Jean Marie Twenge, Iperconnessi, Einaudi, 2018

È raro, molto raro, che le scienze sociali partoriscano un libro che dice delle cose realmente nuove, rigorosamente documentate, e veramente importanti. Per questo inauguriamo la rubrica di libri della Fondazione Hume con iGen (in italiano: Iperconnessi), un corposo volume di Jean Twenge, docente all’università di San Diego.

Anche se di professione insegna Psicologia, Jean Twenge ha scritto un libro a cavallo fra la psicologia, la sociologia e la storia della cultura, tanto è vasto l’orizzonte temporale studiato (l’ultimo mezzo secolo) e la quantità di ambiti toccati.

Basato su una ricchissima base di dati longitudinali, lo studio della Twenge descrive in che cosa l’ultima generazione, ossia quella dei nati fra il 1995 e il 2012, differisce dalle tre generazioni precedenti (Millenials, Generazione X, Baby boomers).

Non voglio togliere al lettore il piacere di scoprirlo, anche se già il sottotitolo fornisce un’idea generale della risposta: i giovani iGen soffrono di un grave ritardo di sviluppo rispetto a tutte le generazioni precedenti.

I teenager, dunque, hanno dato l’ok alla crescita lenta e vogliono restare bambini più a lungo (p.68).
Invece di offendersi perché li si tratta come mocciosi, gli iGen vorrebbero poterlo restare più a lungo (p. 69).
Grazie ai genitori l’infanzia di questi ragazzi è diventata un luogo meraviglioso in cui ricevono lodi sperticate, si pensa a divertirsi e le responsabilità sono minime. Non c’è da stupirsi che non vogliano crescere (P.71).

Quel che vorrei fare, invece, è di mostrare la notevole utilità pratica di questo libro per quanti si trovassero in una o più di queste quattro condizioni:

  1.  genitore
  2. docente
  3. educatore
  4. cittadino che crede ancora nell’importanza delle pari opportunità.

Ebbene, se qualcuno si trovasse in una di queste condizioni, dovrebbe precipitarsi a comprare il libro. Perché Jean Twenge non si è limitata a una sorta di affresco della generazione iGen (specialità in cui primeggiano i filosofi e i sociologi critici) ma ha messo a fuoco una ben precisa serie di fenomeni negativi che nessuno può eliminare, ma che si possono combattere, solo che lo si voglia.

Quali sono questi fenomeni negativi?

Ecco una lista, sicuramente incompleta, ma che può dare un’idea:

  • depressione
  • ansia
  • stress
  • senso di solitudine
  • infelicità
  • tendenza al suicidio
  •  diminuzione delle capacità cognitive (specie linguistiche)
  • diminuzione della capacità di concentrazione
  • difficoltà nell’interazione faccia a faccia
  • insicurezza
  • timore delle opinioni diverse dalla propria.

Ebbene, sono ovviamente molti i fattori che incidono, positivamente o negativamente, su questo complesso di tendenze, ma ve n’è uno soltanto che incide su tutti i sintomi negativi e al tempo stesso è rimovibile, in quanto sotto il nostro controllo: la esposizione permanente ai dispositivi elettronici (smartphone, tablet, videogiochi), e in modo particolare la presenza continua sui social media.

Dopo il libro della Twenge, diventa molto difficile continuare a baloccarsi con il paradigma dei “pro e contro”, per cui ciascuno può, a suo piacimento, sottolineare i benefici o i danni da internet. I nessi causali stabiliti da Twenge sono nitidi, e non puntano contro la tecnologia ma contro il suo abuso. I danni alla condizione giovanile non derivano da Internet, ma da due fattori ben precisi: la nostra sovraesposizione alla rete, e la preferenza per le amicizie virtuali rispetto ai contatti faccia a faccia.

Di qui un rimedio assai semplice: se abbiamo a cura la salute mentale e il futuro lavorativo dei nostri figli, dobbiamo abbattere drasticamente la loro esposizione ai dispositivi elettronici, facendola scendere dalla media attuale di 6 ore al giorno a non più di 2.

Naturalmente possiamo anche non farlo, per mille motivi che non intendo discutere. E’ bene riflettere su un punto, però. Mentre i gruppi sociali avvantaggiati possono benissimo permettersi di allevare una generazione “of wimps” (una generazione “di schiappe”, secondo la caustica espressione di un’altra psicologa, Hara Estroff Marano), perché tanto il patrimonio, la cultura e le conoscenze personali dei genitori costituiscono un’efficacissima rete di sicurezza, per altri non è così. Per i ceti popolari non mandare all’ammasso il cervello dei figli è vitale, e la scelta di tenerli (relativamente) alla larga da internet e dai social media può aiutare a compensare il loro svantaggio di partenza, almeno finché i ceti alti non faranno altrettanto.

Un discorso analogo vale per un altro gruppo sociale, tuttora in parte svantaggiato, ossia le donne. Negli ultimi tre decenni, in America come in Italia, le ragazze hanno ridotto fortemente il loro gap con i ragazzi innanzitutto investendo in istruzione (fra i laureati le studentesse sono molto più numerose degli studenti maschi). I dati americani della Twenge ci informano, però, che l’esposizione ai social media delle ragazze risulta ancor maggiore di quella dei ragazzi. Se l’analisi della Twenge è corretta, questo implica che, con il loro comportamento, le ragazze stanno acquisendo un inedito fattore di svantaggio sociale, che potrebbe frenare o cancellare il vantaggio che si sono conquistate studiando di più e meglio dei loro compagni maschi.

Ecco perché, fra le categorie potenzialmente interessate al libro della Twenge, oltre a genitori ed educatori, includevo chiunque abbia a cuore l’eguaglianza delle opportunità: un’esposizione limitata e intelligente a internet è, al giorno d’oggi, forse l’unica opportunità di avanzamento sociale a costo zero.

Luca Ricolfi, 2 luglio 2018