Non ci resta che il tampone

Ultimamente siamo tutti quanti presi da uno spasmodico, smodato e paradossale desiderio di tampone.

Non siamo diventati di colpo stupidi o masochisti: è che il tampone è l’unica cosa che ci resta, il solo desiderio che abbia, in questa desolazione, una qualche chance di essere esaudito. Nel nostro immaginario, è diventato la manna che scende nel deserto. Il salvagente lanciato al naufrago. L’oracolo che ci dà un responso. L’amico immaginario.

È anche, bisogna dirlo meno poeticamente, il nostro scarica-coscienza. Lo è stato soprattutto quando siamo tornati dalle vacanze e, dopo bagordi, discoteche, cene, aperitivi, feste affollate, molti di noi, quelli che si erano sfrenati di più, si sono precipitati a farsi un tampone: per togliersi il pensiero, e magari andare più sereni ad altre feste. Da settembre in poi il tampone è diventato l’acqua che lava via i peccati, il gesto che ci libera dai sensi di colpa. Tampone-lavacro, tampone-panacea.

Ma ora è di più: il tampone è l’unica cosa che il cittadino ha a disposizione (seppur con enormi difficoltà) per sapere almeno se si è preso il virus o no, in uno Stato che si nega, si nasconde, fa pasticci, confonde, non risolve, non appronta nulla, non ci difende, non ci protegge!

Dove il potere abdica, regna il tampone.

Con enormi difficoltà, però! Difficilissimo avere il dono di un tampone. L’oracolo di Delfi era di gran lunga più accessibile, meno affollato: forse più oscuro, ma sicuramente più disponibile. L’immagine più dolorosa, drammatica, devastante di questi giorni, quella che non mi tolgo dagli occhi, è la gente in coda nella notte, in auto o a piedi, dalle quattro di mattina. Gente che accompagna i suoi bambini, i suoi anziani, magari febbricitanti. Scene intollerabili che non dimenticheremo.

L’aspetto per me più stupefacente è la pazienza. L’infinita sopportazione, venata di rassegnazione. La gente intervistata nella notte, chiusa nella propria auto, non si lamenta, non protesta. Non lancia sassi, non divelle alberi, non incendia palazzi, dice soltanto: Eh sì, sono qui da 7 ore, dormo un po’, mi sono portato da leggere, aspetto, e spero di arrivare a farmelo, il tampone, che mi prendano ancora, che non chiudano, altrimenti dovrò tornare domani.

Come hanno potuto i nostri governanti assistere impassibili a questo supplizio senza vergognarsi? E come abbiamo potuto noi essere così pazienti, e indulgenti?

Ma il tampone è soprattutto ciò che “tampona” la ferita più grande, che sostituisce il Grande Assente, colui che ora più che mai ci manca: il nostro medico curante. La corsa ai tamponi è la risposta, patetica, alla latitanza dei nostri medici. Latitanza non colpevole, intendiamoci, non voluta, anch’essa in qualche modo imposta: il medico di base non può visitarci e non può curarci. Noi lo chiamiamo, gli elenchiamo i sintomi al telefono, e lui ci dice che né potremo noi andare da lui in ambulatorio, né potrà lui venire a visitare noi. Logico, correrebbe il rischio di infettarsi e di infettare tutti i pazienti successivi; si dovrebbe proteggere, ma non gli è stato fornito nessun mezzo di protezione. Quindi ci dice gentilmente di prendere una tachipirina e di aspettare; oppure, se ritiene che i sintomi siano chiari, trasmette una segnalazione alla ASL.

Cioè, ci abbandona! Il nostro medico amato, il medico che ci cura da trent’anni, che conosce ogni nostro minimo acciacco, che è corso al nostro capezzale a ogni nostra febbre o mal di pancia, ora non può che negarsi e abbandonarci: trasmette la segnalazione all’Asl! Aiuto, nulla potrebbe farci più orrore, nulla gettarci di più nello sconforto totale! Di colpo, al suono ASL, abbiamo la percezione netta del tritacarne burocratico in cui finiremo, noi e i nostri poveri sintomi, semplici nomi buttati nella rete, dispersi, maciullati… Di colpo ci sentiamo soli. Forse malati, e irrimediabilmente soli. Perduti nel vuoto.

Mi viene in mente Major Tom. La splendida e tragica canzone di David Bowie dove l’astronauta si perde nello spazio, vi ricordate? Ground Control to Major Tom… Can you hear me, Major Tom…? No, nessuno ci ascolta. La nostra astronave è rotta e non sa da che parte andare. Questa insensata corsa al tampone è il segno della confusione e solitudine in cui ci hanno lasciati. Noi andiamo dal tampone perché è l’unica entità esistente da cui andare! È “lui” il nostro nuovo medico. Un medico impalpabile e impotente, un medico che non ci cura e non si cura di noi. Ma almeno ci solleva l’anima per un po’, ci placa l’ansia.

C’è qualcosa di sinistramente assurdo in tutto ciò, qualcosa di (inconsapevolmente?) perverso e anche un po’ sadico. Possibile che, proprio in epoca di pandemia, la gente perda i suoi medici?

Per questo adesso siamo tutti idealmente dentro quelle auto in coda. Uniti, partecipi, addolorati, sconcertati: siamo lì in piena notte, pieni di freddo e ansia, preoccupati e confusi. In fila al buio per ore.

È l’abbandono, che più ci tormenta. L’essere lasciati in un mare immenso carico di nubi tempestose, senza nemmeno il miraggio di una barchetta, le luci di un elicottero che si avvicina, una corda che ci viene lanciata, una torcia, una coperta di lana…

La legge del mare impone di salvare i naufraghi. Quale legge salverà noi, naufraghi nel mare dell’inefficienza e della cieca, impietosa disorganizzazione?

Pubblicato su La Stampa del 27 ottobre 2020




COVID-19: prevenire e vigilare in famiglia

La pandemia ha mostrato che il diritto alla tutela della salute dipende dal rispetto di ciascuno per la salute di tutti e in concreto dai comportamenti individuali i cui effetti vengono amplificati dalla interazione con quelli degli altri. Forse mai come in tempi di pandemia diventa evidente che il benessere di ciascuno è al tempo stesso reso possibile e condizionato dalla cura di quello altrui.

Ci siamo così persuasi che l’obbligo della mascherina e del distanziamento fisico sono restrizioni delle libertà individuali necessarie, tanto più efficaci quando rappresentano autolimitazioni volontarie di responsabilità civile a tutela della salute di tutti.

La paura, l’angoscia ed il sospetto, d’altro canto, hanno mostrato quanto possa essere messa a dura prova la solidarietà familiare e intergenerazionale nel momento in cui la famiglia è indicata come il luogo a più alta densità di relazioni e dove maggiori sono i rischi di trasmissione del contagio.

Di fatto ciascun membro porta in famiglia tutti i rischi delle sue relazioni ed è inevitabile che questi vengano amplificati dalle maggiori vicinanza e condivisione della vita familiare. Si sta insieme, si usano le stesse stoviglie e gli stessi sanitari, si respira la stessa aria.

Soprattutto nella famiglia, mentre ciascun membro è un potenziale portatore e diffusore, interdipendenza e reciprocità possono divenire moltiplicatori e detonatori imprevedibili dei rischi e della malattia. Soprattutto nella famiglia, d’altro canto, è difficile osservare le precauzioni che si possono applicare all’esterno, come la mascherina, il distanziamento (come rispettarlo se si è in più di tre in una casa di 60 mq?) o lavarsi le mani (quante volte?).

Ma è proprio ineluttabile guardare alla famiglia come ad un potenziale focolaio, piuttosto che ritrovare in essa il focolare di accoglienza, attenzione e cura reciproca che si è sempre desiderato?

In realtà credo che la famiglia potrebbe e dovrebbe svolgere un ruolo centrale in qualsiasi strategia di prevenzione e controllo dei disagi da COVID-19.

La famiglia (quella ristretta), infatti, potrebbe rappresentare un presidio di protezione e di vigilanza se i suoi membri venissero aiutati ad avere una percezione corretta del rischio e a contrastare con maggiore efficacia il contagio.

Per questo mi parrebbe opportuno che ciascun membro, periodicamente e in alternanza con gli altri membri del suo stesso nucleo famigliare, si sottoponesse ad un test/tampone in grado di escluderne la positività. Se ne ho capito le proprietà credo che sarebbe sufficiente un test antigenico. Se in una famiglia di quattro membri ciascun membro si sottoponesse al test una volta al mese, cosi che venisse fatto un tampone a settimana per nucleo famigliare, la famiglia potrebbe disporre di un sistema-sentinella di vigilanza non del tutto sicuro, ma comunque tale da assicurare un tempestivo intervento nel caso di esito al test positivo. Non disporremmo di una diagnosi ottimale, ma moltiplicata per il numero dei membri della famiglia, sufficientemente buona per estendere il test e alzare la guardia.

Il quadro che prospetto, evidentemente, è del tutto ipotetico e sarebbe raccomandabile se fossimo in grado di stimare:

a) in quale grado la diagnosi di positività a livello individuale è un indicatore della vulnerabilità del nucleo familiare e quindi della probabilità di estensione del contagio agli altri membri;

b) i tempi e la rapidità della trasmissione familiare e quindi i periodi di maggior rischio di contagio e gli intervalli ottimali per l’esecuzione dei test.

Il costo del test “rapido” in laboratori privati sarebbe oggi di 88 euro (22 x 4). Non poco per tutti e inaccessibile per molti. Se si impegnasse un maggior numero di laboratori di analisi privati i costi potrebbero essere molto più economici e la platea di fruitori molto più ampia.

I vantaggi potrebbero essere notevoli in termini di: prevenzione, educazione della cittadinanza alla tutela della salute, tempestività della diagnosi, alleggerimento della pressione diagnostica sulle strutture ospedaliere.

L’efficacia della diagnostica familiare potrebbe avere un valore aggiunto sul piano preventivo ed epidemiologico se i casi accertati di positività col test antigenico venissero tempestivamente sottoposti a convalida con tampone molecolare. Permetterebbe inoltre di approfondire le nostre conoscenze sulla trasmissione del virus a livello familiare da e tra soggetti sintomatici e asintomatici, più o meno vulnerabili e tra generazioni.

Non si dovrebbero tuttavia sottovalutare i rischi di esiti imprevisti ed indesiderabili.

È verosimile che la diagnostica familiare porterebbe alla luce prima e in misura maggiore casi (asintomatici) che resterebbero altrimenti sconosciuti. Sarebbe perciò necessario assicurare che, dove venisse diagnosticato un caso positivo, anche tutti gli altri membri dello stesso nucleo familiare venissero tempestivamente sottoposti a tampone e quindi messi nella condizione di evitare di contagiare altri senza saperlo.

Verosimilmente ne risulterebbe un sostanziale incremento della richiesta di tamponi molecolari che potrebbe rappresentare un ulteriore stress per sistemi sanitari non preparati e già gravemente provati.

Poiché sarebbe disastroso se le attese delle famiglie non venissero prontamente corrisposte, nuovamente si riproporrebbe il dilemma se dire e fare o piuttosto non dire e non fare sperando in bene.

Fatti i debiti calcoli (vedi sopra a, b) ritengo che sia sempre meglio affrontare i rischi che la conoscenza dei fatti comporta.

Sono infine convinto che un cambiamento di prospettiva sia necessario per quanto concerne i destinatari della comunicazione e gli attori delle strategie di prevenzione e intervento. La famiglia, come e al di là dei singoli individui, potrebbe e dovrebbe assumere un ruolo centrale.




L’economia contro l’economia

E’ stato necessario superare i 4000 nuovi casi (giovedì scorso), quasi 1000 in più del giorno prima, perché anche i nostri governanti, fin qui impegnati a lodare il “modello italiano” che tutto il mondo ci invidierebbe, cominciassero a sospettare che non tutto stesse filando liscio. Ora, improvvisamente, si parla di 10 o 20 mila casi al giorno come un punto d’arrivo non troppo lontano (ieri, nonostante i pochi tamponi, erano già ben oltre quota 5000). E c’è persino qualche membro del Comitato tecnico-scientifico che confessa candidamente che “non se lo aspettava”.

Eppure i segnali di una ripresa dell’epidemia c’erano tutti, e da parecchio tempo. Come Fondazione Hume, fin dalla metà di giugno (circa 4 mesi fa) avevamo segnalato che in molte province l’epidemia stava rialzando la testa. Come noi, diversi centri indipendenti non hanno mai smesso di snocciolare quotidianamente le cifre che indicavano l’aggravarsi della situazione. E sono state molte, anche se minoritarie, le voci che in questi mesi hanno ripetutamente denunciato l’insufficienza del numero di tamponi, l’errore di aprire le discoteche, l’inerzia delle autorità su movida e assembramenti nei trasporti pubblici, i ritardi sul versante delle scuole (mancanza di spazi, insegnanti, banchi). Per non parlare dei numeri della Protezione Civile: non è certo da quest’ultima settimana che tutti gli indici del contagio – nuovi casi, ricoveri in terapia intensiva, morti – si muovono su una traiettoria di crescita accelerata. Ed è sotto gli occhi di chiunque abbia il coraggio di guardarlo in faccia il dato di base sui tamponi: da almeno due mesi l’Italia fa meno tamponi per abitante di Germania, Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, per limitarci ai paesi a noi più comparabili.

Sui veri motivi che hanno condotto le nostre autorità, che sicuramente sapevano quel che stava succedendo, a ritardare gli interventi necessari, preferisco non dire e non pensare nulla. Mi soffermerei, invece, su uno in particolare dei possibili motivi, che è anche quello più citato, capito e approvato un po’ da tutti: “non potevamo fermare l’economia”.

Ebbene, su questo motivo mi sono permesso, nei mesi scorsi, di porre la seguente domanda: qualcuno ha provato a calcolare se i benefici economici immediati della linea “aperturista” siano maggiori dei costi che dovremo sostenere quando la ripresa dell’epidemia sarà evidente a tutti, e si sarà costretti a nuovi lockdown più o meno generalizzati?

Detto in altre parole: siamo sicuri che l’alternativa sia fra salute ed economia? Siamo sicuri che ridando fiato all’economia oggi, non finiamo per soffocarla domani, appena il virus avrà ripreso la sua corsa?

Insomma, la mia idea era che la dottrina Crisanti – assestare il colpo decisivo al virus quando circola ancora poco (cioè a giugno) – non avesse solo giustificazioni sanitarie o etiche, ma potesse avere anche una giustificazione economica.

Ho posto la domanda in un paio di articoli su questo giornale, l’ho ripetuta ad economisti ed esperti di finanza, ma non ho ricevuto risposte, per lo più perché “il calcolo è troppo difficile”. Ora però uno studio del Fondo Monetario Internazionale, uscito pochi giorni fa, una risposta la fornisce.

Nello stile cauto che si addice, molto opportunamente, a chi fa ricerca con modelli statistici, il Fondo Monetario avanza una tesi che pare supportare la mia ipotesi. Secondo lo studio, il lockdown ha sì effetti negativi immediati sull’economia, ma il fattore cruciale per la ripresa dell’economia è quel che succede dopo il lockdown. Se dopo il lockdown, per qualche motivo, il numero si contagiati è ancora alto si innesca una catena causale esiziale per la ripresa delle attività economiche: l’alto numero di contagiati aumenta il rischio percepito, l’aumento del rischio percepito induce la gente a proteggersi volontariamente con il distanziamento sociale, la messa in atto sistematica di misure individuali ultra-prudenti fa crollare la mobilità e le interazioni sociali, e di qui consumi, occupazione, eccetera. Per dirla più in concreto: serve a ben poco far riaprire bar, ristoranti, negozi, perché la gente, se non è ancora tranquilla, non ci entrerà quasi mai in quei bar, ristoranti, negozi. Insomma il vero nodo è se il lockdown è abbastanza tempestivo (il nostro non lo è stato: vedi Nembro e Alzano), e se dopo il lockdown la circolazione del virus è sufficientemente bassa da rendere soggettivamente trascurabile il rischio di contagi.

E’ proprio questo il nostro problema, mi pare. Per salvare l’industria del turismo, che prospera per tre mesi all’anno, abbiamo messo a repentaglio l’economia nel suo insieme, che ha di fronte sei mesi in cui le condizioni climatiche saranno tutte dalla parte del virus.

Ci hanno abituati a pensare che la politica si trovasse di fronte al dramma di dover scegliere fra la salute e l’economia, o di trovare un ragionevole compromesso. Lo studio del Fondo Monetario suggerisce un’altra lettura: usare la tregua estiva per portare vicino a zero il numero dei contagi sarebbe stato il modo più efficace di aiutare l’economia; usarla per sostenere l’industria delle vacanze è stata una scelta miope, di cui ora siamo chiamati a pagare il prezzo.

Forse dobbiamo prenderne atto: il peggior nemico dell’economia è il “partito dell’economia”.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2020




Il partito della prudenza

Alla fine Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza (e rappresentante dell’Italia nell’OMS), si è lasciato scappare la verità: la riapertura delle scuole è a rischio, e le elezioni pure. Era un’ovvietà, lo sa chiunque segua i dati dell’epidemia. Ma lo hanno costretto a rimangiarsela: non si stava riferendo all’Italia, avevamo capito male. Il totem della riapertura non si può toccare.

In questi mesi il governo ha finto di puntare tutto sulla riapertura delle scuole. Ma la verità è che la priorità del governo non è mai stata la riapertura delle scuole. Se lo fosse stata avrebbe agito diversamente.

Ricapitoliamo. E’ da due mesi, non da pochi giorni, che i segnali di una ripresa dell’epidemia si moltiplicano. Per tutta risposta, il governo ha accuratamente evitato di imporre la chiusura delle discoteche, lasciando pilatescamente la patata bollente alle Regioni. E su tutti gli altri fronti si è mosso nella medesima direzione: chiudere un occhio su ogni infrazione delle regole, prima fra tutte il distanziamento, per non danneggiare il turismo; permettere che la gente (aiutata da esperti negazionisti o minimizzanti) si autoconvincesse che il peggio era passato, che il virus era in ritirata, e che le regole potevano essere violate impunemente.

Eppure l’evidenza scientifica (e sociologica) diceva tutt’altro. I più giovani si ammalano raramente e poco gravemente, ma sono un vettore formidabile del virus. Il contagio fra coetanei è inevitabile in qualsiasi situazione diversa dal lockdown. Se si vuole impedire che il contagio deflagri nelle scuole, mettendo a rischio innanzitutto la salute di insegnanti e familiari, la via maestra non sono i banchi a rotelle ma è portare il più possibile vicino a zero il numero di contagiati; approfittare dell’estate (alte temperature, poco smog, vita all’aperto) per appiattire ancora la curva epidemica, in modo che il primo giorno di scuola i ragazzi contagiosi siano il meno numerosi possibile.

Perché è vero che dobbiamo imparare a convivere con il virus, è vero che non siamo ancora nelle condizioni di azzerare i contagi, ma è completamente diverso combattere il virus quando i contagiati sono uno ogni 10 mila, uno ogni mille, o uno ogni cento. Fino a un paio di mesi fa eravamo vicini alla prima soglia (1 su 10 mila), ora abbiamo superato la seconda (1 su 1000), e stiamo puntando a vele spiegate verso la terza (1 su 100). E’ una situazione pericolosissima, che molto somiglia a quella di febbraio. Come ha recentemente osservato l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco, il problema è che – lasciando correre il virus come finora si è fatto – si stanno creando le condizioni per “l’innesco di una seconda ondata. Lo stesso innesco che a febbraio, semplicemente, non abbiamo rilevato e che poi ha provocato la grande ondata”.

Non sono considerazioni nuove. Sono il nucleo della “dottrina Crisanti”, più volte enunciata pubblicamente da lui stesso, e sottoscritta da una piccola minoranza di istituzioni, studiosi, operatori dell’informazione, preoccupati dell’imprudenza del governo centrale e di non pochi governatori delle Regioni.

Ora, però, siamo a 6 mesi esatti dallo scoppio dell’epidemia (Codogno, era il 21 febbraio), e il “partito della prudenza” è chiaramente e inequivocabilmente sconfitto. Inutile nasconderlo, inutile insistere con i numeri e con le analisi. Persa la battaglia in favore di un vero contrasto dell’epidemia, è forse giunto il momento di capire perché abbiamo perso. O meglio: perché abbiamo perso in modo così rovinoso e totale, perché mai non siamo riusciti a vincere nemmeno una delle nostre battaglie.

Sconfitta (a febbraio) la linea della prudenza verso i cinesi e i voli (diretti e indiretti) dalla Cina. Persa la battaglia contro la campagna “Milano non si ferma”. Sconfitta l’idea di fermarsi subito, ai tempi delle mancate chiusure di Nembro e Alzano. Ignorati (una prima volta a marzo e una seconda a maggio) gli appelli per i tamponi di massa. Snobbate, ai primi di giugno, le analisi che indicavano che alcune regioni del Nord non erano pronte per la riapertura. Recepita con mesi di ritardo la proposta di un’indagine sierologica nazionale. Completamente disattesa la richiesta, non solo nostra ma di tutta l’opinione pubblica, di indicazioni chiare e ragionevolmente stabili su mascherine, distanziamento, assembramenti. Indifferenza alle proteste per le incredibili incongruenze delle norme sul distanziamento (rigorosamente distanziati a teatro, nei musei, sui Freccia Rossa; appiccicati come sardine sui bus, sui treni ordinari, sui vaporetti, sugli aerei). Incomprensibile sordità agli inviti a tenere chiuse le discoteche, nonché alle denunce sulla violazione delle regole nei luoghi della movida e del divertimento. Snobbata ogni critica sulla disastrosa gestione degli sbarchi. Demonizzata ogni idea di limitazione e regolazione dei flussi turistici (un errore che la Sardegna sta pagando a caro prezzo proprio in questi giorni). Del tutto ignorate le richieste degli studiosi di accedere ai dati analitici dell’epidemia.

E’ solo un piccolo campionario della guerra che abbiamo rovinosamente perso. Dunque, veniamo al punto: perché il “partito della prudenza” ha perso tutte le sue battaglie?

Io credo che la risposta, se vogliamo andare subito al succo, sia essenzialmente una: la stella polare della politica, di tutta la politica (non solo del governo), è solo il consenso di breve, brevissimo periodo. Non c’è altro, nelle scelte che fanno i nostri politici, anche se c’è molto altro nelle chiacchiere con cui le accompagnano. Se governo e Regioni avessero agito con maggiore prudenza avrebbero avuto contro almeno tre poteri fondamentali: il mondo dell’economia, interessato alla riapertura persino quando (fine febbraio) era palesemente una follia; l’opinione pubblica, assetata di risarcimenti economici (sussidi) ed esistenziali (vacanze senza restrizioni) dopo il lockdown; l’opposizione politica, schierata dal lato della ripartenza ancora più accanitamente del governo.

Certo, è stato il governo a non avere il coraggio di tenere chiuse le discoteche, e a perseverare in quell’errore nei giorni (Ferragosto) in cui tutti avevano capito che era un errore fatale. Ma non si può dimenticare che, di fronte a una scelta così irresponsabile, Salvini non trovava di meglio che dichiarare: “L’unico problema legato al virus non sono i ragazzi che ballano ma quelli che sbarcano”. Difficile pensare che un governo imprudente possa cambiare rotta se il maggiore partito di opposizione è su una linea ancora meno prudente.

Lo stesso discorso vale per gli altri attori in campo. Se la gente non ha capito quanto erano pericolosi i comportamenti di cui ora constatiamo le conseguenze, è perché il governo, dopo il lockdown (e in particolare dopo la chiusura delle scuole e l’inizio delle vacanze), non ha mai veramente provato a far rispettare le regole. Ma è altrettanto vero che se ci avesse provato, come era suo preciso dovere, avrebbe perso molto del consenso accumulato nei mesi precedenti. Gli attori economici si sarebbero ribellati, le famiglie e i giovani si sarebbero sentiti ingiustamente deprivati dei loro sacrosanti, inalienabili, diritti a vacanze, spiagge, divertimento, movida ecc. (resta naturalmente da vedere se il calcolo del governo non sia stato miope: se le scuole riaprissero a singhiozzo, se dovessimo essere costretti a un nuovo lockdown, se i nuovi danni all’economia risultassero superiori ai vecchi benefici dell’apertura precoce, la gente si arrabbierebbe molto).

E’ questa la logica di quel che è successo. E’ per questo che noi “prudenti” abbiamo perso tutte le nostre battaglie. Siamo stati ingenui, ora non ci resta che sperare di aver avuto torto, e che a settembre si verifichi il miracolo: le scuole riaprono, le elezioni hanno luogo in sicurezza, gli oltre 1000 focolai attuali diminuiscono drasticamente di numero, ci sono abbastanza tamponi per tutti i bambini e i ragazzi messi in isolamento, pochi insegnanti si ammalano, nessuno di loro muore, la stagione fredda e lo smog della pianura padana non alimentano una seconda ondata, l’economia riprende vigore, gli ospedali si svuotano, non ci sono nuovi lockdown.

E’ un atto di fede, ma è tutto quel che ci resta.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 agosto 2020




Tamponi, non diminuiscono solo in Italia

Come abbiamo avuto modo di sottolineare in un precedente contributo, il trend dei tamponi processati in Italia ha incominciato a piegare verso il basso a partire dal 25 maggio, giorno in cui è stato permesso a quasi tutte le attività economiche di riaprire. Negli ultimi due giorni (ultimo dato disponibile, ore 18.00 dell’11 giugno), vi è stato un leggero rialzo, ma se si confronta l’ultimo dato disponibile con quello del 24 marzo si scopre che il numero settimanale di tamponi è diminuito di circa l’11% rispetto a due settimane fa.

Come abbiamo già precedentemente mostrato, l’Italia non è il paese che fa più tamponi. Se si calcola il numero complessivo di test effettuati (dall’inizio dell’epidemia) sul totale della popolazione, il nostro paese si posiziona dietro a Lussemburgo, Islanda, Lituania, Danimarca, Portogallo, Canada, Norvegia, Irlanda e Israele. L’Italia si colloca dunque al decimo posto di una graduatoria che riguarda 38 paesi avanzati per i quali sono disponibili dati recenti sul numero di tamponi.

Se invece si considera l’anzianità epidemica, la posizione del nostro paese scivola di sei posizioni nella classifica. Si trova dietro non solo a Islanda o Lussemburgo, paesi dove la strategia di campionamento può risultare più facile data la loro dimensione demografica, ma anche a paesi come Danimarca, Canada, Portogallo, Norvegia, Stati Uniti e Germania.

Ciò significa che questi paesi hanno scelto di attivare una strategia di screening del virus in modo più tempestivo. Si deve però tenere presente che l’Italia sconta – più di altri paesi in cui il virus si è diffuso in una fase successiva – l’essersi attenuta alle iniziali raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che prevedevano di effettuare tamponi solo a chi avesse manifestato sintomi.

Se si guarda invece a ciò che è successo negli ultimi giorni, si può vedere come l’Italia, ancora una volta, non si trovi in cima alla graduatoria. Lussemburgo, Danimarca, Lituania, Canada e Portogallo – che già vantano un numero di tamponi per abitante e per anzianità epidemica superiore al nostro – hanno effettuato nell’ultima settimana più tamponi di noi. Anche Stati Uniti, Cile, Regno Unito, Svezia, Australia e Spagna hanno avuto performance migliori dell’Italia.

Abbiamo detto che in Italia il trend dei tamponi settimanali è in discesa, ma il nostro non è l’unico paese ad aver diminuito il ritmo dei test effettuati. Come si vede dai grafici seguenti, anche la curva di paesi come Finlandia, Islanda, Belgio, Irlanda, Nuova Zelanda, Lituania, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia o Slovacchia si sta attenuando.

In altri paesi, invece, la tendenza è all’aumento. Parliamo di Canada, Lussemburgo, Paesi Bassi, Korea, Svezia e Cile.

 

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Nota tecnica

I dati utilizzati provengono dai database Ourworldindata e dalla Johns Hopkins University aggiornati al 10 giugno 2020.
La frequenza di pubblicazione dei test effettuati differisce a seconda del paese considerato. Alcuni forniscono dati quotidianamente, altri paesi (come Germania, Spagna o Svezia) comunicano il dato con cadenza settimanale.
Il confronto internazionale è stato quindi effettuato a parità di aggiornamento. L’ultimo dato disponibile sul tasso dei tamponi per abitante di un paese è stato confrontato con il dato italiano relativo al corrispondente periodo.

Alcuni paesi, inoltre, pubblicano il numero di persone testate, mentre altri comunicano il numero di test effettuati, in altri casi ancora non è chiara l’unità di riferimento del dato.

Per effettuare un confronto omogeneo dei dati, si è quindi scelto di convertire i casi testati in tamponi effettuati utilizzando un coefficiente di correzioni (pari a 1.55 ovvero al rapporto registrato in Italia, Giappone e Regno Unito fra tamponi effettuati e casi testati).

Oltre ai test PCR effettuati, le autorità spagnole comunicano il numero di test sierologici eseguiti. Questi ultimi sono stati esclusi dalle analisi.

I dati del Regno Unito si riferiscono ai tamponi effettuati a coloro che hanno necessità di cure ospedaliere in laboratori e negli ospedali del SSN e quelli destinati ad una “popolazione più ampia” come indicato nelle linee guida del Governo. Sono esclusi i test inviati tramite posta.

Per anzianità epidemica di un paese intendiamo il numero di giorni trascorsi dal momento in cui il numero di decessi ha superato l’1 per 100.000 abitanti.