuni, quelli in quel campione non casuale che sopravviveranno preferenzialmente si replicheranno e, alla fine, cambieranno la composizione della popolazione patogena. I “quelli” citati potrebbero essere: (1) “ceppi mutanti di fuga” con differenze genetiche che consentono loro di sfuggire agli anticorpi innescati dal vaccino, o (2) semplicemente sierotipi che non sono stati presi di mira dal vaccino. In entrambi i casi, il vaccino altera il profilo genetico della popolazione patogena.

Alcuni esempi di evoluzione non desiderabile indotta da vaccini

I batteri che causano la pertosse illustrano molto bene come ciò possa accadere. Nel 1997, negli Stati Uniti le raccomandazioni [5] dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) iniziarono a promuovere l’adozione di un nuovo vaccino per prevenire l’infezione di questi batteri. Mentre il vecchio vaccino era realizzato utilizzando dei batteri interi uccisi, che stimolavano una risposta immunitaria efficace ma anche rari effetti collaterali, come convulsioni, la nuova versione – nota come vaccino “acellulare” – conteneva solo da due a cinque proteine ​​della membrana esterna isolate dal patogeno.

Gli effetti collaterali indesiderati sono così scomparsi, ma sono stati sostituiti da nuovi problemi inaspettati. In primo luogo, per ragioni non chiare, nel corso del tempo la protezione conferita dal vaccino acellulare è diminuita. Di conseguenza, le epidemie hanno cominciato a scoppiare in tutto il mondo. Nel 2001, degli scienziati nei Paesi Bassi [6] hanno proposto un motivo aggiuntivo per l’indesiderata rinascita: forse la vaccinazione stava stimolando l’evoluzione, facendo sì che ceppi di batteri privi delle proteine​-bersaglio, o che ne avevano versioni diverse, sopravvivessero in modo preferenziale.

Da allora gli studi hanno confermato questa idea. In un articolo del 2014 [7] pubblicato su Emerging Infectious Diseases, dei ricercatori australiani, guidati dal medico e microbiologo Ruiting Lan, presso l’Università del New South Wales hanno raccolto e sequenziato campioni del batterio della pertosse da 320 pazienti tra il 2008 e il 2012. La percentuale di batteri che non hanno espresso la pertactina, una proteina bersaglio del vaccino acellulare, è balzata dal 5% nel 2008 al 78% nel 2012, il che suggerisce che la pressione di selezione del vaccino stava consentendo ai ceppi privi di pertactina di diventare più comuni.

Anche il virus dell’epatite B, che causa danni al fegato, racconta una storia simile. L’attuale vaccino, che prende di mira principalmente una parte del virus noto come “antigene di superficie” dell’epatite B (l’antigene è una molecola in grado di essere riconosciuta dal sistema immunitario come estranea), è stato introdotto negli Stati Uniti nel 1989. Un anno dopo, in un articolo pubblicato su Lancet [8], i ricercatori hanno descritto strani risultati di una sperimentazione su un vaccino in Italia. Avevano rilevato virus dell’epatite B circolanti in 44 soggetti vaccinati, ma in alcuni di essi al virus mancava una parte di quell’antigene bersaglio. Si erano, dunque, sviluppati i già citati “ceppi mutanti di fuga”.

Negli Stati Uniti Andrew Read, professore di biologia alla Penn State University ed esperto di genetica evolutiva delle malattie infettive, sta studiando con i suoi collaboratori come l’herpesvirus che causa la cosiddetta “malattia di Marek” – un disturbo altamente contagioso, paralizzante e in definitiva mortale che costa all’industria dei polli più di 2 miliardi di dollari all’anno – potrebbe evolversi in risposta al suo vaccino. La malattia di Marek sta colpendo i polli in tutto il mondo da oltre un secolo; gli uccelli la prendono inalando polvere carica di particelle virali versate nelle penne di altri uccelli.

Questa malattia fornisce l’esempio meglio documentato dell’evoluzione della resistenza ai vaccini [9]. Il primo vaccino è stato introdotto nel 1970, quando la malattia stava uccidendo interi stormi. Funzionò bene, ma nel giro di un decennio iniziò misteriosamente a fallire; focolai di Marek hanno iniziato a scoppiare in stormi di polli vaccinati. Un secondo vaccino è stato autorizzato nel 1983 nella speranza di risolvere il problema, ma anch’esso ha gradualmente smesso di funzionare. Oggi, l’industria del pollame è al suo terzo vaccino. Funziona ancora, ma Read e altri temono che anch’esso un giorno possa fallire e non c’è un quarto vaccino in attesa. Peggio ancora, negli ultimi decenni il virus è diventato più letale.

La malattia di Marek, una patologia che colpisce i polli, ci fornisce l’esempio meglio documentato del fenomeno della resistenza ai vaccini. Nella foto, un pulcino viene vaccinato contro di essa.

In un articolo del 2015 apparso su PLOS Biology [10], Read e colleghi hanno vaccinato 100 polli, lasciandone altri 100 non vaccinati. Hanno poi infettato tutti gli uccelli con ceppi di Marek che variavano per virulenza – cioè in quanto erano pericolosi e contagiosi. Il team ha scoperto che, nel corso della loro vita, gli uccelli non vaccinati immettono molto più ceppi meno virulenti nell’ambiente, mentre gli uccelli vaccinati immettono molto più ceppi più virulenti. I risultati suggeriscono quindi che il vaccino di Marek incoraggia la proliferazione di virus più pericolosi, che di conseguenza supererebbero le risposte immunitarie degli uccelli innescate dal vaccino e quelle degli stormi vaccinati ammalati.

I vaccini non sterilizzanti ed i potenziali rischi connessi

Proprio come gli agenti patogeni hanno modi diversi di infettarci e influenzarci, i vaccini che gli scienziati sviluppano impiegano strategie immunologiche diverse. La maggior parte dei vaccini che riceviamo durante l’infanzia (ad es. contro il morbillo) impediscono agli agenti patogeni di replicarsi dentro di noi e quindi ci impediscono anche di trasmettere le infezioni ad altri: sono, cioè, i cosiddetti vaccini “sterilizzanti”. E l’immunità sterilizzante è stata un fattore chiave per eliminare il vaiolo, eradicato ufficialmente nel 1980.

Ma finora gli scienziati non sono stati in grado di produrre questo tipo di vaccini sterilizzanti per patogeni complicati, come ad esempio la malaria e l’antrace. Per sconfiggere queste malattie, alcuni ricercatori hanno quindi sviluppato dei vaccini immunizzanti che prevengono le malattie senza effettivamente prevenire le infezioni: sono i cosiddetti vaccini “leaky”. E questi nuovi vaccini possono provocare un tipo di evoluzione microbica diversa e potenzialmente più spaventosa, di cui occorre tenere conto soprattutto nello scenario attuale dei molteplici vaccini anti-COVID già autorizzati o candidati (come detto, sono oltre 200 quelli in corso di sviluppo, e spesso molto diversi l’uno dall’altro per tecnologia usata).

La virulenza, come tratto di un patogeno, è direttamente correlata alla replicazione: più agenti patogeni ospita il corpo di una persona, e generalmente più malata diventa quella persona. Di conseguenza, la virulenza è definita come “la capacità di un agente patogeno di creare danni a un ospite”. Un alto tasso di replicazione fornisce però vantaggi evolutivi: più microbi nel corpo portano a più microbi nel moccio, nel sangue o nelle feci, il che offre ai microbi maggiori possibilità di infettare gli altri, ma ha anche dei costi, poiché può uccidere gli ospiti prima che abbiano la possibilità trasmettere la loro infezione.

Se un vaccino è completamente sterilizzante, il virus non può entrare nelle cellule, quindi non può evolvere perché non ha mai una possibilità di farlo. Ma se entra e si replica, c’è una pressione selettiva perché eviti gli anticorpi generati dal vaccino inefficiente. E in questa situazione non si sa mai quale sarà il risultato, che potrebbe trasmettersi in seguito ad altri contagiati. Il problema con i vaccini leaky è che consentono agli agenti patogeni di replicarsi senza controllo proteggendo allo stesso tempo gli ospiti da malattie e morte, eliminando così i costi associati all’aumento della virulenza.

Nel tempo, quindi, in un mondo di vaccinazioni fatte con vaccini leaky – come è quello in cui siamo entrati per prevenire il COVID-19 – l’agente patogeno potrebbe evolversi fino a diventare più mortale per gli ospiti non vaccinati, perché può raccogliere i benefici della virulenza senza, appunto, i costi, proprio come la malattia di Marek è diventata lentamente più letale per i polli non vaccinati [4]. E questa maggiore virulenza può anche far sì che il vaccino inizi a fallire, causando malattie negli ospiti vaccinati. Si tratta di due rischi molto importanti che dobbiamo potenzialmente aspettarci anche con i vaccini anti-COVID.

In un articolo del 2012 pubblicato su PLOS Biology [11], Andrew Read e Victoria Barclay hanno inoculato nei topi un vaccino anti-malaria leaky, usando questi topi infetti ma non malati per infettare altri topi vaccinati. Dopo che i parassiti sono circolati attraverso 21 cicli di topi vaccinati, Barclay e Read li hanno studiati e confrontati con quelli circolati attraverso 21 cicli di topi non vaccinati. Hanno così scoperto che i ceppi dei topi vaccinati erano diventati molto più virulenti, in quanto si erano replicati più velocemente e avevano ucciso più globuli rossi, rimanendo gli unici parassiti mortali alla fine dei 21 cicli di infezione.

Nel marzo 2017, Read e il suo collega David Kennedy della Penn State University hanno pubblicato, negli Atti della Royal Society B [9], un importante articolo scientifico in cui hanno delineato diverse strategie che gli sviluppatori di vaccini potrebbero utilizzare per garantire che i vaccini futuri non vengano puniti dalle forze evolutive. Una raccomandazione generale è che i vaccini dovrebbero indurre risposte immunitarie contro più bersagli. In una situazione del genere, diventa infatti molto più difficile per un agente patogeno accumulare tutti i cambiamenti necessari per sopravvivere.

Aiuta anche se i vaccini prendono di mira tutte le varianti o sottopopolazioni conosciute di un particolare patogeno, non solo quelle più comuni o pericolose. I vaccini dovrebbero pure impedire agli agenti patogeni di replicarsi e trasmettersi all’interno degli ospiti inoculati. Uno dei motivi per cui con i vaccini sterilizzanti la resistenza ai vaccini è meno problematica della resistenza agli antibiotici, è che essi vengono somministrati prima dell’infezione e limitano la replicazione, il che riduce al minimo le opportunità evolutive. Mentre questo non è vero, evidentemente, per i vaccini leaky. E se virus e batteri cambiano rapidamente in parte è proprio perché si replicano come matti all’interno dell’ospite.

Il materiale genetico di tutti i virus, infatti, è codificato in DNA o RNA; una caratteristica interessante dei virus a RNA è che cambiano molto più rapidamente dei virus a DNA. Ogni volta che fanno una copia dei loro geni commettono uno o pochi errori. Quando un virus a RNA si replica, il processo di copia genera un nuovo errore, o mutazione, per 10.000 nucleotidi, un tasso di mutazione fino a 100.000 volte maggiore di quello riscontrato nel DNA umano. Proprio come le persone – ad eccezione dei gemelli identici – hanno tutte genomi distintivi, le popolazioni di un virus tendono ad essere composte da una miriade di varianti genetiche, alcune delle quali se la cavano meglio di altre durante le battaglie con anticorpi addestrati al vaccino. I vincitori seminano la popolazione patogena del futuro.

I vaccini contro il SARS-CoV-2 sono sterilizzanti o vaccini “leaky”?

Il virus SARS-CoV-2 che produce il COVID-19 è un betacoronavirus, appartenente alla famiglia dei coronavirus (CoV), che comprende sia il virus della SARS che quello della MERS. Questi sono virus a RNA con genomi molto grandi, di circa 30 kb di lunghezza. La famiglia prende il nome dalla caratteristica “corona” di proteine, o ​​spike, che sporge dalla superficie del virus. L’accumulo di molteplici cambiamenti nella proteina spike ha portato, negli scorsi mesi, alla nascita di alcune varianti del SARS-CoV-2, come la variante inglese (nota come B.1.1.7), la variante sudafricana (nota come B.1.351) e la variante brasiliana (nota come B.11.28).

I primi vaccini contro l’attuale coronavirus (SARS-CoV-2) ad essere autorizzati si sono dimostrati variamente efficaci nel ridurre la malattia da COVID-19 nel ceppo originale, il Wuhan-Hu-1. Nonostante ciò, non sappiamo ancora se questi vaccini – e tantomeno, eventualmente, quali e in che misura – possano indurre l’immunità sterilizzante. Si prevede che i dati che affrontano queste fondamentali domande saranno presto disponibili dagli studi clinici sui vaccini in corso. Intanto sappiamo che la variante sudafricana (B.1.351) può sfuggire agli anticorpi nel sangue di persone precedentemente infette [27], il che evidenzia la prospettiva di una reinfezione con varianti antigenicamente distinte e può prefigurare una ridotta efficacia degli attuali vaccini basati sulla proteina spike. Ma anche se l’immunità sterilizzante – che, ripeto, con questi primi vaccini è tutta da dimostrare! – venisse indotta inizialmente, essa potrebbe comunque cambiare nel tempo con il diminuire delle risposte immunitarie e con l’evoluzione virale.

Per l’immunità sterilizzante occorre un particolare tipo di anticorpo noto come “anticorpo neutralizzante”. Questi anticorpi bloccano l’ingresso del virus nelle cellule e ne impediscono la replicazione. Il virus infettante dovrebbe essere identico al virus del vaccino per indurre l’anticorpo perfetto. Non a caso, molti vaccini virali tradizionali presentano l’intero virus in un forma viva attenuata (morbillo, parotite, rosolia, varicella, rotavirus, poliovirus orale Sabin, febbre gialla e alcuni vaccini antinfluenzali) o in una forma inattivata (polio virus Salk, epatite A, rabbia e altri vaccini antinfluenzali), portando a una risposta multipla, diretta non solo verso un’unica proteine virale, ma verso numerose proteine ​​virali contemporaneamente.

Questa molteplicità di risposte anticorpali, probabilmente, spiega perché per questi vaccini non sono stati documentati “ceppi di fuga” del virus dal vaccino. L’eccezione è rappresentata dal virus dell’influenza, in cui la cosiddetta “deriva virale antigenica” (ovvero le mutazioni che si accumulano nel tempo nelle due proteine ​​bersaglio) e lo spostamento o riassortimento antigenico (ricombinazione dei segmenti proteici che porta a una diversa combinazione nelle due proteine) significano che la risposta immunitaria a precedenti ceppi influenzali (o vaccini) non è più efficace nel prevenire l’infezione dai nuovi ceppi.

Tuttavia, la lunghezza della proteina spike usata dai vaccini autorizzati contro il SARS-CoV-2 è relativamente breve (circa 1270 aminoacidi) e un articolo in forma di preprint [12] ha indicato che la risposta anticorpale naturale alle infezioni (e presumibilmente anche a un vaccino basato sulla proteina spike) è concentrata in sole due sezioni della proteina. Dato che la risposta anticorpale alla proteina spike è così concentrata, occorre domandarsi, come hanno fatto T. Williams & W. Burgers su Lancet [13]: “potrebbero delle semplici mutazioni in queste sequenze limitate portare a un vaccino meno efficace, se la risposta immunitaria umana è così specifica a causa della sequenza ridotta usata dal vaccino?”.

I geni nel genoma di SARS-CoV-2 che contengono istruzioni per costruire parti del virus sono mostrati in colori diversi. Ad esempio, la sezione marrone nell’immagine contiene istruzioni genetiche per costruire la proteina “Spike”, che consente al virus di attaccarsi alle cellule umane durante l’infezione. Questa sezione del genoma funge da regione chiave per il monitoraggio delle mutazioni.

Ora, è vero che il SARS-CoV-2 non è un virus “segmentato” come quelli dell’influenza e che il suo tasso di mutazione risulta essere inferiore a quello di altri virus a RNA. Tuttavia, i risultati di un preprint del 2020 [14], esaminando il plasma convalescente per altri coronavirus umani – come il coronavirus umano 229E – suggeriscono che, come per l’influenza, le naturali mutazioni nell’uomo del coronavirus 229E con il tempo potrebbero rendere gli individui meno in grado di neutralizzare i nuovi ceppi. Dunque, qualcosa del genere potrebbe succedere anche per il SARS-CoV-2, e portare alla fine a un vaccino meno efficace.

Oggi è in uso un numero minore di vaccini virali ricombinanti, più simili nell’approccio a quelli recentemente concessi in licenza per il SARS-CoV-2. Essi sono fatti tramite l’ingegneria genetica: il gene che crea la proteina per il virus viene isolato e posizionato all’interno dei geni di un’altra cellula; quando quella cellula si riproduce, produce proteine vaccinali, il che significa che il sistema immunitario riconoscerà la proteina e proteggerà il corpo da essa. Uno di questi vaccini è quello per il virus dell’epatite B, che usa una delle proteine ​​dell’involucro virale, la superficie dell’antigene HBV. Gli anticorpi neutralizzanti sono mirati principalmente a una sequenza di 25 amminoacidi, dal 124 al 149. Ebbene, mutazioni puntiformi che provocano un’arginina rispetto al residuo di glicina nella posizione 145 in questa sequenza portano a un fallimento degli anticorpi neutralizzanti indotti dal vaccino e ad infezioni negli individui vaccinati [15].

I vaccini contro l’influenza, in genere, inducono protezione dalle malattie, ma non necessariamente protezione dalle infezioni. Ciò è in gran parte dovuto ai diversi ceppi di influenza che circolano, una situazione che può verificarsi anche con il SARS-CoV-2. Un fattore protettivo è il tasso di mutazione relativamente basso del SARS-CoV-2, ma l’infezione prolungata negli ospiti immunocompromessi potrebbe accelerare la mutazione, tant’è che nei pazienti affetti da HIV la resistenza agli antivirali si sviluppa rapidamente [9] (per tale ragione i pazienti con HIV non sono stati inclusi nei trial sui vaccini anti-COVID). Ed il fatto che esistano così tanti diversi vaccini anti-COVID in uso o in sperimentazione sulla popolazione facilita, con la pressione selettiva esercitata, il crearsi di “ceppi di fuga”.

Gli esperimenti con gli anticorpi monoclonali e lo sviluppo di una resistenza

Nei vaccini anti-COVID, queste mutazioni indesiderate potrebbero essere guidate da (1) deriva antigenica, o (2) per selezione, durante l’infezione naturale oppure a causa del vaccino stesso. Quando un virus viene coltivato sotto la pressione selettiva di un singolo anticorpo monoclonale che prende di mira un singolo epitopo (la piccola parte dell’antigene che lega l’anticorpo specifico) su una proteina virale, le mutazioni in quella sequenza proteica porteranno alla perdita di neutralizzazione, e alla generazione di “ceppi di fuga”. Questa sequenza di eventi è stata mostrata in laboratorio per la polio, il morbillo e il virus respiratorio sinciziale [16], e nel 2020 anche per il SARS-CoV-2 [17].

Un’altra scoperta importante è che il SARS-CoV-2, anche in presenza di anticorpi policlonali (nella forma dei sieri di convalescenti), può mutare e sfuggire alla neutralizzazione da parte degli anticorpi multipli del plasma di altre persone. Infatti, in una serie di esperimenti in vitro descritti in un preprint del 2020, il SARS-CoV-2 è stato coltivato in presenza di plasma neutralizzante di un convalescente [18]. Dopo alcuni passaggi seriali, erano state generate tre mutazioni nelle due sezioni-bersaglio della proteina spike che hanno permesso la formazione di una nuova variante del tutto resistente alla neutralizzazione del plasma. Quando questo virus è cresciuto in presenza di plasma convalescente di altri 20 pazienti, tutti i campioni hanno mostrato una riduzione dell’attività di neutralizzazione.

La sostituzione di amminoacidi osservata in questo esperimento si trova – guarda caso – nella stessa posizione delle mutazioni riportate in un preprint che descrive esperimenti di selezione di anticorpi monoclonali (con le varianti mutanti che sfuggono alla neutralizzazione di sieri umani convalescenti) [19] e di quella trovata nella famosa “variante sudafricana” del SARS-CoV-2 che si sta diffondendo rapidamente in Sud Africa e che ha mostrato di essere meno suscettibile alla neutralizzazione da parte di plasma convalescente di individui esposti alle precedenti varianti del coronavirus. E, sempre guarda caso, le varianti inglese, sudafricana e brasiliana sono emerse in Paesi dove erano in corso trial di vaccini anti-COVID.

In linea di principio, questi risultati suggeriscono che le varianti di SARS-CoV-2 potrebbe evolversi, in alcune persone, sviluppando una resistenza all’immunità indotta da vaccini ricombinanti diretti alla proteina spike (che sono basati sulla sequenza originale, la Wuhan-Hu-1). Ma solo gli studi clinici in corso mostreranno se gli individui vaccinati riconoscono le varianti SARS-CoV-2 in modo diverso, e se le mutazioni riducono la protezione del vaccino in alcuni individui vaccinati. La sperimentazione di fase 3 in corso di un vaccino a base di spike con vettore di adenovirus (Johnson & Johnson) in Sud Africa, dove la variante sudafricana sta sostituendo le varianti preesistenti, può fornire un’opportunità per esaminare questa domanda.

A causa dell’efficiente apparato di correzione di bozze del SARS-CoV-2, il tasso di sostituzione dei nucleotidi è più lento rispetto ad altri virus a RNA. Ciò ha portato alla speranza che l’antigene spike sarebbe rimasto stabile e che tutti i ceppi attualmente in circolazione sarebbero stati quindi suscettibili agli anticorpi neutralizzanti sviluppati in risposta ai primi vaccini. Uno studio di McCarthy et al. [20] riporta, tuttavia, che il coronavirus si sta adattando alla presenza di immunità – come segnalato da mutazioni di delezione ripetute in siti specifici della proteina spike – causando la rapida evoluzione della diversità antigenica, e soprattutto questa “mutazione di fuga” viene trasmessa anche ad altri individui. La spiegazione più ovvia è che questa delezione sia sorta in risposta a una forte e comune pressione selettiva.

In definitiva, la maggior parte dei vaccini anti-COVID addestrano il sistema immunitario a rilevare gli antigeni sulla superficie del SARS-CoV-2 e l’antigene più usato è la proteina spike, che viene vista come il bersaglio vaccinale più efficace. Quindi, ora che sta emergendo la prova che quelle particolari varianti sembrano influenzare l’efficacia del vaccino, dovrebbe essere necessario riformulare periodicamente i vaccini così che si adattino meglio ai ceppi circolanti. Per questa ragione, Moderna (e probabilmente anche altri produttori) stanno considerando due strategie “booster”, cioè di potenziamento dell’immunità nei vaccinati: (1) una terza dose dello stesso vaccino odierno; (2) in alternativa, una terza dose con un mRNA in cui sono state opportunamente incorporate le mutazioni della nuova variante sudafricana [21].

La struttura del virus SARS-CoV-2, con alcune importanti proteine superficiali e interne.

Le mutazioni nella proteina spike sono alla base delle principali varianti che destano preoccupazione. Dunque, i vaccini anti-COVID che prendono di mira questa proteina sul breve termine risolvono un problema ma dall’altro possono crearne di nuovi, soprattutto nel tempo e guardando quindi al futuro. Inoltre, anche i vaccini che usano due dosi potrebbero favorire la creazione di “ceppi mutanti di fuga”, dato che dopo la prima dose l’immunizzazione è solo parziale. Anche la lenta introduzione delle vaccinazioni in alcuni Paesi può dare il tempo al virus di mutare la sua proteina spike e sfuggire al vaccino (donde l’importanza di una politica globale di vaccinazione e della fornitura di vaccini ai Paesi che non possono permettersi di pagarli). Con il passare del tempo, alcuni vaccini potrebbero persino iniziare ad esacerbare le infezioni da COVID-19 attraverso un fenomeno noto come “potenziamento dipendente dall’anticorpo”, dove alcuni anticorpi si attaccano al virus in modo errato e finiscono per contribuire all’infezione [26].

Conclusione: verso un futuro davvero pieno di incognite

Sebbene l’immunità sterilizzante sia spesso l’obiettivo finale della progettazione del vaccino, raramente viene raggiunto. Fortunatamente, ciò non ha impedito in passato a molti vaccini diversi di ridurre sostanzialmente il numero di casi di infezioni da virus. Riducendo i livelli di malattia negli individui, si riduce anche la diffusione del virus attraverso le popolazioni. Pertanto, essa potrebbe essere stata un obiettivo troppo elevato per i produttori di vaccini COVID-19, ma secondo molti esperti potrebbe non essere necessaria per frenare la malattia e portare l’attuale pandemia sotto controllo [22].

Il caso del rotavirus, che causa vomito grave e diarrea acquosa ed è particolarmente pericoloso per neonati e bambini piccoli, è abbastanza semplice in questo senso. La vaccinazione limita, ma non ferma, la replicazione dell’agente patogeno. In quanto tale, non protegge da malattie lievi. Riducendo la carica virale di una persona infetta, tuttavia, diminuisce la trasmissione, fornendo una protezione indiretta sostanziale. Secondo i Centers for Disease Control (CDC) statunitensi, 10 anni dopo l’introduzione nel 2006 di un vaccino contro il rotavirus negli USA, il numero di positivi ai test per la malattia è sceso del 90% [22]. Quindi, anche con i vaccini anti-COVID si potrebbero avere nuovi infetti asintomatici o paucisintomatici.

Tuttavia gli imprevisti sono dietro l’angolo, come abbiamo visto essere successo con vaccini non sterilizzanti che prendevano di mira una sola o poche proteine virali. E quando, l’anno scorso, più di 1.000 scienziati del vaccino si sono riuniti a Washington D.C. (USA), al World Vaccine Congress, la questione dell’evoluzione indotta dal vaccino – incredibilmente – non è stata al centro di nessuna sessione scientifica. I ricercatori sono nervosi nel parlare e richiamare l’attenzione sui potenziali effetti evolutivi perché temono che, così facendo, potrebbero alimentare più paura e sfiducia nei confronti dei vaccini da parte del pubblico, anche se l’obiettivo è, ovviamente, garantire il successo del vaccino a lungo termine.

Al contrario, alcuni degli esperti di virus a cui non sfuggono i potenziali effetti evolutivi si sono espressi preoccupati del fatto che l’aggiunta di una “pressione evolutiva” all’agente patogeno mediante l’applicazione di quello che potrebbe non essere un vaccino completamente protettivo – come uno dei tanti vaccini sperimentali anti-COVID – possa alla fine peggiorare le cose. “Una protezione meno che completa potrebbe fornire una pressione selettiva che spinga il virus a eludere l’anticorpo presente, creando ceppi che poi eludono tutte le risposte ai vaccini”, secondo Ian Jones, professore di virologia presso la Reading University (UK). “In questo senso, un cattivo vaccino è peggio di nessun vaccino!” [23, 4]. Tuttavia, va sottolineato che al momento si tratta di un “peggior scenario” teorico, e che comunque – sia ben chiaro – non mette in discussione l’importanza della vaccinazione di massa.

Se quello appena illustrato è uno degli scenari peggiori, lo scenario migliore non lo è poi tanto di più, visto che, come ritiene Alexandre Le Vert, CEO e co-fondatore della casa di vaccini francese Osivax, “dovremmo aspettarci che più varianti appaiano periodicamente e molto probabilmente raggiungeremo una situazione simile all’influenza, dove più varianti circoleranno ogni stagione invernale” [26]. Dunque, si prospettano vaccinazioni a go-go per la popolazione e un business multi-miliardario per le case farmaceutiche. Un modo per aggirare la “corsa agli armamenti” del vaccino è lo sviluppo di un vaccino universale che sia a prova di futuro contro il coronavirus in evoluzione. Per capire come un tale vaccino potrebbe funzionare, un indizio chiave sta nell’esaminare – come abbiamo fatto in precedenza – i vaccini per altre infezioni virali che sono rimasti efficaci per decenni: stiamo parlando dei già citati vaccini sterilizzanti.

Poche aziende stanno sviluppando vaccini vivi attenuati per il COVID-19, anche se questi possono fornire una protezione molto forte: sono difficili da trasportare e potrebbero non essere sicuri per le persone con sistemi immunitari indeboliti. La maggior parte degli sviluppatori ha quindi optato per altri approcci, come vaccini inattivati (Sinovac, Novovax, etc.), vettori virali (Astrazeneca, Johnson & Johnson, Sputnik, etc.) e vaccini a mRNA (Pfizer, Moderna, CureVac, etc.). Nel caso del SARS-CoV-2, non ci sono ancora dati di efficacia dei vaccini inattivati in fase 3, ed i dati parziali apparsi sulla stampa mostrano al momento risultati controversi. Bisogna inoltre tener presente che la produzione dei vaccini inattivati richiede bioreattori per la crescita di virus vivo in alte condizioni di contenimento. Al contrario, i vaccini a mRNA e quelli a vettore virale sono fra i più semplici e veloci da realizzare.

Se i vaccini vivi attenuati sono fuori dal tavolo, come possono altri tipi di vaccini ottenere una protezione duratura? Emergex è uno dei numerosi sviluppatori di vaccini che si concentrano sui cosiddetti “linfociti T” – una parte fondamentale della nostra “memoria” immunitaria per infezioni future – e sugli antigeni interni del SARS-CoV-2. Come ha spiegato il suo CEO, Thomas Rademacher: “I nostri risultati suggeriscono che prendere di mira le proteine ​​di superficie, e in particolare la proteina spike, potrebbe non produrre una risposta immunitaria altrettanto sicura, efficace e di lunga durata rispetto a quella osservata con i vaccini vivi attenuati” [26]. Osivax sta usando un approccio simile, sviluppando un vaccino che consiste in nanoparticelle che trasportano copie di antigeni COVID-19 interni. Va detto, comunque, che anche per gli altri tipi di vaccini si è riscontrata la capacità di indurre la citata “risposta T”, come illustrato ad esempio, per il vaccino Pfizer, dal lavoro di Prendecki et al. [29].

Credo che al lettore risulterà a questo punto chiaro come la corsa ai vaccini sia in realtà soltanto all’inizio, mentre le nostre economie e il tessuto sociale sono sempre più provati. Pertanto, negli altri Paesi molti esperti si chiedono se saremo in grado di stare dietro – come progettazione e produzione dei vaccini, nonché accettazione degli stessi da parte della popolazione – alle ulteriori future varianti di SARS-CoV-2 che molto verosimilmente sorgeranno, indotte in molti casi dai vaccini medesimi [24]. In Italia questo dibattito non è mai partito, nonostante la conoscenza di questi temi e dei relativi risvolti dovrebbe essere portata anche all’attenzione della politica già in questa fase, non certo “a babbo morto”, al fine di prendere le decisioni migliori e di effettuare la pianificazione conseguente, uscendo dalla logica dell’inseguire gli eventi che ha guidato finora la gestione della pandemia nel nostro Paese.

In Italia, invece, i medici che in televisione informano il grande pubblico si limitano a ripetere il mantra “che un calo della velocità di trasmissione significa meno infezioni; una minore replicazione del virus porta a minori opportunità di evoluzione del virus negli esseri umani; e con meno possibilità di mutare, l’evoluzione del virus rallenta e c’è un minor rischio di nuove varianti”. Ma, come purtroppo abbiamo visto in dettaglio, se i vaccini anti-COVID utilizzati nei trial o approvati sono “leaky” – o se anche solo alcuni di essi lo sono – pure una vaccinazione di massa degli italiani / europei lascerebbe al virus ampie opportunità di creare nuovi “ceppi di fuga” (da noi o nei Paesi poveri) e, qualora questi ultimi eludessero i vaccini da noi usati, ciò rischierebbe di farci tornare, da un momento all’altro, quasi alla casella di partenza.

Proprio per tutte queste ragioni è – a mio modesto parere – importante, per la politica sanitaria anti-COVID, non solo riflettere con molta più obiettività e lungimiranza su tutta la faccenda, ma soprattutto implementare contemporaneamente un “piano B” che sia del tutto svincolato dai vaccini e mirato a risolvere il problema (saturazione delle terapie intensive e dei reparti di cure a bassa intensità degli ospedali) alla radice, ovvero facendo in modo che meno persone ricorrano all’ospedale, grazie: (1) alla prevenzione tramite opportune campagne di informazione che invitino almeno la popolazione più a rischio a compensare i bassi livelli di vitamina D (questione chiave già illustrata in un mio articolo [25]), e comunque non per ridurre il rischio di infezione bensì la gravità della stessa; e (2) alla cura ai primi sintomi attraverso un serio ed efficace protocollo di cura domiciliare, oggi di fatto assente.

Desidero ringraziare, per la lettura critica del manoscritto e gli utili suggerimenti forniti, il dr. Piergiuseppe De Berardinis (direttore del Laboratorio di immunologia presso l’Istituto di Biochimica e Biologia Cellulare del CNR), che in questi anni si è occupato di studiare la risposta immunitaria e la problematica dei vaccini sia dal punto di vista sperimentale che divulgativo. Naturalmente, la responsabilità di eventuali inesattezze o errori residui è solo ed esclusivamente dell’Autore.

 

Riferimenti bibliografici

[1] Thomas L., “SARS-CoV-2 spike deletion mutations may evade current vaccine candidates, study finds”, News Medical Life Sciences, 23 novembre 2020.

[2] Menichella M., “Mondi futuri. Viaggio fra i possibili scenari”, SciBooks Edizioni, Pisa, 2005.

[3] Ewald P.W., “Evolution of Infectious Disease”, Oxford University Press, New York, 1994.

[4] Boots M., “The Need for Evolutionarily Rational Disease Interventions: Vaccination Can Select for Higher Virulence”, PLoS Biology, 2015.

[5] No author listed,Pertussis vaccination: use of acellular pertussis vaccines among infants and young children. Recommendations of the Advisory Committee on Immunization Practices (ACIP)”, CDC Recommendations and Reports, 1997.

[6] Van Gent M., “Studies on Prn Variation in the Mouse Model and Comparison with Epidemiological Data”, PLoS ONE, 2011.

[7] Lam C., Lan R. et al., “Rapid increase in pertactin-deficient Bordetella pertussis isolates, Australia”, Emerging Infectious Diseases, 2014.

[8] Carman W.F. et al., “Vaccine-induced escape mutant of hepatitis B virus”, The Lancet, 1990.

[9] Kennedy D.A., Read A.F., “Why does drug resistance readily evolve but vaccine resistance does not?”, Royal Society Acta B, 2017.

[10] Read A.F., “Imperfect Vaccination Can Enhance the Transmission of Highly Virulent Pathogens”, PLoS Biology, 2015.

[11] Barclay V.C. et al., “The Evolutionary Consequences of Blood-Stage Vaccination on the Rodent Malaria Plasmodium chabaudi”, PLoS Biology, 2012.

[12] Greaney A.J., “Comprehensive mapping of mutations to the SARS-CoV-2 receptor-binding domain that affect recognition by polyclonal human serum antibodies”, preprint, BioRxiv, 2021.

[13] Williams T.C., Burgers W.A., “SARS-CoV-2 evolution and vaccines: cause for concern?”, Lancet Respir. Med., 29 gennaio 2021.

[14] Eguia R.D. et al., “A human coronavirus evolves antigenically to escape antibody immunity”, preprint, BioRxiv, 18 dicembre 2020.

[15] Romanò L. et al., “Hepatitis B vaccination”, Human Vaccines & Immunotherapeutics, 2015.

[16] Mas V. et al., “Antigenic and sequence variability of the human respiratory syncytial virus F glycoprotein compared to related viruses in a comprehensive dataset”, Vaccine, 2018.

[17] Weisblum Y., “Escape from neutralizing antibodies by SARS-CoV-2 spike protein variants”, eLife, 2020.

[18] Andreano E. et al., “SARS-CoV-2 escape in vitro from a highly neutralizing COVID-19 convalescent plasma”, preprint, bioRxiv, 2020.

[19] Liu Z. et al., “Landscape analysis of escape variants identifies SARS-CoV-2 spike mutations that attenuate monoclonal and serum antibody neutralization”, bioRxiv, 2021.

[20] McCarthy K.R. et al., “Recurrent deletions in the SARS-CoV-2 spike glycoprotein drive antibody escape”, preprint, BioRxiv, 19 gennaio 2021.

[21] Kupferschmidt K., “Vaccine 2.0: Moderna and other companies plan tweaks that would protect against new coronavirus mutations”, Science, 26 gennaio 2021.

[22] McKenna S., “Vaccines Need Not Completely Stop COVID Transmission to Curb the Pandemic”, Scientific American, 18 gennaio 2021.

[23] Kelland K., “Russia vaccine roll-out plan prompts virus mutation worries”, Reuters, 21 agosto 2020.

[24] Kuhn R., “Coronavirus variants, viral mutation and COVID-19 vaccines: The science you need to understand”, The Conversation, 2 febbraio 2021.

[25] Menichella M., “Vitamina D e minore mortalità per COVID-19: le evidenze e il suo uso per prevenzione e cura, Fondazione David Hume, 23 febbraio 2021.

[26] Smith J., “Can Covid-19 Vaccines Keep up with an Evolving Virus?”, Labiotech, 11 febbraio 2021.

[27] Wang P. et al., “Increased Resistance of SARS-CoV-2 Variants B.1.351 and B.1.1.7 to Antibody Neutralization”, preprint, bioRxiv, 26 gennaio 2021.

[28] Ewald, P.W., “Evolution of virulence”, Infectious Disease Clinics of North America, 2004.

[29] Prendecki et al., “Effect of previous SARS-CoV-2 infection on humoral and T-cell responses to single-dose BNT162b2 vaccine”, The Lancet, 25 febbraio 2021.

 

 




Indice DQP: per l’immunità di gregge dobbiamo aspettare maggio 2022

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

All’inizio della decima settimana del 2021 (lunedì mattina, 8 marzo) il valore di DQP è pari a 65 settimane, il che corrisponde al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di maggio del 2022.

Il valore del DQP è notevolmente migliorato rispetto a quello della settimana scorsa (immunità di gregge a novembre 2022).

Per raggiungere gli obiettivi enunciati dalle autorità sanitarie (immunità di gregge entro settembre-ottobre 2021), il numero di vaccinazioni settimanale dovrebbe essere circa il doppio di quello attuale (2 milioni la settimana).

Nota tecnica

Le stime fornite ogni lunedì si riferiscono alla settimana appena terminata e si basano sui dati ufficiali disponibili il lunedì mattina (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni lunedì, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “di questo passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 4 parametri:

  1. una stima del numero di italiani vaccinati necessario per garantire l’immunità di gregge;
  2. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana (da lunedì a domenica);
  3. quante vaccinazioni erano state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  4. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa sulle ipotesi più ottimistiche possibili sul funzionamento del vaccino e sull’andamento della campagna vaccinale. Più precisamente:

  • i vaccini somministrati non solo proteggono i vaccinati dall’insorgenza della malattia, ma impediscono la trasmissione dell’infezione ad altri (immunità sterile);
  • l’obiettivo è vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • sul mercato vengono introdotti vaccini per tutte le fasce d’età, compresi gli under 16 (i vaccini attuali sono testati solo su specifiche fasce d’età);

ci si accontenta di vaccinare ogni italiano una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.




Indice DQP: per l’immunità di gregge dobbiamo aspettare dicembre 2022

Le autorità politiche e sanitarie, in particolare il ministro Roberto Speranza e la sottosegretaria Sandra Zampa, hanno ripetutamente dichiarato che la campagna di vaccinazione serve a raggiungere la cosiddetta immunità di gregge:

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (Roberto Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi (Sandra Zampa).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%” (Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinare l’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Per “immunità di gregge” si intende una situazione nella quale ci sono abbastanza persone vaccinate (e non in grado di trasmettere il virus) da portare la velocità di trasmissione del virus (Rt) al di sotto di 1, con conseguente progressiva estinzione dell’epidemia.

Ma quante settimane occorreranno per vaccinare un numero di italiani sufficiente a raggiungere l’immunità di gregge?

A rispondere a questa domanda provvede l’indice DQP (acronimo di: Di Questo Passo), che stima il numero di settimane che sarebbero ancora necessarie se – in futuro – le vaccinazioni dovessero procedere “di questo passo”.

All’inizio della nona settimana del 2021 (lunedì mattina, 1° marzo) il valore di DQP è pari a 93 settimane, il che corrisponde al raggiungimento dell’immunità di gregge non prima del mese di dicembre del 2022.

Il valore del DQP è nettamente migliorato rispetto a quello della settimana scorsa (immunità di gregge a novembre 2023).

Per raggiungere gli obiettivi enunciati dalle autorità sanitarie (immunità di gregge entro settembre-ottobre 2021), il numero di vaccinazioni settimanale dovrebbe essere circa il triplo di quello attuale (2 milioni la settimana, anziché 700 mila).


Nota tecnica

Le stime fornite ogni lunedì si riferiscono alla settimana appena terminata e si basano sui dati ufficiali disponibili il lunedì mattina (quindi possono subire degli aggiornamenti).

Va precisato che la nostra stima è basata sulle ipotesi più ottimistiche che si possono formulare, e quindi va interpretata come il numero minimo di settimane necessarie.

Più esattamente l’interpretazione dell’indice è la seguente:

DQP = numero di settimane necessario per raggiungere almeno il 70% degli italiani con almeno 1 vaccinazione.

A partire dalla prima settimana completa dell’anno (da lunedì 4 a domenica 10 gennaio) la Fondazione Hume calcola settimanalmente il valore dell’indice DQP (acronimo per: Di Questo Passo).

L’indice si propone di fornire, ogni lunedì, un’idea vivida della velocità con cui procede la vaccinazione, indicando l’anno e il mese in cui si potrà raggiungere l’immunità di gregge procedendo “di questo passo”.

Il calcolo dell’indice si basa su 4 parametri:

  1. una stima del numero di italiani vaccinati necessario per garantire l’immunità di gregge;
  2. quante vaccinazioni sono state effettuate nell’ultima settimana (da lunedì a domenica);
  3. quante vaccinazioni erano state effettuate dall’inizio della campagna (1° gennaio 2021) fino alla settimana anteriore a quella su cui si effettua il calcolo;
  4. che tipo di vaccini verranno presumibilmente usati (a 2 dosi o a dose singola).

Nella versione attuale l’indice si basa sulle ipotesi più ottimistiche possibili sul funzionamento del vaccino e sull’andamento della campagna vaccinale. Più precisamente:

  • i vaccini somministrati non solo proteggono i vaccinati dall’insorgenza della malattia, ma impediscono la trasmissione dell’infezione ad altri (immunità sterile);
  • l’obiettivo è vaccinare il 70% della popolazione (anziché l’80 o il 90%, come potrebbe risultare necessario);
  • sul mercato vengono introdotti vaccini per tutte le fasce d’età, compresi gli under 16 (i vaccini attuali sono testati solo su specifiche fasce d’età);
  • ci si accontenta di vaccinare ogni italiano una sola volta, trascurando il fatto che, ove la campagna di vaccinazione dovesse prolungarsi per oltre un anno, bisognerebbe procedere a un numero crescente di rivaccinazioni.



Il virus dell’autoritarismo

Nell’ultimo articolo avevo analizzato i diversi metodi di contrasto al virus adottati nel mondo, mostrando come ve ne sono almeno tre che si sono dimostrati efficaci (anche se in misura diversa) nei paesi avanzati dell’Estremo Oriente e dell’Oceania (che chiamerò “paesi del Pacifico”, dato che si trovano tutti nell’area del Pacifico Ocidentale) e, almeno nella prima fase, anche in molti paesi dell’Europa del Nord e dell’Est.

Incredibilmente, nessuno di tali metodi è stato però adottato dai paesi leader dell’Occidente. A un anno esatto di distanza dall’inizio ufficiale dell’epidemia in Europa, con la scoperta dei primi casi a Codogno il 20 febbraio 2020, è venuto il momento di chiedersi: perché?

Se fossi un complottista, la risposta sarebbe facile: infatti, anche se nessuno lo ammetterebbe mai, il virus fa comodo a un bel po’ di gente, a cominciare dalla Cina, che, essendo uscita dall’emergenza già da molti mesi, sta inondando i mercati con le sue merci in sostituzione di quelle che noi non riusciamo più a produrre. Addirittura, nel suo discorso di fine anno il presidente Xi Jinping è arrivato a definire il 2020 «un anno ottimo per il nostro paese» e per una volta non era la balla di un dittatore (quale lui è: cerchiamo di ricordarcelo), ma la pura e semplice verità. Ma il virus fa comodo anche ai governi e, più in generale, alle élites occidentali, che da tempo attraversano una grave crisi di credibilità, che grazie all’emergenza è stata, se non proprio superata, quantomeno temporaneamente accantonata.

Sarebbe quindi facile sostenere, come molti in effetti fanno, che la pandemia è frutto di un piano ordito dai dittatori di Pechino in combutta con le suddette élites occidentali. Questa teoria, però, come tutti i complottismi, si scontra con evidenze indiscutibili, prima fra tutte il fatto che è certo possibile mettere in moto intenzionalmente un processo del genere, ma nessuno sarebbe in grado di prevederne la successiva evoluzione. Inoltre, soltanto un pazzo metterebbe in circolazione un virus letale sul proprio territorio, tanto più senza disporre ancora di un antidoto: e i cinesi tutto sono tranne che pazzi. Quanto alle élites occidentali, è vero che questa vicenda le ha finora rafforzate, ma su tempi più lunghi il disastro economico che sta causando rischia di avere l’effetto opposto.

Inoltre, non solo non vi è nessuna evidenza che il virus sia stato lasciato entrare e dilagare intenzionalmente in Europa, ma, al contrario, ve ne sono molte che ciò sia dovuto ad altre cause, che sono già state ampiamente analizzate in altri articoli apparsi su questo sito, sia miei che di Ricolfi e di altri suoi collaboratori, che perciò mi limiterò a elencare, senza andare di nuovo a discuterle.

Anzitutto, incompetenza, ignoranza, limiti intellettuali e a volte perfino psicologici di molti leader ed esperti o presunti tali; poi, internazionalismo a parole, che ha portato al rifiuto ideologico di chiudere le frontiere (come invece facemmo ai tempi della Sars, avendo appena 4 contagi e zero morti) e provincialismo di fatto, che ha portato a concentrarsi solo su ciò che accade in Europa e Stati Uniti, senza guardare agli esempi virtuosi dei paesi del Pacifico; incomprensione della “matematica” delle epidemie, che ha portato ad adottare le misure preventive nella sequenza sbagliata (prima quelle blande, poi quelle dure, anziché viceversa); quindi vanità e presunzione, che hanno portato a credere al mito dell’inesistente “modello Italia”; e infine indisponibilità ad ammettere i propri errori, che hanno portato a ripeterli più volte.

Inoltre, ha pesato molto il caso, poiché sfortuna ha voluto che il primo paese europeo ad essere colpito dal virus sia stata l’Italia, che in quel momento era retta dal governo più inetto e incompetente di tutta la storia delle democrazie moderne, particolarmente (benché niente affatto esclusivamente) nella componente dei 5 Stelle, un partito che ha modellato il suo metodo su quello dei social media e il suo programma sulla pseudoscienza da blog (vedi il mio saggio Il partito di Internet, in Miti, simboli e potere, Albo Versorio, Milano 2018, pp. 333-344).

Non sapendo che pesci pigliare, ai nostri governanti non è parso vero che qualcun altro decidesse per loro, cosicché hanno seguito ciecamente tutte le disastrose indicazioni della OMS, che ha ricambiato la cortesia additandoci al mondo intero come il modello da seguire, anziché, come sarebbe stato suo dovere, quei paesi del Pacifico che fin dalla prima fase avevano fatto cento volte meglio di noi (dove “cento volte” non è un’espressione retorica, ma l’esatto ordine di grandezza del divario esistente tra noi e loro). E così Conte ha trascinato con sé nell’abisso non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente.

Tutto ciò premesso per onestà intellettuale, va però detto che la stessa onestà intellettuale impone di riconoscere che, una volta fatta la frittata, molti si sono accorti che dopotutto non era così indigesta, almeno per loro. Fuor di metafora, le élites occidentali non hanno intenzionalmente causato la pandemia, ma l’hanno intenzionalmente sfruttata a scopi di potere, cosa di cui vi sono molte prove, tanto incontestabili quanto preoccupanti.

Anzitutto, infatti, è evidente che questa situazione ha aiutato moltissimo tali élites, largamente dominanti nei palazzi del potere, ma sempre più invise ai rispettivi popoli, a mettere in riga i partiti antisistema, accusando chiunque si azzardasse a criticare le scelte dei governi di essere un “negazionista”, certo facilitati – questo va riconosciuto – dal fatto che tali movimenti tendono effettivamente ad assumere posizioni di questo tipo.

Ciò si è visto con la massima chiarezza negli USA, dove senza tutte le idiozie che ha detto sul virus Trump avrebbe asfaltato Biden come un rullo compressore, tant’è vero che perfino così ha rischiato di vincere (perché negli Stati chiave la differenza è stata di poche migliaia di voti, anche se adesso preferiamo dimenticarlo). Ma la situazione è simile in tutta l’Europa occidentale e in particolare in Italia, dove in condizioni normali lo sgangherato governo giallorosso sarebbe caduto molto prima. Anche il sostegno incondizionato ricevuto dagli altri paesi, nonché gli ormai mitici 209 miliardi del Recovery Fund, sembrano essere stati concessi a Conte assai più in riconoscimento dei suoi “meriti” nel mettere all’angolo Salvini e Meloni a colpi di (illegali) DPCM che non di quelli (inesistenti) nel gestire l’epidemia.

Sia chiaro, però, che non sto dicendo che esista un’unica regia che spiega tutto ciò che sta accadendo, né a livello italiano né, tantomeno, europeo e mondiale: ho già detto che non credo al complottismo, né in generale né per quanto riguarda la genesi e la diffusione dell’epidemia e non ci credo neanche per quanto riguarda la sua strumentalizzazione a fini politici. Certo, complotti di portata limitata sono possibili e anche in questo caso alcuni ci sono sicuramente stati, ma a livello globale non funziona così. Come ha detto qualcuno che se ne intende, «non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono». Sono parole di Luca Palamara (Il Sistema, Rizzoli 2021, p. 221), quel gentiluomo che è stato a lungo il garante di quello che lui chiama “il Sistema” e che per decenni ha deciso e continua tuttora a decidere tutte le cariche importanti della magistratura italiana. Valgono anche nel nostro caso, soltanto un po’ più in grande.

Qui, infatti, il “blocco culturale omogeneo” comprende praticamente tutte le nostre classi dirigenti (politici, giornalisti, magistrati, intellettuali, docenti universitari e – ahimè – anche scienziati) che si riconoscono in quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che ha definito molto esattamente come «un modo di operare […] basato su almeno due caposaldi: I) la subalternità rispetto agli organismi sovranazionali […]; II) la sacralizzazione della globalizzazione, del commercio internazionale e della circolazione delle persone» (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, La nave di Teseo 2021, pp. 22-23). Il primo di tali caposaldi, infatti, ha portato a ubbidire ciecamente alla OMS, mentre il secondo ha impedito la tempestiva chiusura delle frontiere.

È facile per chiunque vedere come tale ideologia ricomprenda ormai praticamente tutto l’arco costituzionale, dall’estrema sinistra fino alla destra moderata, lasciando all’opposizione solo la destra “populista”, o, più esattamente, quella che viene ritenuta tale per definizione, dato che questa è l’unica “casella” che viene lasciata (intenzionalmente) libera e in cui, di conseguenza, vengono, per l’appunto, “incasellati” tutti i movimenti eterodossi, a dispetto di qualsiasi differenza possa sussistere tra di essi.

In effetti, lo stesso termine “populista”, per come viene usato, ha ormai perso qualsiasi significato definito, per trasformarsi in una pura “etichetta” usata per demonizzare gli avversari, proprio come quella di “fascista” negli anni Settanta, tanto che potremmo addirittura formulare un terzo “caposaldo” dell’ideologia suddetta come segue: «III) Chiunque non accetti i primi due principi viene automaticamente catalogato come “populista” e, di conseguenza, considerato un “impresentabile” da emarginare al più presto dalla scena politica con qualsiasi mezzo possibile». E ciò vale non solo verso le singole persone, ma anche verso gruppi, partiti e addirittura interi Stati.

Il caso più impressionante è quello dell’Inghilterra, che, pur essendo uno dei paesi più potenti del mondo, nonché uno di quelli che più di tutti hanno contribuito a creare la suddetta “ideologia europea”, da quando l’ha radicalmente messa in discussione, non solo teoricamente, ma in pratica, con la Brexit, è improvvisamente passata tra i “cattivi” per definizione e da allora viene regolarmente denigrata da giornalisti e intellettuali (a cominciare dai suoi) a prescindere, con il più sovrano disprezzo per i fatti. Solo per fare un esempio, si è a lungo sostenuto che non essendo più in Europa avrebbe avuto problemi a trovare i vaccini, mentre la realtà è esattamente opposta: a faticare siamo noi, mentre l’Inghilterra (che ha sempre fatto molto meglio, anche prima che iniziassero i ritardi nelle forniture) ha già vaccinato oltre un quarto della sua popolazione, contro una media UE di circa il 6%, cioè quasi 5 volte inferiore (numeri vaccini italia-mondo). Eppure, avete mai sentito qualcuno ammetterlo, magari aggiungendo: “Scusate, avevo sbagliato?” No? Ecco, appunto…

Anzi, all’inizio, con un meschino trucchetto che la dice lunga sul suo infimo livello culturale e morale, il nostro governo non considerava nemmeno l’Inghilterra un paese europeo per poter sostenere che eravamo i secondi in Europa per numero di vaccinazioni, versione riveduta e corretta del mito del “modello Italia”, che per fortuna non ha fatto presa, dato che era altrettanto infondata della prima, basandosi sui numeri assoluti, che non significano nulla, anziché, come dovrebbe essere, sulla percentuale di popolazione vaccinata. Per la cronaca, l’Italia è attualmente al 42° posto nel mondo con il 5,7% di vaccinati, un po’ meno della media europea, il che – attenzione! – non significa che siamo al livello di tutti gli altri paesi europei, bensì che circa metà di essi (tra cui parecchi assai meno progrediti di noi) hanno fatto meglio e l’altra metà peggio, anche se le differenze, in entrambi i sensi, sono abbastanza piccole.

Altrettanto facile è vedere come questa ideologia in realtà non coinvolge soltanto l’Europa, ma anche USA, Canda e buona parte dell’America Latina, per cui dovremmo forse chiamarla, più correttamente, “ideologia atlantica”, anche per marcare maggiormente la contrapposizione con i paesi del Pacifico, che non la condividono (per lo stesso motivo eviterei invece di parlare di “ideologia occidentale”, dato che Australia e Nuova Zelanda, che guidano il gruppo del Pacifico, culturalmente appartengono all’Occidente). In particolare, è evidente l’uso demonizzante che anche in America viene fatto del termine “populista” nei confronti di tutti coloro che rifiutano tale ideologia, come per esempio Trump negli USA o Bolsonaro in Brasile.

Attenzione: con questo non sto dicendo che i suddetti non si meritino tale qualifica, ma soltanto che essa non viene attribuita a loro o a chiunque altro perché se la merita, ma perché non accetta l’ideologia di cui sopra. Se invece uno la accetta, anche solo a parole, poi può permettersi di fare tutto quel che gli pare senza praticamente suscitare proteste, come per esempio il dittatore venezuelano Maduro o il suo predecessore Chavez, che hanno ridotto alla fame uno dei paesi potenzialmente più ricchi della Terra nella più totale indifferenza dei nostri leader politici e intellettuali. Nemmeno la dittatura cinese, nonostante le sue gravissime e ormai accertate colpe nella diffusione del virus (oltre che in molte altre cose), viene trattata – neanche lontanamente – con la stessa ostilità riservata ai “populisti” di cui sopra: basti pensare alle nostre piazze piene (giustamente) per le violenze della polizia americana contro i neri, ma desolatamente vuote di fronte alle violenze (ben peggiori) della polizia cinese contro i manifestanti di Hong Kong.

Si capisce quindi perché tale ideologia stia suscitando una crescente insofferenza in gran parte della popolazione occidentale. E si capisce anche perché la reazione contro di essa prenda spesso forme sguaiate, “impresentabili” o addirittura violente: poiché infatti la quasi totalità delle persone istruite è organica al sistema, i “ribelli” faticano terribilmente a trovare leader all’altezza, per cui molti, pur non essendo affatto degli estremisti, finiscono col votare “turandosi il naso” per personaggi che in condizioni normali non si sognerebbero mai di prendere in considerazione.

Mi sono reso conto di colpo di quanto fosse diventato profondo questo fenomeno nel 2016, quando per la prima volta nella mia vita ho sbagliato il pronostico su un’elezione politica, non prevedendo la vittoria di Donald Trump. Riflettendo sulle ragioni che mi avevano indotto in errore, mi sono reso conto che mi ero concentrato quasi esclusivamente sulla popolarità di Trump, che giudicavo (giustamente) sufficiente per competere, ma non per vincere, mentre avevo dato per scontato (erroneamente) che quella di Hillary fosse calata solo di poco rispetto ai tempi d’oro, senza rendermi conto di quanto invece fosse ormai odiata da gran parte della popolazione. Ma il fenomeno non è solo americano: tutti gli “impresentabili” del nostro tempo, da Bolsonaro a Orbán, da Salvini alla Le Pen, vincono in questo modo.

D’altra parte, neanche gli “impresentabili” sono sempre realmente tali, giacché vale anche per i leader ciò che vale per i loro seguaci: non tutti sono davvero estremisti, ma, di fronte a un sistema che non li considera avversari da battere, ma nemici da distruggere e li spinge comunque ai margini, spesso scelgono di apparire tali per ragioni elettorali, in modo da raccogliere i voti dei veri estremisti, secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”. In realtà, però, molti di loro (benché non tutti: lo ripeto a scanso di equivoci) sarebbero ben felici di “civilizzarsi” e interloquire pacatamente con i rappresentanti dell’establishment, se tra di essi trovassero interlocutori disposti ad ascoltare le loro ragioni.

Ciò spiega, per esempio, come mai la Lega, il cui “zoccolo duro” è costituito essenzialmente da imprenditori del Nord che con l’Europa ci lavorano continuamente, pur non amando la sua ideologia, abbia subito accettato l’invito di Draghi, che per l’appunto è, o almeno potrebbe essere, uno di tali interlocutori più aperti. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei nostri commentatori politici hanno prima respinto come “impossibile” tale eventualità e poi, quando i fatti hanno dimostrato il contrario, hanno cercato di presentarla o come un tentativo contro natura destinato a sicuro fallimento o come l’inizio di una sorta di cammino di “conversione” all’ideologia di cui sopra, benché sia piuttosto evidente che non è né l’una  né l’altra cosa.

E qui arriviamo al punto più preoccupante. Quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che io ho qui ribattezzato “ideologia atlantica” è in effetti solo un’applicazione particolare (benché ovviamente assai eclatante) di un’ideologia ancora più ampia: quella del “politically correct”. Ed è proprio da essa che nasce il virus dell’autoritarismo che si sta propagando insieme a quello del Covid.

L’aspetto più paradossale del politically correct è che, volendo abolire qualsiasi tipo di discriminazione, a prima vista sembra l’esatto opposto dell’autoritarismo, ma in realtà è l’esatto opposto della tolleranza. Quest’ultima, infatti, si esercita, per definizione, verso le idee che non si condividono: essa, perciò, presuppone il disaccordo e di conseguenza la critica, purché non si traduca in discriminazione.

Ma per il politically correct la critica – qualsiasi critica – va considerata di per sé stessa una discriminazione, perché può offendere la sensibilità di chi la riceve, il che in certa misura è anche vero. Il problema, però, è che vietare le critiche è un rimedio molto peggiore del male, giacché si traduce di fatto nel pretendere che le idee altrui non debbano solo essere tollerate, ma anche condivise, il che equivale a negare la libertà di opinione, anzi, addirittura la libertà di coscienza, dato che chi non ci sta non va semplicemente ridotto al silenzio, ma “rieducato” e, se si rifiuta, ostracizzato ed espulso dalla società civile.

Tale tendenza è presente nella nostra società da parecchio tempo, ma il virus le ha fornito su un piatto d’argento l’occasione perfetta per fare un ulteriore salto di qualità, perché ovviamente è molto più facile convincere la gente a emarginare qualcuno se si dice che non solo costui è brutto, sporco e cattivo, ma sta anche mettendo in pericolo la salute di tutti. Così è nato il “pandemically correct”, che non ha fatto altro che adattare alla situazione gli stessi meccanismi del politically correct “classico”: creazione di alcune “parole d’ordine” considerate “buone” per definizione; loro imposizione attraverso un’ossessiva campagna mediatica; demonizzazione di chi chiunque dissenta, considerato per definizione “negazionista” a prescindere dal merito delle sue affermazioni; conseguente deriva dei dissidenti moderati verso posizioni estremiste per mancanza di leader dissidenti moderati; e infine, a chiudere un circolo palesemente vizioso, ma a suo modo perversamente perfetto, uso strumentale di tale fenomeno per “dimostrare” la bontà delle parole d’ordine suddette indipendentemente dalla loro reale efficacia.

Una volta di più voglio ribadire che non sto dicendo che ciò sia frutto di un complotto planetario: anche qui non c’è nessun Grande Fratello che “dà le carte”, bensì, di nuovo, “un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono”. Tuttavia, è almeno possibile indicare quale parte del suddetto “blocco” è quella che ha maggiore influenza, creando e diffondendo le “parole d’ordine” a cui tutti si devono adeguare, che è poi la stessa che da tempo crea quelle del politically correct classico: si tratta essenzialmente delle grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali, nonché dei grandi giornali e delle grandi televisioni e degli intellettuali organici a tale sistema, che sono in realtà una piccola minoranza, ma dettano legge a tutti.

Per questo a partire dal 2013 ho cominciato a parlare al proposito di “totalitarismo burocratico”, anche se in forma scritta credo che l’espressione compaia per la prima volta solo nella seconda edizione del mio libro La scienza e l’idea di ragione (Mimesis 2019). L’impressionante velocità con cui è stato creato e imposto a tutti il gergo del pandemically correct la dice lunga sul preoccupante grado di efficienza che tale meccanismo ha ormai raggiunto.

Quanto alla sua funzione “rieducativa” e quindi alla natura autoritaria (e tendenzialmente totalitaria) della mentalità da cui nasce, si potrebbero addurre centinaia di esempi, anche se per forza di cose qui ne potrò fare molti meno e saranno in gran parte italiani, ma ciò non significa che altrove le cose vadano diversamente. Comincerò da due dichiarazioni, particolarmente inquietanti e quindi particolarmente significative.

La prima è di Alberto Villani, presidente della Società Italiana di Pediatria nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico, il quale a settembre, in occasione della riapertura delle scuole, aveva dichiarato al TG1 della sera che per i bambini portare la mascherina per 5 ore filate «non è un problema, soprattutto se hanno il buon esempio in casa», sottintendendo quindi, neanche tanto velatamente, che se per caso qualche bambino avesse protestato i colpevoli sarebbero stati i genitori, che evidentemente gli davano il cattivo esempio. Per la cronaca, si tratta dello stesso signore che il 5 gennaio, quando il disastro era ormai tale che nemmeno Conte osava più parlare di “modello Italia”, in un’intervista rilasciata a La Stampa ha dichiarato che la colpa dell’aumento dei contagi era dei cenoni di Capodanno e che «sinceramente non farei cambio con nessuno: con tutti i suoi limiti, la situazione italiana è migliore di quella americana e inglese», benché in quel momento l’Italia avesse 1263 morti per milione di abitanti, l’Inghilterra 1121 e gli USA 1098. Certo, se questi sono i consulenti del governo, allora si capiscono molte cose…

La seconda è di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, che, ancora su La Stampa del 21 dicembre scorso, dopo aver mosso molte giuste critiche all’operato del governo, invece di concluderne, come logica avrebbe voluto, che dunque quest’ultimo avrebbe dovuto adottare misure diverse e più efficaci, con un triplo salto mortale senza rete affermava recisamente, senza addurre nessuna prova a sostegno, che «una politica  seria dovrebbe assumersi l’onere della chiusura responsabile e affrontare il difficile compito di far comprendere ai cittadini che la vita di prima non tornerà». Forse la mia illustre collega avrebbe bisogno di una vacanza per schiarirsi le idee, magari a Taiwan, in Australia o in Nuova Zelanda, dove, oltre a sole e mare in quantità, troverebbe “la vita di prima” già tornata da un bel pezzo…

Tuttavia, l’aspetto che mostra con maggiore evidenza la suddetta tendenza autoritaria è il tentativo, più volte denunciato anche da Ricolfi, di incolpare i cittadini di quello che in realtà è un fallimento dei governi. Certo, anche questo per un verso fa parte della loro strategia di autogiustificazione, ma c’è in esso anche qualcosa di più perverso, che ha espresso in modo impareggiabile Massimo Cacciari, a cui lascio quindi la parola.

«A partire dallo sciagurato slogan del “distanziamento sociale”, invece che di “distanza di sicurezza” o formule analoghe, è purtroppo del tutto evidente il punto di vista culturale con cui il “messaggio” è stato concepito. Quello slogan poteva venire in mente soltanto a chi ritenga un pericolo la prossimità, un’assemblea o una manifestazione un irragionevole “assembramento”, il “lieto romore” che fanno i fanciulli gridando “su la piazzola in frotta… e qua e là saltando” un intollerabile baccano. […] Ogni energia è spesa a convincerci che è in fondo più comodo lavorare di fronte a un pc che convivere e cooperare “in presenza” con colleghi, amici e magari anche nemici, che quella bella leopardiana “movida” può essere sostituita da qualche chat, che la pizza è altrettanto buona seduti sul divano di fronte a mamma tv che con gli amici in pizzeria. Invece di suscitare l’ardente desiderio di fare tutto il necessario per uscire al più presto dalla miseria dell’attuale situazione, la propaganda “in rete” ci vuole convincere che la vita del pensionato è ottima e forse, anzi, ideale. […] Bisogna, credo, insorgere contro questa deprimente narrazione, sintomo di una generale senescenza delle nostre società» (Ora proviamo a essere eroi per un anno, su La Stampa del 2/1/2021, pp. 1-19).

Mi permetto solo di aggiungere a tale esattissima descrizione che non è solo contro la senescenza che dobbiamo insorgere, perché essa va qui insieme a qualcosa di ancor peggiore. Infatti, la colpevolizzazione moralistica dei semplici piaceri della vita è da sempre tipica di tutti i regimi autoritari, perché solo chi non è contento della propria vita è disposto a venderla al potere di turno: come ha scritto una volta Clive Staples Lewis, «ho conosciuto un essere umano che ha trovato la difesa contro forti tentazioni di ambizione sociale in un gusto ancor più forte per la trippa e le cipolle» (Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 1998, p. 56).

Ora, questo qualsiasi dittatore o aspirante tale lo sa istintivamente in cuor suo, giacché egli per primo è così: un frustrato che cerca di compensare la sua incapacità di dominare la propria vita pretendendo di dominare quella degli altri, in particolare di quelli che la vita, a differenza di lui, se la sanno godere. Il grande psicanalista Giacomo Contri ha chiamato tale atteggiamento “odio logico” e l’ha riassunto nella formula “Ti uccido, dunque sono”, che non cambia molto se modificata in “Ti imprigiono, dunque sono”, equivalente “colto” del celeberrimo «State a casa o chiudo l’Italia!» pronunciato con tono da bullo di periferia dal premier-per-caso Giuseppe Conte all’inizio della crisi.

Da un lato, perciò, la pura e semplice esistenza di tali piaceri e di chi non vi vuole rinunciare è intollerabile per il dittatore di turno, giacché gli ricorda continuamente il suo fallimento esistenziale; dall’altro, a dispetto della loro apparente frivolezza, essi rappresentano per loro natura un punto di irriducibile resistenza contro qualsiasi potere, come aveva perfettamente chiaro George Orwell, colui che più di chiunque altro ne ha capito l’intima essenza. Non è un caso che anche Gesù Cristo ne avesse la massima considerazione e che per questo venisse giudicato dai moralisti di allora «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7, 33): insomma, un tipo poco serio e probabilmente anche poco responsabile, esattamente come i fautori dell’odierno pandemically correct giudicano chiunque non si dimostri entusiasta di ubbidire ai loro dogmi.

Naturalmente, già conosco l’obiezione standard a queste considerazioni, perché è anch’essa una delle suddette parole d’ordine, che ci viene ossessivamente ripetuta: “I sacrifici sono duri, ma necessari”. Peccato solo che si tratti di una balla cosmica, perché questi sacrifici sono solo duri, ma per niente necessari, non essendo serviti praticamente a nulla, se è vero, come è vero, che siamo messi peggio perfino dei paesi del Terzo Mondo.

Anzi, proprio l’insistenza su questo aspetto è stata ed è tuttora la principale causa non del contenimento, bensì della diffusione del virus, perché è ciò che ha finora impedito di capire la sostanziale differenza tra il vero lockdown, duro, breve ed efficace, in cui si chiude davvero tutto, come in Cina, in Australia e in Nuova Zelanda (ma anche, almeno nella prima fase, in Grecia e un po’ in tutta l’Europa dell’Est e del Nord), e lo pseudo-lockdown all’italiana, meno duro, ma in compenso molto più lungo e molto meno efficace.

Da noi, infatti (e per “noi” intendo non solo l’Italia, ma tutti i paesi in cui dominano l’ideologia atlantica e il pandemically correct, quindi tutta l’Europa occidentale e le Americhe), quando si parla di chiudere “tutto” in realtà si sottintende sempre “tutto ciò che può causare assembramenti”: quindi negozi, locali pubblici, attività sportive (vedi, proprio in questi giorni, l’allucinante vicenda degli impianti sciistici) e perfino le elezioni, ma non fabbriche e uffici.

Eppure, non solo il buon senso, ma anche tutti gli studi scientifici, a cominciare da quello sui primi dati cinesi pubblicato il 26 febbraio 2020 (l’unica cosa buona fatta dalla OMS in questa sciagurata vicenda, i cui principali risultati restano validi ancor oggi), indicano che la probabilità di contagio è massima tra persone adulte che stanno a lungo in ambienti chiusi, mentre quella minima è all’aperto tra giovani. È quindi evidente che l’accanimento contro i mitici “assembramenti” e, in particolare, contro la ancor più mitica “movida” ha una motivazione essenzialmente ideologica. E, come ogni ideologia, ha prodotto risultati catastrofici per i popoli, ma che per certi versi fanno invece comodo a chi sta al potere.

Una volta di più, non sto dicendo che ci sia un piano a tavolino per prolungare artificiosamente la pandemia: la realtà è sempre molto più complessa del semplicismo complottista. E tuttavia è innegabile che proprio questo, oggettivamente, sia stato l’effetto prodotto dalle misure adottate dai nostri governi allo scopo di contenerla, così come è innegabile che a ciò abbia contribuito, insieme a tutte le altre cause prima ricordate, anche la tendenza autoritaria che punta alla rieducazione dei popoli europei attraverso l’uso terroristico del pandemically correct.

Altrettanto innegabile è che ci siano già stati vari tentativi di insinuare, con le scuse più varie, che forse anche dopo esserci liberati del virus dovremmo mantenere almeno alcune delle misure attuate durante lo stato di emergenza. Alcuni, come per esempio i produttori di sistemi informatici, lo fanno per evidenti interessi economici (tra parentesi, dovremmo sempre ricordarci che gli esperti di sistemi informatici sono sempre anche produttori o quantomeno progettisti degli stessi e quindi il loro parere non è mai esattamente disinteressato), ma in altri casi la motivazione è chiaramente ideologica, anche se “travestita” da tecnica.

Tale atteggiamento ideologico diventa ancor più evidente (e più preoccupante) se consideriamo i mass media, dove la volontà, largamente maggioritaria, di sostenere a tutti i costi i governi, fregandosene altamente di quanti morti stanno causando con i loro errori pur di sbarrare la strada ai “populisti”, è non solo palese, ma spesso anche esplicitamente dichiarata: basti dire che perfino Massimo Cacciari, che, come abbiamo appena visto, è uno dei pochi critici davvero intelligenti di Conte, ha sempre sostenuto che il suo governo “non aveva alternative”, benché ciò fosse palesemente falso, come i fatti hanno appena dimostrato.

Più in generale, la “sorpresa” da tutti dichiarata per la “geniale mossa” di Mattarella di dare l’incarico a Draghi (che invece era del tutto ovvia e scontata, essendo fin dall’inizio della crisi l’unica soluzione praticabile) in parte sarà anche stata dovuta a pura ottusità, ma in parte ben più grande è stata un palese quanto maldestro tentativo di nascondere il fatto che le “analisi” che indicavano come unica soluzione possibile il Conte-Ter altro non erano che pressioni mascherate da previsioni.

Ma c’è di più e di peggio. Infatti, almeno alcuni tentativi di strumentalizzare intenzionalmente l’informazione si sono certamente verificati. Lasciando stare, per il momento, tutto il tema della manipolazione del linguaggio, che è così ampio e importante che gli dedicherò un articolo a parte, gli episodi di disinformazione sono stati talmente gravi e ripetuti che possono essere definiti adeguatamente soltanto con la parola “censura”. Anche qui posso fare solo alcuni esempi, ma confido che basteranno.

Anzitutto, spero che tutti abbiano notato come tra le interviste fatte per strada alla gente dai vari TG non se n’è mai vista neanche una in cui l’intervistato criticasse l’efficacia delle misure governative dal punto di vista strettamente sanitario, il che è chiaramente impossibile e si spiega soltanto col fatto che in onda vengono mandate solo quelle in cui l’intervistato raccomanda di ubbidire alle regole (in certi casi con toni così auto-flagellatori che viene perfino il dubbio che la cosa sia stata concordata prima). Qualche eccezione viene fatta solo per i negazionisti veri e propri, in modo da dare la falsa impressione che tutti quelli che criticano le regole siano, appunto, negazionisti.

Un altro aspetto gravissimo è l’intollerabile doppiopesismo con cui vengono abitualmente giudicate le azioni dei “correct” e degli “incorrect”. Ho detto prima che Trump si è giocato la rielezione con le idiozie che ha detto sul virus, anche se poi le sue azioni sono state assai meno scriteriate delle sue affermazioni. Tuttavia, se queste ultime sono state (giustamente) bollate come “irresponsabili” e a volte perfino “criminali”, che dire del “buon” Biden e del “grande” Anthony Fauci, che hanno sempre dichiarato di volersi ispirare al “modello Italia”, nonostante che l’Italia abbia sempre avuto molti più morti per abitante degli USA? Usando lo stesso metro, anche queste affermazioni dovrebbero essere considerate irresponsabili e criminali esattamente come quelle di Trump, anzi, ancora di più, perché se fossero state messe in pratica avrebbero causato la morte di ancora più persone. Eppure, avete mai sentito qualcuno dirlo? No? Ecco, appunto…

Comunque, la cosa in assoluto più scandalosa è il totale silenzio sulle esperienze dei paesi del Pacifico, che in alcune occasioni ha toccato vette tali che più che di censura si dovrebbe parlare di riscrittura della realtà, sullo stile di 1984 di Orwell.

Fig. 1. Per la OMS Taiwan non esiste, in quanto è considerata parte integrante della Cina.

Un primo esempio, che ha dell’incredibile, è quello di Taiwan, che nella mappa del contagio del sito ufficiale della OMS nemmeno compare, essendo considerata parte integrante della Cina. E Taiwan non è un paese qualunque, dato che è quello che se l’è cavata meglio di tutti al mondo; appena 0,34 morti per milione di abitanti, che significa che noi ne dovremmo avere appena 20! Che nessuno abbia mai denunciato questo scandalo, nemmeno i media di opposizione, che pure avrebbero tutto l’interesse a farlo, può significare una sola, incredibile cosa: che nessun giornalista è mai andato a vedere i dati ufficiali della OMS, limitandosi a commentarne le affermazioni, che spesso sono in completo contrasto con quanto emerge dai suoi stessi dati, del che però nessuno si accorgerà mai, se nessuno li va mai a guardare. Ciò rappresenta un radicale tradimento della missione del giornalista, che è quella di informare (che significa innanzitutto informarsi) e non di dividere il mondo in buoni e cattivi in base a categorie ideologiche costruite a tavolino.

Fig. 2. Capodanno senza mascherine a Auckland. Secondo la RAI erano tutti in casa a guardarlo alla TV.

Non meno assurdo è il trattamento riservato ad Australia e Nuova Zelanda. Per esempio, in occasione del Capodanno tutti i TG della RAI del 31 dicembre e del 1° gennaio (li ho controllati e registrati uno per uno, quindi nessuno si azzardi a negare) hanno accuratamente evitato di mostrare, come invece è sempre accaduto in passato, le folle che festeggiavano in strada, senza distanziamenti e senza mascherine, a Auckland, Sydney e Melbourne (nonché a Taiwan, Singapore, Bangkok e in molti altri paesi in cui il contagio è azzerato da mesi), arrivando addirittura in alcuni casi a sostenere esplicitamente che anche lì la gente avrebbe visto i fuochi d’artificio soltanto da casa.

In un caso si è arrivati ad affermare che solo in Cina la gente era scesa in piazza, peraltro sempre con le mascherine, il che costituisce un’ulteriore menzogna, perché, come si vedeva anche nel servizio da Wuhan, solo alcuni la portavano, il che significa che era una scelta personale, perché se fosse stata obbligatoria ovviamente l’avrebbero avuta tutti.

Fig. 3. I tifosi si “assembrano” festosamente senza mascherine intorno a Luna Rossa nel golfo di Hauraki. La RAI, però, ha parlato solo del mini-lockdown di 3 giorni dovuto ad appena 3 contagi ad Auckland.

La stessa cosa si è ripetuta, ma in forma, se possibile, ancor più vergognosa, con la Coppa America in Nuova Zelanda e gli Open di Australia di tennis, dove i TG e la Domenica Sportiva hanno raccontato con dovizia di particolari le imprese di Luna Rossa e dei grandi tennisti, ma non hanno mai mostrato né menzionato il pubblico che assisteva senza limitazioni e senza mascherine. Durante le telecronache, invece, per forza di cose non hanno potuto evitarlo, ma l’unico commento che ho sentito, all’inizio delle regate nel golfo di Hauraki, è stato: “Beati loro!”, come se la libertà dal virus gli fosse piovuta dal cielo per grazia divina (sulle telecronache del tennis non ho informazioni perché per scelta non guardo le Pay TV, ma, visto l’andazzo generale, non mi aspetto nulla di diverso, anche se naturalmente sarei ben felice di essere smentito).

In compenso, TG e DS si sono invece subito affrettati ad annunciare il rinvio delle regate di martedì 16 e mercoledì 17 febbraio per un mini-lockdown di appena 3 giorni deciso dalla premier Jacinda Ardern per 3 soli contagi (peraltro probabilmente “importati”) scoperti ad Auckland. Anzi, il TG3 delle 14 di domenica 14 febbraio è arrivato al punto di mettere fra i suoi titoli di apertura che “in Nuova Zelanda il virus torna a fare paura”, naturalmente guardandosi bene dal dire che si trattava, appunto, di soli 3 casi, che fino a quel momento il pubblico aveva assistito alle regate in totale libertà e che il lockdown era stato deciso non perché la situazione fosse preoccupante, ma perché proprio nell’intervenire con la massima decisione al minimo segno di contagio, prima che la situazione diventi preoccupante, consiste la “dottrina Jacinda” che ha permesso ai neozelandesi di vivere una vita praticamente normale da maggio in qua, come ho spiegato nel mio articolo del 12/01/2021.

Fig. 4. Pubblico senza mascherine agli Australian Open di tennis. Anche qui, la RAI ha parlato solo del mini-lockdown di 5 giorni dovuto ad alcuni contagi “di importazione” nell’hotel dell’aeroporto di Adelaide.

Esattamente lo stesso è successo con gli Australian Open, dove la RAI non ha mai mostrato né commentato le immagini del folto pubblico che ha assistito alle prime giornate, ma ha invece subito annunciato il mini-lockdown di 5 giorni deciso per alcuni casi scoperti ad Adelaide, peraltro anch’essi chiaramente di importazione, essendosi verificati all’Holiday Inn, l’hotel dell’aeroporto. Anche qui, nessun cenno al fatto che sia prima che dopo si è giocato con il pubblico, dato che dal 16 ottobre a oggi in Australia ci sono stati appena 5 morti su 25 milioni di abitanti, né che questo risultato strabiliante (l’Italia da allora a oggi di morti ne ha avuti 58.000) è stato ottenuto grazie alla “conversione” dell’Australia alla suddetta “dottrina Jacinda” (vedi sempre mio articolo del 12/01/2021), né infine che il senso di questi mini-lockdown è consentire il tracciamento di tutti i possibili contagi già avvenuti senza che nel frattempo se ne verifichino altri, per poi tornare rapidamente a quella normalità che noi ci sogniamo ormai da un anno, mentre i neozelandesi ne godono già da 8 mesi e gli australiani da 4.

È chiaro che una distorsione così sistematica e “mirata” della realtà non può essere attribuita soltanto all’ignoranza e all’incompetenza (che pure la loro parte la giocano), ma implica necessariamente una strategia pianificata a tavolino, che nel caso della TV di Stato non può che provenire direttamente dal governo, mentre negli altri casi è con ogni probabilità frutto di un misto di pressioni governative e di altre interne allo stesso sistema mediatico.

Di alcuni casi ho anche testimonianze certe, ma purtroppo non posso citarle, perché conoscere i fatti e poterli provare in tribunale sono due cose separate e distinte. Io stesso mi sono visto rifiutare due articoli da due diversi quotidiani (di cui, per le stesse ragioni di cui sopra, non farò il nome) perché i giornalisti a cui li avevo proposti, pur condividendoli, mi hanno detto che la direzione non li avrebbe mai accettati, in un caso per paura di ritorsioni da parte del governo e nell’altro per non metterlo in difficoltà.

La cosa più paradossale, comunque, è che questa strategia sta ottenendo l’effetto esattamente opposto a quello che si propone, facendo crescere, anziché diminuire, il numero dei negazionisti, esattamente come il tentativo di imporre i dogmi della “ideologia europea” ha fatto crescere, anziché diminuire, il numero degli antieuropeisti.

Anche il motivo è lo stesso: se infatti chi capisce confusamente che c’è qualcosa che non va nella visione ortodossa proposta dall’establishment non trova qualcuno che sia capace di spiegargli in modo chiaro e convincente che cosa esattamente non va, finirà per andar dietro a chiunque capiti, anche se ha le idee confuse come e perfino più delle sue, purché si opponga a politiche che ormai vengono ritenute inaccettabili, non tanto perché richiedono sacrifici, ma – giova ripeterlo – perché richiedono sacrifici inutili o, nel migliore dei casi, assolutamente sproporzionati ai magrissimi risultati ottenuti.

Ora, sul breve termine questo metodo ha sicuramente pagato, rafforzando il suddetto establishment, perché è più facile battere un avversario rozzo e “impresentabile” che uno preparato e intelligente, ma sul lungo periodo radicalizzare i conflitti sociali può solo avere effetti catastrofici per tutti (tra parentesi: è mai possibile che nessun fautore del politically correct si renda conto di quanto sia controproducente cercare continuamente l’appoggio dei personaggi dello spettacolo, che sono visti – più a ragione che a torto, per la verità – come dei ricchi ignoranti e presuntuosi che vivono in un modo che non ha nulla a che fare con quello della gente comune e ciononostante pretendono di farle la morale?).

I primi effetti negativi rischiamo di vederli già nei prossimi mesi, perché sta montando una diffusa opposizione che potrebbe ulteriormente rallentare il già troppo lento piano vaccinale, che a questo punto è l’unica via di salvezza che ci resta prima del baratro. Ho molti amici che, pur non essendo assolutamente contrari ai vaccini in generale, non si fidano di questi vaccini perché non si fidano di questi governi e di questi esperti. E la cosa più drammatica è che hanno ragione.

Questo è un punto molto delicato, a cui bisognerà una volta o l’altra dedicare una riflessione a parte, perché se è vero che molti scienziati hanno cercato di suggerire strategie più intelligenti ai governi (peraltro senza essere mai ascoltati), è altrettanto vero che pochissimi hanno contestato alla radice le loro politiche: nonostante l’evidenza del loro totale fallimento, quasi tutti si sono infatti limitati a proporre correzioni di aspetti particolari e soprattutto maggiore efficienza, all’interno di un quadro che fondamentalmente continuava a basarsi sugli stessi erronei presupposti.

In particolare, stupisce il comportamento dei medici: una loro sollevazione collettiva, con richiesta di un drastico cambiamento di rotta, in questa situazione non potrebbe essere facilmente ignorata, eppure non l’hanno mai neanche tentata, nonostante rischino la pelle in prima persona, tanto che ne sono già morti oltre trecento. La mia impressione, ascoltando non solo i discorsi in televisione, ma anche quelli dei molti medici che conosco (alcuni li ho pure in famiglia), è che pensino davvero che non ci siano errori concettuali di fondo, ma solo di gestione, il che è davvero incomprensibile, perché, diversamente dai non addetti ai lavori, la loro interpretazione dei dati non dovrebbe essere influenzata dalla propaganda dei media e, come abbiamo visto, quello che emerge dai dati è un quadro completamente diverso rispetto a quello delineato dall’ideologia del pandemically correct.

La sostanziale accettazione di quest’ultimo presuppone quindi un processo di autoinganno almeno in parte volontario: è quello che Václav Havel, il più lucido e profetico dei dissidenti dell’Est, nel suo capolavoro Il potere dei senza potere chiama “autototalitarismo sociale” e che ricorda molto il meccanismo descritto pochi giorni fa su questo stesso sito dal politologo Paolo Natale. Ma, come ho detto, ne parleremo un’altra volta.

Ciò che invece adesso dobbiamo sottolineare è quanto sia pericoloso l’atteggiamento delle nostre attuali classi dirigenti, la cui stragrande maggioranza reagisce all’avanzata dei negazionisti esattamente come a quella dei populisti (peraltro ormai visti sostanzialmente come la stessa cosa): demonizzandoli ancor più e insistendo a volerli “rieducare” anziché provare ad ascoltarli, senza fare di tutta l’erba un fascio e distinguendo, tra le diverse posizioni, quelle assolutamente infondate da quelle che invece nascono da preoccupazioni assolutamente legittime e giustificate.

Questo si è visto in modo emblematico in America, dove la prima “geniale” mossa della strategia di Biden per “riconciliare il paese” è stata sostenere a spada tratta l’impeachment per Trump, tra l’altro contrario alla logica prima ancora che alla Costituzione, dato che l’impeachment non è un processo penale, bensì la «messa in stato d’accusa di persona che detiene un’alta carica pubblica, ritenuta colpevole di azioni illecite nell’esercizio delle proprie funzioni, allo scopo di provocarne la destituzione» (Dizionario online di Oxford Languages) e quindi per definizione non si applica a chi sia già stato rimosso dalla sua carica, “per la contradizion che nol consente”, qualsiasi cosa pensino e votino gli illustri membri del Congresso. È vero che tecnicamente la motivazione dell’accusa era la sua presunta responsabilità nell’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si trattava in realtà di un attacco a tutta la sua politica e innanzitutto alla gestione dell’epidemia.

Ora, se voi foste dei sostenitori di Trump, magari anche moderati e critici verso l’atteggiamento che ha tenuto nella fase finale del suo mandato, come vi sentireste ora: più o meno inclini a riconciliarvi con Biden? La risposta è ovvia quanto la domanda, e di conseguenza il fatto che praticamente nessuno se la sia posta dimostra una volta di più come “riconciliarsi con l’avversario” nel linguaggio del politically correct significhi in realtà “rieducarlo”.

Del tutto analoga è la situazione nostrana, emblematicamente rappresentata dalla celeberrima espressione “sciamani d’Italia” che Massimo Giannini, direttore di La Stampa nonché ex vicedirettore di Repubblica nonché autoproclamato esperto del virus per il solo fatto di esserselo beccato (ed esserne fortunatamente guarito), ha «usato per definire le reazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni al quasi golpe di Washington» (Gli sciamani e la mia risposta alla Meloni, editoriale di La Stampa dell’11 gennaio 2021, p. 1).

A parte che parlare al proposito di “quasi golpe” significa o essere fuori dal mondo o essere in malafede, anche qui la motivazione tecnicamente si riferisce all’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si tratta in realtà di un attacco a tutta la loro politica, a cominciare dalla scelta del vocabolo, che allude sì alla loro presunta vicinanza all’incredibile personaggio che ha guidato il suddetto assalto (il che dimostra quanto si fosse lontani anni luce da un vero golpe), ma anche – e certo non casualmente – a un loro presunto atteggiamento antiscientifico, che in parte, come ho già detto, in quei partiti esiste davvero, ma non giustifica quello che è a tutti gli effetti un mero insulto (pesante) e non una critica razionale. Anche il tono generale non era quello di chi critica un avversario, ma di chi lancia una scomunica, tant’è vero che le loro rispettive parti politiche nello stesso articolo sono definite «parte del problema» in quanto «ambigue, […] reticenti, […] anomale, […] populiste, […] radicali, […] illiberali, […] a-repubblicane» e perciò «inadatte a governare un Paese» (ibidem, p. 9). E non si tratta certo di un caso isolato, anche se è quello che ha fatto più notizia.

Del resto, il fatto stesso che due dei tre più grandi quotidiani italiani abbiano potuto scambiarsi come se niente fosse direttore e vicedirettore, nonostante un orientamento politico e culturale in teoria piuttosto diverso, la dice lunga su quanto l’omogeneità culturale prodotta dalla condivisione dei dogmi della “ideologia atlantica” nonché del politically e del pandemically correct sia ormai di gran lunga più profonda e più forte di qualsiasi altra differenza, nonché su come tale “blocco culturale” si muova ormai davvero “all’unisono”, formalmente rispettando le regole democratiche, ma nella sostanza comportandosi in modo sempre più intollerante.

Il dramma è che pochissimi dei nostri leader sembrano aver capito la necessità di cambiare rotta (speriamo, per il bene di tutti, che uno di essi sia Draghi, anche se per quanto riguarda la gestione dell’epidemia in senso stretto non c’è da farsi troppe illusioni, come dimostra la conferma alla Sanità del ministro Speranza, uno dei principali colpevoli del disastro italiano).

Eppure, un esempio, per giunta non teorico, ma concretissimo, che “un altro modo è possibile” ci sarebbe ed è rappresentato ancora una volta dalla Nuova Zelanda, dove negazionisti e populisti (che prima c’erano anche lì) sono praticamente spariti, non per magia, ma grazie al comportamento radicalmente diverso tenuto dalla giovanissima Jacinda Ardern, eletta premier per la prima volta nel 2017 ad appena 37 anni.

Anzitutto, infatti, lei si è sempre assunta la responsabilità delle proprie azioni in base ai risultati che hanno determinato, anziché giustificarle in base ai principi che le hanno ispirate, come usa da noi. Basti dire che quando due turiste inglesi trovate positive all’aeroporto per una svista erano state lasciate andare anziché metterle in quarantena la signora Jacinda andò subito in televisione e disse che si trattava di «un fallimento inaccettabile del sistema», cioè innanzitutto suo.

Eppure, si trattava di appena due casi che le erano sfuggiti dopo che aveva già azzerato il contagio, con appena 25 morti su 5 milioni di abitanti! Nessuno si sarebbe certamente sognato di biasimarla, se non si fosse scusata. E invece no! Chiedendo ai suoi concittadini di accettare il lockdown totale lei aveva promesso in cambio la totale eradicazione del virus, quindi anche due soli casi erano inaccettabili. L’abisso che passa tra il suo atteggiamento e quello di Conte, nonché di tutti gli altri leader “atlantici” si riflette con esattezza matematica nell’abisso tra i suoi risultati e i loro.

Ma non basta. Infatti, dopo essere stata rieletta trionfalmente il 17 ottobre scorso con la maggioranza assoluta (come era logico, visti i risultati ottenuti) che ha fatto Jacinda? È andata in televisione a bacchettare i suoi avversari e a vantarsi di quanto era stata brava? Manco per sogno! La sua prima dichiarazione è stata: «Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, un luogo dove sempre più persone hanno perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che in queste elezioni la Nuova Zelanda abbia dimostrato di non essere così. Ma una nazione che sa ascoltare, discutere. Siamo troppo piccoli per perdere di vista la prospettiva degli altri. Le elezioni non sempre uniscono le persone. Ma non significa che debbano dividerle».

Dopodiché, anche se avrebbe potuto governare tranquillamente da sola, si è immediatamente messa al lavoro per creare un governo di coalizione sostenuto dalla più ampia maggioranza possibile, tra cui tantissime donne (senza bisogno alcuno di “quote rosa”) e, cosa ancor più rivoluzionaria, tantissimi parlamentari di etnia maori, affidando non qualche sottosegretariato, ma nientemeno che il Ministero degli Esteri a Nanaia Mahuta, imparentata con la famiglia reale dei Maori.

Questa è riconciliazione. Questa è inclusione. Questa è educazione (e non “rieducazione”) del popolo. Questa è, in una parola, politica, nel senso migliore del termine.

Perché non proviamo a fare lo stesso anche noi?

 




Modello orientale?

La politica sanitaria del governo Conte bis “ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia”.

Potrebbe essere un riassunto, rozzo e semplicistico, del mio ultimo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia). E invece no. Ora a riconoscere questi due tristissimi fatti – le vite umane perdute, i punti di Pil bruciati – è nientemeno che Walter Ricciardi, il consulente principe del ministro Speranza, che ci spiega che “nel precedente governo” il ministro stesso “trovava un muro”, perché a prevalere era “la linea di chi voleva convivere con il virus”.

Nella sostanza, un atto di accusa gravissimo verso il ministro della salute. Se è vero che, fin da ottobre, il consulente lo avvertiva della pericolosità della linea sanitaria adottata, e se è vero che il ministro ne condivideva analisi e suggerimenti, allora come ha fatto, il ministro stesso, ad avallare una linea che avrebbe “causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia” ?

Volendo lasciar da parte il passato (peraltro greve di responsabilità, di cui mi auguro che a un certo punto qualcuno si faccia carico), ora che Draghi sta per enunciare il suo programma ci piacerebbe che venisse finalmente detta una parola chiara sulla politica sanitaria svolta finora e su quella futura. Perché, arrivati a questo punto, noi italiani siamo davanti a un paradosso davvero singolare. Da una parte, un ministro della sanità che viene confermato non si sa se per proseguire o per capovolgere la disastrosa politica sanitaria adottata fin qui. Dall’altra, un coro di critiche diametralmente opposte: per buona parte della destra il disastro è stato chiudere troppo, per Ricciardi e per la maggior parte degli studiosi indipendenti il disastro – se mai – è stato chiudere troppo tardi e troppo poco.

Ciò detto, il j’accuse retrospettivo di Ricciardi è comunque più che mai opportuno e saggio. Aspettavamo da mesi un discorso del genere, chiaro e coraggioso, che mettesse finalmente i cittadini di fronte alla grave situazione che abbiamo davanti: il piano di vaccinazione che ritarda, e l’incubo delle varianti emergenti.

Ma è sui modi che abbiamo per uscirne, che dobbiamo interrogarci. Ricciardi propone l’abbandono del protocollo occidentale (che persegue la mitigazione dell’epidemia) a favore del protocollo orientale e dell’emisfero Sud (che persegue la soppressione del virus). Un cambio di passo davvero decisivo, una clamorosa inversione di rotta, cui personalmente non posso che plaudire, come non possono che plaudire quanti, come  gli studiosi di Lettera 150, lo hanno invocato fin dalla primavera scorsa.

I cardini del passaggio, secondo Ricciardi, dovrebbero essere tre: “lockdown breve e mirato, tornare a testare e tracciare, vaccinare a tutto spiano”. Ed è qui la domanda nevralgica: è questa la sostanza del protocollo dei paesi lontani, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda, che ce l’hanno fatta a ridurre quasi a zero la circolazione del virus? (lascio volutamente fuori dalla lista la Cina, che Ricciardi evoca ma, in quanto dittatura, è un modello improponibile in un paese democratico).

A me sembra che il modello dei paesi lontani sia molto più complesso. Intanto, ovviamente, i vaccini non potevano far parte delle loro armi di difesa; e poi, non esiste una ricetta unica di quei paesi; infine, il lockdown assai raramente costituisce l’ingrediente fondamentale.

Il lockdown può anche diventare assolutamente necessario (come lo è oggi in Italia), ma non è la via maestra per la soppressione del virus. È il primo e doveroso passo, a cui però vanno affiancate altre misure, senza le quali si rischia un ulteriore fallimento.

Le ricette dei paesi lontani hanno due ingredienti basilari comuni: il controllo rigoroso delle frontiere da parte del governo, e il rispetto scrupoloso delle regole di distanziamento e autoprotezione da parte dei cittadini, entrambe condizioni che in Italia non si sono mai verificate.

E hanno poi ingredienti specifici, altrettanto basilari: il tracciamento elettronico (anche a scapito della privacy), l’uso sistematico e generalizzato delle mascherine, la stretta sorveglianza sul rispetto della quarantena, i tamponi di massa, e infine, sì, i lockdown duri e circoscritti. Ogni paese ha scelto un mix diverso dei vari ingredienti, ma il punto è che tutti hanno messo in campo più di un tipo di misura, perché una o due misure soltanto non bastano.

E noi? Facciamoci qualche domanda. Noi saremmo disposti a rinunciare alla privacy e lasciarci tracciare, rispettare rigorosamente le regole, indossare sempre le mascherine FFP2, sugli autobus, nei negozi, per strada? Saremmo disposti a controllare le frontiere (e chiuderle addirittura, in alcuni casi), nei modi in cui avviene per esempio in Giappone, dove i viaggiatori che arrivano in aeroporto vengono sottoposti a test in entrata e in uscita, e il governo pretende di sorvegliare la quarantena con il Gps?

Non è un caso che noi europei, noi occidentali, abbiamo perseguito il modello del mitigare e non quello del sopprimere, ovvero, per dirla con una formula che ormai ci è familiare: noi europei abbiamo scelto la filosofia del “convivere col virus”. Filosofia che ora, di fronte alle varianti pericolose che ci invadono, ci rendiamo conto che non può più funzionare.

Se ora volessimo davvero cambiare modello, dovremmo smettere i panni europei, la mentalità occidentale e, non dico diventare orientali, ma almeno provarci.

Quel che voglio dire è che un lockdown duro ora non basta. Ben venga, anche se – non mi stancherò mai di dirlo – il lockdown non è la soluzione, bensì semplicemente il certificato di fallimento della politica sanitaria. Ben venga, perché arrivati a questo punto, non ha alternative: ma deve più che mai, ora, accompagnarsi all’attuazione di molte, se non tutte, le altre misure di contenimento e prevenzione. Soprattutto perché la campagna vaccinale non potrà avere effetti apprezzabili prima dell’estate, e più che mai ove tale campagna dovesse subire ulteriori ritardi; e perché intanto le varianti ad alta trasmissibilità accelerano la circolazione del virus. In questa situazione, un inasprimento delle misure attuali non accompagnato da tutto il resto non basterà certo a sradicare il virus.

Questo ci aspettiamo che il nuovo governo ci sappia indicare, con chiarezza e coraggio. Perché la delusione più grande sarebbe ascoltare l’ennesima ripetizione della promessa di “fare tutti gli sforzi per accelerare la campagna vaccinale”, magari accompagnata da qualche concessione alla linea della prudenza, ma senza un chiaro e dettagliato cronoprogramma su tutto quel che ancora non si è fatto, o si è appena iniziato a fare.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 febbraio 2021