Né di destra, né di sinistra

Capita spesso di leggere articoli che intonano il de profundis per la più antica coppia nemica della modernità politica: destra e sinistra. «Destra e sinistra – ha scritto il filosofo del diritto Paolo Becchi su Libero il 2 febbraio scorso – nuotano ormai nello stesso brodo culturale. La sinistra ha abbandonato la lotta di classe, la difesa della classe operaia oppressa dal modo di produzione capitalistico e la destra la battaglia per la difesa della comunità e della tradizione: entrambe in fondo hanno accettato la cultura dell’individualismo libertario sciolto da legami sociali e comunitari. A destra non si discute la competizione sul mercato globale e a sinistra si insiste sulla emancipazione non dei lavoratori ma dalle radici. L’unica libertà che conta è quella delle merci, dei capitali e degli individui».

Becchi sintetizza in poche, chiare, righe un leitmotiv ormai quasi secolare anche se le spiegazioni del tramonto delle due categorie politiche variano col tempo, con gli uomini, con i partiti.

Mutano anche gli atteggiamenti con i quali si prende atto della presunta irrilevanza di destra e sinistra.

Per alcuni il loro declino è la liberazione da fantasmi di epoche passate, per altri è il segno della crisi spirituale della nostra epoca che ha azzerato tutti i valori, tutti gli ideali per i quali gli uomini erano disposti a battersi e a rischiare la vita.

Ho l’impressione, tuttavia, che nelle relazioni ufficiali dell’avvenuto decesso si celi una pericolosa incomprensione. Quella di credere che “destra” e “sinistra” non hanno nulla di “sostanziale” in quanto legate al mondo della “superstizione politica” (che genera i fantasmi, appunto) o a stili di pensiero che, da rimpiangere o meno, sono relegati nel “mondo di ieri”.

Sennonché sia negli individui che nelle società si trovano elementi strutturali che possono appannarsi, venir dimenticati per anni, trascurati più o meno consapevolmente ma che, nondimeno, riemergono prima o poi: e spesso con una virulenza proporzionale alla sottovalutazione. Il bisogno di comunità, il senso della tradizione che caratterizza la destra – e che trova il suo simbolo privilegiato nell’albero che affonda le sue radici sul terreno della storia – è qualcosa di insopprimibile, come la proiezione verso il futuro, la volontà di emanciparsi dal peso di usi e costumi che incatenano gli individui al suolo, alla famiglia, al milieu religioso. Che ha il suo simbolo, invece, nell’atto di spezzare le catene del privilegio.

La grandezza dell’Occidente, a ben riflettere, è consistita nella capacità di tenere in equilibrio le due dimensioni, “l’unico” e “l’universale”, per riprendere un saggio del grande Jacob L. Talmon, la “comunità di destino” e la “società degli individui”, il romanticismo politico e l’illuminismo, banditore dell’universalismo etico. Oggi sembra vincente la delegittimazione etica di tutto ciò che sa di particolare, di difesa del “sangue” e del “suolo”, di richiamo all’identità. A guardar bene, è l’ideologia di grandi quotidiani come la Repubblica o di periodici di nicchia come Il Foglio.

Ed è quella che, per reazione, risuscita istinti tribali di difesa che ai livelli alti ispirano una saggistica sempre più lontana da quel “pensiero unico” che lega ormai l’Istituto Bruno Leoni agli eredi del comunismo e dell’azionismo in nome della demonizzazione dello Stato nazionale e delle sue logiche.

Quasi in retromarcia, Paolo Becchi conclude l’articolo scrivendo che «la distinzione politica fondamentale oggi» è «quella tra coloro che difendono il globalismo, l’universalismo astratto e coloro che lo criticano in nome di particolarità concrete».

Ma non è questa la forma che oggi assume la dialettica tra “destra” e “sinistra”? Becchi, che col suo “sovranismo mite” sta dalla parte dei no global, ritiene che nulla vieta di pensare a un progetto politico in cui «potrebbero coesistere idee come quella di comunità, di appartenenza, identità, lealtà, senso dello Stato, con altre idee che riguardano la giustizia sociale, la solidarietà e la redistribuzione».

Senza avvedersene, però, rivela la stessa forma mentis del mainstream progressista che, nel suo culto della globalizzazione, rassicura i timorosi che non hanno niente da temere, che far parte di società politiche sempre più vaste, non rappresenta affatto una minaccia per le comunità storiche ma, anzi, è un modo per preservarle da altre guerre distruttive, dagli odi etnici, dalla barbarie tribale.

Ma è proprio vero che le cose buone stanno sempre insieme e che esistono formule magiche in grado di salvare capre e cavoli, libertà ed eguaglianza, solidarietà e individualismo, difesa dei confini ed apertura a chi vuole entrare, ragion di Stato e limitazione della sovranità etc. etc.?

È così difficile (a destra e a sinistra) rassegnarsi al fatto che ogni famiglia ideologica, ogni partito, porta nel mercato della politica i suoi prodotti specifici? E che a dividerci non sono tanto i valori ma la priorità che diamo a quello che ci sta più a cuore quando non è possibile, ad esempio, salvaguardarli tutti: tutelare, ad esempio, la libertà senza sacrificare un po’ di eguaglianza; sostenere l’autorità dello Stato senza limitare i diritti degli individui?

Il sospetto è che il discredito della contrapposizione tra destra e sinistra, nasca dalla pretesa che esse non hanno più alcun significato giacché esisterebbe un punto di vista superiore in grado di salvaguardarne quanto – poco o molto – c’è di valido nell’una o nell’altra. È un punto di vista che non è al di sopra ma è al di sotto dei due vecchi duellanti. Al di là delle retoriche buoniste o cattiviste dilaganti, sta emergendo un “pensiero unico” che al di fuori di sé lascia soltanto (se si è di sinistra) il razzismo, l’atavismo di una destra impresentabile o (se si è di destra) il nichilismo che passa come un rullo compressore sulle Nazioni o e dei popoli. Dietro la “buona novella” che destra e sinistra sono passate a miglior vita, ci sono, in sostanza, la delegittimazione degli avversari e la morte del pluralismo.

È la fine della democrazia liberale: impensabile senza l’eterno contrasto tra conservatori e progressisti, tra Disraeli e Gladstone, tra De Gaulle e Mitterand.

 

DIETRO LA “BUONA NOVELLA” CHE DESTRA E SINISTRA SONO PASSATE A MIGLIOR VITA, CI SONO, IN SOSTANZA, LA DELEGITTIMAZIONE DEGLI AVVERSARI E LA FINE DEL PLURALISMO

 Pubblicato su Il Dubbio del 10 marzo 2020



La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale



Il dopo-Emilia Romagna

Anche se le Regioni che vanno al voto sono due (Emilia Romagna e Calabria), inutile nasconderselo, è sull’Emilia Romagna che sono puntati i riflettori. Perché, lo si voglia o no, la sfida Bonaccini-Borgonzoni si è trasformata in una specie di giudizio di Dio sul governo nazionale.

Non sarebbe stato così se, una volta caduto il governo giallo-verde, sinistra e Cinque Stelle avessero avuto il coraggio di tornare di fronte all’elettorato, come succede nei paesi normali allorché un’elezione non restituisce un vincitore chiaro. In quel caso i confronti regionali sarebbero rimasti nell’alveo giusto, quello di una competizione locale fra due candidati locali. Poiché, invece, si è scelto di stare al governo a dispetto dei santi, ci si trova a fronteggiare l’insofferenza di quella parte dell’elettorato emiliano-romagnolo che sente l’insediamento del governo giallo-rosso come un vulnus alla democrazia sostanziale.

Dunque, è inevitabile. L’esito delle elezioni in Emilia Romagna non potrà che assumere un significato nazionale. E lo farà chiunque vinca: dopo il voto del 26 gennaio il sistema politico italiano non sarà più quello di prima.

Ma che differenza può fare una vittoria del Pd o una vittoria del centro-destra?

Per certi versi nessuna.

In entrambi i casi diventerà evidente che il nostro sistema politico è tornato bipolare. Il conflitto politico, dopo la breve stagione tripolare 2013-2019, tornerà ad essere strutturato intorno all’opposizione fra destra e sinistra. Certo, i partiti di centro potranno avere uno spazio più o meno grande e risultare più o meno decisivi, ma la scelta elettorale di fondo tornerà ad essere quella classica, fra il blocco di centro-sinistra (più o meno europeista) e il blocco di centro-destra (più o meno sovranista).

C’è un’altra conseguenza che pare difficile evitare, chiunque vinca: l’ulteriore indebolimento del Movimento Cinque Stelle. Questo esito, a mio parere, non ha la sua origine principale negli errori tattici e relazionali di Di Maio, dalle epurazioni alla cacciata di Gianluigi Paragone, ma nella rinuncia a sfruttare l’occasione irripetibile che il governo giallo-rosso aveva offerto ai Cinque stelle: quella di diventare la gamba popolare del centro-sinistra. Se avessero seguito il loro Dna, fondamentalmente assistenziale e anti-migranti, i Cinque Stelle avrebbero potuto, anche grazie alla sponda e alla legittimazione ricevute dalla loro alleanza con il partito dell’establishment (il Pd di Zingaretti), provare a coprire un segmento elettorale che esiste, e tuttavia non ha rappresentanza: quello di quanti chiedono più protezione sia sul versante economico (salario minimo e reddito di cittadinanza) sia su quello sociale (difesa dei confini e controllo del territorio). Con un Pd paladino dell’accoglienza e sempre incerto fra riformismo e assistenzialismo, i Cinque Stelle non avrebbero avuto difficoltà a coltivare e rappresentare questo segmento dell’elettorato.

Ma gli esiti comuni ai due scenari, quello di una vittoria di Bonaccini e quello di una vittoria di Borgonzoni, si fermano qui. Per il resto credo che le cose andrebbero assai diversamente nei due casi.

Dovesse vincere Bonaccini, il Pd si sentirà elettrizzato da un successo di cui ben pochi erano sicuri, Zingaretti si sentirà legittimato a guidare risolutamente il processo di costruzione del “partito nuovo” (qualunque cosa l’aggettivo significhi), le Sardine non esiteranno ad attribuirsi ogni merito per la vittoria, e naturalmente esigeranno di avere un peso elevato nel processo di ricostruzione (e ridenominazione, a quanto pare) del Pd, che nonostante la scissione di Renzi e la concorrenza cinquestelle resta pur sempre il maggior partito della sinistra. Quanto al governo, tutto lascia immaginare che si sentirà legittimato a continuare, magari con un rimpasto che tolga qualche ministero ai Cinque Stelle e li assegni al Pd. In questo scenario il destino dei Cinque Stelle è di diventare una riottosa ruota di scorta del Pd, e probabilmente anche di subire la scissione di quanti (Di Battista?) non vogliono restare alleati per sempre del “partito di Bibbiano”.

Dovesse vincere la Borgonzoni, tutto cambia. E’ anche possibile che il governo nazionale provi a resistere, ma è difficile che riesca nell’intento. In quel caso, infatti, si sommerebbero almeno due spinte del medesimo segno. Da una parte, il “grido di dolore” del popolo leghista e più in generale dell’elettorato di centro-destra, sempre più convinto (erroneamente, Costituzione alla mano) che tornare al voto sia un proprio inalienabile diritto. Dall’altra, il ben più prosaico interesse dei parlamentari a tornare al voto molto rapidamente, prima che il referendum sulla riforma costituzionale cancelli 345 seggi, rendendo drammaticamente più difficile essere rieletti.

E’ vero che, sulla carta, una strada alternativa per conservare il posto ci sarebbe, e sarebbe quella di “resistere, resistere, resistere” fino al 2023. Ma è forse ancor più vero che, nel caso di un trionfo del centro-destra, sui parlamentari di maggioranza si aggirerebbe uno spettro difficile da esorcizzare: quello di un governo che resiste qualche mese, magari un anno, e cade troppo tardi, ossia dopo che il referendum ha drasticamente potato i posti disponibili. Sarebbe il danno e la beffa: non poter arrivare al 2023, in tempo per eleggere il successore di Mattarella, e dover andare al voto giusto subito dopo aver segato il ramo su cui si è seduti.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 gennaio 2020



Legge elettorale

Un paio di giorni fa i partiti di maggioranza hanno fatto depositare alla Commissione Affari Costituzionali della Camera una nuova proposta di legge elettorale, che alcuni hanno già battezzata “germanicum” causa vaghe somiglianze con il sistema tedesco. La proposta prevede, in buona sostanza, un ritorno al proporzionale (come nella prima Repubblica), con una soglia di sbarramento al 5%, corretta con un fumoso “diritto di tribuna”, ossia con un meccanismo per dare qualche seggio anche ai partitini incapaci di raggiungere la soglia del 5%.

Fra qualche giorno la Corte Costituzionale dovrà decidere sull’ammissibilità del referendum proposto dalla Lega, che in caso di successo prevede il passaggio a un sistema esattamente opposto, interamente maggioritario.

L’impressione è che fra i due eventi vi sia un nesso. Verosimilmente, i partiti di maggioranza hanno scelto questo momento per avviare l’iter di una nuova legge elettorale anche per mandare un preciso segnale alla Corte Costituzionale: se di legge elettorale ci stiamo già occupando noi in Parlamento, perché mai dare la parola al popolo?

Ma la di là dei tempi e delle piccole convenienze dei protagonisti di questa vicenda (leggermente surreale se si pensa allo stato della nostra economia e alle tensioni del quadro internazionale), qual è la posta in gioco? Che conseguenze può avere l’adozione di una legge elettorale o di un’altra?

La prima cosa di cui dobbiamo renderci conto è che non può essere la legge elettorale a fornire al sistema politico ciò che gli manca. Se non ci sono, da molti anni in Italia, coalizioni ben strutturate, dotate di programmi comprensibili e di dirigenti politici seri, non sarà certo una legge elettorale ben fatta a fare il miracolo di fornircele.

Con ciò non intendo dire che la legge elettorale sia irrilevante. Adottare una legge elettorale piuttosto che un’altra, qualche conseguenza tende a produrla. Uno dei luoghi comuni più diffusi, ad esempio, è che scegliere una legge di impostazione maggioritaria (ad esempio: collegi uninominali, o sistema proporzionale con premio di maggioranza) favorisca la governabilità, mentre sceglierne una di tipo proporzionale assicuri la rappresentatività del Parlamento.

Non si tratta di un’opinione infondata. Fondamentalmente le cose stanno proprio così, perché, di norma, i sistemi maggioritari danno al vincitore più seggi di quanti ne meriti sulla base dei soli voti ricevuti. E, simmetricamente, è difficile (anche se non impossibile) che un Parlamento eletto con una legge proporzionale non rispecchi sostanzialmente le preferenze politiche dell’elettorato.

Tuttavia…

Tuttavia ci sono anche alcune complicazioni, che forse dovrebbero renderci alquanto prudenti prima di adottare un sistema proporzionale, almeno in un paese come l’Italia. Se in un sistema politico la destra e la sinistra hanno un consenso simile, ma nessuna delle due riesce da sola a superare il 50% dei consensi, allora è inevitabile che un potere sproporzionato venga detenuto dai partiti “intermedi”, ossia dai partiti di centro, o da quelli che non sono né di destra né di sinistra. Se per ottenere la maggioranza in Parlamento un governo deve ottenere i voti dei partiti intermedi, allora le sorti del governo sono in mano a forze politiche che rappresentano un’esigua minoranza dell’elettorato. Con tanti saluti al principio di rappresentatività: i seggi possono anche essere proporzionali al consenso, ma il potere che quei seggi conferiscono diventa inversamente proporzionale al consenso stesso.

Non è tutto, però. In un contesto fortemente trasformistico come quello italiano, l’esistenza di un 10-15% di voti che confluiscono sui partiti intermedi rende perfettamente possibile un’eventualità piuttosto inquietante, e cioè che uno dei due blocchi principali (destra e sinistra) sia minoranza nel Paese, ma diventi maggioranza in Parlamento perché riesce a stringere accordi con uno o più partiti intermedi. Giusto per fissare le idee, immaginate un parlamento in cui i blocchi Salvini/Meloni/Berlusconi da una parte e Zingaretti/Grillo/Leu dall’altra hanno ciascuno il 45% dei voti, e in mezzo flottano un partito riformista di Renzi e/o di Calenda, nonché un partito populista di Di Battista e/o di Paragone, tutti vicini al 5%: è chiaro che in una situazione del genere a decidere chi governa il paese non sarebbero gli elettori, ma le scelte di campo dei dirigenti dei partiti minori.

La rappresentatività del Parlamento, assicurata dal sistema proporzionale, dunque non esclude due conseguenze anomale, e per così dire contrarie al principio di rappresentanza: che alcuni partiti piccoli abbiano più potere di quanto gliene hanno conferito gli elettori, e che si installi un esecutivo che è l’opposto di quello che si formerebbe se a scegliere il governo fossero chiamati direttamente i cittadini.

Questo, beninteso, non significa che qualsiasi sistema maggioritario sia migliore di qualsiasi sistema proporzionale. Anche un sistema maggioritario basato sui collegi uninominali può risultare incapace di generare una chiara e netta maggioranza di governo. E nulla esclude che un sistema proporzionale assicuri a lungo maggioranze stabili e sostanzialmente rappresentative.

Il punto, però, è che quando ci si accinge a cambiare per l’ennesima volta la legge elettorale, sarebbe bene esplicitare che cosa si vuole ottenere. Perché ogni sistema elettorale produce conseguenze, e spesso tali conseguenze sono diverse, parecchio diverse, da quelle che gli si attribuiscono. La mia impressione è che l’attuale ritorno di fiamma per il sistema proporzionale sia, essenzialmente, il goffo tentativo di una parte del ceto politico di rendersi ancora più indipendente (di quanto già oggi non sia) dalla ingombrante volontà dell’elettorato.

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 gennaio 2020



L’anima del Pd

Siamo in molti, credo, a chiederci che cosa sia saltato in mente a Zingaretti qualche giorno fa, quando ha compiuto due mosse che un po’ tutti abbiamo percepito come collegate. La prima è stata di ingiungere al governo di “trovare un’anima”, con ciò confermando la diagnosi che il mondo progressista ripete come un mantra da settimane: questo governo sarà pure necessario, in quanto unico argine possibile contro il razzismo (?), il fascismo (!) e l’aumento dell’Iva (?!), ma è innegabile che un’anima non ce l’ha; e dunque se la dia, se vuole sopravvivere.

Ma l’esortazione di Zingaretti non avrebbe suscitato tanta attenzione se non fosse stata accompagnata dall’impegno, preso a nome del Pd, di tornare a battersi per lo ius soli e lo ius culturae, ovvero per allargare le maglie della concessione della cittadinanza agli stranieri.

Difficile non fare 2 + 2 e intendere che, in realtà, l’esortazione a darsi un’anima, più che al governo, fosse rivolta al Pd, che quasi tutti gli osservatori descrivono come un partito confuso, disorientato, alla ricerca di un’identità o, appunto, di un’anima. E infatti il primo a lanciarsi, piuttosto entusiasticamente, sulla proposta di Zingaretti (in particolare sullo ius culturae) è stato Luigi Manconi, che giusto 10 anni fa aveva scritto un libro con un titolo significativo (Un’anima per il Pd) e un sottotitolo ancor più significativo (La sinistra e le passioni tristi). Dunque siamo al punto di partenza: al Pd mancava un’anima quand’era piccino (il libro di Manconi è del 2009) e manca un’anima pure oggi che è grandicello. I suoi sostenitori esigono, giustamente dal loro punto di vista, che questa benedetta anima venga “trovata”, e Zingaretti ci prova. Annuncia che il Pd darà battaglia su ius soli, ius culturae e decreti sicurezza.

Io non so perché Zingaretti abbia scelto di percorrere questa strada, tutta pro-migranti e così poco sensibile alle priorità dei ceti popolari. Può darsi che abbia ragione Federico Rampini che qualche giorno fa, in un dibattito televisivo, manifestava tutto il suo sconcerto di fronte alle esternazioni zingarettiane: il Pd, ormai, ascolta solo il mondo radical chic, e pare del tutto dimentico delle sue origini (il Partito comunista “era legge e ordine”, altroché buonismo e permissivismo). Ed è certo che questa evoluzione era stata immaginata fin dagli anni ’70 dal grande filosofo Augusto del Noce, che profetizzava una progressiva trasformazione del Pci, il “partito della classe operaia”, in un “partito radicale di massa”, attento alle esigenze e alla sensibilità degli strati alti e medio-alti della popolazione.

E tuttavia, pur essendo fra quanti, non da ieri ma da qualche decennio, hanno registrato questa deriva, per cui i diritti sociali (a partire dal lavoro) cedono il passo a quelli civili (le “grandi battaglie di civiltà”, dalle unioni gay alla fecondazione assistita, dalla cittadinanza all’eutanasia), non riesco a nascondere il mio stupore. Perché quel che è strano non è che il Pd cerchi di dotarsi di un’anima, ma che – per farlo – si ispiri ai salotti della borghesia illuminata e alle credenze dei media progressisti, anziché alle esigenze e ai sentimenti dei ceti popolari. Quel che è strano è che, di fronte alla domanda di protezione che, da anni, si leva dagli strati periferici della società italiana, il maggiore partito della sinistra preferisca sintonizzarsi con le priorità degli strati sociali centrali, fatti di persone istruite, urbanizzate, benestanti.

Perché?

Augusto del Noce direbbe, forse: perché era inevitabile. La trasformazione del Pci in partito radicale di massa altro non è che l’esito finale del lungo cammino che, in mezzo secolo, ci ha resi una società opulenta e profondamente individualista. Del resto, la mutazione non è avvenuta solo da noi: che i partiti progressisti rappresentino soprattutto gli strati medio-alti, e che i ceti popolari guardino più a destra che a sinistra, non è un tratto distintivo dell’Italia, ma è una circostanza che è possibile ritrovare nella maggior parte delle società avanzate. Perché stupirsi, dunque, se il maggior partito della sinistra si aggrappa alle “sardine” (gli studenti che riempiono le piazze contro Salvini), e snobba le preoccupazioni degli strati più umili?

La ragione per cui mi stupisco è presto detta: l’Italia non è come gli altri maggiori paesi paesi avanzati. L’Italia è l’unica società avanzata in cui l’economia non cresce più, la produttività è ferma da vent’anni, e le persone che non lavorano sono molto più numerose di quelle che lavorano. In queste condizioni, se non si fa nulla, siamo condannati a un processo di “argentinizzazione lenta”, che nel giro di pochi decenni eroderà la ricchezza accumulata dalle generazioni che hanno ricostruito il Paese dopo la seconda guerra mondiale. Le grandi emergenze economico-sociali di cui si parla in questi giorni (Ilva, Alitalia, Mose), le innumerevoli crisi aziendali aperte, non sono eventi accidentali, o di origine misteriosa, ma i segni difficilmente equivocabili del declino in atto.

Ecco perché mi stupisco delle mosse del maggiore partito della sinistra. Non ho nulla contro lo ius culturae, una misura che – se congegnata bene – troverebbe ampio consenso, anche fra quanti guardano a destra, ma trovo incredibile che, per darsi un’anima, e in una situazione in cui il Paese affonda sotto una valanga di problemi che rigardano l’hardware del sistema sociale (economia e lavoro), il maggiore partito della sinistra preferisca baloccarsi con problemi che riguardano il software del sistema sociale, e sono largamente estranei alla sensibilità popolare. Un grande leader come Berlinguer, di fronte alla situazione dell’Italia di oggi, non avrebbe trovato alcuna difficoltà – ove ve ne fosse stato bisogno – a trovare un’anima al suo partito. E, soprattutto, non l’avrebbe cercata lontano dalle periferie e dalle fabbriche, dove tutt’ora, e a dispetto del benessere dei più, gli strati popolari fanno i conti con le asprezze della vita.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 novembre 2019