Lezioni americane

Sul fatto che le follie del politicamente corretto abbiano aiutato Trump, in questa elezione come in quella del 2016, quasi tutti convengono. Meno chiaro, invece, è quali lezioni, dalla vittoria di Trump e dalla sconfitta di Harris, possano trarre la sinistra e la destra in Europa.

A prima vista, chi ha più da imparare è la sinistra. Per lei, la lezione principale è che l’adesione acritica alle istanze del politicamente corretto (cultura woke, ideologia gender, cancel culture) è una zavorra elettorale insostenibile, tanto più se – come
accade in Italia, Francia, Germania – il mondo progressista è lacerato da profonde divisioni. È vero che la cosiddetta cultura dei diritti è diventata, da almeno tre decenni, il principale cemento identitario della sinistra e del suo sentimento di superiorità morale, ma bisognerà prima o poi prendere atto che continuare su quella strada la allontana sempre più non solo dai ceti popolari (che hanno altre priorità, a partire dalla sicurezza) ma anche da una parte del mondo femminile, che non vede di buon occhio le istanze dell’attivismo trans, specie quando comportano invasione degli spazi delle donne (carceri, competizioni sportive, centri anti-violenza, eccetera), rischi di indottrinamento nel mondo della scuola, transizioni di genere precoci per i minorenni, promozione della GPA (utero in affitto). Se vuole tornare a vincere, la sinistra dovrebbe smettere di attribuire ogni sconfitta alla disinformazione e ai poteri forti, e semmai prendere atto che aveva ragione Norberto Bobbio quando, a metà degli anni ’90, la avvertiva che rinunciare alla stella polare dell’uguaglianza a favore di quella dell’inclusione, come le suggeriva il sociologo Alessandro Pizzorno, era un errore, foriero di arretramenti e sconfitte.

Ma forse anche la destra avrebbe qualcosa da imparare, specie in Italia. Visto da destra, il follemente corretto di cui la sinistra si è resa prigioniera può diventare una straordinaria opportunità di definizione di sé stessa per così dire “a contrario”.

Culturalmente, la destra è sempre di più, non solo in Italia, l’unico argine significativo alla deriva woke negli innumerevoli campi in cui si manifesta. Anziché puntare sul controllo dell’informazione, sull’occupazione di posizioni nel mondo della cultura, su improbabili incursioni nello star system – più in generale: sul velleitario progetto di ribaltare l’egemonia culturale della sinistra – alla destra converrebbe forse prendere atto che la sua forza non sta nell’occupazione più o meno maldestra delle istituzioni, ma nell’aderenza alle istanze e alle visioni del mondo di ampi settori delle società capitalistiche avanzate.

Se le forze di destra stanno avanzando in Europa, e alcune loro istanze (come il controllo dell’immigrazione) si stanno manifestando anche a sinistra (emblematico il successo del partito di Sahra Wagenknecht in Germania), è perché quello in atto è un profondo smottamento della sensibilità collettiva. Uno smottamento che, fondamentalmente, consiste in una presa di distanze dalla cultura dei diritti e dai suoi eccessi, e si traduce in una richiesta di porre limiti, argini, freni ad alcune tendenze del nostro tempo. È dentro questa cornice che prendono forma la richiesta di contenere l’immigrazione illegale, garantire la sicurezza, ma anche frenare l’espansione di diritti percepiti come arbitrari (la scelta soggettiva del genere), o pericolosi (cambi di sesso degli adolescenti), o contrari all’ordine naturale delle cose (utero in affitto), o semplicemente pericolosi per le donne (invasione degli spazi femminili).

Già, le donne. Pochi ne parlano, ma uno dei fenomeni sociali più significativi degli ultimi anni sono i cambiamenti che stanno avvenendo nel femminismo, e più in generale nel comportamento elettorale delle donne. Nella campagna per le presidenziali americane è successo, per la prima volta, che una parte delle femministe, negli Stati Uniti (Kara Dansky) ma anche nel Regno Unito (Julie Bindel), si siano poste la domanda fatidica, fino a ieri inconcepibile: dobbiamo prendere in considerazione l’ipotesi di votare conservatore?

E non è tutto. Anche sul piano delle leadership, il panorama si sta facendo interessante. Dopo la recentissima ascesa di Kemi Adegoke, donna nera di origini nigeriane, a leader del partito conservatore britannico, sono immancabilmente donne
a guidare la destra nei quattro più grandi paesi europei: Marine Le Pen in Francia, Alice Weidel in Germania, Giorgia Meloni in Italia, e appunto Kemi Adegoke nel Regno Unito.

Insomma, sia sinistra sia a destra, il materiale di riflessione non manca.

[articolo uscito sul Messaggero il 10 novembre 2024]




Il Follemente corretto: dalla libertà di espressione alla società dell’omologazione – Intervista di Alessandra Ricciardi a Luca Ricolfi

D. Siamo passati dalla schiavitù del politicamente corretto alla gabbia del follemente corretto. Professore lei quando se ne è accorto?
R. Non c’è un momento preciso, è stato un processo lento che ha avuto però un’accelerazione intorno al 2020, quando stavo iniziando a lavorare al mio libro La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli). Lì ho capito che la libertà di espressione era gravemente compromessa, specie negli Stati Uniti e massimamente nelle università di quel paese, e che l’attivismo trans stava mettendo a repentaglio sia alcuni diritti delle donne, primo fra tutti quello di proteggere i propri spazi protetti nei centri anti-violenza, nelle competizioni sportive, nelle carceri e dei minorenni, sia il diritto dei minorenni a non essere manipolati e precocemente avviati a percorsi di modificazione del sesso.

D. Lei ha censito nel libro la quantità di pronomi che il follemente corretto ha imposto per le identità sessuali.  Una tale proliferazione non è in fondo la negazione stessa di una identità sessuale?
R. Sì, la tendenza è a rendere evanescenti, soggettivi, e indefinitamente riprogrammabili sia l’identità sessuale, che quella di genere (ma ci sono anche casi di cambio di razza, e persino di età). Che tutto questo non conduca, specie fra i minorenni, a gravi problemi di identità, sicurezza e autostima è tutto da dimostrare.

D. Eppure secondo le ultime ricerche i fenomeni di bullismo, in particolare a sfondo sessuale, non fanno che aumentare così come le violenze verso le donne. Si è molto attenti alle classificazioni, ma non alle parole che nella vita quotidiana si usano. Si ha la sensazione di vivere in un deserto di emozioni, in cui manca il senso dell’altro e dunque il rispetto per la persona. Come lo spiega?
R. Mutamenti così complessi non sono spiegabili con una formula. Come sociologo, qualche anno fa ho provato a leggere i fenomeni che lei richiama con il concetto di “società signorile di massa”, ma oggi sento il bisogno di arricchire quella chiave
interpretativa con altri tasselli, che vengono soprattutto dalla psicanalisi e dalla psicologia sociale. Mi riferisco, in particolare, all’evaporazione del padre e all’insofferenza per ogni limite o attesa. Checché ne dicano tante femministe, non viviamo affatto in una società patriarcale, semmai in una società maschilista che – come ha più volte spiegato Massimo Recalcati – aspira al godimento immediato, ma è incapace di desiderio, che è fatto anche di attesa, rinuncia, sacrificio, dilazione della gratificazione.

D. Il follemente corretto ha il potere di condizionare pubblicità, far ripulire opere d’arte, romanzi, film, cartoni per ragazzi. Siamo arrivati al punto di dover rinnegare la nostra storia e anche noi stessi?
R. Sì, è il grande tema del rimorso dell’occidente, ma anche del nostro nichilismo, che Nietzsche aveva capito e profeticamente descritto già 150 anni fa.

D. Utero in affitto come diritto di chi cerca la maternità, imposizione del non genere sessuale che soppianta anche il femminismo, diritti dei migranti a immigrare, alcune delle iperboli del politicamente corretto. Perché hanno così tanta presa presso le élite?
R. Le élite, proprio perché vivono molto più agiatamente delle masse popolari, hanno continuamente bisogno di mostrare la loro virtù e la loro sollecitudine nei confronti dei deboli, ma dato che occuparsi dei veri deboli e dei loro bisogni (a partire dal welfare) costerebbe uno sproposito, hanno trovato una soluzione geniale: occuparsi dei diritti LGTBT+, che costano pochissimo, e dei migranti, che costano relativamente poco in termini di accoglienza e salvataggi, e in compenso forniscono manodopera a basso costo a datori di lavoro più o meno spregiudicati. Nel mio libro sulla società signorile di massa avevo contato ben 3.5 milioni di ipersfruttati, o para-schiavi, di cui né i sindacati né le forze politiche sembrano intenzionate ad occuparsi.

D. Siamo alla contrapposizione tra classe dirigente e popolino, alla faccia dell’inclusione…
R. Sì, la classe dirigente accoglie, e il popolino spesso paga il conto, sotto forma di insicurezza e concorrenza sleale sulle paghe.

D. Lo sa che lei con questo libro ha consacrato il suo essere antiprogressista?
R. Non direi, semmai ho invitato i progressisti ad esserlo davvero, occupandosi di diritti sociali e abbandonando la zavorra del follemente corretto. I diritti civili vanno benissimo, ma solo se non sostituiscono quelli sociali e accettano dei limiti,
innanzitutto in materia di utero in affitto e di cambio di sesso dei minori.

D. Lei continua a massacrare tutti i luoghi comuni o totem della sinistra italiana.
R. È la sinistra, non solo italiana, che me li offre su un piatto d’argento.

D. Se a sinistra vige il follemente corretto, a destra vale il politicamente scorretto. Piace perché è più popolare?R. Il politicamente scorretto di una parte della destra non mi piace per niente, perché è semplicemente l’altra faccia del follemente corretto: una reazione eguale e contraria. Quel che io e tanti altri rivendichiamo è semplicemente la piena libertà di espressione, il diritto di parlare come ci pare senza subire processi sommari per le parole che usiamo.

D. Sulla gestione dei migranti, tema molto sentito sia in Europa che in Usa, capace di condizionare intere campagne elettorali anche progressiste, l’ultimo decreto del governo Meloni sugli hotspot in Albania è stato giudicato negativamente dagli italiani, stando ai sondaggi. Come lo spiega?
R. C’è stato un enorme deficit di comunicazione da parte del centro-destra.

D. Che cosa non è stato spiegato dal governo?
R. Molte cose, ma innanzitutto i costi. La gente si è fatta l’idea che i costi fossero esorbitanti, e che con quei soldi si sarebbero potuti ridurre i tempi di attesa nella sanità pubblica. La realtà è che il costo procapite (per ogni italiano) è di 2 euro all’anno, una goccia nel mare della spesa sanitaria, che è di 2300 euro procapite. Chiunque capisce che 2 euro su un budget di 2300 sono un’inezia, che non sposta minimamente le cose.

D. Diciamo che la destra è capace di andare al potere, ma ancora non riesce a comunicare?
R. Sì, la comunicazione non funziona bene. Ma non è l’unica criticità: le vicende del Ministero della cultura suggeriscono che i problemi non siano solo di comunicazione, ma più in generale di selezione e gestione della classe dirigente.

[intervista uscita su Italia Oggi il 31 ottobre 2024]




«A forza di includere tutti ci siamo esclusi noi» – Intervista di Maurizio Caverzan a Luca Ricolfi

Il politicamente corretto come isteria diffusa. Nel suo nuovo saggio il sociologo ne sfata le «follie», specialmente nella politica di una sinistra elitaria, con esempi tragicomici e paradossali. Dal banchetto Lgbtq+ alle Olimpiadi di Parigi agli abbagli del patriarcato, passando per i «sì» a prescindere con l’islam. Così un’ideologia a costo zero sostituisce persino la lotta per l’uguaglianza.

Maneggiando magistralmente il bisturi della ragione, nel suo nuovo saggio Il follemente corretto (La Nave di Teseo), Luca Ricolfi, docente di Analisi dei dati, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, viviseziona la nuova patologia contemporanea: «L’inclusione che esclude» e ha portato all’«ascesa della nuova élite».

Professore, il «follemente» del titolo è sinonimo di eccentricità o di vero impazzimento, come se vivessimo in una distopia dolce?
È vero impazzimento, purtroppo, ma la distopia che ne è venuta fuori non è affatto dolce. Il follemente corretto ha le sue vittime:
la libertà di espressione, le donne, i ceti popolari.

Le propongo un gioco: dovendo comporre il podio delle «follie corrette» in cui si è imbattuto a chi assegnerebbe i primi tre posti?
Mi mette in imbarazzo, perché di follie clamorose ce ne sono almeno 10-15, su 42 episodi selezionati. L’eventuale graduatoria dipende dal criterio. Se ci interessa il grado di demenzialità, segnalerei (1) la proibizione di salutare con il «care signore e cari signori» (per non escludere chi non si sente né maschio né femmina), (2) la censura di espressioni come «elefante-nano» e «l’evoluzione è cieca» (per non offendere nani e ciechi), (3) il regolamento dell’Università di Trento che obbliga a declinare tutti i ruoli al femminile. Se invece ci interessa l’impatto sociale, ovvero la capacità di opprimere o discriminare, segnalerei (1) l’invasione degli spazi femminili nelle carceri e nello sport, (2) le persecuzioni delle donne «gender-critical», (3) le discriminazioni nei confronti dei bianchi eterosessuali nelle università e più in generale nelle politiche di assunzione.

Il follemente corretto è una fenomenologia o un’ideologia, aggiornamento del progressismo?
Il follemente corretto è tante cose, ma fondamentalmente è una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali. In un certo senso è un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime. Ne abbiamo avuto un esempio recente, quando l’assessore alla cultura del Comune di Livorno, Simone Lenzi, è stato sottoposto alla gogna e costretto alle dimissioni per alcuni post ironici sugli aspetti più ridicoli della dottrina woke. Il sindaco che l’ha licenziato ha illustrato in modo mirabile che cos’è il bullismo etico: ti caccio e ti punisco per mostrare a tutti la mia superiore moralità.

Com’è capitato che l’eguaglianza, stella polare della sinistra, sia stata sostituita dall’inclusione?
La storia di questa metamorfosi non è mai stata ricostruita accuratamente. Se guardiamo alla teoria, direi che un contributo importante l’ha dato Alessandro Pizzorno, uno dei più illustri sociologi italiani, che a metà anni Novanta ha esplicitamente proposto la sostituzione della coppia uguaglianza/ disuguaglianza con la coppia inclusione/esclusione. La sua idea, energicamente e saggiamente contrastata da Norberto Bobbio, era che – con la nuova coppia – sarebbe diventato più facile per la sinistra presentarsi come paladina del bene, perché pro-inclusione, e bollare la destra come incarnazione del male, perché pro-esclusione.

È l’unica molla di questa metamorfosi?
No, se guardiamo ai meccanismi sociali, la spiegazione più convincente è di natura economica: le battaglie sui diritti delle
minoranze sessuali hanno costi bassissimi perché – a differenza di quelle per l’eguaglianza – non richiedono di cambiare la
distribuzione del reddito, e in compenso permettono di reclutare chiunque, perché a tutti piace sentirsi dalla parte del bene. Tutto
questo è diventato tanto più vero dopo il 2010, quando l’esplosione dei social ha permesso davvero a tutti di partecipare al concorso di bontà e ai riti di lapidazione del dissenso con cui i buoni rafforzano la propria autostima.

Perché, in un certo senso, la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi è stata un momento di svolta nell’espressione del follemente corretto?
Per almeno due ragioni. Primo, perché ha sancito il disprezzo delle élite che controllano le istituzioni per i sentimenti del pubblico, che ovviamente non poteva essere tutto pro-woke e pro- gender. Secondo, perché ha portato anche dentro lo sport una tendenza da anni presente nell’arte, ovvero l’ambizione di indottrinare il pubblico. Con la scusa della «sensibilizzazione», da anni la letteratura sta facendo prevalere i messaggi etico-pedagogici sulla qualità artistica. Dopo Parigi sappiamo che analoga opera di snaturamento è destinata a colpire lo sport.

Chi maneggia la neolingua sono docenti, magistrati, operatori dell’industria culturale, giornalisti: in forza di cosa un’élite vuole pilotare il linguaggio comune?
In forza del suo potere e, soprattutto, della propria autoriproduzione. Esattamente come succede con la burocrazia, che proprio attraverso l’uso di una lingua specializzata e esoterica riproduce sé stessa e si immunizza rispetto a qualsiasi potere esterno. Ne sanno qualcosa i politici, i cui piani sono spesso vanificati o deviati dal controllo che i burocrati esercitano sulle procedure.

Perché siamo così preoccupati che le comunità musulmane si offendano se a scuola si fa il presepio a Natale?
Perché siamo malati di eccesso di zelo e sottovalutiamo il buon senso di tanti musulmani.

Che cosa ha causato l’inimicizia che si è instaurata fra i rappresentanti del mondo transessuale e il femminismo storico?
La prepotenza del mondo trans, o meglio delle lobby che lo hanno monopolizzato.

I casi del ministro Eugenia Roccella e dei giornalisti Maurizio Molinari e David Parenzo ai quali, in occasioni diverse, è stato impedito di presentare un libro o di parlare in università, mostrano che certi custodi del correttismo scarseggiano di basi democratiche?
Il vizietto di non lasciar parlare gli altri è, da sempre, la tentazione dell’estrema sinistra, anche quando non era woke.

Nella Carmen di Leo Muscato al Maggio fiorentino del 2018 la gitana addirittura ammazza don José perché non si perpetri un altro femminicidio. Il maschicidio è meno grave?
Agli occhi dei cultori del follemente corretto sì, a quanto pare.

Perché, come evidenziato dal silenzio sul caso di Saman Abbas, la ragazza uccisa per aver rifiutato di sposare il prescelto dal padre, le femministe tacciono sulla grave subalternità delle donne arabe?
Perché le femministe hanno riflessi condizionati di sinistra, e la sinistra –  almeno dai tempi di Bettino Craxi – ha un occhio di
riguardo per il mondo islamico.

Come si spiega il silenzio delle sigle femministe sulla pugile intersessuale Imane Khelif nel torneo femminile di boxe delle ultime Olimpiadi?
Veramente qualche femminista, per esempio Marina Terragni e il suo gruppo, non è stata in silenzio. Ma la realtà è che il femminismo classico boccheggia, sopraffatto dal cosiddetto femminismo intersezionale.

Perché si attribuiscono al patriarcato tante violenze contro le donne se il principio d’autorità e la figura del padre sono da anni realtà in via d’estinzione?
Perché uno dei tratti distintivi di larghe porzioni del femminismo è la pigrizia intellettuale, in parte dovuta alla mancanza di strumenti sociologici di tipo analitico.

Individuare la causa sbagliata della violenza sulle donne implica che tante energie per la loro la difesa sono sprecate?
In realtà, una spiegazione non fumosa e non ideologica della violenza sulle donne non esiste ancora.

Che cosa pensa della «lotta agli stereotipi» espressa dal pullulare di «mammi» negli spot pubblicitari?
Mi diverte molto, ma è un segnale che mette a nudo il conformismo dei creativi.

Perché chi va a vivere in un paesino di montagna rinuncia alla spiaggia vicina, ma molti omosessuali maschi vorrebbero piegare la legge al loro presunto diritto di avere figli?
Perché il rifiuto di ogni limite, quello che i greci chiamavano hybris, è il tratto fondamentale del nostro tempo. Un tratto che, combinato con la cultura dei diritti, genera rivendicazioni surreali; penso alla coppia gay che si sente discriminata perché
nata senza utero.

Il diffondersi della cultura woke negli Stati Uniti assomiglia a una nuova forma di maccartismo?
Sono simili, ma è come paragonare una tigre a un gatto: il wokismo è un maccartismo al cubo.

Perché la destra fatica a organizzare una resistenza efficace al follemente corretto?
La destra è minoranza nelle istituzioni fondamentali: magistratura, quotidiani, università, scuole, case editrici, associazioni e
fondazioni più o meno benefiche.

Il follemente corretto ha punti deboli che ne causeranno il declino o diventerà la religione del futuro?
Il follemente corretto dà già segni di declino, specie negli Stati Uniti. I suoi punti deboli sono l’incoerenza logica e il fatto che toglie voti alla sinistra. Kamala Harris l’ha capito, Elly Schlein no. O non ancora?




Il bullismo etico

E così alla fine Simone Lenzi – artista, scrittore, musicista, e pure assessore alla cultura del comune di Livorno – è stato costretto a dimettersi dall’incarico. Anche se il punto di partenza di tutta la vicenda è stata una aspra polemica con il Fatto Quotidiano per una striscia del fumettista Natangelo, la ragione vera del siluramento dell’assessore sono stati alcuni post del passato, riesumati per l’occasione e considerati omofobi.

In uno Lenzi metteva in dubbio il valore artistico di una statua (una donna con il pene) esposta alla Biennale di Venezia, e prendeva posizione contro “l’arte didascalica”, che pretende di insegnarci come vivere. In un altro Lenzi faceva dell’autoironia, definendosi gender ironic, in polemica con la ridicola proliferazione delle identità di genere (28, compreso skoliosexual e lithsexual). Di qui una durissima presa di posizione dell’Arcigay, la severa reprimenda del sindaco progressista (?) Luca Salvetti, e infine le dimissioni dell’assessore.

La vicenda è illuminante perché, in un colpo solo, ci mette sotto gli occhi una moltitudine di aberrazioni di cui, troppo sovente, nemmeno ci accorgiamo.

Prima aberrazione: lo strapotere delle lobby LGBT+. Qualche tempo fa Federico Rampini, in una trasmissione tv, scandalizzò la conduttrice Marianna Aprile con l’affermazione: “in America le lobby LGBT sono cattivissime e potentissime”. Ebbene, dobbiamo correggere Rampini: purtroppo vale anche per l’Italia, non solo per gli Stati Uniti.

Seconda aberrazione: l’assessore è stato rimosso per le sue idee, peraltro espresse in chiave ironica e al di fuori del suo ruolo.

Terza aberrazione: la censura è venuta da un esponente della sinistra, che non perde occasione per inneggiare alla libertà di espressione e al diritto al dissenso.

Quarta aberrazione: né Elly Schlein, né la segreteria del Pd, né i maggiori esponenti di quel partito hanno sentito il bisogno di difendere l’assessore.

Quinta aberrazione: anche nel mondo della cultura e del giornalismo sono stati pochissimi a manifestargli solidarietà (fra di loro: la giornalista Concita De Gregorio e il regista Paolo Virzì, che con Lenzi aveva collaborato).

Perché, tutto questo?

Nella sua lettera di addio, l’assessore accenna a una possibile ragione dell’isolamento in cui si è venuto a trovare.

“mi dimetto perché alla sinistra, che avevo visto sin qui come la roccaforte di ogni libertà, la libertà più autentica non interessa affatto. Essendo piuttosto il narcisismo etico l’unica molla ormai capace di muoverne i riflessi condizionati, capisco bene che l’unica cosa importante davvero per tutti voi sia adesso posizionarsi, quanto più in fretta possibile, dalla parte dei giusti e dei buoni”.

La sinistra, insomma, sarebbe affetta da “narcisismo etico”.

Mi permetto di dissentire. Il narcisismo è una forma di ripiegamento su di sé, un auto-innamoramento, un coccolare sé stessi. Non è questo il peggiore male della sinistra di oggi. Fosse solo questo, non farebbe troppi danni. Quando l’assessore dice che la
cosa importante per le persone di sinistra è “posizionarsi dalla parte dei giusti e dei buoni”, quello di cui parla non è un moto interno dell’animo, ma un comportamento esterno: un mostrare agli altri quel che si è, o si pretende di essere. La parola giusta è
esibizionismo, non narcisismo. Il bisogno ossessivo di posizionarsi, sui social come nella realtà offline, è una forma di esibizionismo etico. Una continua pretesa di ostentare la propria superiore moralità.

Il guaio è che, qualche volta, l’esibizione della propria moralità richiede una vittima, un capro espiatorio, un nemico da umiliare, sopraffare, o aggredire. E questo non si chiama narcisismo, né esibizionismo: si chiama bullismo. Il ragazzo che ammira i
propri muscoli davanti a uno specchio è un narcisista. Se li mostra alla classe diventa un esibizionista. Ma se li usa per pestare un compagno è un bullo. È il bullismo etico, non il semplice narcisismo, la cifra della vicenda Lenzi. Per apprezzarne tutta la drammaticità e gravità, dobbiamo imparare a usare le parole giuste. Parole precise, esatte. Perché “le parole sono importanti”, per dirla con Nanni Moretti.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 ottobre 2024]




Può esistere un partito sia di destra sia di sinistra?

Partiti né di destra né di sinistra non sono rari nelle democrazie. Il tipico esempio sono i partiti liberaldemocratici, che hanno spesso fatto la loro apparizione nei maggiori paesi europei, come il Regno Unito, la Germania, la Francia. Anche l’Italia ha una
lunga tradizione di partiti moderati di centro, sia nella prima Repubblica (pri, psdi, pli), sia nella seconda: recentemente, il Terzo polo di Renzi e Calenda, in passato le infinite varianti del mastellismo-casinismo-follinismo: ccd, cdu, udc, eccetera.

Ma un partito sia di destra sia di sinistra? Può esistere, o è una contraddizione logica, come l’ircocervo che Benedetto Croce evocava per spiegare l’impossibilità del liberalsocialismo?

Dall’8 gennaio di quest’anno dobbiamo invece ritenere che possa esistere. E da ieri, dopo le elezioni amministrative nei länder tedeschi della Germania e della Sassonia, dobbiamo ritenere non solo che possa esistere, ma che possa sfondare. La prova
vivente è la pioggia di voti che, alla sua prima uscita in un’elezione germanica, ha inondato il partito fondato da Sahra Wagenknecht per l’appunto l’8 gennaio. Il partito si chiama Bündnis Sahra Wagenknecht (Lega Sara Wagenknecht), ed è il risultato di una scissione del partito della Linke, la formazione di estrema sinistra radicata nelle regioni della ex Germania dell’Est. Moglie di Oscar Lafontaine, ex leader della Linke, Sahra Wagenknecht è una politica tedesca con una chiara matrice di sinistra, ma si discosta dalla sinistra ufficiale classica, non importa qui se moderata o estrema, su almeno 4 punti fondamentali.

Il primo è il sostegno all’Ucraina, più in generale l’adesione alla Nato, ritenute controproducenti. Il secondo sono le politiche green, troppo costose per i ceti popolari. Il terzo sono gli eccessi del politicamente corretto e dell’agenda LGBT+. Il quarto, di gran lunga il più importante, sono le politiche migratorie, considerate troppo permissive.

In generale, le idee di Wagenknecht si richiamano alla dottrina marxista nel senso che privilegiano i conflitti a livello economico-strutturale, e snobbano quelli di tipo culturale e sovrastrutturale. Di qui la difesa dei lavoratori tedeschi nei confronti della
concorrenza dei migranti, visti come un temibile “esercito industriale di riserva”, e la freddezza rispetto alle rivendicazioni LGBT+.

Il successo di Wagenknecht, che in Turingia ha ottenuto il 16% e in Sassonia il 12%, è cruciale per la politica tedesca perché si è accompagnato a un successo ancora maggiore di Alternative für Deutschland, il partito tedesco più anti-immigrati e più
nostalgico del nazismo, che ormai raccoglie circa 1/3 dei voti in entrambe le regioni. Insieme, i due partiti anti-immigrati sfiorano il 50% dei consensi, a fronte del disastroso risultato dei partiti di governo (socialdemocratici, verdi, liberali), e al discreto ma non sufficiente risultato dei Popolari (24% in Turingia, 32% in Sassonia).
Per questi ultimi si prospetta un dilemma: fare fronte comune con socialdemocratici e Linke contro i due partiti anti-immigrati (BSW e AfD), con il rischio che al prossimo giro possano ottenere la maggioranza dei voti e formare un governo il cui unico vero
obiettivo sarebbe la lotta all’immigrazione illegale; oppure tentare il dialogo con il partito “sia di destra sia di sinistra” di Sahra Wagenknecht, recependo le inquietudini di tanti tedeschi nei confronti degli immigrati.

Resta il fatto che, nei due länder in cui si è votato, i quasi-nazisti di AfD hanno il 30% dei voti, e se Sahra Wagenknecht non avesse canalizzato una parte della protesta contro i migranti, probabilmente veleggerebbero sul 40%.

Qual è la lezione?

Sono tante, e dipendono dai pregiudizi di ciascuno di noi. L’unica lezione difficilmente contestabile è che il partito-ircocervo – sia di destra sia di sinistra – è diventato possibile. Staremo a vedere se solo in Germania.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 settembre 2024]