Su sovranisti, sinistra ed elezioni. Intervista a Dino Cofrancesco

Domanda. Sovranisti e popolari insieme, uno scenario possibile per il prossimo parlamento europeo secondo lei?

Non sono un columnist: il teatrino della politica non mi ha mai interessato. Mi considero un osservatore attento del costume politico, degli stili politici, delle ideologie politiche e, pertanto, dichiaro la mia incompetenza per quel che riguarda la possibile composizione del prossimo parlamento europeo. Non credo, tuttavia, che sovranisti (qualsiasi cosa possa significare questo termine) e popolari possano comporre una maggioranza stabile e un’alleanza durevole. Sovranisti e populisti sono particolarmente esposti ai venti delle volubilità popolari e potrebbero esserci inversioni di tendenze, come dimostra il caso spagnolo, a mio avviso molto significativo. Inoltre i popolari rappresentano la vecchia Europa che resta diffidente nei loro confronti.

D. Quali sono le ragioni culturali e politiche che potrebbero portare a un’alleanza di questo tipo? E quali gli ostacoli da superare?

Le ragioni culturali e politiche, facili da individuare, si possono sintetizzare in un anti-, in una contrapposizione all’establishment politico, economico, culturale che può assumere varie volti, a seconda delle diverse storie nazionali, ma che viene percepito come un ceto transnazionale—i Macron, i Monti, i Prodi, gli Junker, i Timmermans—alla cui politica si attribuiscono le difficoltà di ogni tipo in cui versa l’Europa. Gli ostacoli da superare sono tanti. L’anti-establishment può declinarsi in varie forme, da destra a sinistra e i disaccordi possono riguardare valori irrinunciabili che mettono in secondo piano la ‘rivolta contro le élite’.

D. Ma sovranismo è sinonimo di fascismo?

Assolutamente no. E’ l’ora di finirla con questa continua evocazione dell’ombra del Banquo fascista e l’assordante All’armi siamo antifascisti! Il fascismo è quel regime che Renzo de Felice e altri storici ‘revisionisti’ ci hanno descritto e spiegato nelle loro opere e continuare a richiamarsi, contro quanti esaltano il ‘duce’, alle leggi Scelba e Mancino è semplicemente grottesco. Ma soprattutto è inquietante e umiliante: ci dice che lo ‘spirito repubblicano’ non trova di meglio che di contrapporsi a chi da più di settant’anni è scomparso tra le macerie della Seconda guerra mondiale. Ci si definisce non per quello che si è e si progetta ma per quello che si combatte. E più si alzano i toni dello scontro irreale più si rischia di ricalcare le orme assai poco esaltanti di quel vecchio e faziosissimo azionista torinese che chiedeva per i fascisti una ‘notte di S. Bartolomeo’.

D.Perché chi oggi evoca la sovranità è considerato oggi nella migliori delle ipotesi un troglodita?

Siamo un popolo di faziosi e di intolleranti che all’analisi sostituisce l’insulto. La volontà di capire l’altro è una tentazione alla quale si resiste senza difficoltà. Si prenda un quotidiano come ‘Il Foglio’ (e cito un giornale sedicente di area liberaldemocratica): negli editoriali del direttore e dei suoi principali collaboratori non c’è il minimo tentativo di comprendere l’avversario. Solo dileggi, sarcasmi, accuse di ignoranza e di incompetenza, richiami alla scala F di T. W. Adorno. Nessun sospetto che dietro il sovranismo—ovvero, per citare l’Enciclopedia Treccani, la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione» —ci sia un’angoscia epocale ovvero l’azzeramento della dimensione politica e la sua sostituzione con l’economia e col diritto. E’ un azzeramento che viene da lontano se si pensa che nel saggio di Norberto Bobbio, L‘età dei diritti, la politica—gli stati, le nazioni con i loro codici specifici—è del tutto assente. Viviamo in un’epoca in cui i diritti e gli interessi degli individui hanno cancellato tutto e poiché la gente è ritenuta incapace di perseguirli saggiamente, la stessa democrazia liberale entra in crisi, sostituita dal governo dei competenti (Cassese? Calenda? Monti?) che non mette ai voti diritti e interessi. Non ritengo che i sovranisti siano in grado di farci uscire dalle secche in cui si sono arenati i vecchi stati nazionali ma leggere che i Giulio Tremonti, i Paolo Becchi, i Paolo Savona sono ignoranti e irresponsabili mi fa pensare: ma che razza di paese stiamo diventando?

D.Quali sono i rapporti tra sovranità e globalizzazione?

Sulla base di quanto ho detto, la risposta è ovvia. La globalizzazione è planetarizzazione dell’economia (il mercato mondiale) e del diritto (i diritti universali degli individui uti singuli indipendentemente dalla loro cittadinanza) e questo comporta sconvolgimenti epocali, sul piano sociale e culturale, ai quali si reagisce con la chiusura comunitaria, col ‘nazionalismo’. Si può dissentire dal modo con cui ci si difende ma solo un cervello eterodiretto dal buonismo universalista (cattolico e laico) può pensare che non c’è nulla da cui ci si debba difendere…e che ci si debba guardare dall’’odio’.(v. l’infelice slogan elettorale di Nicola Zingaretti).

D.Il concetto di nazione è appannaggio esclusivo della destra? E oggi dunque della Lega?

Non parlerei di ‘nazione’—concetto sfuggente e ambiguo quant’altri mai— ma di ‘stato nazionale’, quale è stato messo a fuoco da Pierre Manent e, prima di lui, dal suo maestro Raymond Aron, forse la più alta coscienza etico-politica del secondo dopoguerra europeo. Lo stato nazionale volle essere l’arena istituzionale in cui si potessero tutelare efficacemente i diritti individuali, praticare la solidarietà nei confronti dei ‘fratelli’ più deboli e rimasti indietro, far fluire le correnti impetuose dell’economia tra le sponde sicure dello stato di diritto. In passato la Lega non è mai stata sensibile alla filosofia dello stato nazionale, ha inteso le nazioni come entità naturali, ha stigmatizzato il centralismo soffocatore della vita dei popoli, ha contrapposto all’edificio unitario sabaudo le nazionalità naturali (da Gianfranco Miglio a Paolo Becchi) ha affermato con vigore il diritto di secessione. La Lega inalbera ora quel tricolore sul quale Bossi sputava, meglio così. Se lo stato nazionale è il trait-d’union tra l’universo e la tribù, come dice Manent, neppure la destra tradizionale può rivendicarne l’eredità, giacché del binomio ‘universo/tribù’ salvaguarda solo la tribù. D’altra parte, la sinistra da noi non si è mai nazionalizzata veramente e il Sessantotto ha contribuito in maniera definitiva alla snazionalizzazione delle masse, come ho cercato di dimostrare nel fascicolo di Paradoxa dedicato ali ‘anni formidabili’.

D.Nazione, sicurezza, immigrati…i temi chiave della Lega. Perché oggi sono ancora vincenti in Italia nei sondaggi?

Sono vincenti et pour cause ovvero per le cause messe così bene in luce da Luca Ricolfi. Da parte mia aggiungo: siamo un’economia in recessione, con l’indice di produttività più basso d’Europa, il nostro welfare state è al collasso, il lavoro manca. ’Facciamo entrare tutti?’va bene ma siamo disposti a rinunciare a una parte del nostro reddito per assicurare ai migranti condizioni di vita decenti?. Mi ha colpito molto quanto ha dichiarato Luca Ricolfi, nell’intervista ad Anna Chirico: «Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

D.Quali errori ha compiuto la sinistra su questo fronte?

Il vecchio PCI, come previde genialmente Augusto Del Noce, è diventato un ‘partico radicale di massa’, ha convertito i desideri individuali in diritti, ha parlato, con ministri come Graziano Del Rio e Pier Carlo Padoan la lingua dell’establishment, ha frequentato più gli ambienti confindustriali che i quartieri operai. Una sproletarizzazione che non sta pagando troppo cara giacché seguita a occupare tutti i bastioni dell’apparato statale con uomini di fiducia e mantiene saldamente nelle sue mani il potere culturale (che la destra ha sempre trascurato e snobbato).

D.Il capo politico dei 5Stelle Di Maio sta provando, a partire dal richiamo ai valori della resistenza il 25 aprile, ad annoverarsi come l’unica alternativa di sinistra, in opposizione alla Lega con cui governa. Ci sta riuscendo secondo lei nel rapporto con il Pd?

L’antifascismo di Di Maio non ha nessuna credibilità, è mero opportunismo che nasce dalla volontà di posizionarsi più a sinistra di Salvini per sottrarre voti a Zingaretti. Non va trascurato, tuttavia, il fatto che almeno la metà degli elettori M5S viene da sinistra (e talora dalla sinistra estrema). Per Alessandro Di Battista e Roberto Fico, ad esempio, l’antifascismo non è solo retorica.

D.Il Pd è stato sorpassato a sinistra anche sulla vicenda Siri. Come si sta muovendo secondo lei il segretario Zingaretti?

La vicenda Siri è emblematica. In un paese normale, il solo sospetto sulla propria condotta dovrebbe indurre un membro del governo a dimettersi. In Italia, con la magistratura che ci ritroviamo, dimettersi può significare dare un addio alla vita politica. E’ ipocrita dire: «Dimostra in tribunale la tua innocenza, poi ti riprendiamo» giacché passerà tanto di quel tempo tra processo e sentenza che non ci sarà più nessun consiglio di ministri in cui rientrare. In questa vicenda Zingaretti non si mostra né giustizialista né garantista: è come se avesse impresso sulla fronte il marchio del perdente.

D.Mancano venti giorni al voto. Che giudizio dà della campagna elettorale dei competitors in campo?

Un giudizio sconsolato. Specialmente se guardo alla sinistra e ai suoi giornali—dal ‘Foglio’ a ’Repubblica’. Quando il voto è richiesto per fronteggiare un ‘pericolo mortale’ e non per sostenere un programma politico, siamo proprio alla frutta. I grandi protagonisti della politica europei e americani seducevano gli elettori attorno con progetti ambiziosi, a sinistra (Kennedy, Johnson, Blaire etc.) e a destra (de Gaulle, Thatcher etc.). Oggi si chiama a raccolta al grido di ‘no pasaran! ’ contro le camice verdi di Salvini! Come davvero siamo caduti in basso!

Intervista a cura di Alessandra Riccardi, pubblicata su Italia Oggi l’8 maggio 2019



Fronte europeista, è una buona idea?

Così, pare che alle prossime elezioni europee la sinistra non sarà rappresentata, come al solito, dal Pd e dai suoi partiti satelliti. Al posto dei simboli di partito, sulla scheda elettorale troveremo un simbolo nuovo, che cercherà di rappresentare il campo delle forze progressiste e europeiste, unite dalla volontà di difendere il “progetto europeo”, e fermare l’avanzata delle forze sovraniste e illiberali che lo starebbero mettendo a repentaglio.

L’idea di una lista unica progressista, o di un “fronte repubblicano” che fermi la “deriva populista”, circola da molti mesi nel mondo della sinistra, ed ora ha ricevuto una sorta di codificazione nel manifesto che Carlo Calenda ha lanciato qualche giorno fa, raccogliendo in pochi giorni oltre 100 mila firme. Calenda è uno dei migliori politici in circolazione in Italia, e il suo manifesto è pieno di affermazioni ragionevoli e di idee interessanti, anche se – purtroppo – espresse nel consueto linguaggio legnoso dell’intellighenzia di sinistra.

Tutto bene, dunque? E’ una buona idea, questa di un fronte anti-populista che superi le divisioni del campo progressista?

Temo di no, e vorrei spiegare perché. La prima ragione di perplessità è che, a dispetto delle intenzioni, il manifesto del fronte progressista sarà percepito come un progetto conservatore: in politica, specie al giorno d’oggi, quel che conta non è quel che effettivamente si dice e si pensa, ma come quel che si dice e si pensa si deposita nel cervello di chi ascolta. Ebbene, se ci mettiamo da questa prospettiva, non ci vogliono nozioni particolarmente sofisticate di psicologia della percezione per rendersi conto che la gente non crederà, non potrà credere, al racconto del manifesto-Calenda. Il manifesto sostiene che le forze populiste rischiano di farci uscire dall’Europa e dall’euro, e che “noi”, i progressisti democratici, invece vogliamo fermamente restare in Europa, sia pure cambiandone alcune regole di funzionamento. Ma nelle menti di chi vota il messaggio suona diverso. La gente non pensa che il governo giallo-verde voglia farci uscire dall’Europa e dall’euro, e quindi,  quando sente i progressisti accalorarsi a difesa del “progetto europeo”, traduce così: i populisti-nazionalisti-sovranisti l’Europa vogliono cambiarla davvero, i progressisti invece no, a loro l’Europa va bene così com’è, o con pochi ritocchi.

Ed è sterile accanirsi sulle parole, affannarsi a specificare che anche noi, in realtà, vogliamo cambiare profondamente le cose, eccetera eccetera. Se credi che la posta in gioco, la vera linea di frattura, sia fra europeisti e sovranisti, allora hai già perso la sfida: perché l’opinione pubblica si è convinta che l’Europa così com’è non funziona per niente, e non crede che l’alternativa sia fra stare dentro e stare fuori, ma semplicemente fra chi vuole cambiare radicalmente le cose e chi si accontenta di un timido restyling. E, sull’Europa, lo scetticismo dell’opinione pubblica è perfettamente fondato. Sono troppe le scelte sbagliate del passato, sono troppe le regole che non hanno funzionato: eccesso di regolazione del mercato interno, insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico.

Ma c’è anche un’altra ragione per cui quella di un fronte europeista, che si presenta alle elezioni con una lista unitaria, mi pare un’idea tanto generosa quanto infelice. Ed è che se c’è una cosa su cui tutti gli studiosi di cose elettorali concordano, perché è un risultato condiviso di centinaia di studi indipendenti, è che in Italia le fusioni fra partiti e sigle politiche non portano più voti ma ne portano di meno: il tutto è di meno della somma delle parti. E’ successo nel 1948, quando il fronte democratico-popolare (comunisti e socialisti insieme) uscì a pezzi nello scontro con la Dc, ma si è ripetuto in innumerevoli occasioni successive, nella prima come nella seconda Repubblica: ogni volta che hanno unito le loro forze, Psi e Psdi, così come Pri e Pli, così come Ds e Margherita, hanno sempre registrato una contrazione del consenso elettorale.

Certo, si può pensare che oggi la situazione sia diversa e speciale, e che il problema dei progressisti sia di inventarsi qualcosa, un simbolo, uno slogan, un mito, per far ritornare all’ovile chi si è rifugiato nell’astensione, o ha provato a punire il Pd votando Cinque Stelle (al Sud) o Lega (nel centro-Nord). A questo, a rimotivare un elettorato deluso e frastornato, servirebbe l’immissione di un nuovo simbolo, un simbolo unificante, nell’arena politica.

La mia sensazione è che questa sia un’illusione, frutto di una radicale incomprensione di quel che è successo il 4 marzo. Il popolo di sinistra che ha votato Lega e Cinque Stelle lo ha fatto per il semplice motivo che l’offerta del Pd non copriva né la domanda di sicurezza sociale (migranti) né quella di sicurezza economica (povertà). Lo spazio elettorale della sinistra si è ridotto semplicemente per questo: a sinistra, il 4 marzo, non era dato osservare né un partito credibile sul tema dell’immigrazione irregolare, né un partito credibile sul tema della povertà. Oggi, da questo punto di vista, nulla è cambiato: il mancato accordo con i Cinque Stelle ha certificato che per il Pd la priorità è l’occupazione, non il sostegno al reddito; la fredda accoglienza della candidatura di Minniti alla segreteria del partito ha certificato che per il Pd la priorità sono i diritti dei migranti, non la sicurezza dei cittadini.

Non voglio, con questo, entrare nel merito di queste scelte, su cui ognuno ha le proprie opinioni. Quel che voglio far notare è solo questo: l’offerta politica del campo progressista è oggi drammaticamente ristretta rispetto alla varietà di domande che salgono dall’elettorato. Per cogliere questa varietà, di partiti di sinistra ne occorrerebbero almeno un paio, forse addirittura tre. Non certo una lista unitaria che, per non turbare le varie sensibilità (e i vari candidati alla segreteria del Pd), sarà inevitabilmente costretta a tenersi sulle generali, lasciando ancora una volta a Lega e Cinque Stelle il compito di offrire all’elettorato progressista più eterodosso quello che né il Pd né una lista genericamente europeista sembrano in grado di offrirgli.




Elezioni europee: dai socialisti ai sovranisti?

Le recenti analisi sul rapporto tra italiani ed Europa, pubblicate nelle ultime settimane a partire da varie indagini demoscopiche (Censis, Eurobarometro e diversi Istituti di ricerca), ci proiettano automaticamente verso il prossimo futuro, verso l’importante (forse decisiva) scadenza delle elezioni europee del maggio del prossimo anno. Quando i destini della UE saranno messi in discussione dall’ondata “sovranista” che ribolle in maniera ormai evidente in tutti i territori dell’Unione.

Secondo l’ultimo Eurobarometro, tra i sostenitori del “remain” gli italiani (con circa il 66%) sono quasi in ultima posizione tra i cittadini europei, battuti solamente dai britannici (attestati oggi al 60%, una decina di punti in più rispetto al passato referendum). L’opinione dei nostri connazionali non fa certo scalpore, nonostante tanti commentatori abbiano espresso preoccupazione per questo risultato. Che inaspettato certo non è, in primo luogo per il noto trend decrescente dell’ultimo decennio nella fiducia nella UE, in secondo luogo a causa dei costanti richiami negativi dei nostri attuali governanti che, rispetto al passato, non fanno che enfatizzare ancora più la natura quasi perversa della conduzione dei vertici europei, così poco attenti ai popoli – a loro dire – per privilegiare unicamente gli aspetti economico-finanziari. Ma su questo tema così controverso e con risultati spesso ambivalenti, cercherò di fare il punto in maniera un po’ più approfondita, al di là degli “strilli” giornalistici, nei prossimi giorni.

Nonostante dunque il generale plebiscito a favore della permanenza nella UE, da parte di tutti gli elettori dei paesi membri, sappiamo molto bene come stia crescendo in molti di quegli stessi paesi un ampio fronte di partiti e movimenti dichiaratamente a favore della riduzione dell’influenza europea sulle singole Nazioni. Si vuole dunque restare in Europa, certo, ma nel contempo si vogliono mutare sensibilmente i confini di questa permanenza, ridando forza agli impianti legati alla sovranità nazionale.

Il rischio, di qui a qualche mese, è che il ruolo di questa UE possa cambiare in maniera drastica, che il cammino di progressiva indifferenziazione dei diversi Stati, in nome di un bene comune sovra-nazionale, faccia importanti passi indietro. Se non nella moneta unica, che rimane solidamente ancorata nella testa dei cittadini, quanto meno in numerosi degli altri aspetti che ci vedono oggi “schiavi” delle direttive europee, in materia non solo economica, ma anche ambientale, nella vita civile, nella gestione delle risorse, eccetera.

Che una maggioranza “sovranista” possa prendere piede a livello politico nel parlamento europeo non è ovviamente una certezza, ma è comunque uno dei possibili risultati delle prossime consultazioni europee. Il parlamento attuale, definito dal voto del 2014, vede i gruppi tradizionalmente riconducibili alla sinistra (verdi, socialdemocratici e sinistra radicale) attestati poco sotto il 40% dei deputati complessivi, una quota molto simile a quelli facenti capo al centro-destra (popolari+conservatori), con i liberal-democratici vicini al 9%. Gli euro-scettici hanno invece una rappresentanza parlamentare piuttosto insignificante, al di sotto del 7%.

Una situazione che verrà sicuramente rivoluzionata dalle prossime elezioni del 2019. Oggi i rappresentanti dei partiti che fanno parte dell’alleanza socialista-democratica nel parlamento sono in disarmo pressoché ovunque: nei paesi più popolosi e dunque con il maggior numero di parlamentari (Italia, Germania, Francia e Spagna) socialisti e social-democratici sono ridotti ad una quota di elettori compresa tra il 10% e il 20%, considerando oltretutto che non sarà presente l’UK, il solo luogo dove l’area socialista, con il Labour, è ancora altamente competitiva. Per tacere del cosiddetto “gruppo di Visegràd”, dove sono praticamente scomparsi, rimangono ancora competitivi nei paesi scandinavi, ma il loro buon risultato non sarà certo sufficiente per ambire ad un tasso di rappresentanza europea superiore al 15% complessivo, circa 10 punti in meno di quelli attuali. La sinistra dovrebbe viceversa confermare il risultato del 2014 (intorno al 6-7%).

Nell’area di centro-destra, gli stessi popolari non godono di buona salute, e sarà per loro molto dura riuscire a ribadire il risultato vicino al 30% di quattro anni fa, considerando l’assenza dei conservatori inglesi ed il fatto che alcune delle forze politiche di centro-destra (come già fece la Lega) potrebbero alle prossime elezioni uscire dal gruppo dei Popolari europei, polacchi ed ungheresi in particolare. Arrivare al 25% sarebbe per loro un successo, se l’appeal della Merkel reggerà, in attesa di comprendere a quale gruppo farà invece riferimento En Marche.

E’ probabile che Macron, peraltro anche lui in deciso regresso di consensi, vada ad alimentare le fila dei Liberal-Democratici, che arriverebbero così più o meno al 10% dei suffragi. Calcolando che le altre forze (conservatori e Verdi) prenderanno poco meno del 15% dei voti, la parte rimanente, un ulteriore 30% dei suffragi, se non di più, andrà molto probabilmente appannaggio dei partiti o dei movimenti o apertamente anti-europeisti o quanto meno euro-scettici, come il nostrano Movimento 5 stelle e la stessa Lega di Salvini, il Front National francese o Ciudadanos in Spagna.

L’attuale governo europeo, come è noto, è composto da una sorta di Grande Coalizione, tra socialisti, popolari e liberal-democratici, che detengono una forte maggioranza vicina ai due terzi dell’assemblea. Se i risultati saranno quelli qui ipotizzati, un po’ meno ottimistici per il governo in carica di quelli citati sul Sole 24 ore di domenica scorsa da Roberto D’Alimonte, quella maggioranza potrebbe ridursi al 50% dell’assemblea, o magari non raggiungerla affatto. Sarebbe certo possibile riproporla, ma con molte difficoltà di tenuta, soprattutto se, come si è detto, alcune delle forze politiche dei paesi dell’est abbandonassero l’area dei popolari per aderire a quella degli euro-scettici.

Sarebbe forse più semplice la formazione di un governo più compatto composto dal centro-destra più classico, con i conservatori, i popolari e i liberali, magari con l’appoggio dei verdi. Assisteremmo dunque in questo caso ad una competizione serrata tra il centro-destra, da una parte, e l’area euro-scettica (i “sovranisti”) dall’altra. E se questi ultimi uscissero vincitori della contesa, difficile ma non impossibile, molto arduo sarà immaginare quale Europa avremo di fronte di qui ad un anno.

*Una precedente versione ridotta di questo scritto è uscita sul sito “Gli Stati Generali”



Verso il tramonto della politica

“C’è qualcosa di nuovo, anzi di antico” nel linguaggio politico del nostro tempo – sia dei   professionisti del potere sia dei giornalisti e degli intellettuali opinion maker – ed è il ritorno di uno stile comunicativo, caratteristico soprattutto degli stati totalitari o teocratici, che abbatte i confini tra dimensioni dell’umano, che Benedetto Croce teneva distinte: il bello, il vero, l’utile e il buono.

Tra le distinzioni che stanno saltando la più preoccupante è quella tra il criminale e l’egoista. Si riteneva in passato che il criminale fosse colpevole di un reato punito dai codici e che l’egoista peccasse contro la morale e, se credente, contro Dio. Nessuno allora avrebbe portato in tribunale Ebenezer Scrooge, il protagonista del Racconto di Natale di Charles Dickens, ma quanti non avevano il suo cuore di pietra lo evitavano con cura, almeno prima della conversione. Col buonismo imperante, questo non sarebbe più possibile. Se ti rifiuti di soccorrere chi soffre la fame e il freddo, devi venir messo al bando dalla “società civile” e tanto meglio se si riesce a trovare una norma giuridica per farti riflettere al fresco sulla tua malvagità. Si allontanano i secoli in cui un Bernard de Mandeville poteva tessere l’elogio dell’egoismo, appellandosi al principio che se ciascuno pensasse al suo tornaconto, finiremmo per ritrovarci tutti più ricchi. Oggi se il medico-filosofo olandese, autore della Favola delle Api (1714), su licenza del Signore degli Abissi, tornasse sulla terra – come il don Giovanni dell’Occhio del diavolo di Ingmar Berman (1960) – troverebbe ad attenderlo don Lorenzo Milani, anche lui disceso sulla terra, questa volta per decreto dell’Altissimo, col compito di ricacciarlo tra le tenebre.

Intendiamoci, neppure a me piacciono gli egoisti ma mi terrorizza il pensiero che vengano trasformati in delinquenti comuni e che la perdita di stima e considerazione sociale alla quale vanno (giustamente) incontro debba scatenare nuove guerre civili.

Eppure è quanto si sta verificando nei nostri anni con la condanna solenne degli stati che chiudono le frontiere ai “dannati della Terra”, in cerca non di benessere ma di sicurezza. Non ci si chiede se chi prende una decisione senz’altro crudele, sia autorizzato legalmente a prenderla ma si passa subito alla denuncia accorata, alla gogna mediatica, con aggettivi forti (“vomitevole”) che non solo squalificano moralmente un governo ma lo delegittimano agli occhi dell’opinione pubblica europea e internazionale, chiamata a “prendere provvedimenti” nelle sedi nazionali e sovranazionali adatte. Col risultato sicuro di una eticizzazione della politica e del diritto che servirà solo – come nei ricordati regimi totalitari e teocratici – a rimuovere i problemi reali, ad azzerare il confronto tra le diverse strategie sociali, a far ricadere sulle mele marce tutti i disagi e le difficoltà legati all’incontro di “culture” diverse, lontane e spesso conflittuali.  Con gli scellerati, infatti, non si dialoga ma li si smaschera come agenti di Satana.

Nella corruzione del linguaggio, un ruolo decisivo svolge ormai l’accusa di razzismo. Nella sua accezione forte e classica, il termine rinvia alla superiorità dell’uomo bianco sulle altre razze e al dovere di difendersene, ricorrendo anche allo sterminio, alla schiavitù o, nel miglior dei casi, all’apartheid. Definire razzista l’avversario politico, quindi, significa non riconoscergli alcun diritto alla parola e alcuna dignità, farne l’erede dei costruttori dei campi di sterminio nazisti. A chi fa osservare che di razzisti così nel nostro paese non se ne trovano – tranne qualche Obelix leghista o qualche intellettuale postcomunista, come la scrittrice che definì Condoleeza Rice una “scimmietta nera ammaestrata” – si risponde storicisticamente che oggi i razzisti sono costretti ad “attenuare i toni” giacché, se parlassero come i lettori della “Difesa della Razza”, finirebbero a mal partito.

In realtà, al fondo di tutto questo c’è una vasta operazione -soprattutto culturale- intesa a trasformare gli avversari in nemici. Chi non è con me, è contro di me. I campi sportivi in cui due squadre avversarie giocano la loro pacifica partita per stabilire chi debba governare si trasformano in trincee che vedono due eserciti nemici affrontarsi “l’un contro l’altro armati”. Sarà anche vero, come si legge sul Il Foglio di venerdì scorso, che «il discrimine fondamentale della politica italiana (…) oggi corre tra europeisti e sovranisti, pro o contro la strategia dell’integrazione continentale; e destra e sinistra su ciascuno dei due versanti di questo spartiacque, costituiscono solo due declinazioni di questa scelta fondamentale», ma se si presenta tale alternativa come la lotta tra Dio e il Diavolo, siamo al tramonto della politica ovvero alla fine della competizione civile che, in una democrazia reale, è sempre tra due (o più) progetti politici alternativi che riflettono valori e interessi diversi e rispettabili… e paure non tutte prive di fondamento, come ci ha insegnato Luca Ricolfi.

Personalmente sono più dalla parte degli europeisti che dei “sovranisti” ma perché dovrei ignorare quei pochi (o tanti) punti di forza che hanno portato i “barbari” a «svuotare la politica» e a dissanguare elettoralmente i vecchi partiti? Sono propenso a credere che non saranno i gialloverdi ad alleviare i disagi delle vittime della globalizzazione e condivido senz’altro i dubbi sugli “avvocati del popolo”. Non mi si dica, però, che gli elettori italiani sono stati raggirati da una masnada di falsi guaritori: i guaritori saranno pure falsi ma non sono stati loro gli untori che hanno diffuso la peste dell’antipolitica nel nostro paese: ad essa ha provveduto generosamente chi ci ha governato finora.

Articolo inviato a Il Dubbio