Una mela mezza avvelenata – Sull’eredità (sanitaria) del governo Draghi

Il primo anno di Draghi al governo si è concluso con una conferenza stampa autocelebrativa a 360 gradi, dalla politica economica alla politica sanitaria.

Sul modo in cui il governo Draghi ha gestito l’economia italiana fin qui, è difficile pronunciarsi oggi. Troppe azioni sono incompiute, troppe nuvole si addensano sul versante dell’occupazione, dei prezzi, dei conti pubblici. Solo il tempo potrà dirci fino a che punto l’autolode pronunciata dal premier nella conferenza di fine anno sia giustificata, o non sia stata un tantino prematura.

Sulla gestione della pandemia, invece, un bilancio è possibile. Anzi è necessario. Perché se non capiamo qual è la logica con cui ci si è mossi fin qui, difficilmente potremo orizzontarci nel complicato futuro che ci attende.

Dunque, proviamo a ripercorrere questo terribile 2021. Qual è stata la stella polare del governo Draghi?

A me pare che, fondamentalmente, la stella polare sia stata la credenza, assoluta e quindi anti-scientifica, nel potere salvifico dei vaccini. E’ una deriva che non è stata inaugurata da Draghi (era già in atto durante il governo Conte), ma che Draghi ha pienamente e convintamente assecondato. Accoppiandola con la scelta, questa sì diversa da quella del governo precedente, di perseguire il ritorno alla normalità a qualsiasi costo. Dove ritorno alla normalità ha significato, in sostanza, scegliere sempre – nei momenti critici – la strada delle aperture, ignorando le voci di chi ne sottolineava rischi.

E’ importante notare che questa sordità nei confronti delle preoccupazioni del “partito della prudenza” si è manifestata sia in primavera, con la scommessa del “rischio ragionato” (17 aprile), con cui il premier annunciava un progressivo allentamento delle restrizioni, sia in autunno, con la scelta di lasciar correre l’epidemia fino a Natale.

La differenza fra le due situazioni è cruciale. Ad aprile le preoccupazioni del “partito della prudenza”, che profetizzava 5-600 morti se si fosse aperto prematuramente, non avevano una base statistica solida (proprio per questo ne presi le distanze, con un articolo sul Messaggero). E infatti l’estate trascorse senza troppi drammi, e si incaricò di mostrare che la scommessa di Draghi non era azzardata.

A ottobre e novembre, invece, le preoccupazioni del partito della prudenza erano diventate perfettamente giustificate, perché nel frattempo – fra maggio e agosto – erano intervenuti una serie di fatti e scoperte nuove, che alteravano drasticamente il quadro.

  1. Nessuno dei vaccini approvati è sterilizzante.
  2. L’immunità di gregge non è raggiungibile, neppure vaccinando il 100% della popolazione.
  3. La protezione assicurata dai vaccini è molto più breve del previsto.
  4. La variante delta, molto più trasmissibile di tutte quelle precedenti, neutralizza buona parte dei vantaggi apportati dai vaccini (detto brutalmente: un vaccinato in presenza della delta corre più o meno il medesimo rischio di infezione di un non vaccinato ai tempi del virus originario).
  5. Anche i vaccinati possono contagiarsi e contagiare gli altri, sia pure con minore probabilità dei non vaccinati.
  6. La trasmissione del virus per aerosol, ostinatamente negata (anzi bollata come fake news) dall’OMS, rende estremamente pericolose le interazioni negli ambienti chiusi.
  7. A parità di altre condizioni, il mero arrivo della stagione fredda, con l’abbassamento delle temperature e la fine della vita all’aperto, comporta un sensibile aumento dei contagi, e quindi delle ospedalizzazioni e dei decessi.

Di fronte a queste novità, come ha reagito il governo?

Sostanzialmente come se non esistessero. Se le avesse prese in considerazione avrebbe fatto altre scelte.

Ad esempio: partire con le terze dosi ad agosto, anziché a ottobre; non alimentare la credenza che, se ci si incontra solo fra vaccinati, non si corrono rischi; rafforzare il trasporto pubblico locale; caldeggiare l’uso delle mascherine ffp2 negli ambienti chiusi; iniziare a introdurre la ventilazione meccanica controllata nelle scuole, come più volte richiesto da studiosi indipendenti e opposizione parlamentare.

La linea seguita, invece, è stata un’altra: lasciare che il virus corresse, contando sul fatto che, grazie ai vaccini, le ospedalizzazioni e i decessi non sarebbero stati numerosi come in passato.

Questa impostazione, finita l’estate, ha condotto a un enorme aumento dei contagi, di cui ora si tenta di incolpare la variante omicron. Ma è una imputazione fuorviante: l’aumento del numero di contagi era iniziato già a metà ottobre, e quando è arrivata omicron (inizio dicembre), la situazione era già ampiamente fuori controllo. La nuova variante si è limitata ad accelerare ulteriormente la corsa del virus, scatenando il panico fra i cittadini, e fornendo alla politica qualche argomento per nuove restrizioni.

Il confronto con il Natale dell’anno scorso è impressionate. Allora i casi giornalieri erano la metà di oggi e, soprattutto, la curva dei contagi era in picchiata da 6 settimane. Oggi i contagi sono il doppio dell’anno scorso e la curva è in salita vertiginosa da ben 9 settimane. E non si pensi che lo sia in tutto il mondo, o in tutta Europa: da molte settimane le curve dei contagi sono in regresso in quasi tutti i paesi dell’Est, e pure in diversi paesi occidentali: Austria, Olanda, Belgio, Germania, Norvegia, Grecia.

Ma per il governo l’unica cosa che conta sono i decessi e i posti letto occupati che, grazie ai vaccini, sono molti meno dell’anno scorso. Il numero di contagiati pare non contare nulla, in barba all’allarme lanciato sulle conseguenze del long-covid, buone per convincere i genitori a vaccinare ragazzi e bambini, ma stranamente dimenticate quando l’ennesimo bollettino sanitario certifica il numero di nuovi positivi, come se per questi ultimi il long-covid non esistesse.

A quanto pare, finché gli ospedali non scoppiano, si può continuare a non fare quasi nulla per fermare l’epidemia. La parola d’ordine è, e resta: normalità ad oltranza.

Obiettivo sacrosanto, ma la vera domanda è: qual è il costo economico di aver lasciato correre il contagio?

Perché è vero che il mondo dell’economia ha molto beneficiato di questi mesi di riconquistata (quasi) normalità, ma è forse ancora più vero che il non aver fatto quasi nulla per attutire l’impatto della stagione fredda ha fatto riesplodere i contagi, e così ha finito per risvegliare il nemico numero uno dell’economia: la paura di infettarsi, che frena i consumi e abbatte la mobilità delle persone.

Eppure dovrebbe essere chiaro: per proteggere gli ospedali può (forse) bastare contenere il numero dei malati gravi e dei decessi, ma per proteggere l’economia occorre anche contenere il numero di contagi. Perché è il rischio di infettarsi che governa la paura, ed è la paura che governa i comportamenti economici. Lo vediamo con i nostri occhi in queste vacanze natalizie, in cui la paura sta falcidiando gli introiti delle vacanze natalizie, e rischia di mettere a repentaglio quel che resta della stagione turistica invernale. Nulla fa presagire, infatti, che gennaio e febbraio non ci riservino nuove restrizioni e nuovi sacrifici, allontanando ancora una volta il sogno della normalità.

Ecco perché, sul bilancio di Draghi in conferenza stampa, resto alquanto perplesso.

La sua eredità è come una mela, metà economia e metà sanità. E’ possibile che, alla fine, la metà economica risulti abbastanza integra. Lo speriamo tutti. Ma la metà sanitaria rischia di rivelarsi avvelenata per chiunque si troverà al timone dell’Italia nel 2022.




Covid, la lezione ignorata del Titanic

Una nuova ondata epidemica attraversa l’Europa da mesi: da metà ottobre l’indice Rt ha preso ad aumentare anche nei Paesi posti più a sud e più ad ovest, inizialmente risparmiati dalla recrudescenza dei contagi, facendo così vacillare la convinzione (l’illusione?) che queste nazioni – Portogallo, Spagna, Italia – si fossero salvate grazie al maggiore tasso di vaccinazione della loro popolazione. Per la seconda estate di seguito – già durante quella del 2020 dieci illustri scienziati italiani avevano firmato il manifesto di morte di Sars-CoV2 – si è colpevolmente dato vita ad una narrazione secondo la quale il morbo era stato sconfitto, il peggio era alle spalle. Un racconto non aderente al reale, cognitivamente dissonante, che provava a giustificare i comportamenti singoli e collettivi e che andava inserendosi in una più ampia cornice narrativa dove – a suggello di un 2021 descritto come straordinariamente positivo – trovavano posto una serie di successi nazionali tra i più vari: dal maggiore prestigio internazionale del nuovo Presidente del Consiglio alla crescita del PIL, passando per vittorie sportive e canore. Nel mentre, errori, ritardi, omissioni, contraddizioni hanno continuato (e, purtroppo, continuano) a caratterizzare – ad onor del vero non solo nel nostro Paese – la gestione della pandemia. Si è pensato di poter applicare soluzioni semplici ad un problema complesso. Si è puntato quasi tutto sui vaccini, demandando quindi quasi interamente a soggetti privati (le aziende farmaceutiche) la realizzazione di strumenti in grado di proteggerci dal contagio e dalle sue conseguenze. È rimasto inascoltato l’invito di chi suggeriva di coinvolgere nella gestione dell’emergenza anche figure esterne al mondo sanitario, quali ingegneri, fisici, matematici. Poco o nulla è stato fatto sul fronte dei trasporti e sulla qualità dell’aria negli ambienti chiusi, su cui pure si dovrebbe agire, per quanto siano richiesti un impegno economico e uno sforzo organizzativo poderosi.  È stato parzialmente dismesso il lavoro a distanza. È stato riaperto tutto o quasi tutto a piena capienza. Non è stato imposto l’uso di maschere FFP2 neanche in contesti chiusi ad elevato rischio di trasmissione. Per la scuola poco, anzi nulla, è stato fatto, se non smantellare parte dell’esame di maturità, adducendo come motivazione il pericolo dei contagi, i quali inevitabilmente a fine giugno / inizio luglio saranno più contenuti per ragioni legate al clima. A proposito di clima, si è fatto finta di non sapere che l’abbassamento delle temperature avrebbe favorito moltissimo la diffusione di Sars-CoV-2 e portato ad una moltiplicazione dei casi. Il tracciamento è stato in parte abbandonato, le risorse investite nel sequenziamento genetico delle varianti circolanti non sono state sufficientemente incrementate. Abbiamo ignorato l’eventualità che, dopo la beta e la delta, comparse l’una a pochi mesi di distanza dall’altra, potesse diffondersi una nuova variante virale capace di sparigliare ancora una volta le carte. È stata data voce ad esperti (forse anche presunti tali), assecondandone le ambizioni personali, consentendo loro di iperesporsi, aumentando il rischio che potessero abbandonarsi anche a considerazioni poco caute e facendo perdere valore – perché inflazionate – alle loro parole, anche quando dettate dal buon senso. Alla maggior parte delle persone d’età compresa tra i sessanta e gli ottanta anni non è stato somministrato il vaccino, tra quelli disponibili, dotato di maggiore efficacia. Si è coltivata l’illusione secondo la quale all’aumentare del numero totale di dosi somministrate nel Paese, e quindi del numero di soggetti vaccinati, corrispondesse un aumento progressivo del grado di protezione di cui la popolazione godeva, quando invece era già intuibile che la progressiva perdita di efficacia dei vaccini stava conducendo di fatto ad un abbassamento del livello di immunizzazione collettiva. Quando era già noto che l’efficacia dei vaccini andava riducendosi ben prima che fossero trascorsi 6 mesi dall’inoculo, la durata del Green Pass è stata prolungata da 9 a 12 mesi. È stata fatta partire con ritardo la campagna di somministrazione delle dosi di richiamo, quando da mesi – per le ragioni appena esposte – era evidente l’urgenza di procedere in tale direzione. Sono state autorizzate molteplici combinazioni vaccinali sì da rendere difficilissimo in futuro stimare in modo attendibile il grado di protezione della popolazione. Temendo forse una ridotta adesione alla campagna vaccinale, è stato raccontato che i vaccini avessero una capacità prossima al 100% di proteggere da malattia grave / ospedalizzazione / morte, che si sarebbe raggiunta l’immunità di gregge una volta superato un certo valore soglia di persone vaccinate (valore rivisto più volte al rialzo) e che, almeno da un certo momento in poi, il problema era rappresentato dai soli non vaccinati. L’attenzione collettiva è passata, quasi schizofrenicamente, da coloro che cercavano di saltare la fila per vaccinarsi prima degli altri a chi della vaccinazione proprio non ne voleva sapere. Cogliendo nel Paese il mutato “sentiment”, ed anzi alimentandolo – può dirsi infatti archiviata da tempo la stagione in cui si cantava dai balconi e ci si commuoveva di fronte alla fila dei carri con dentro le bare – si è fatta abbassare la guardia ai vaccinati, promettendo loro libertà in cambio della vaccinazione, secondo la logica premiale (e basata sulla infantilizzazione dei cittadini) del do ut des. Ogni opinione critica è stata considerata eretica, accostata alle posizioni più estremiste e meno sensate di chi a prescindere era contro vaccini e Green Pass, e fatta apparire ridicola; sono stati costretti coloro che la esprimevano a premettere, prima di ogni cosa, a mo’ di salvacondotto necessario per essere presi più o meno sul serio, di essere a favore dell’uso di vaccini.  Appare oggi chiaro quanto miope e pericoloso sia continuare a pensare di poter risolvere tutto per mezzo di vaccini (in particolare, di questi vaccini) e certificati vaccinali.

Torna alla mente a questo proposito la lezione del Titanic. Il Titanic aveva un doppio fondo cieco che quindici paratie, dislocate lungo tutta la lunghezza della nave, separavano in sedici compartimenti stagni. Era stato costruito in modo tale da rimanere a galla con due dei compartimenti intermedi oppure finanche con tutti i primi quattro compartimenti di prua completamente allagati, e per questo era stato considerato inaffondabile. Nessuno aveva immaginato che potesse realizzarsi un urto così violento da creare uno squarcio tale da allagare un numero di compartimenti stagni maggiore. Non tutte le paratie avevano la stessa altezza: le prime due e le ultime cinque arrivavano al ponte D, mentre le altre otto raggiungevano il ponte E. È stato calcolato che se le paratie fossero state più alte, la nave forse non sarebbe affondata. Il motivo per cui non vennero costruite paratie così alte fu per ricavare in prima classe grandi ed eleganti saloni dove i viaggiatori potessero intrattenersi piacevolmente, socializzare, ballare, giocare, divertirsi spensieratamente mentre – abbagliati com’erano dalle luci scintillanti dei grandi lampadari di cristallo – barattavano più o meno inconsapevolmente la propria sicurezza con un effimero benessere.

Il Green Pass è stato, ed è tuttora, uno strumento coercitivo che è servito al suo scopo, giusto o sbagliato che fosse: spingere un maggior numero di persone a vaccinarsi. Vaccini e Green Pass non possono e non devono, però, essere intesi come paratie in grado di suddividere i membri di una popolazione in due distinti compartimenti e di mettere uno di questi due gruppi in assoluta sicurezza. Oggi più che ieri, poiché all’orizzonte si intravede sempre più vicina una minaccia potenzialmente in grado di produrre un urto più violento e uno squarcio più ampio di quelli che finora ci eravamo figurati. Molti, moltissimi errori sono stati compiuti, altrettanti allarmi sono rimasti inascoltati. Non è ancora troppo tardi, forse, per correggere la rotta ed evitare il peggio. Mettere in atto da subito – e questa pare essere la direzione lungo la quale si è avviato il nostro Governo – le uniche strategie che possano essere adottate con immediatezza: regole più severe anche per i vaccinati, come l’obbligo delle mascherine FFP2 e dei tamponi in determinati contesti; per quanto doloroso, progressivo ma temporaneo inasprimento delle misure di distanziamento fisico, evitando di agire in ritardo come avvenuto in passato (i peggiori nemici dell’economia si sono rivelati in passato gli “aperturisti”). Varare contestualmente, però – e qui di nuovo tutto sembra essere fermo come in un doloroso déjà vu – strategie integrative, la cui realizzazione richiede tempo; strumenti che possano affiancarsi ai vaccini innanzitutto dove questi risultano meno efficaci, e cioè nel contenimento dei contagi, ma anche in grado di ridurre l’incidenza della malattia grave: fronte sul quale – almeno fino a questo momento – i vaccini hanno dato i migliori risultati. Ricordando infine che, contrariamente agli attuali vaccini anti-Sars-Cov-2, almeno parte di tali strumenti avranno modo di poter essere sfruttati anche laddove dovessero emergere (ed emergeranno…) nuove varianti, ed anche in presenza di futuri eventi pandemici sostenuti da diversi agenti infettivi. Perché – lo dobbiamo a noi stessi e a chi di noi non c’è più – gli ultimi due anni ad imparare almeno due cose devono esserci serviti: ad analizzare con lucidità e spirito critico il presente, a costruire con lungimiranza e slancio immaginativo il futuro.