Aiuta il progetto ARTICOLO 34 – MERITO E PARI OPPORTUNITA’

L’articolo 34 della Costituzione recita:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Purtroppo, il sistema di sussidi che enti pubblici e privati erogano agli studenti è ancora ben lungi dal garantire il rispetto dell’articolo 34.

Le borse destinate ai “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” sono ancora troppo poche (specie nella scuola secondaria superiore), di importo insufficiente, e non sempre in grado di individuare i più capaci e meritevoli.

La Fondazione David Hume sta elaborando un progetto per far sì che, nel giro di alcuni anni, il dettato costituzionale venga pienamente rispettato attraverso un sistema di borse di studio ampio, generoso, e in grado di assicurare anche ai meno abbienti il proseguimento degli studi fino ai gradi più alti.

La promozione del merito, a partire dalla scuola, è uno degli strumenti fondamentali per contrastare le diseguaglianze e favorire le pari opportunità. Ma è anche una via per alzare il livello medio di preparazione degli studenti, con benefici in tutti i campi, dalla cultura alla sanità, dall’economia alla qualità della vita democratica.

Il nostro progetto prevede innanzitutto l’istituzione di un FONDO NAZIONALE DEL MERITO, che permetta ad ogni singola scuola di:

  • Premiare, con un riconoscimento simbolico e una piccola somma in denaro (per esempio 100 euro), le allieve e gli allievi che hanno ottenuto i risultati migliori, indipendentemente dalla condizione economico-sociale della famiglia: le ragazze e i ragazzi che ottengono buoni risultati vanno tutti riconosciuti e valorizzati, perché – con il loro impegno e il loro talento – contribuiscono al benessere e al buon funzionamento dell’intera comunità;
  • Dotare di una significativa borsa di studio (per esempio 12 mila euro l’anno) le premiate e i premiati che provengono da famiglie svantaggiate, e rischiano quindi di interrompere prematuramente gli studi, o intraprendere percorsi inferiori alle loro possibilità, dover lavorare per mantenersi agli studi, con grave perdita per loro stessi e per la collettività.

Il FONDO NAZIONALE DEL MERITO, provvisto di una dotazione iniziale dello Stato centrale, dovrebbe essere aperto ai contributi degli altri enti pubblici e dei privati, in particolare famiglie, imprese, fondazioni bancarie, istituzioni e organizzazioni del terzo settore.

L’ipotesi da cui muoviamo è di iniziare dai ragazzi di 3a media e, ogni anno, estendere il sistema ad una o più leve successive, anche in funzione dell’apporto dei soggetti che vorranno contribuire al “Fondo nazionale del merito”. Più generosi saranno i contributi al Fondo, più rapidamente sarà raggiunto l’obiettivo di assicurare un adeguato sostegno a tutti i “capaci e meritevoli”, come avevano previsto i Padri Costituenti.




Sussidi e redditi integrativi: l’intervista a Luca Ricolfi

Berlusconi promette fino a mille euro grazie al suo “reddito di dignità”. I Cinquestelle dicono di aver trovato 17 miliardi per finanziare “il loro reddito di cittadinanza”. Ma tutti questi soldi ci sono? E soprattutto, non si rischia di innescare nella società spinte parassitarie o favorire il lavoro in nero?

I 17 miliardi all’anno non ci sono, a meno di tornare a una crescita del Pil di almeno il 3%. Tanto più che le coperture previste dai Cinque Stelle sono in gran parte costituite da nuove tasse o aumenti di gettito di tasse preesistenti. Per non parlare delle clausole di salvaguardia da disinnescare, che da sole limitano i margini di manovra di qualsiasi governo.

Quanto alle spinte parassitarie e al lavoro nero, bisogna essere ciechi per non vedere che sarebbero la principale conseguenza del “reddito di cittadinanza” (in realtà: reddito minimo) proposto dai Cinque Stelle.

Tornando al “reddito di dignità” proposto da Berlusconi, può veramente annoverarsi tra le imposte negative rilanciate da Friedman e dalla scuola austriaca?

Nulla osta a introdurre un’imposta negativa, e poi chiamarla “reddito di dignità”. Questa espressione peraltro non è nuova (un sussidio denominato reddito di dignità esiste già in Puglia, e si chiama ReD), anche se a me non piace, per il suo sapore paternalistico-assistenziale.

Anche lei in passato è sembrato favorevole a questo modello. Perché? E quali sono le altre soluzioni per sconfiggere la povertà?

Bisogna distinguere. Se per “sconfiggere la povertà” si intende sradicare la povertà assoluta, allora l’imposta negativa non è la soluzione, perché essa colma solo in parte la differenza fra reddito effettivo e soglia di povertà. Per garantire che un’imposta negativa del 50% (questa è l’aliquota di cui normalmente si parla) sradichi la povertà assoluta occorrerebbe posizionare l’asticella della povertà a un livello doppio rispetto alla soglia Istat, che per un single fluttua intorno ai 700 euro al mese in funzione del livello dei prezzi (al Sud può scendere a 550 euro, al Nord può salire oltre gli 800). Il costo per le casse dello Stato sarebbe enorme.

Se invece quel che si desidera è fornire un sostegno ai poveri che al tempo stesso non disincentivi la ricerca di un lavoro, l’imposta negativa è un’ottima soluzione, naturalmente con un’asticella posta in prossimità della soglia di povertà assoluta.

Più in generale ci spiega la differenza tra reddito di cittadinanza e reddito minimo, e quali categorie fino che grado di intervento da parte del pubblico è auspicabile per non generare storture.

Il reddito minimo è rivolto solo ai poveri, e comporta il rispetto di alcuni doveri (accettare un lavoro, seguire corsi di formazione, ecc.). Il reddito di cittadinanza invece è rivolto a tutti, anche ai ricchi, e non comporta alcun dovere. La proposta dei Cinque Stelle è una proposta di reddito minimo, denominata reddito di cittadinanza al solo scopo di attirare il consenso degli elettori.

Evitare le storture, ossia la rinuncia alla ricerca di un lavoro la ricerca di lavori in nero per poterli cumulare con il sussidio, non è facile. Anzi, è il problema dei problemi che nessuno stato europeo ha risolto in modo soddisfacente.

Nessuno ha la soluzione in tasca, ma ci si può muovere lungo due direzioni principali, ed opposte: sussidi più apparato di monitoraggio e accompagnamento (soluzione statalista), oppure imposta negativa più voucher per la formazione professionale (soluzione di mercato).

Partendo da questa distinzione, possiamo fare un bilancio del Rei?

Il sussidio governativo è meglio di niente, ma ha due limiti molto gravi. Il primo è di essere troppo limitato sia nell’importo sia nei destinatari. Il secondo è di non poter contare su un apparato amministrativo capace di seguire individualmente chi cerca un lavoro ed evitare gli abusi. In un certo senso è un ibrido, che combina i difetti delle due soluzioni estreme: i lavoratori saranno al tempo stesso vessati (come nell’approccio statalista) ed abbandonati (come nell’approccio di mercato). Un capolavoro di cecità politica.

Nell’ultimo contratto per i lavoratori pubblici viene garantito un bonus di 20 euro agli statali più poveri. Siamo di fronte a un nuovo caso di quello che lei chiama “Reddito Arlecchino”?

Sì, una misura del genere va esattamente nella direzione sbagliata: qualsiasi proposta seria di contrasto alla povertà dovrebbe assorbire e unificare su base nazionale tutti i sussidi (anche di natura locale) preesistenti, se non altro per ragioni di equità. E inoltre dovrebbe cercare, in qualche modo, di tenere conto delle enormi differenze territoriali nel livello dei prezzi, anche qui innanzitutto per ragioni di equità (anche se, secondo alcuni, una differenzazione dei sussidi su base territoriale potrebbe sollevare problemi di costituzionalità). Fra le proposte esistenti solo il “minimo vitale” dell’Istituto Bruno Leoni tiene conto del livello dei prezzi.

La Germania è ripartita dopo che con la riforma HartzIV ha rivisto in senso restrittivo il sistema dei sussidi. La politica italiana avrebbe la forza di prendere una decisione simile?

No, ma comunque non basterebbe (ammesso che fosse giusto: il nostro sistema di sussidi non è troppo generoso, semai ha un problema di mancati controlli). Per far ripartire l’Italia non basta riformare il mercato del lavoro, un punto su cui mi sento di condividere alcune obiezioni sindacali.

Con la disoccupazione che cresce tra i quarantenni, non sarebbe il caso di utilizzare queste risorse per processi di outplacement?

Ho i miei dubbi: finché non si torna a tassi di crescita sostenuti (almeno il 3%) accanirsi sul collocamento è una fatica di Sisifo. Tanto più che, spesso, il problema delle imprese non è il mancato incontro fra domanda e offerta di lavoro, ma semplicemente il fatto che, per certe competenze (specie tecniche), l’offerta di lavoro semplicemente non c’è, o è insufficiente.

Può l’apparato burocratico italiano, arretrato e frastagliato viste le diverse competenze concorrenti, gestire e far funzionare processi come questi?

No, la burocrazia è una delle due grandi palle al piede dell’Italia (l’altra sono le tasse sui produttori), e un handicap del genere non si neutralizza in pochi anni.

Intervista a cura di Francesco Pacifico pubblicata da Il Mattino il 28 dicembre 2017