Regioni: la grande retromarcia sui tamponi

La settimana che ora si è conclusa è certamente, da tre mesi, quella in cui abbiamo subito meno restrizioni. Caduto l’obbligo di restare in casa, caduto il divieto di spostarsi fra regioni, concessa la riapertura di quasi tutte le attività, restano solo le ben note regole minime: mascherine, distanziamento, lavaggio frequente delle mani, disinfezioni e sanificazioni, il tutto affiancato qua e là dai primi esperimenti di tracciamento.

Quel che è molto difficile capire, però, è a che punto è l’epidemia. Non dico capire quel che ci aspetta in autunno (questo nessuno può saperlo), ma quel che sta succedendo ora. I messaggi che ci arrivano, infatti, sono estremamente contrastanti. Più che informazioni, quel che riceviamo dalle autorità e dai media è un frastuono di segnali ambigui, confusi, incoerenti.

Questo fa sì che ognuno sia autorizzato a leggere la situazione come meglio gli aggrada. Chi è sufficientemente giovane da non temere il virus, o sufficientemente ottimista da scommettere sul ritorno alla normalità, può appoggiarsi sulle dichiarazioni del dott. Zangrillo, secondo cui “clinicamente” il virus è morto. Del resto questo modo di vedere le cose è supportato da una larga parte della stampa e delle tv, la cui linea editoriale è amplificare i segnali positivi e non calcare troppo la mano su quelli negativi. Linea che, più che essere suggerita dalle dichiarazioni delle autorità (preoccupate che la gente abbassi la guardia), è suggerita dagli atti del governo e dell’Istituto Superiore di Sanità, quando si affannano a dipingere l’Italia come un paese sicuro, o diffondono report secondo cui in nessuna regione – nemmeno in Lombardia – Rt è salito sopra 1.

Chi invece è sufficientemente vecchio da temere il virus, o sufficientemente scettico da non credere che sia tutto finito, e tanto meno che “andrà tutto bene”, può trovare (s)conforto alle sue credenze nelle interviste di tanti esperti (dal prof Galli al prof. Crisanti), che paiono suggerire che la riapertura sia stata un azzardo non in sé, ma stante il nostro scarsissimo attuale livello di preparazione sui 4 fronti fondamentali: tamponi, tracciamento, mascherine, indagine Istat. E anche qui non mancano i media la cui linea editoriale è sottolineare i pericoli che stiamo correndo.

Ma come stanno effettivamente le cose per un osservatore che voglia basarsi solo sui dati di fatto?

La mia risposta è che ci sono due tipi di osservatori e nessuno dei due è in condizione di dirci come stanno le cose. Le autorità sanno più cose di noi, ma non ce le dicono tutte perché vogliono tenersi le mani libere: se ci lasciassero accedere ai dati di cui dispongono, alcune loro decisioni potrebbero apparire più discutibili di quanto già appaiono. Gli studiosi indipendenti (non legati al potere politico) sono perfettamente liberi di dire come stanno le cose, ma non hanno accesso ai dati cruciali, perché le autorità – spesso con la inconsistente scusa della privacy – preferiscono impedire l’accesso ai database.

In questa situazione, tutto quel che possiamo fare è di raccontare, sulla base dei dati (scarsi e di pessima qualità) cui abbiamo accesso, quel che riusciamo a intravedere.
Comincio con l’unico indizio positivo: finora la temperatura media dell’epidemia, misurata con il termometro della Fondazione Hume, continua a scendere, sia pure ad una velocità sempre più bassa (in concreto questo significa che il numero di nuovi infetti era decrescente almeno fino a un paio di settimane fa). Il vantaggio di questo strumento di misura è che non si fonda solo sul numero di nuovi casi positivi, che è drogato dal numero di tamponi, ma su altre informazioni come le ospedalizzazioni, i decessi e, appunto, il numero di tamponi effettuato.

Le buone notizie, tuttavia, si fermano qui. Se dal livello dell’Italia nel suo insieme ci spostiamo a quello delle singole regioni, da qualche settimana i segnali non appaiono rassicuranti. Sono circa una decina le regioni, infatti, in cui la curva dei decessi ha ormai cessato di piegare verso il basso, e in alcune ha persino cominciato a rialzare la testa. Del resto, anche sul piano nazionale l’andamento dei morti è piuttosto preoccupante: 500 morti alla settimana non sono pochi, se non altro perché sono di più di quanti (400) se ne registravano quando Conte annunciava il lockdown.

Ma il segnale più preoccupante viene dalla politica dei tamponi. Ci eravamo illusi, all’inizio di maggio, che il nostro appello a fare tamponi di massa (come in Veneto) fosse stato raccolto dalle autorità sanitarie e dai governatori delle Regioni. E in effetti, per una quindicina di giorni, le cose erano sensibilmente migliorate: improvvisamente la curva del numero di tamponi, ma soprattutto quella del numero di persone testate, aveva invertito la sua discesa e aveva cominciato a puntare risolutamente verso l’alto.

Ma poi…

Poi, a partire dal 25 maggio entrambe le curve, e segnatamente quella delle persone testate, hanno cominciato a puntare verso il basso: oggi il numero settimanale di persone testate è al minimo storico (da quando la Protezione Civile fornisce il dato), e  circa il 27% sotto il livello di domenica 24 maggio. L’obiettivo di “fare come il Veneto” si allontana sempre di più. E, fatto forse ancora più preoccupante, questa tendenza a fare meno tamponi è generalizzata, perché riguarda quasi tutte le 21 Regioni/Province autonome.

Se consideriamo l’intervallo fra la settimana che si è appena conclusa (primi 7 giorni di giugno) e l’ultima settimana prima della riapertura completa (la settimana del 17-24 maggio), c’è una sola regione – il Molise – che ha aumentato sia i tamponi sia le persone testate.

Tutte le altre hanno diminuito o il numero di tamponi, o il numero di persone testate o entrambi.

E nella maggior parte delle regioni le riduzioni sono state drastiche, dell’ordine del 20-30%, ma in alcuni casi addirittura superiori al 50%, fino al caso limite della Valle d’Aosta, che ha ridotto i tamponi del 63.2%, e le persone testate del 73.9%.

Ma che cosa è successo lunedì 25 maggio per far sì che le migliori intenzioni delle autorità politiche e sanitarie si sciogliessero come neve al sole?

Credo sia successo quel che, pochi giorni prima che accadesse, avevamo previsto e temuto dalle colonne del Messaggero. E cioè che, se il governo non avesse solennemente sganciato la “pagella” delle Regioni dal conteggio dei nuovi infetti, con l’avvio della Fase 2 l’incentivo a ridurre il numero di tamponi (per evitare di scoprire troppi infetti) sarebbe divenuto irresistibile.

Così è stato. Dal 25 maggio, giorno in cui a quasi tutte le attività è stato permesso di riaprire, la maggior parte delle Regioni, per paura di subire limitazioni all’attività economica e al turismo, hanno pensato bene di frenare i tamponi.

Ed eccoci al punto di partenza. Chi sa come stanno andando le cose non parla, né ha il coraggio di rendere accessibili i dati in suo possesso. Chi vorrebbe sapere, e potrebbe parlare, è costretto a lavorare con dati parziali, scadenti, e inquinati dalla paura di scoprire nuovi casi.

Cosi, alla fine, ci resta solo la pietrosa realtà dei morti, la cui contabilità è meno soggetta ai capricci della politica, o all’alea delle procedure amministrative. E quella realtà non ci dà ancora, purtroppo, il segnale di speranza che cerchiamo.

[questo testo riprende in parte i contenuti di un articolo apparso sul Il Messaggero l’8 giugno 2020]




Il fantasma dei morti di troppo

Un fantasma si aggira per l’Occidente: il fantasma dei morti di troppo. Dopo due mesi di Covid, con oltre 250 mila morti accertate (e almeno altrettante occulte), qualcuno si comincia a domandare: potevano essere di meno, molte di meno? chi doveva gestire l’emergenza sanitaria ha fatto il possibile per contenere il numero delle vittime? quante morti sono una conseguenza di “errori umani” evitabili?

Queste domande aleggiano un po’ dappertutto, ma risuonano con particolare angoscia nei paesi in cui il costo umano dell’epidemia ha raggiunto proporzioni apocalittiche.

Negli Stati Uniti, ad esempio, chi passa per Times Square (la piazza principale di New York), può apprendere quanto è costato agli americani il ritardo con cui Trump si è deciso a proclamare il lockdown: 45 mila morti su 75 mila. E’ una stima, naturalmente, ma non campata per aria, perché si basa su studi epidemiologici.

Nel Regno Unito, un paio di settimane fa, Stephen Buranyi, un coraggioso giornalista scientifico free lance, ha pubblicato su Prospect Magazine un’approfondita inchiesta sulle differenze fra le risposte sanitarie al Covid-19 di Regno Unito e Germania. La domanda è: quante vite umane si sarebbero potute salvare adottando fin da principio l’approccio della Germania? L’autore non si sbilancia fornendo un numero, ma lascia intendere che il numero di vittime dovute a clamorosi errori politici ed organizzativi del governo britannico sia molto grande.

In Francia, fin da metà marzo in una drammatica intervista Agnès Buzyn, ex ministra della salute, ricostruiva la storia dei suoi avvertimenti inascoltati (fin da gennaio!) a Macron e al primo ministro francese, denunciava l’errore di aver ritardato il lockdown per salvare le elezioni comunali, e pronosticava migliaia di morti come conseguenza di questo errore fatale (la Francia, in effetti, si avvia verso le 30 mila vittime ufficiali, poche di meno dell’Italia). Negli stessi giorni 600 medici e operatori sanitari francesi denunciavano alla Corte di giustizia della Repubblica (l’unica abilitata a giudicare gli atti commessi da membri del governo) il primo ministro Edouard Philippe e la stessa Agnes Buzyn, che fino metà febbraio era rimasta al suo posto di ministra della sanità.

E in Italia?

In Italia l’opinione pubblica è estremamente mansueta, e il governo ha sempre respinto ogni responsabilità. Meno di 3 settimane fa (28 aprile), con i morti giornalieri che ancora fluttuavano intorno ai 400 al giorno, il premier dichiarava con invidiabile serenità: tornassi indietro, rifarei tutto eguale. Quanto al commissario Arcuri, il giorno dopo (29 aprile) trovava il coraggio di dichiarare: “Per evitare che anche questa diventi materia di dibattiti comunico che l’Italia è il primo paese al mondo per tamponi fatti per numero di abitanti” (notizia letteralmente falsa, e sostanzialmente erronea).

Negli ultimi giorni, tuttavia, grazie alle inchieste giornalistiche e agli studi scientifici, alcune verità stanno venendo a galla. Alcune sono ovvie, come il fatto che la scelta di ritardare il lockdown, a dispetto degli avvertimenti di tanti studiosi, è costato migliaia di morti, in Italia come altrove. Altre sono meno ovvie, o meglio diventeranno ovvie solo per gli storici di domani, quando le resistenze e gli interessi del momento presente non riusciranno più a farsi sentire. Fra queste verità la più importante è che la scelta di limitare il numero di tamponi e i ritardi nella organizzazione del tracciamento hanno avuto, e continuano ad avere, un costo umano enorme.

Da qualche giorno sembrano essersene accorte anche le autorità sanitarie. Le stesse autorità che all’inizio dell’epidemia “sgridavano” il Veneto, accusandolo di fare troppi tamponi, così deviando dalle sacre direttive dell’organizzazione Mondiale della Sanità, ora invitano a fare “come il Veneto” e improvvisamente si accorgono di aver trascurato l’essenziale, ossia l’approvvigionamento di reagenti, il coinvolgimento delle università, l’apertura agli operatori del settore privato.

Verso di loro serpeggiano le domande che, molto opportunamente, Franco Debenedetti e Natale D’Amico nei giorni scorsi hanno affidato al “Corriere della Sera”: “Lo dice perfino il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità: sui tamponi bisogna cambiare strategia. Perché solo adesso? C’era l’esempio del Veneto: perché in Lombardia no? Perché Sala (sindaco di Milano) deve mandare i tamponi da esaminare in Francia?”

Già, perché?

Perché l’Italia, anche dopo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva riconosciuto il proprio errore, ha aspettato il 5 maggio per manifestare l’intenzione di cambiare linea?

Perché non ci si è mossi subito per garantire l’approvvigionamento di reagenti e allargare il numero di laboratori autorizzati a fare test? Perché questo monopolio pubblico dei tamponi? Perché non abbiamo fatto come la Germania, che ha invitato a testare e tracciare tutti i soggetti sintomatici?

Non so se queste domande meritino la costituzione di “un’alta commissione  indipendente” (come suggerisce Franco Debenedetti), o l’avvio di nuove inchieste giudiziarie dopo quelle sulle residenze per anziani (come altri auspicano). So solo che le stime più prudenti del costo di aver scoraggiato i tamponi sono scioccanti (le pubblicherà a giorni la Fondazione Hume), che il numero di morti effettivi è almeno il doppio del numero ufficiale, e che continuare così costerà altre vittime, oltre a quelle che la riapertura inevitabilmente comporta.

Aver avviato la Fase 2 senza aver costruito le sue precondizioni fondamentali (mascherine, tamponi, tracciamento, indagine nazionale sulla diffusione) è stato certamente un errore, che ci sta già costando caro. Lo ha rilevato con preoccupazione il prof. Massimo Galli (ospedale Sacco di Milano) che, intervistato pochi giorni fa da Selvaggia Lucarelli, ha sconsolatamente osservato: “Possiamo solo affidarci a Santa Mascherina (…) Non è mai stato fatto un esperimento analogo nel mondo. E’ la prima volta che si tenta di arginare un’epidemia dicendo: esci con la mascherina e osserva il distanziamento. Io le dico che non esiste un lavoro scientifico che provi l’efficacia di questa strada”.

Ora che l’errore è stato fatto, e che il rischio ce lo siamo preso, possiamo solo augurarci una cosa: che il timore di dover riconoscere che si è sbagliato, non induca la classe politica, nazionale e locale, a perseverare nell’errore.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 maggio 2020




APPELLO in 11 punti per i tamponi di massa: più tamponi per salvare la Fase 2

Comunicato

Se vogliamo che la imminente riapertura non sia effimera, se vogliamo evitare la chiusura di centinaia di migliaia di aziende, se vogliamo che milioni di lavoratori non perdano il posto di lavoro, occorre cambiare rotta. Bisogna iniziare subito a fare tamponi di massa”. E’ l’appello lanciato da Andrea Crisanti, Luca Ricolfi, Giuseppe Valditara, e sottoscritto dai professori di Lettera 150, alle autorità nazionali e regionali. Obiettivo: coniugare la tutela della salute con il riavvio delle attività produttive e l’esercizio di libertà individuali, come quella di circolazione, evitando il ritorno al lockdown.

L’appello, redatto in 11punti, precisa come “una recente comparazione internazionale mostra che il numero di tamponi giornalieri per abitante è inversamente correlato a quello dei morti: più tamponi, meno morti”. E dunque, “la capacita’ di fare tamponi in grande numero permetterebbe di contenere ed eliminare prontamente la trasmissione del virus in caso di sviluppo di focolai epidemici”.

Del resto, la stessa Oms ora caldeggia l’esecuzione di tamponi di massa. Ovviamente, per evitare la ripartenza dell’epidemia, resterebbero necessarie le altre misure precauzionali, come il distanziamento e l’uso delle mascherine.

Ma una campagna di tamponamento, dicono i sottoscrittori dell’appello, è l’unico strumento che possa consentire ai cittadini di riprendersi in sicurezza “ la libertà di movimento, e di riunione, la libertà religiosa, la libertà di lavorare, e quella di iniziativa economica, tutte attualmente e in vario modo compresse.

Appello per i tamponi di massa

Se vogliamo che la imminente riapertura non sia effimera, se vogliamo evitare la chiusura di centinaia di migliaia di aziende, se vogliamo che milioni di lavoratori non perdano il posto di lavoro, occorre cambiare rotta. Bisogna iniziare subito a fare tamponi di massa.
E’ necessario, ed è possibile. Ecco perché:

1. Finora nelle regioni italiane si è fatto un numero insufficiente di tamponi giornalieri per abitante e ciò è ancora più evidente quando si confronta questo numero con i casi positivi identificati.

2. Una recente comparazione internazionale mostra che il numero di tamponi giornalieri per abitante è inversamente correlato a quello dei morti: più tamponi, meno morti (v. www.fondazionehume.it) .

3. Gli studi epidemiologici collegano ormai una efficace strategia di contenimento del virus ad una campagna di tamponi di massa (v., per esempio, gli articoli pubblicati su www.thelancet.com del 17 e 18 aprile 2020). Persino l’OMS ora caldeggia l’esecuzione di tamponi di massa.

4. Uno studio fatto dai professori Francesco Curcio e Paolo Gasparini ritiene che, utilizzando le esistenti strumentazioni di laboratorio, e con una efficiente organizzazione, ogni regione potrebbe processare già oggi un numero notevolmente superiore di tamponi.
5. Il costo per il processamento di un tampone, utilizzando reagenti almeno in parte prodotti nei laboratori di ricerca, è dell’ordine di 15 euro (inclusi il costo del personale tecnico, le utenze, il costo di ammortamento della strumentazione).

6. Risulta che molte imprese private, in diverse regioni italiane, si sono rese disponibili a pagare una campagna di indagini molecolari per i propri dipendenti e persino a finanziare laboratori che eseguano tamponi.

7. Macchinari di ultima generazione arrivano a processare fino a 10.000 tamponi al giorno.

8. La capacita’ di fare tamponi in grande numero permetterebbe di contenere ed eliminare prontamente la trasmissione del virus in caso di sviluppo di focolai epidemici, come effettuato con successo a Vo’.

9. Dopo 2 mesi di confinamento domiciliare esistono in Italia milioni di persone negative a Covid-19 che, adottando adeguati strumenti di protezione, potrebbero vivere nella pienezza dei propri diritti costituzionali invece finora conculcati. Una campagna di tamponamento può consentire a loro di riprendersi pienamente la libertà di movimento, e di riunione, la libertà religiosa, la libertà di lavorare, e quella di iniziativa economica, tutte attualmente e in vario modo compresse. Ovviamente, tutto ciò richiede che, sempre a scopo precauzionale, si osservi il distanziamento e si indossino obbligatoriamente le mascherine. È altresì auspicabile un efficace tracciamento con app.

10. Vietare a persone sane di circolare liberamente sul territorio nazionale, di lavorare o di intraprendere iniziative economiche è contrario ai principi costituzionali.

11. Senza una politica di tamponi di massa si avranno più morti, più danni alla salute, maggiori rischi di nuovi lockdown con conseguenze catastrofiche per la nostra economia.

Perciò invitiamo le autorità nazionali e regionali ad avviare una massiccia campagna di tamponi per contenere la diffusione di Covid 19, per difendere la vita, la salute, il lavoro, i risparmi degli italiani oltre ai loro diritti fin qui sospesi.

Il tempo è poco, i rischi sono grandissimi: è ora di agire.

Andrea Crisanti
Luca Ricolfi
Giuseppe Valditara

L’appello è promosso dai tre professori firmatari ed è stato sottoscritto dai professori di Lettera 150




Più tamponi, meno morti

Un confronto internazionale

Sul fatto che le autorità non dicano il vero, quando affermano che siamo il paese del mondo che fa più tamponi, non ci sono più dubbi. In due contributi precedenti abbiamo ampiamente dimostrato come stanno le cose: se si considera l’anzianità epidemica, l’Italia è uno dei paesi che fa meno tamponi al giorno per abitante.

Come si vede, solo 5 paesi (fra cui Francia e Regno Unito) fanno meno tamponi dell’Italia; gli altri 20 ne fanno di più, talora molti di più (è il caso, ad esempio, di Israele, Grecia, Norvegia).

Fin qui tutto chiaro, anche se spesso negato. Ma ora ci chiediamo: hanno ragione quanti affermano che la politica dei tamponi ha effetti rilevanti sul controllo dell’epidemia? In questo senso si sono pronunciati, fra gli altri, il prof. Massimo Galli (infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano), e l’immunologo Jean François Delfraissy, consigliere di Macron per la gestione dell’epidemia.

Il primo, in un’intervista televisiva, ha ipotizzato che, proprio grazie alla sua elevata capacità di fare tamponi, la Germania fosse uno dei pochi paesi europei importanti con buone chances di uscire relativamente bene dall’epidemia. Il secondo è arrivato a dire che, ove la Francia avesse avuto una capacità di fare tamponi di 100 mila al giorno (anziché soltanto 3 mila), forse non avrebbe consigliato il lockdown al Presidente francese.

A giudicare dai dati disponibili, l’ipotesi di un elevato impatto dei tamponi sul tasso di mortalità di un dato paese è tutt’altro che campata per aria. In questo campo non esistono prove irrefutabili, ma l’analisi dei dati fornisce una forte evidenza a favore dell’ipotesi di un nesso inverso fra propensione a ricorrere ai tamponi e tasso di mortalità: più tamponi si fanno, meno drammatica è la conta finale dei morti.

Dividendo i paesi in classi di propensione a fare tamponi (1° classe tanti, 5° classe pochi) la situazione risultante è la seguente.

Passando dalla prima classe (che include Israele, Lituania e Islanda) all’ultima (che include Italia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti ma non la Germania), il tasso di mortalità passa – con impressionante regolarità – da 19 a 294 morti per milione di abitanti: un rapporto di oltre 1 a 15. Un’analisi della distribuzione completa suggerisce che le soglie critiche siano situate intorno a 600 e 1000 tamponi al giorno per abitante. Il tasso di mortalità è quasi sempre relativamente modesto sopra i 1000 tamponi al giorno, è quasi sempre molto alto sotto i 600: la Germania è sopra la soglia dei 1000, l’Italia è sotto la soglia dei 600. Indicativamente si può suggerire che, per evitare l’esplosione della mortalità, l’Italia avrebbe dovuto fare il doppio dei tamponi che ha effettivamente fatto. E’ anche interessante osservare che, nel caso della Francia, la soglia di sicurezza fissata da Delfraissy (100 mila tamponi al giorno) corrisponde a circa 1500 tamponi al giorno per abitante, più o meno il valor medio della classe 2.

La relazione inversa fra tamponi e mortalità è ancora più chiara se confrontiamo le posizioni (o ranghi)  dei paesi nelle due graduatorie che si possono stabilire in base alle variabili “propensione a fare tamponi”, e “tasso di mortalità per milione di abitanti”.

Il diagramma mostra con estrema chiarezza che la mortalità tende a decrescere con il numero di tamponi: la correlazione è negativa, pari -0.802.

Il medesimo diagramma diventa ancora più nitido se restringiamo l’analisi ai paesi di tradizione occidentale, eliminando i paesi ex-comunisti. La correlazione inversa, già elevata, aumenta ancora in modulo (-0.832).

Credo vi sia materia per riflettere.

 ***

Nota tecnica

I dati provengono dal database Worldometers rappresentano gli ultimi dati comunicati al 19 aprile 2020. Va tenuto presente che alcuni paesi non comunicano il dato dei tamponi quotidianamente, e altri comunicano il dato dei soggetti testati anziché quello dei test effettuati, due circostanze che comportano entrambe una sottostima della propensione ad effettuare tamponi. Ciò fa sì che la posizione effettiva di alcuni paesi (ma non dell’Italia) potrebbe essere migliore di quella da noi stimata, peggiorando così la posizione relativa dell’Italia.

I paesi inclusi nell’analisi sono costituiti dall’insieme delle società avanzate per le quali erano disponibili dati sulla mortalità e sui tamponi.

L’anzianità epidemica di un paese è definita come il numero di giorni trascorsi dal primo giorno in cui il numero di morti ha superato il livello di 10 per milione di abitanti.

Le classi di propensione sono così definite:

classe 1: oltre 2500 tamponi al giorno per milione di abitanti;
classe 2: fra 1300 e 2500
classe 3: fra 1000 e 1300
classe 4: fra 600 e 1000
classe 5: meno di 600




Tamponi e fakenews di governo: non è vero che l’Italia è il paese che ne fa di più

Grande rilievo ha assegnato il Tg1 di oggi, lunedì 28 aprile, a questa dichiarazione del Commissario Governativo Domenico Arcuri, diffusa attraverso l’Agenzia Nova:

“Per evitare che anche questa diventi materia di dibattiti comunico che l’Italia è il primo paese al mondo per tamponi fatti per numero di abitanti: a ieri erano stati fatti 2.960 tamponi ogni 100 mila aitanti. In Germania 2.474, il 20 per cento in meno; in Inghilterra 1.061, un terzo che in Italia e 560 in Francia, un sesto”.

La notizia comunicata è falsa: sono una decina i paesi che, alla data considerata dal Commissario Arcuri, fanno più tamponi dell’Italia.

Alcuni sono paesi molto piccoli, come Islanda, Lussemburgo, Malta, Cipro, Lituania, Estonia, ma altri – Norvegia, Israele, Portogallo – lo sono assai meno, e comunque sono anch’essi “paesi del mondo”.

Quanto al confronto con la Germania, è basato su un artificio, che sfrutta il fatto che in Germania il numero dei tamponi viene comunicato solo una volta la settimana. Il dato riportato nel comunicato di Arcuri non si riferisce al numero di tamponi della Germania ieri (27 aprile), ma al numero di tamponi comunicato dalla Germania l’ultima volta che ha aggiornato il dato, ovvero più o meno una settimana prima.

Se Italia e Germania vengono confrontate alla medesima data (19 aprile), è la Germania a fare più tamponi, non l’Italia (25.1 ogni mille abitanti la Germania, 22.4 l’Italia). Dunque non è vero che la Germania ne fa “il 20% in meno”, la realtà è che ne fa l’11.9% in più.

Questo per quanto riguarda le cifre nude e crude. Se però vogliamo fare una comparazione sensata, non è certo il numero di tamponi per abitante che dobbiamo confrontare. Per fare un confronto corretto fra due paesi si dovrebbe, come minimo, tenere conto della “anzianità epidemica” del paese. Le cifre da confrontare, in altre parole, non sono quelle dei tamponi totali per abitante, ma dei tamponi al giorno per abitante.

In Italia l’anzianità epidemica è circa il doppio che in Germania.  Se si tiene conto di questo fattore ci si rende conto che la Germania fa più del doppio dei tamponi dell’Italia. Per l’esattezza, fatto 100 il numero di tamponi giornalieri per abitante dell’Italia, la Germania ne fa 241.5.

Sottigliezze statistiche?

Per niente. Il fatto che gli esponenti del governo continuino a vantare un (inesistente) primato dell’Italia nel numero di tamponi è un chiaro segnale della volontà di non aumentarne troppo il numero. E’ come se dicessero: se già ne facciamo più di chiunque altro, perché voi giornalisti (e voi cittadini) continuate a infastidirci con questa faccenda dei tamponi?

Una scelta che, inevitabilmente, non potrà non appesantire il già drammatico bilancio dei morti.

Per un’analisi più sistematica leggi Tamponi. L’Italia ne fa di più degli altri paesi? pubblicato il 16 aprile 2010