L’affaire Scalfari. Di Maio o Berlusconi?

Anch’io sono rimasto sbalordito, incredulo, senza parole. Ma non perché Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica (e maestro riconosciuto di quel mondo), abbia osato dichiarare, o quantomeno far intendere, che Berlusconi è meno peggio di Di Maio, bensì per le reazioni che quella dichiarazione (rilasciata in tv, rispondendo a una domanda di Giovanni Floris) ha suscitato nel mondo che intorno a Repubblica è cresciuto e ha prosperato.

Reazioni scomposte, violente, cattive, intrise di disprezzo. C’è chi è arrivato a dire che un commento adeguato costringerebbe a usare il turpiloquio, e comunque non si è trattenuto dal qualificare la presa di posizione di Scalfari come “indecente”, frutto di una “parabola reazionaria”, ormai approdata su “lidi di ignominia che rinnegano e azzerano ogni suo merito progressista pregresso” (Flores D’Arcais). C’è chi non ha avuto nemmeno questa delicatezza, e ha attribuito l’uscita di Scalfari all’età e alla vanità, ovvero alla voglia di “riconquistare la scena” (Carlo De Benedetti, in una livorosa intervista rilasciata al “Corriere della Sera”). E vi risparmio le decine di invettive e offese reperibili sul web, come quelle che in questi giorni aprono il blog di Beppe Grillo, ove Scalfari è un “servo del Pd”, uno che “ormai è solo un vecchio ottuso e testardo, irrecuperabile che vomita oscenità”.

Ma anche la reazione del suo giornale e del suo ex editore (De Benedetti ha regalato il Gruppo L’Espresso ai figli) fa riflettere. Subito dopo l’uscita di Scalfari in Tv Repubblica ha cercato di mettere una pezza pubblicando un articolo di precisazione dello stesso Scalfari, che avrebbe dovuto rassicurare ma non ha rassicurato nessuno, perché non conteneva affatto l’auspicata marcia indietro ma solo l’assicurazione che non avrebbe mai commesso peccato mortale (votare Berlusconi). E pensare che, quando eravamo entrambi a “La Stampa”, e io mi stupivo delle diversità di opinione dei suoi editoralisti, era stato proprio Mario Calabresi a spiegarmelo: “un giornale non è una caserma”.

Quanto a Carlo De Benedetti, non ha trovato di meglio che affermare che l’uscita di Scalfari ha “gravemente nuociuto al giornale”, come se Repubblica fosse un partito, e il pluralismo delle opinioni, anche le più paradossali, non fosse un bene prezioso.

Perché mi soffermo su questa vicenda?

Ci sono due ragioni, una privata e l’altra no. La ragione privata è che conosco Eugenio Scalfari fin da quando ero un ragazzo, sono legato a lui e alla sua famiglia (a partire dagli indimenticabili Giulio e Maria De Benedetti) da un profondo affetto, e sono rimasto colpito, quasi ferito, dalle offese che negli ultimi giorni gli sono piovute addosso da persone che, fino a un attimo prima, lo incensavano ed erano nella cerchia dei suoi più stretti amici e compagni. Se una cosa ho imparato nei miei anni giovanili, quando l’università era ancora un posto speciale, e a Torino potevi incontrare decine di veri maestri, è che la stima e l’ammirazione per una persona si riconoscono da questo semplice gesto: quando il tuo maestro dice qualcosa che ti sembra del tutto sbagliato, anziché chiederti se è impazzito lui, ti chiedi, prima, se non sei tu che stai sbagliando qualcosa.

Anche Paolo Mieli, qualche giorno, ha detto qualcosa di simile proprio a proposito di Scalfari. L’ex direttore del Corriere della Sera, intervistato da Lilli Gruber a “Otto e mezzo”, ha detto più o meno così: se una cosa del genere fosse successa al Corriere, come direttore non avrei chiesto a Scalfari un intervento di rettifica, ma piuttosto di spiegare, approfondire, sviluppare un pensiero. In altre parole: aiutare noi, che diciamo di rispettarlo, a capire se effettivamente dissentiamo da lui, o c’è qualcosa che noi stiamo trascurando, qualcosa che ci sfugge alla nostra mappa del modo reale.

Ecco perché difendo Eugenio Scalfari. Lo so, lui ha duramente criticato il mio libro più noto (Perché siamo antipatici, 2005), anzi ha vivamente disapprovato il fatto stesso che io avessi osato scriverlo. E io da anni lo trovo troppo filo-Pd, come peraltro lui stesso dichiara di essere. Ma tutto questo non c’entra e non deve c’entrare. Se anche dissentissi radicalmente da lui, e condividessi al 100% le contro-obiezioni dei suoi critici, resterei della medesima idea: le idee non si combattono lapidando chi ne esprime di diverse dalle nostre.

E qui vorrei venire alla seconda ragione, quella né privata né personale, per cui mi pare valga la pena tornare sull’idea espressa da Scalfari. L’affare Scalfari ci insegna più cose di quante si riconoscano a prima vista.

Intanto ci insegna una cosa, su cui forse Scalfari stesso dovrebbe riflettere. Ai miei occhi, il modo in cui il mondo di Repubblica sta trattando il fondatore la dice lunga su quel mondo stesso. Di cui non mi colpisce tanto la cattiveria e l’animosità (fortunatamente non di tutti), ma la faziosità, l’incapacità di mettersi nei panni dell’altro, l’ostinata convinzione che, su certe questioni, una sola sia la posizione giusta: la nostra posizione. Perché noi siamo la parte migliore del paese, quella che ha visto giusto fin dall’inizio, quella che è impegnata nelle più alte battaglie di civiltà, quella che sa perfettamente che cosa è il bene e che cosa è il male. Quella, soprattutto, che non ha dubbi su che cosa sia il male assoluto: archiviato il nazismo, archiviato il fascismo, resta lui, solo lui, il cattivo per antonomasia, Silvo Berlusconi. Una sorta di pensiero unico progressista impedisce alla sinistra benpensante, che pure predica il rispetto di tutte le differenze, di fare i conti con una piccola differenza, un piccolo scarto, una piccola deviazione all’interno del proprio mondo, quella di un pensiero non completamente convenzionale, e non esclusivamente moralistico, sul nemico Berlusconi. Il mio modesto parere è che, se la sinistra è così spiazzata dal populismo, è anche perché il pensiero unico di cui è (volutamente) prigioniera le impedisce ogni vero accesso al diverso da sé, di cui le istanze populiste sono la massima espressione.

Ma c’è anche un altro aspetto che l’affare Scalfari solleva. Lo ha visto molto lucidamente Marco Travaglio che, a differenza di altri, si è ben guardato dall’attribuire l’uscita di Scalfari alla vanità, all’età avanzata, o a qualche perdita delle capacità intellettuali.

“Porto rispetto a Scalfari e gli voglio bene (…). Dopo la morte di Montanelli, le cose più dure su Berlusconi le ho lette negli articoli di Scalfari” (…).
“Mi sono ben guardato dal dire che Scalfari è anziano. Secondo me, ci sta perfettamente con la testa e ha detto esattamente quello che pensano lui e una gran parte del nostro establishment”

Come si vede, il direttore del “Fatto Quotidiano”, pur essendo il più lontano fra tutti dalle posizioni di Scalfari, ne ha molto più rispetto di quanto ne abbia la sinistra indignata, quella di Micromega, di Libertà e Giustizia, di una parte del mondo di Repubblica. Per Travaglio, Eugenio Scalfari “ci sta perfettamente con la testa”, semplicemente esprime una posizione che pur essendo “incomprensibile” (per Travaglio stesso), è comprensibilissima per altri.

E allora vediamola, questa posizione. A me pare che il nocciolo del problema stia in ciò. C’è una parte del popolo di sinistra (probabilmente la maggioranza degli elettori Pd) che ritiene che le grandi battaglie per cambiare il Paese siano quelle sulla corruzione, il funzionamento della giustizia penale, il conflitto di interesse, i diritti delle minoranze, l’accoglienza dei migranti, le coppie di fatto, la bioetica, l’ambiente, eccetera. Tutte cose che riguardano soprattutto le regole, ma spostano poche risorse.

C’è un’altra parte del popolo di sinistra (probabilmente minoritaria) che, pur non disdegnando le grandi battaglie civili, crede che il futuro si giochi su temi meno sovrastrutturali, più legati all’economia e meno ai diritti: debito pubblico, occupazione, tasse, welfare, giustizia civile, competitività. Non entro qui nel sotto-problema strettamente politico delle ricette, che possono essere modernizzanti (sinistra riformista) o nostalgiche (Sinistra Purosangue). Perché il punto non è se ci piace il Jobs Act oppure no, il punto è che, se ci si colloca in questa seconda prospettiva, più attenta all’hardware del sistema sociale che al suo software, allora tutto cambia. Allora quel che ci si chiede non è che cosa pensa Di Maio del fine vita, o dei diritti dei gay, o delle politiche di accoglienza, ma che cosa succede allo spread dei nostri titoli di Stato se al governo va una forza politica che non ha mai governato, è anti-europea, e nel suo programma ha parecchie misure che potrebbero scassare i conti dello Stato. E anche a una persona come Scalfari, che sicuramente detesta Berlusconi ma ha una formazione culturale da economista, nonché una profonda conoscenza dei delicati meccanismi delle istituzioni economiche, può venire in mente una cosa che alcuni dicono da anni: e cioè che, se parliamo di governo dell’economia, non è facile dire se, in questi 20 anni, siano stati più dannosi (o meno inefficaci) i governi di destra o quelli di sinistra. Tanto più che, per una strana congiunzione astrale, la sinistra ha sempre avuto la fortuna di governare in anni di vacche (relativamente) grasse, e la destra in anni di vacche decisamente magre.

Ecco che, allora, alcune frasi di Scalfari si capiscono. Quando, ad esempio, riprendendo un tema che ricorre in tutti i classici del pensiero politico, da Platone a Machiavelli, osserva:

La politica è una cosa diversa dalla morale. La politica non è un fatto morale, è un fatto di governabilità, questa è la politica.

O, più provocatoriamente:

Per Platone quelli che facevano la politica di una città, di un paese erano i filosofi, che cosa poi i filosofi fossero moralmente era un problema che né Platone né Aristotele prendevano in considerazione. Aristotele fu insegnante della politica sapete di chi? Di Alessandro Magno. Il quale Alessandro Magno della morale se ne fotteva nel più totale dei modi.

Con questo non voglio dire che non la si possa pensare come Savonarola, o come Flores D’Arcais, o come Travaglio, o come Ingroia. Uno può essere convinto che il prius sia la rigenerazione morale di questo orrido popolo italiano, e che tutto il resto segua. O che si debba costruire l’uomo nuovo con una rivoluzione più o meno cruenta. Anzi, arrivo a dire che, a giudicare dall’insuccesso delle infinite riforme con cui ci balocchiamo da decenni, anche i sogni palingenetici, come quelli dei Cinque Stelle, hanno una loro logica.

E tuttavia il vero discrimine non è questo. Il discrimine è che, se invece la si pensa come la sinistra che si occupa soprattutto del funzionamento dell’economia, e in più si ritiene che, finché non si riforma, il nostro paese sia altamente vulnerabile agli shock esterni, allora un’affermazione come “Di Maio è più pericoloso di Berlusconi” diventa perfettamente comprensibile, e tutt’altro che eretica. Anzi, è una frase che, semmai, deriva da un eccesso di razionalità: è la frase di chi ha la forza di mettere a tacere i sentimenti, e il coraggio di far prevalere il cervello, la cruda analisi della “realtà effettuale”, come la chiamerebbe Niccolò Machiavelli. Non posso sapere se siano esattamente questi i timori che hanno spinto Scalfari a prendere così nettamente le distanze dal Movimento Cinque Stelle, ma lo ritengo verosimile.

Quel che stupisce non è che Scalfari abbia potuto esprimere questo genere di preoccupazioni, ma è il corto circuito mentale dei suoi critici, incapaci di uscire da uno schema logico-mentale di cui sono prigionieri: se dico che A (Di Maio) è peggio di B (Berlusconi), allora implicitamente sto legittimando B.

Non so se ve ne siete accorti, ma questo virus è ormai sempre più penetrato nella sinistra benpensante. E’ lo stesso virus che, per fare un solo esempio, a suo tempo ha condotto alla lapidazione mediatica di Debora Serracchiani, rea di aver detto che lo stupro è ancora più grave se commesso da uno straniero, che tradisce la fiducia del paese che lo accoglie: qualcuno ha avuto il fegato di interpretarlo come un’attenuante per gli stupri commessi da italiani.

Eppure è una questione di logica, o forse sarebbe meglio dire di uso non malato della lingua italiana: dire che una cosa è ancora peggiore di un’altra non significa rivalutare la cosa “meno peggiore”. Significa solo esercitare la capacità di giudizio.

C’è un’ultima ragione per cui l’affare Scalfari merita di non essere archiviato. Quella presa di posizione, che io giudico semplicemente segno di coraggio e di libertà intellettuale, sta portando alla luce un tema nascosto. Un tema di cui, soprattutto nell’establishment di sinistra, non si ha il coraggio di parlare, o meglio di parlare apertamente, con la dovuta spregiudcatezza.

Il tema è questo: sul dopo voto la sinistra è divisa, e lo è precisamente sul punto che Scalfari ha sollevato. C’è una parte della sinistra, quella che fa capo a Renzi e al Pd, che pensa che, in assenza di una maggioranza autosufficiente, si potrebbe varare un governo Pd-Forza Italia. Questa possibilità non dovrebbe suscitare alcuno scandalo, non solo perché Pd e Forza Italia sono i due partiti più europeisti (o meno anti-europeisti) del nostro sistema politico, ma perché su molti punti cruciali di politica economica sono sostanzialmente d’accordo: più flessibilità sui conti pubblici, meno pressione fiscale, nessun ritorno all’articolo 18.

Ma c’è un’altra parte della sinistra, molto forte nel mondo di Repubblica, ma anche (secondo i sondaggi) nell’elettorato progressista, che mal sopporta Renzi e simpatizza con i Cinque Stelle, visti come una sorta di sinistra più idealista e pura di quella, tutta modernizzazione e riforme, impersonata da Renzi e dai suoi. Ebbene, questo pezzo della sinistra non lo dice apertamente, ma vagheggia un qualche tipo di “sponda” fra la sinistra stessa e i Cinque Stelle, sul modello dell’operazione invano tentata da Bersani nel 2013. Questa prospettiva piace ovviamente alla sinistra Purosangue, che rappresenta una sorta di ponte ideale fra sinistra riformista e Cinque Stelle ma, per quel che capisco, non dispiace nemmeno a una parte del mondo di Repubblica, che dopo 23 anni di anti-berlusconismo “senza se e senza ma”, è ancora lì, fermo alla demonizzazione del Cavaliere visto come il male assoluto, che come tale non prevede che possa esistere, in natura, un male ancora più grande.

Ecco, temo che sia stato questo il vero peccato del fondatore di Repubblica. Se la reazione del suo mondo è stata così virulenta forse è anche perché, dicendo quel che ha detto, di fatto ha tolto legittimità al flirt che, sia pure obliquamente, una parte della sinistra stava (e sta) imbastendo con i Cinque Stelle (dalla legge sul fine vita alle dichiarazioni sull’articolo 18). Un flirt che, a quel che risulta dai sondaggi, seduce una parte non piccola dell’elettorato progressista, e fino a ieri trovava in Repubblica il luogo adatto per fare capolino.

Con la sua paradossale dichiarazione di preferenza per Berlusconi, Scalfari non ha fatto altro che scoprire il gioco: un contributo alla chiarezza, più che una perdita del senno.

Torino, 6 dicembre 2017



Mercato del lavoro, l’eredità della crisi

Come spesso succede nei divorzi fra coniugi, anche nell’imminente, e a quanto pare ineluttabile, divorzio fra il Pd e le tre sigle della Sinistra Purosangue (Mdp, Si, Possibile), le ragioni vere, le ragioni ultime della separazione, non si conoscono con certezza: antipatie personali? disaccordi sulla suddivisione dei seggi in Parlamento? dissensi politici sui programmi?

Una cosa però la sappiamo con sicurezza: le ragioni dichiarate, quelle che riempiono i telegiornali e le pagine dei quotidiani, vertono essenzialmente sul mercato del lavoro. La Sinistra Purosangue attacca frontalmente le politiche occupazionali di questi anni, a partire dal Jobs Act; il Pd non solo non si sogna di rinnegare quelle politiche, ma attribuisce ad esse il merito di aver creato un milione di posti di lavoro.

Temo che nessuna di queste due posizioni regga a un’analisi fredda. Tuttavia penso che vi sia un’asimmetria: il punto debole della Sinistra Purosangue sono le proposte, quasi tutte penalizzanti per le imprese e melanconicamente ispirate a un mondo che non c’è più; il punto debole della sinistra riformista, invece, è la descrizione, il racconto di questi anni. Un racconto che, con il comprensibile obiettivo di difendere quel che si è fatto, rischia di non vedere né quel che realmente è accaduto, né quel che si sarebbe potuto fare, di più e di meglio.

Che cosa è accaduto, fra il 2014 e oggi?

Sì, è vero, i posti di lavoro dipendente sono aumentati di circa 1 milione. Ma questo non prova che ciò sia avvenuto grazie alle politiche del governo: senza un’analisi statistica accurata, che al momento manca (e probabilmente è inattuabile, con i dati di cui si dispone), si potrebbe altrettanto bene sostenere che il merito è della ripresa dell’economia europea, che a sua volta sarebbe merito della Bce e del Quantitative Easing. Giusto qualche giorno fa Draghi è sembrato dire proprio questo, quando ha messo in relazione la politica monetaria e i 7 milioni di nuovi posti di lavoro creati nell’Eurozona negli ultimi 4 anni.  E se proprio volessimo farci un’idea, rozza e approssimativa, degli eventuali meriti delle politiche attuate in Italia, quel che dovremmo fare non è certo confrontare gli ultimi quattro anni (di lenta ripresa) con i precedenti quattro (di crisi profonda), ma semmai chiederci come è andata nel resto d’Europa. Ebbene, se lo facciamo, il risultato è desolante: fra il 2013 e il 2016 gli occupati sono cresciuti del 2.2% in Italia, ma del 3.8% (quasi il doppio) in Europa. A fronte del +2.2% dell’Italia, la Francia ha fatto +2.7, la Germania +3.9%, il Regno Unito +5.2, la Spagna: +6.9. Solo 8 paesi (fra cui Grecia e Cipro) hanno fatto peggio di noi, mentre ben 24 su 33 hanno fatto meglio.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Se poi andiamo a vedere la composizione di questi nuovi posti di lavoro, il quadro si fa ancora più allarmante. Il tasso di occupazione precaria era all’11% a metà degli anni ’90, è cresciuto di un paio di punti nel ventennio successivo, ma poi, in soli tre anni, fra il 2014 e il 2017, ha fatto un ulteriore balzo di altri 2 punti: oggi è al massimo storico, oltre la soglia del 15%. E questo record si mantiene anche se teniamo conto della riduzione del numero delle collaborazioni, ossia del tipo di contratti che il Jobs Act e la decontribuzione si preoccupavano di disincentivare.

Fonte dati ISTAT-Elaborazioni Fondazione David Hume

Questo dato sembra contrastare con le cifre che vengono spesso presentate a difesa delle politiche di questi anni, cifre da cui risulta che l’incremento di posti di lavoro è equidistribuito: mezzo milione di posti di lavoro permanenti (stabili), mezzo milione di posti di lavoro temporanei (precari). Ma è una trappola statistica, e non è un buon argomento a favore delle politiche che si vogliono difendere. La realtà è che il tasso di occupazione precaria in Italia, anche dopo i record negativi macinati nel triennio 2015-2016-2017, resta relativamente contenuto: il 15% è più o meno la media europea, un dato analogo a quello della Germania, e migliore di quelli di Francia e Spagna.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Ma un paese che ha “solo” il 15% di lavoratori a termine, se vuole evitare che il tasso di precarietà salga, è costretto ad assumere a tempo indeterminato almeno l’85% dei nuovi dipendenti. Se ne assume a tempo indeterminato solo il 50%, inevitabilmente registrerà un aumento del tasso di occupazione precaria. Ecco perché hanno ragione sia quanti si rallegrano che metà dei nuovi posti di lavoro siano stabili, sia quanti deplorano che il tasso di precarietà sia in continua ascesa.

Parlando di record negativi, ce n’è purtroppo anche un altro che abbiamo conquistato in questi anni: nel 2016 l’Italia è diventata il paese con il tasso occupazione giovanile più basso d’Europa. E’ vero che è da molti anni che siamo agli ultimi posti, ma non era mai successo che fossimo il fanalino di coda.

Fonte dati Eurostat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Quanto al tasso di occupazione complessivo, nonostante i progressi degli ultimi anni, siamo ancora al di sotto dei livelli pre-crisi, ma anche qui è importante distinguere: il tasso di occupazione degli italiani è ancora sotto di un punto, quello degli stranieri di quasi 10. E questo non perché gli stranieri abbiano conquistato più posti degli italiani, ma per la ragione opposta: nel decennio della crisi gli italiani hanno perso più di 1 milione di posti di lavoro, gli stranieri ne hanno conquistati quasi 800 mila, ma il loro tasso di occupazione è crollato lo stesso perché l’afflusso di stranieri è stato eccessivo rispetto alle capacità di assorbimento del mercato del lavoro.

Fonte dati Istat-Elaborazioni Fondazione David Hume

Qual è il bilancio, dunque?

Se proviamo a sgombrare il campo dalle controversie ideologiche mi pare piuttosto semplice. In questi ultimi quattro anni, sul versante del lavoro, le cose sono andate meglio di prima, ma peggio che nella maggior parte degli altri paesi europei. Ed è normale che sia così, perché noi non abbiamo ancora risolto il problema del debito pubblico (che anzi si è un po’ aggravato), né rimosso le grandi strozzature, tasse e burocrazia innanzitutto, che impediscono al Pil di crescere a un ritmo sufficiente. Possiamo fare tutte le leggi che vogliamo per regolare o deregolare il mercato del lavoro, ma il problema di fondo resta sempre quello: se il Pil non cresce almeno a un ritmo del 2-3% l’anno, è impossibile garantire sia un flusso cospicuo di nuovi posti di lavoro, unico modo sano di dare un po’ di ossigeno alle famiglie, sia un aumento della produttività, unico modo per essere competitivi sui mercati internazionali. Anche il problema del tasso di precarietà dipende in modo cruciale dalla dinamica del Pil: finché il Pil ristagna, o cresce poco, è normale che le imprese temano che la domanda che oggi c’è domani non ci sia più, e si cautelino con i contratti a termine. Pensare che il trend si possa invertire aumentando i vincoli e i costi delle imprese è semplicemente ingenuo.

Questo, mettere le imprese in grado di creare posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, è il nodo vero. Ma è un nodo che, in quanto passa per una significativa riduzione del debito pubblico, nessuna forza politica è in grado di affrontare sul serio.

Pubblicato su Il Messaggero



Pd e Sinistra Purosangue

Dev’essere un bel dilemma, quello con cui devono fare i conti il Pd e la “Sinistra Purosangue” (d’ora in poi SP), ovvero la microgalassia di sigle e gruppi che cercano di occupare lo spazio alla sinistra del Pd: Sinistra Italiana (Fratoianni), Mdp (Bersani e D’Alema), Campo progressista (Pisapia), Possibile (Civati), la sinistra “civica” del Brancaccio (Falcone e Montanari), giusto per citare i raggruppamenti di cui più si parla.

Il dilemma è questo. Se si presentano separatamente, conquistano pochissimi seggi e decretano la sconfitta della sinistra, ripetendo il copione del 2001, quando bastò la corsa solitaria di Bertinotti a spianare la strada a Berlusconi. Se si presentano alleati, conquistano più seggi, ma rendono ridicola e incomprensibile la scissione di qualche mese fa.

Personalmente penso che, alla fine, il bisogno di poltrone prevarrà, e qualche tipo di alleanza vedrà la luce. Però penso anche che non sia questo il punto. Il punto interessante sono le differenze programmatiche. Perché un eventuale programma comune potrà anche smussarle o camuffarle, ma non cancellarle. Anche se prima del voto venisse trovato un accordo, un minuto dopo le elezioni quelle differenze tornerebbero a galla. E non è neppure escluso che il Pd tenti un governo con Forza Italia, e SP, la Sinistra Purosangue, tenti un governo con i Cinque Stelle.

Ma quali sono le differenze importanti?

Sono sostanzialmente tre. Pd e SP dissentono sul Jobs Act, sulle tasse e sui migranti. Più esattamente, la Sinistra Purosangue vuole reintrodurre l’articolo 18, pensa che molti problemi si possano risolvere aumentando le tasse ai ricchi, disapprova le politiche di contenimento dei flussi migratori del ministro Minniti. E traduce queste sue critiche in una tesi politica tanto semplice quanto efficace: il Pd “non è più di sinistra”.

Sul fatto che il Pd non sia un partito di sinistra, che rappresenta le istanze dei ceti popolari, sono sostanzialmente d’accordo. Lo penso anch’io, e lo penso semplicemente perché è quel che risulta dalle analisi empiriche, quando si va a vedere chi vota chi. Il Pd è sovra rappresentato fra i ceti medi e più in generale nel mondo dei garantiti, mentre i ceti bassi, ovvero il mondo degli esclusi, dei precari, e di chi è esposto ai rischi del mercato, preferiscono guardare altrove: ieri ai partiti di destra, ora anche al Movimento Cinque Stelle. Il punto, però, è che anche la Sinistra Purosangue non è radicata nei ceti popolari, ma pesca semmai fra i “ceti medi riflessivi”, impegnatissimi nelle grandi “battaglie civili”, dal divorzio all’aborto, dal testamento biologico allo Ius soli, ma lontanissimi dalla sensibilità popolare.

Insomma, quel che voglio dire è che, se ammettiamo che una forza di sinistra deve essere capace di rappresentare almeno il nucleo delle istanze popolari, allora non sono di sinistra né il Pd né la Sinistra Purosangue, che in fondo, in un modo o nell’altro, si richiama semplicemente a quel che il Pd era prima di Renzi. La politica del Pd non è in sintonia con i ceti popolari non perché ha varato il Jobs Act, ma perché il suo atto più significativo, gli 80 euro in busta paga, ha tagliato fuori precisamente gli strati sociali più bassi: chi non ha un lavoro, e chi guadagna così poco da non poter usufruire dello sconto fiscale. La politica della Sinistra Purosangue, invece, non è in sintonia con i ceti popolari perché sul nodo scottantissimo delle politiche migratorie invoca l’esatto contrario di quel che la gente vuole, ovvero una stretta sugli ingressi irregolari in Italia.

Se una differenza politica si vuole trovare fra Pd e SP, a me sembra che la si possa descrivere così. Checché ne dica Bersani, non è il Pd di Renzi che “non è più di sinistra”, visto che è almeno da vent’anni che gli eredi del Pci non rappresentano più i ceti subordinati. Quell’etichetta nostalgica, che allude ai bei tempi in cui la sinistra faceva la sinistra, si applica semmai alla Sinistra Purosangue, che si illude che basti rispolverare le vecchie ricette – più tasse, più vincoli alle imprese – per resuscitare un mondo che è definitivamente tramontato. Del Pd renziano, non direi che “non è più” di sinistra, come se prima di Renzi ancora lo fosse, ma semmai che “non è ancora” di sinistra, se essere di sinistra significa innanzitutto – oggi come ieri – promuovere l’emancipazione di chi sta in basso. Un’emancipazione che, nelle condizioni dell’Italia di oggi, a mio modesto parere significa soprattutto tre cose: mettere le imprese in condizione di creare posti di lavoro veri, fermare il declino della qualità dell’istruzione nella scuola e nell’università, fornire risposte alla domanda di sicurezza, particolarmente intensa nelle periferie e nelle realtà più degradate.

Tutti compiti per cui la sinistra non è attrezzata, ma per i quali la Sinistra Purosangue sembra esserlo ancora meno del Pd. Dalla prima, realisticamente, mi aspetto solo una cosa: nostalgia, nostalgia, nostalgia. Dal Pd mi aspetto che, finalmente, faccia una scelta: prendere sul serio la domanda di protezione, economica e sociale, che sale dai ceti popolari, o lasciare che siano solo la destra e i Cinque Stelle a farsene interpreti.




Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017



Fallita la Terza via/Dopo 10 anni al Pd serve una nuova identità

Oggi è il 14 ottobre 2017. Esattamente dieci anni fa, il 14 ottobre 2007, veniva fondato il Partito democratico, che sceglieva come suo primo segretario Walter Veltroni (76% dei consensi, 3 milioni e mezzo di voti).

Il partito nasceva, essenzialmente, dal matrimonio tardivo di Ds e Margherita, due formazioni politiche a loro volta in ritardo sulla storia: i Ds sono stati l’ultima mutazione della tradizione comunista, travolta dalla caduta del muro di Berlino (1989); la Margherita è stata l’ultima mutazione della tradizione e democristiana, travolta dalle inchieste di Mani pulite (1992). Da allora si sono succeduti in tutto 5 segretari, due di matrice comunista (Veltroni e Bersani), due di matrice democristiana (Franceschini e Renzi), uno di matrice socialista (Epifani).

E’ un matrimonio riuscito quello che ha generato il Pd? O invece il progetto di un partito liberal-socialista, lucidamente delineato da Michele Salvati nei primi anni 2000, deve essere considerato fallito? E qual è stato il ruolo di Renzi in questa storia durata dieci anni?

Sappiamo che le risposte a queste domande costituiscono uno dei principali elementi di divisione a sinistra. C’è chi, come Piero Fassino (fresco autore di Pd davvero, La Nave di Teseo 2017), pensa che il progetto non sia affatto fallito, ma sia largamente incompiuto. E c’è chi, come i nemici di Renzi e del renzismo, da Bersani a Pisapia, da Fratoianni a D’Alema, pensano che Renzi sia la sciagura che ha distrutto il giocattolo.

Se vogliamo valutare quel che è successo in questi 10 anni, tuttavia, forse è meglio distogliere per un attimo lo sguardo dal piccolo recinto della politica italiana, e provare a collocare la storia del Pd nel più ampio teatro europeo. Ebbene, se facciamo questa operazione di spostamento, è difficile non accorgersi di alcune circostanze.

Primo. La sinistra tradizionale, ovvero i partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti, sono in crisi in quasi tutte le democrazie occidentali (eccetto nel Regno Unito), e spesso sono ampiamente superati da forze di sinistra alternative ad essi. In Spagna i socialisti sono al 23%, in Germania i socialdemocratici sono al 20%, in Francia i socialisti sono al 7%: anche trascurando il successo alle Europee del 2014 (40.8%), il consenso al Partito democratico (intorno al 27%) si situa nettamente al di sopra dei valori dei partiti cugini in Europa.

Secondo. Fatto 100 il consenso a tutte le forze di sinistra, il Pd ne cattura tra l’80 e il 90%, una quota che, nel continente europeo, non viene neppure lontanamente avvicinata da alcun partito socialista o socialdemocratico. In Germania i socialdemocratici pesano per il 53%, in Spagna per il 49%, in Francia per il 26% (per non parlare della Grecia, dove sono ridotti al 13% dello schieramento di sinistra). Insomma: noi ci lasciamo impressionare dalle tempeste in un bicchier d’acqua di casa nostra, ma la realtà è che negli altri paesi la sinistra è molto più divisa, e il partito che tradizionalmente l’ha rappresentata è molto più in difficoltà di quanto lo sia il Pd in Italia. A quanto pare la “fusione fredda” fra comunisti e democristiani ha avuto l’effetto di sopprimere ogni reale concorrenza a sinistra.

Terzo. La sinistra tradizionale è in crisi quasi ovunque, in Europa. Su questo gli scissionisti di casa nostra hanno ragione. Ma la domanda cruciale è: perché la sinistra è in crisi? E che cosa può fare per uscire dalla sua crisi?

A me sembra che la risposta alla prima domanda sia abbastanza semplice: la sinistra è in crisi perché il modello della Terza via non ha funzionato, come del resto ha da tempo riconosciuto il suo maggiore teorico, il sociologo britannico Anthony Giddens. La sfortuna del Partito democratico è stata di nascere nel 2007, ossia l’esatto istante in cui la crisi (appena scoppiata negli USA, con la bolla dei mutui subprime) stava per mandare in frantumi i sogni riformisti degli anni ’90, quando i vari Clinton, Blair, Schröder, Prodi, D’Alema, Veltroni scommisero sul cocktail mercato-riforme-meritocrazia.  E’ allora che, sulla scena del mondo, la competizione fra destra e sinistra divenne una competizione fra due modi solo marginalmente diversi di gestire il mercato. Un cambiamento che, già in un libro del 1996, il politologo Marco Revelli aveva bollato polemicamente con la formula delle “due destre”, entrambe persuase delle virtù del mercato (Le due destre, Boringhieri 1996).

Ora, con milioni di disoccupati, e una crescita che è ripartita in alcuni paesi ma non in altri, la storia presenta il conto innanzitutto ai partiti che la globalizzazione avevano pensato di poterla governare, indirizzandola verso esisti egualitari. L’elettorato non perdona ai partiti socialisti e socialdemocratici di aver tradito le loro promesse: più occupazione, più stato sociale, più diritti. Anche per questo si rivolge ai partiti populisti, di destra, di sinistra e di centro, che quelle domande di protezione hanno mostrato di saperle prendere estremamente sul serio.

In questo quadro, l’anomalia dell’Italia è la seguente. Nel Pd ha prevalso l’anima modernizzatrice e mercatista della Margherita, di cui Renzi è stato un efficace interprete. Nonostante innumerevoli errori, di contenuto e di atteggiamento, non si può negare a Renzi il merito di aver perfezionato la modernizzazione del Pd, che ha deposto o attenuato alcuni dei tratti più discutibili della cultura di sinistra: immobilismo, consociativismo, complesso dei migliori, subalternità ai sindacati e alla magistratura. Il punto, però, è che quella modernizzazione non è stata un’improvvisa trovata del “ragazzo di Rignano”, ma era stata avviata, fin dagli anni ’90, dalle correnti riformiste dei post-comunisti, a partire da D’Alema e Bersani. Se il Pd è diventato quel che oggi è, non è certo perché Renzi lo ha snaturato, ma perché Renzi ha impresso un po’ più di velocità a un processo che altri, a sinistra, avevano avviato ben prima di lui, e ben prima della nascita del Pd.

Ecco perché le critiche degli scissionisti suonano oggi leggermente surreali. Il mondo che si muove alla sinistra del Pd ha perfettamente ragione a far notare che certi conti non tornano (a partire da quelli della disoccupazione e della povertà), ma è poco credibile quando sembra suggerire che, quei problemi, potrebbe risolverli un ritorno alle politiche del passato, ai bei vecchi cari tempi in cui l’economia mondiale tirava, e quella italiana cresceva trainata dal debito.

Se una critica si può ragionevolmente fare al Pd non è certo di non saper tornare risolutamente al passato, come vorrebbero i suoi critici nostalgici, ma di non saper guardare al futuro. Dove “guardare al futuro” significa prendere atto senza troppi giri di parole che la Terza via, quella su cui avevano puntato tutte le loro carte i fondatori del Pd, è sostanzialmente fallita, e che si tratta di inventarne un’altra (una Quarta via?), che sappia fare i conti con le sfide della globalizzazione, dell’automazione, delle migrazioni di massa.

Pubblicato su Il Messaggero  il 14 Ottobre 2017