Germania e Italia di fronte al sovranismo giuridico

Nel dibattito culturale più recente si parla assai spesso di “sovranismo”; termine che viene inteso pressoché invariabilmente in senso politico, ossia come una rivendicazione della prevalenza degli interessi economici e strategici del singolo Stato rispetto a quelli di altri stati ovvero all’attività e all’agenda di enti e istituzioni sovranazionali. In Italia (e in Europa) il tema si concentra peraltro sulla possibilità di rivendicare maggiori spazi di autonomia a favore degli Stati membri, di fronte al crescere dei vincoli imposti dall’Unione Europea all’azione politica nazionale, sia mediante il ricorso sempre più frequente a direttive e regolamenti nei più disparati settori, sia – più di recente – mediante l’imposizione di condizioni di politica economica e fiscale (le famose “condizionalità”) in seguito alla concessione di aiuti finanziari agli stati membri da parte degli enti che fanno capo all’UE.

Il tema del sovranismo può in realtà essere trattato in termini ben più generali (e meno conflittuali) declinandolo in senso giuridico, ossia come uno dei possibili modelli di gerarchia costituzionale delle fonti del diritto, identificandosi in particolare con quello che vede prevalere le fonti di diritto nazionale – e, in particolare, le norme della costituzione nazionale – rispetto alle norme primarie e secondarie di diritto internazionale (e dunque anche comunitarie).

Sul punto occorre tuttavia svolgere un chiarimento preliminare: l’Unione Europea – in particolar modo la Corte di Giustizie UE – rivendica da sempre e con forza il primato del proprio diritto rispetto a quello degli Stati Membri. Sennonché, pare a chi scrive che proprio il fatto che gli organi UE trovino necessario ribadire diverse volte una certa cosa (nella specie, appunto, il primato del diritto UE), conferma che quella cosa tanto certa poi non è. E non lo è nel senso – evidente a chiunque, anche se non giurista – che, al di là degli argomenti che può indicare la Corte di Giustizia per sostenere le sue tesi, l’UE in ultima analisi è solo un insieme di burocrazie e organi che producono norme giuridiche, ma non ha né un popolo né un territorio “propri”. Dunque l’UE – che esiste, opera (e ha la tendenza a concepire sé stessa) come se fosse un super-stato – in realtà uno stato non è, sia perché non fonda la propria sovranità su un suo popolo sia perché non è in grado di amministrare da sé quella sovranità su un proprio territorio, non avendo né un esercito né una polizia né un insieme di tribunali e altri organi che gli consentano di far rispettare coercitivamente le norme che promulga, dovendosi viceversa valere, per ottenere quel risultato, del “braccio secolare” degli Stati membri. Se dunque l’UE – in via di fatto – esiste solo perché “può comandare in casa d’altri” è evidente che la sua stessa esistenza – ossia la vigenza del diritto che produce – dipende dal consenso che questi “altri” prestano al suo comandare a casa loro. Questo spiega perché il tema del sovranismo non può essere affrontato (e tanto meno risolto) muovendo da quel che sostiene l’UE stessa, per voce della sua Corte di Giustizia, laddove la sua soluzione dipende invece dai limiti in cui gli Stati Membri si ritengono vincolati (o, quanto meno, acconsentono) a rendere vigente il diritto UE nei rispettivi territori: limiti che – ovviamente – sono definiti solo dalle costituzioni nazionali e dall’interpretazione che di esse danno le rispettive Corti costituzionali.

Si badi infatti che tutte le costituzioni non possono che essere sovraniste: qualunque riconoscimento costituzionale della prevalenza del diritto UE, per quanto ampio e incondizionato, resterebbe infatti pur sempre reversibile dallo stato nazionale, vuoi con una modifica costituzionale o vuoi con una uscita dai trattati (in tal senso la brexit ha insegnato quanto poco ci voglia per togliere ogni potere all’UE). In altre parole: se è proprio (e solo) la sovranità dello Stato che consente a quello stesso Stato di prestare il proprio consenso a divenire parte di una convenzione internazionale, non esiste alcuna valida ed efficace convenzione internazionale senza la sovranità degli stati aderenti, i quali tuttavia – proprio in ragione di quella stessa sovranità che consente loro di rendere effettivi i trattati – possono anche sottrarsi unilateralmente alla vigenza di quei trattati, restando esposti solo alle eventuali ritorsioni di diritto internazionale eventualmente decise delle altre parti secondo le regole del diritto internazionale consuetudinario o pattizio.

Questa elementare considerazione sul fondamento ultimo della effettiva vigenza di un qualunque trattato internazionale (che, come si diceva, è proprio la sovranità degli stati che vi aderiscono) ispira con tutta probabilità la giurisprudenza costituzionale tedesca più recente che – quando si è trovata a dover valutare sia norme di matrice UE (i famigerati programmi di acquisto di titoli di stato da parte della BCE nel contesto del cosiddetto quantitative easing) sia trattati multilaterali di grande importanza economico-strategica (come il trattato sulla Corte Unificata dei Brevetti) – ha affermato con una certa decisione il principio secondo cui le norme di qualunque trattato internazionale restano soggette al consenso degli Stati aderenti nei limiti in cui era stato manifestato in sede di adesione al trattato, di guisa che gli organi internazionali eventualmente creati dai trattati (incluse, per quel che concerne l’unione europea, la BCE e la Corte di Giustizia UE) non possono modificare i principi ed i limiti su cui si fondavano “i patti” originariamente sottoscritti dagli Stati in sede di stipulazione del trattato. Questo principio è stato riassunto nel lemma, assai icastico e per certi versi tagliente, secondo cui gli stati aderenti restano i soli veri “padroni” dei trattati (e dunque anche dell’UE). Ma non basta: la Corte ha anche ribadito il suo costante orientamento nel senso che le norme in cui si manifesta la sovranità dello stato nazionale (e dunque le norme fondamentali costituzionali) prevalgono sulle norme di fonte internazionale.

Questo significa, per i giudici costituzionali tedeschi, non solo che i patti internazionali vanno attuati e sono vigenti solo nei limiti in cui sono stati stipulati (o successivamente modificati) dagli stati aderenti (senza che dunque gli organi che amministrano o attuano i trattati possano in via autonoma spingersi ultra vires), ma anche che i principi fondamentali della costituzione nazionale rappresentano un limite implicito del diritto dello stato di aderire ai trattati e dunque prevalgono – nei singoli stati – sulle norme di qualunque trattato internazionale (così come nei confronti della normativa secondaria prodotta dagli organi costituiti in forza dei trattati), che deve essere disapplicato o denunciato nelle parti in cui non rispetti quegli stessi principi. E questo vale anche per il diritto UE.

La Corte a tale riguardo ha infatti precisato che il controllo di costituzionalità del diritto Ue (anche con riferimento ai provvedimenti emanati dagli organi europei nel contesto del processo di integrazione europea) si articola in due diverse valutazioni: quella di conformità dei poteri esercitati dall’Unione rispetto alle funzioni che i Trattati le conferiscono secondo il principio generale di attribuzione (c.d. ultra vires review) e quella di non interferenza degli atti dell’Unione con i “principi fondamentali” ricavabili dalla Legge fondamentale tedesca che siano tali da caratterizzarne l’identità (c.d. identity review). Si noti dunque come la selezione dei principi costituzionali “fondamentali” viene operata in Germania sulla base di un criterio che si può senza dubbio definire nazionalistico, dal momento che considera prevalenti rispetto al diritto UE i principi che consentono di conferire all’assetto costituzionale tedesco la sua “identità” (applicando una dottrina che viene definita in Germania della “identità costituzionale”).

Ebbene: la volontà di subordinare la vigenza del diritto UE in uno stato membro all’“identità costituzionale nazionale” – dunque la dottrina tedesca dell’identità costituzionale – rappresenta a mio avviso un modello di interpretazione dei rapporti tra diritto dell’UE e diritto nazionale che può tranquillamente essere definito come “sovranismo giuridico”, ossia come manifestazione della volontà dello stato nazionale di subordinare – nella gerarchia delle fonti – il diritto UE ai principi fondamentali del suo ordinamento costituzionale.

Il sovranismo giuridico della Corte di Karlsruhe appare peraltro in linea con le norme costituzionali che la corte stessa ha l’obbligo di applicare. L’art. 20 della legge fondamentale tedesca dispone infatti che “La Repubblica Federale di Germania è uno Stato federale democratico e sociale” e che “Tutto il potere statale emana dal popolo. Esso è esercitato dal popolo per mezzo di elezioni e di votazioni e attraverso organi speciali investiti dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario”, mentre l’art. 23 (intitolato “l’Unione europea”) prevede specificamente che “Per la realizzazione di un’Europa unita la Repubblica federale di Germania collabora allo sviluppo dell’Unione Europea che è fedele ai principi federativi, sociali, dello Stato di diritto e democratico nonché al principio di sussidiarietà e che garantisce una tutela dei diritti fondamentali sostanzialmente paragonabile a quella della presente Legge fondamentale. La Federazione può a questo scopo, mediante legge approvata dal Bundesrat, trasferire diritti di sovranità. Per l’istituzione dell’Unione Europea, per le modifiche delle norme dei trattati e per le regolazioni analoghe, mediante le quali la presente Legge fondamentale viene modificata o integrata nel suo contenuto oppure mediante le quali tali modifiche e integrazioni vengono rese possibili, si applica l’articolo 79, secondo e terzo comma”. La costituzione tedesca, in altre parole, ammette sì ampie deleghe di sovranità a beneficio dell’Unione Europea, ma solo nei limiti in cui l’azione dell’Unione resta nei limiti dei principi fondamentali tracciati dalla carta fondamentale tedesca. Dunque la Corte, nell’ispirare la sue giurisprudenza al principio del sovranismo giuridico, non si spinge ultra vires, ma rispetta il dettato della sua carta fondamentale.

In Italia le cose stanno, a prima vista, in modo analogo, anche se poi – approfondendo il discorso – si scoprono differenze tanto interessanti quanto significative rispetto all’esperienza tedesca. La nostra Corte costituzionale ammette infatti che il diritto UE prevalga rispetto al diritto nazionale in applicazione dell’art. 11 Cost.., secondo cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Proprio l’applicabilità dell’art. 11 al diritto UE consente alla Corte Costituzionale di creare a favore delle fonti di diritto unionista uno spazio di vigenza da cui l’ordinamento nazionale (analogamente a quando prevede l’art. 23 della costituzione tedesca) si ritrae, per lasciare competenza esclusiva al legislatore unionista: spazio in cui – dunque – la norma unionista si va ad inserire, risultando per l’effetto direttamente vincolante in Italia, senza per questo divenire una norma nazionale (come avviene invece per altre fonti internazionali, secondo la dottrina della cosiddetta “recezione”).

Conseguenza di questo particolare regime di vigenza è che il diritto UE non resta soggetto al “normale” sindacato di legittimità costituzionale che vale per le leggi interne, bensì a un controllo teso a verificare la compatibilità della norma con i “principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale” (così la sentenza n. 183/1973 e – più recentemente – l’ordinanza 454/2006). Anche in Italia, come accade in Germania, per le norme UE la Corte costituzionale applica un regime di verifica di costituzionalità “attenuata”. Simili norme infatti – a differenza di quelle nazionali – possono essere dichiarate incostituzionali (mediante l’impugnazione della legge nazionale di ratifica dei trattati che le hanno approvate o che hanno approvato le norme in forza della quali sono state adottate le norme comunitarie della cui legittimità costituzionale si discute) solo se sono contrarie ai “principi fondamentali” della nostra carta fondamentale.

E’ tuttavia nei criteri da adottare per l’individuazione dei principi costituzionali da considerarsi “fondamentali” che Italia e Germania adottano prospettive piuttosto differenti. In Italia, infatti, i principi fondamentali vengono per lo più identificati nei diritti umani inalienabili cui fa riferimento la prima parte della costituzione ma che sono riconosciuti anche nelle convenzioni multilaterali sui diritti umani. Questo consente di sostenere che – rispetto all’impostazione tedesca – il primato dell’ordinamento costituzionale sul diritto UE viene declinato in modo meno identitario e più universalista (quasi, verrebbe da dire, secondo criteri pseudo-giusnaturalistici). In sintesi: mentre la Germania adotta – nei confronti del diritto UE – un metro di verifica costituzionale colorato in senso nazionalista (adottando un sistema che potremmo pertanto definire “sovranismo giuridico forte”), l’Italia applica criteri di prevalenza costituzionale meno identitari e più universalisti (e dunque esercita quello che potremmo definire un “sovranismo giuridico debole”). Questo consente di spiegare piuttosto bene perché la Corte di Karlsruhe è assai più propensa – rispetto alla nostra Consulta – a valutare la legittimità costituzionale delle norme unioniste sindacando il merito delle scelte politiche che stanno dietro all’adozione delle norme europee: propensione che emerge proprio nella sentenza in tema di quantitative easing in cui la Corte giunge alla conclusione di incostituzionalità del programma di acquisti della BCE dopo aver spese decine di pagine nell’illustrazione di argomenti e principi di politica economica e monetaria.

Il fatto di poter contare su una corte costituzionale che esprime un “sovranismo forte” nel sindacare il contenuto del diritto unionista consente peraltro agli altri poteri dello stato tedesco di ritagliarsi, nelle diverse sedi istituzionali dell’UE, un maggiore spazio di manovra a tutela dei propri interessi nazionali rispetto a stati che (come l’Italia) – nella verifica costituzionale del diritto UE – si limitano ad esercitare un sovranismo debole. Il fatto insomma che la corte costituzionale di un stato dell’UE scelga di interpretare “alla tedesca” (ossia in senso più identitario e nazionalista) piuttosto che non “all’italiana” (ossia in senso più universalista) i criteri da usare per individuare i principi inviolabili dell’ordinamento costituzionale nazionale che devono sempre prevalere nei confronti del diritto UE; tale fatto – dicevamo – si riflette anche sul maggiore o minore potere contrattuale che quello stesso stato ha all’interno delle istituzioni europee.

Stando così le cose, e risultando piuttosto evidente che l’Italia ben di rado riesce a far valere i propri interessi in sede UE, è dunque lecito interrogarsi sui limiti in cui il riferimento all’art. 11 Cost. (dalla cui applicazione deriva il fatto che l’Italia sia un paese in grado di esercitare solo un sovranismo giuridico “debole” in sede di verifica costituazionale del diritto UE) sia correttamente utilizzato dalla nostra Consulta quando si tratta di valutare la tenuta costituzionale di norme di fonte unionista. Il tema è ovviamente molto complesso e dunque non può essere esaurito in questa sede, in cui mi limiterò a indicare un paio di spunti, fondati entrambi sulla considerazione che il regime di sindacato “attenuato” – sostanziandosi in una eccezionale limitazione di sovranità dello stato – pare giustificato solo nella misura in cui si può sostenere che i trattati UE beneficiano di una sicura copertura da parte dell’art. 11 Cost., dunque solo nella misura in cui è possibile considerare quei trattati come altrettanti strumenti “necessari” (non dunque semplicemente “utili”) per assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni.

La prima considerazione che mi sento di svolgere a riguardo è che vi sono alcuni principi del diritto primario UE (come ad esempio il principio di conferimento, così come quello che subordina ogni aiuto dell’UE a rigide condizioni così come quelli che vincolano gli organi UE a modellare la propria azione di politica economica intorno alla dottrina della cosiddetta “austerity”) che – escludendo a priori ogni possibile aspetto solidaristico o mutualistico dei rapporti tra gli stati membri – potrebbero non esprimere un concetto di “giustizia” compatibile con quello che ispira – per un verso – la nostra carta costituzionale e – per altro verso, ma direi soprattutto – il complesso delle grandi convenzioni multilaterali come la CEDU e le convenzioni ONU. Se così fosse, infatti, si potrebbe mettere in dubbio che quelle parti dei trattati dell’unione siano davvero “necessarie” per assicurare (oltre alla pace, anche) la giustizia tra le nazioni. Il tema, certamente molto stimolante, è altrettanto certamente delicato (e scivoloso), dal momento che su simili questioni gli argomenti giuridici confinano con (fino a sfumarsi inevitabilmente in) valutazioni politiche. Per questa ragione non mi spingo oltre, limitandomi a segnalare la questione a chi vorrà esplorarla, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello politico.

Ma anche ammettendo che l’art. 11 Cost. si applichi ai trattati costitutivi dell’UE e a quelli generali sul suo funzionamento, siamo sicuri che lo stesso valga per le fonti europee secondarie, ossia per qualunque norma emanata dagli organi UE costituiti sulla base di quei trattati? Pare infatti azzardato sostenere che una qualunque norma contenuta in un regolamento UE (o in altro provvedimento normativo di secondo grado direttamente efficace in Italia) sia, automaticamente e dunque del tutto a prescindere dal suo oggetto e contenuto, sempre necessaria per assicurare la pace e la prosperità tra le nazioni, dunque meritando una possibilità di verifica di tenuta costituzionale attenuata. Il che impone di chiedersi se abbia davvero molto senso attribuire a qualunque norma derivata di fonte europea un potere di limitare la sovranità nazionale del tutto analogo alle fonti primarie, per il solo fatto che si tratti di norma che deriva da queste ultime fonti. Per dirla ancora più chiaramente: siamo così sicuri che la norma costituzionale su cui la corte costituzionale italiana fonda tradizionalmente la sua scelta di esercitare un sovranismo debole nei confronti dell’UE valga anche per le fonti UE secondarie? O magari anche in Italia esiste uno spazio per esprimere una posizione più articolata, nel senso che – anche qualora restasse ferma la posizione della Consulta nel senso di esercitare solo un sovranismo debole nei confronti del diritto primario dell’UE – almeno le norme secondarie restino soggette (non ad una semplice verifica di conformità ai principi fondamentali della nostra costituzione, ma) al medesimo rigoroso sindacato di costituzionalità cui sono soggette le leggi nazionali?




La lettera di Conte all’Unione Europea

Bene sul 2019, rischi sul 2020

La sensazione è che l’Italia non voglia lo scontro, e che alla fine la procedura di infrazione non partirà. Questo, in estrema sintesi, è quel che ho ricavato da una attenta lettura della lettera che, ieri, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha indirizzato agli altri paesi Europei.
Una lettera inconsuetamente lunga, che colpisce per il suo tono pacato e tutto sommato – almeno nella forma – ossequioso nei confronti delle regole europee: “non intendiamo sottrarci a tali vincoli [le regole europee], né intendiamo reclamare deroghe o concessioni rispetto a prescrizioni che, fintantoché non saranno modificate secondo le ordinarie procedure previste dai Trattati, sono in vigore ed è giusto che siano tenute in conto dai governi di tutti gli Stati membri”.
Più ragionevole di così…
Altrettanto rassicurante, nella lettera, è il riferimento allo stato dei conti pubblici del 2019, con la previsione di un deficit al 2.1% (poco più del 2.04% concordato), e significativamente inferiore al 2.5% previsto e temuto dalla Commissione Europea. E’ verosimile che, alla fine, il deficit effettivo si situi a metà strada, magari al 2.2 o al 2.3%, ma resta il fatto che, per trovare un deficit più basso di quello del biennio 2018-2019 bisogna risalire a 10 anni fa, ossia al 2007, l’ultimo anno di crescita prima della lunga crisi scoppiata nel 2009. Insomma: è vero che, con il debito che ci ritroviamo, sarebbe meglio puntare su un deficit ancora più basso, ma non si può non vedere che – per adesso – i conti pubblici di Tria sono leggermente migliori di quelli di Padoan.
Detto questo, tuttavia, la lettera di Conte faremmo ben a leggerla e meditarla tutta. In essa, infatti, il nostro governo si esercita non solo in una difesa dei nostri conti pubblici (abbastanza convincente per il 2019, molto fumosa sul 2020), ma anche in un tentativo di spiegare all’Europa dove sbaglia. L’idea di fondo è che la politica europea sia troppo attenta all’equilibrio dei conti pubblici, e troppo poco sensibile al dramma della disoccupazione: se oggi il continente è entrato in una fase di “inesorabile declino” – sembra suggerire la lettera – è perché le politiche di austerità avrebbero rallentato la crescita e alimentato la disoccupazione.
Ma le cose sono andate così?
Penso proprio di no. Intanto bisogna dire che, almeno in Italia, una vera politica di austerità negli ultimi 12 anni non c’è mai stata. Austerità, in politica economica, significa contenimento del debito pubblico attraverso maggiori tasse e/o minori spese, ma in Italia il debito non è affatto diminuito, né in rapporto al Pil né, tantomeno, in assoluto. Il fatto è che il termine austerità, a livello popolare (e a quanto pare anche da parte di chi si proclama “avvocato del popolo”) viene usato come sinonimo di minori consumi, sacrifici, “tirare la cinghia”, tutti fenomeni che effettivamente possono presentarsi come conseguenze del tentativo di risanare i conti pubblici, ma possono benissimo anche stare per conto proprio. Che è precisamente quel che è successo in Italia negli ultimi 10 anni: abbiamo dovuto ridurre i consumi e l’occupazione, ma non perché abbiamo risanato i conti pubblici. L’austerità di questi anni è figlia della fine della crescita, non certo del rigore nei conti pubblici.
Ma, almeno sul primato della lotta al disoccupazione, possiamo dare ragione al premier?
No, e per due ragioni ben precise. La prima è che non è affatto vero che l’Europa è afflitta dal dramma della disoccupazione. E’ vero semmai che in alcuni paesi europei (fra cui l’Italia) il tasso di occupazione è diminuito rispetto al 2007, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei paesi, e segnatamente in Germania, Regno Unito Austria, Svizzera, Belgio, Svezia, è aumentato. Certo, ai paesi in declino può essere di conforto pensare che il declino sia comune e inesorabile, ma si tratta di una credenza incompatibile con i dati.
Ma c’è una seconda ragione che rende traballante il ragionamento della lettera ai governi europei: proprio se si adotta la tesi secondo cui il nostro problema centrale è la disoccupazione diventa difficile difendere la nostra politica economica. Quella politica avrebbe potuto, con le leggi di bilancio 2019 e 2020, puntare decisamente sulla creazione di nuovi posti di lavoro, mediante investimenti pubblici e soprattutto mediante uno shock fiscale a favore dei produttori (imprese e partite IVA). Ha preferito invece bruciare 15 miliardi per varare due provvedimenti di natura assistenziale (reddito di cittadinanza e quota 100), e proprio per questo ora non sa né come evitare l’aumento dell’Iva né come trovare le risorse per ridurre le tasse senza fare altro deficit. Non solo ma, a quanto pare, nella nuova legge di bilancio si appresta a puntare le proprie carte sulla riduzione dell’Irpef, che grava sulle famiglie, piuttosto che sull’Ires e sull’Irap, che gravano sui produttori, ossia sui soli soggetti in grado di creare posti di lavoro veri.
Ecco perché il taglio ragionevole e rassicurante della lettera di Conte non può tranquillizzarci del tutto. Punirci per i conti del 2019 sarebbe ingiustificato, se non altro alla luce dell’indulgenza verso i governi passati. Ma temere che, per il 2020, le nuove promesse siano finanziate in deficit e i mercati tornino ad alzare il tiro su di noi, non è certo fuori luogo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del



Gli italiani e l’Europa: tra sfiducia e paura dell’isolamento

Come noto, per la prima volta nella sua storia elettorale, le recenti consultazioni europee hanno fatto registrare a livello complessivo un significativo incremento del turnout. Da quando sono nate, nel 1979, il tasso di partecipazione era infatti andato progressivamente calando, dal 62% della sua prima edizione fino ad arrivare al misero 42,6% del 2014, quasi 20 punti in meno. Un regresso costante, in buona parte causato dalla scarsa affluenza registratasi dai nuovi ingressi nella UE, la cui rotta è stata invertita (paura dei sovranisti?) proprio quest’anno, con un incremento medio di oltre otto punti percentuali, determinato da un aumento dei votanti in quasi tutti i 28 paesi con le sole eccezioni, statisticamente significative, di Bulgaria (-5%), Italia e Irlanda (-3%), oltre ad altri 4-5 paesi con un decremento minimo.

L’Italia dunque è in negativa contro-tendenza, e l’emorragia partecipativa non si arresta nemmeno in questa occasione. Il dato italiano appare in linea con quanto registratosi nelle numerose indagini demoscopiche dell’ultimo anno, che hanno infatti puntualizzato come il gradimento nella propria presenza nella UE fosse per l’appunto nel nostro paese tra i livelli più bassi (di fatto il più basso, se non si tiene in considerazione l’UK, già in Brexit), sebbene con una marcata opinione prevalente di due terzi (43% a 23%) a favore del “remain”.

La campagna comunicativa dei due partner di governo, piuttosto euroscettici benché non più – come nel corso delle politiche 2018 – velatamente indirizzati verso il “leave” almeno per la moneta, pare aver dato qualche frutto, nell’atteggiamento degli italiani, in particolare per quanto riguarda il loro giudizio verso l’Unione Europea.

Non sono ovviamente più i tempi delle grandi speranze di fine Millennio, quando l’obiettivo di entrare in Europa fece le fortune del governo Prodi-Ciampi, con convinta adesione anche di ampie fette della popolazione, disposte a fare i sacrifici economici necessari per non essere tagliata fuori dal mondo che contava. Allora (nel 1997) il livello di fiducia per la Comunità Europea, come in quel periodo veniva chiamata, arrivava a valori poco inferiori al 70%, e per più di un decennio, pur tra alti e bassi, la UE ha rappresentato per gli italiani il “luogo” più importante in cui confidare, per mantenere un equilibrio di fondo a fronte dei sommovimenti politici-elettorali interni, nell’eterna battaglia tra centro-sinistra e centro-destra.

Il punto decisamente più elevato della fiducia (70%) è stato il 2011, annus horribilis del governo Berlusconi, quando in seguito all’incontrollabile incremento dello spread, la Ue impose un deciso cambiamento di rotta nella gestione economico-finanziaria del nostro paese, facilitando l’ingresso di Mario Monti in un governo tecnico che aveva come obiettivo principale il risanamento dei conti pubblici. Ma da allora inizia una inesorabile parabola discendente, con una diminuzione media della fiducia di circa 5 punti all’anno, fino ad approdare al valore attuale del 40%: una perdita secca di 30 punti in soli otto anni.

Fonte: Abacus (1996-2002) – Ipsos (2003-2019)

Da super-garante a costante oggetto di critiche, provenienti non soltanto dagli elettori dei cosiddetti partiti “euroscettici”, ma anche da una quota significativa degli altri elettorati più “europeisti”, che per la maggior parte condivide l’idea che la Ue sia diventata nel tempo più l’Europa delle banche che quella dei popoli, fallendo la sua missione unificatrice cui si era guardato alla nascita con grandi speranze.

Cresce dunque costantemente il disamore verso l’istituzione europea, dopo la messa in discussione a cavallo delle politiche del 2018, da parte di Lega e M5s, sia della permanenza nella Ue sia, soprattutto, del mantenimento dell’Euro come moneta corrente nel nostro paese. Peraltro, una volta formatosi il nuovo governo giallo-verde, i due partner dell’esecutivo retto da Conte tendono lentamente ad ammorbidire le proprie posizioni su entrambi i punti di rottura. Si passa dunque dall’abbandono tout-court di Euro e di UE ad una conflittualità, che resta certo accesa, ma maggiormente finalizzata ad una ridiscussione dei termini dei rapporti tra Bruxelles e l’Italia, con la pressante richiesta di maggior autonomia decisionale sui programmi economico-finanziari interni.

Una decisa svolta rispetto al recente passato, che accompagna la stessa opinione pubblica più euroscettica verso un ripensamento delle proprie posizioni sulla possibile uscita dal treno europeo, facilitato anche dai problemi riscontrati dalla complicata Brexit inglese e dalla paura dell’isolamento che ne potrebbe generare negli anni futuri.

Così, le opinioni degli italiani cominciano progressivamente a mutare, a favore del mantenimento dello status quo su entrambi i temi. Le ultime rilevazioni demoscopiche disponibili ci parlano oggi di una quota pari a tre quarti degli elettori che si dichiara favorevole al mantenimento dell’Euro come moneta corrente, con punte massime tra chi ha votato Pd (la quasi totalità) e punte minime tra i votanti di centro-destra. Allo stesso modo, e con quote pressoché identiche, l’opinione nei confronti dell’uscita dell’Italia dalla UE, che vede ridursi sensibilmente, rispetto allo scorso anno, coloro che si dichiarano a favore di una Ita-exit.

Se ancora qualcuno avesse dei dubbi sulla forza e l’impatto della comunicazione per forgiare le opinioni dei cittadini, questi risultati dovrebbero fugare ogni loro tipo di incertezza.




L’alibi dei vincoli europei

Finora, in Europa occidentale, si era visto un solo governo populista puro, quello greco rosso-nero guidato da Tsipras, un governo di coalizione fra il principale partito di sinistra (Syriza) e un piccolo partito nazionalista e conservatore (Anel). Ora anche l’Italia ci prova: salvo imprevisti, nei prossimi giorni si insedierà un governo populista giallo-verde che, come primi “assaggi” di sé stesso, ha già dato segnali del proprio convinto anti-europeismo.

In buona sostanza: in Italia facciamo quel che ci pare, e dei vincoli europei su debito e deficit ben poco ci importa. C’è stata l’austerità fino ad oggi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, è giunto il momento di cambiare rotta. Salvini si è spinto a dire, in polemica con il ministro francese dell’economia che aveva richiamato l’Italia al rispetto degli impegni assunti, che il nuovo governo avrebbe fatto semplicemente il contrario dei governi precedenti.

Sul rapporto con l’Europa la si può pensare in tanti modi, però – comunque la si pensi – forse una domanda dovremmo farcela: il rispetto dei vincoli europei, giusti o sbagliati che siano, è davvero il macigno che impedisce all’Italia di ripartire?

Oggi la polemica anti-europea sta diventando il biglietto da visita del nuovo governo, il cui unico vero colore politico è di non essere di sinistra, però non possiamo dimenticare alcuni fatti storici. Il 17 ottobre 2002, stiamo quindi parlando di sedici anni fa, fu lo stesso Prodi – allora presidente della Commissione europea – a definire “stupido” il patto di stabilità, un parere ribadito nel 2014, poche settimane dopo la nascita del governo Renzi. Quanto a quest’ultimo, ci ricordiamo tutti che i suoi tre anni di governo sono stati spesi a battagliare contro le regole europee, e a deridere i burocrati europei e le loro fissazioni sui decimali (del rapporto deficit-Pil). Né possiamo dimenticare che la critica delle politiche di austerità, e l’invocazione continua di investimenti pubblici anche in deroga ai vincoli di bilancio, è il leitmotiv dell’estrema sinistra in tutta Europa.

Quindi la prima cosa che vorrei dire, a chi è sbigottito di fronte all’assalto dell’ircocervo populista contro le regole europee, che se Salvini e Di Maio si muovono agevolmente sul terreno dell’antieuropeismo è perché quel terreno è stato a lungo dissodato, concimato e innaffiato dalla sinistra stessa. Ciò detto, tuttavia, la domanda resta: sono le regole europee che ci impediscono di uscire dal pantano?

Per certi versi senz’altro. Se sull’immigrazione un paese geograficamente esposto non può fare molto è anche a causa delle regole europee, peraltro liberamente sottoscritte, e qualche volta anche caldeggiate. Se il mercato europeo è troppo regolamentato all’interno, con conseguente lievitazione dei costi per le imprese, e troppo aperto verso l’esterno, senza validi strumenti di difesa nei confronti delle importazioni (e delle merci contraffatte) dalla Cina e dai paesi emergenti, sicuramente una notevole responsabilità ce l’ha l’Europa.

Per altri versi, però, no. L’Europa c’entra poco. Chi racconta che abbiamo avuto 10 anni di austerità, e che è ora di cambiare strada, non sa di che cosa parla. Se avessimo davvero avuto 10 anni di austerità, saremmo riusciti a ridurre non dico l’ammontare del debito, ma almeno il rapporto debito-Pil. Il fatto è che si continua a confondere due cose nettamente distinte: la capacità di un paese di risanare i conti pubblici, con politiche che possono essere di austerità “buona” (meno spesa pubblica) o di austerità “cattiva” (più tasse), e il cambiamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, che quando peggiorano fanno gridare all’austerità, ma che sono tutt’altra cosa.

Il fatto è che, nei sette anni della crisi (da 2007 al 2014), l’Italia è riuscita nella duplice impresa di non risanare i conti pubblici, e al tempo stesso non far recuperare ai cittadini il tenore di vita pre-crisi. Di qui il cortocircuito logico: dato che stiamo peggio, ci raccontiamo che sono stati anni di austerità.

La realtà, purtroppo, è che le regole europee spiegano forse perché i paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno degli altri paesi dell’Unione, o perché l’Europa nel suo insieme cresce meno del resto del mondo, o cresce meno degli Stati Uniti, ma non possono spiegare – proprio perché sono regole comuni – come mai certi paesi europei crescono a ritmi accettabili e altri, come l’Italia, la Grecia o la Finlandia, invece ristagnano. Soprattutto non spiegano perché l’Italia, in questi gloriosi anni renziani, sia scivolata all’ultimo posto come tasso di crescita del Pil, e al penultimo come tasso di occupazione.

Perciò, è vero: con altre regole potremmo (forse) crescere un po’ di più, ma non raccontiamoci che il vero ostacolo alla crescita dell’economia italiana è l’Europa. No, sfortunatamente se l’Italia cresce di meno degli altri paesi europei è solo perché ha fatto ben poco di quel che avrebbe dovuto fare per ridare fiato all’economia e risanare il bilancio pubblico, non certo perché la cattiva Europa non le ha permesso di spendere in deficit quanto le sarebbe piaciuto.

E’ questo, purtroppo, l’equivoco su cui il nascente governo giallo-verde sembra intenzionato a puntare molte delle sue carte.

Articolo pubblicato da Panorama il 24 maggio 2018