La “cetomedizzazione” della sinistra è iniziata 40 anni fa. Intervista a Luca Ricolfi

Luca Ricolfi, docente di Statistica e sociologo, come commenta questi dati per cui nei Comuni più ricchi del Torinese prevale il Pd, mentre nelle zone più povere a vince la Lega e dove la crisi morde svettano i grillini?

Sono perfettamente coerenti con quelli nazionali. Aggiungo solo una cosa: c’è una variabile che ancor meglio del reddito pro capite spiega le scelte elettorali, ed è il tasso di occupazione. Dove manca il lavoro la gente vota Cinque Stelle, dove il lavoro c’è la gente vota Pd, ma anche, anzi ancor più, Lega. Da questo punto di vista il presunto populismo della Lega è di natura del tutto diversa da quello dei Cinque Stelle, perché si affermano in contesti opposti, di massima e minima occupazione. Il messaggio dell’elettore Cinque Stelle è: visto che il lavoro non c’è, almeno datemi il reddito. Quello dell’elettore leghista è: visto che il lavoro ci sarebbe anche, metteteci in condizione di lavorare (meno tasse e meno burocrazia).

Si corona – purtroppo per il Pd –  il grande sogno di Renzi? Quello di andare a prendere voti ai ceti conservatori o per lo meno borghesi?

No, questo succedeva già con il Pd di Bersani e con quello di Veltroni, e persino – in qualche misura – con il Partito comunista dell’era Berlinguer. La “cetomedizzazione” del principale partito della sinistra è iniziata circa 40 anni fa, negli anni ‘70, non certo con la segreteria Renzi. La novità è che Renzi è riuscito a perdere quel po’ di base popolare che ancora votava Pd.

C’è un problema però. La classe operaia o degli inoccupati non vota quelli che sono gli eredi di Gramsci e Bordiga.  Soprattutto nella Torino città operaia per antonomasia.

Rispondo con una domanda: lei vede una ragione per cui gli operai dovrebbero votare Pd?

Dobbiamo rassegnarci a un Pd radical chic? Un Pd partito delle élite, come dice un sondaggio di pochi giorni fa della Luiss?

Mi sembra sconfortante che si debba apprendere da un sondaggio, e si presenti come una novità, quello che sappiamo da almeno vent’anni. Le cose che oggi si cominciano a vedere gli studiosi disincantati le sanno da tempo. Per parte mia le descrissi con una certa spietatezza ne La frattura etica (2001), in Perché siamo antipatici? (2005), ne Le tre società (2007), solo per citare tre libri ormai vecchiotti. E le ho ribadite in Sinistra e popolo (2017) un libro scritto prima della Brexit e della vittoria di Trump.

La domanda è: visto che tutti gli elementi della sindrome elitaria erano presenti 20 anni fa, come ha fatto la sinistra a tenere la testa sotto la sabbia così a lungo?

Perché il Pd non convince quelli che stanno al di sotto di un certo reddito? Cosa è successo?

Il Pd non li convince per tre motivi. Primo: con gli 80 euro il Pd ha aiutato chi già aveva un lavoro, e non l’esercito degli incapienti, che non guadagnano nulla o lavorano in nero (circa 10 milioni di persone, in gran parte concentrate al Sud). Secondo: il Pd non ha capito che l’accoglienza all’italiana è una politica antipopolare, che piace ai ceti benestanti e illuminati, ma danneggia chi sta in periferia e fatica a sbarcare il lunario. Terzo: il Pd non ha capito che il popolo è dotato di senso dell’humor, e quindi detesta l’ipocrisia del politicamente corretto.

È vero quello che dice Calenda, il Pd ha ignorato le paure delle persone?    

E adesso se ne accorge? Non ha mai notato il disprezzo con cui i suoi compagni di partito parlavano, delle “paure irrazionali” della gente? Dov’era quando Renzi e il Papa invitavano al dovere morale dell’accoglienza, senza se e senza ma? Perché hanno messo 4 anni, Renzi e il Papa, ad accorgersi che i sentimenti del popolo meritavano più rispetto?

Nel suo ultimo libro “Sinistra e popolo” lei affronta l’argomento del populismo, il tramonto della sinistra quando è cominciato?

Il tramonto della sinistra come espressione dei ceti popolari è iniziato dopo la morte di Berlinguer, ma l’ingresso massiccio dei ceti medi nella base elettorale della sinistra era iniziato dieci anni prima, nel cuore degli anni ’70. E’ allora che i ceti medi, fatti di studenti, insegnanti, giornalisti, magistrati, artisti di ogni specie, presero d’assalto la diligenza del Pci, visto come un’alternativa pura e incorrotta al malgoverno imperante. Un copione che in Italia si presenta circa ogni quarto di secolo (1974-74, 1992-1994, 2017-18): cambiare tutto, per non cambiare nulla.

Intervista a cura di Andrea Rinaldi pubblicata su Il Corriere della Sera-Torino il 12 marzo 2018



Intervento di Luca Ricolfi a Otto e Mezzo

La puntata del 16 Dicembre 2017




Donne e politica: perchè solo la destra si fida delle donne al comando?

«Come donna devi avere il senso del limite.» Forse la risposta al quesito «perché la sinistra non ha leader donne?» è tutta qui, nelle parole che nel 2001 si sentì dire il ministro Roberta Pinotti, all’epoca segretario provinciale Ds a Genova, quando il partito le propose la candidatura in Parlamento e, negli stessi giorni, lei scoprì di aspettare un figlio. A pronunciarle non fu il suo partner o un avversario politico maschio, o un compagno retrogrado tipo quelli immortalati da Guareschi in Don Camillo, che andavano a piangere dal prete perché la moglie era così impegnata in politica da trascurare i fornelli. A Pinotti lo disse un’altra donna del suo partito, l’ex Pci, l’attuale Pd. Probabilmente, una progressista pronta a combattere in buona fede per le pari opportunità, finché non si tratta di rompere il famoso soffitto di cristallo. Non è nella natura delle donne, e men che mai delle future madri, rompere i cristalli. Al massimo possono prendere straccio e Vetril, tirarli a lucido e godersi la splendida visuale delle suole dei compagni che, geneticamente sprovvisti del senso del limite, hanno fatto carriera e ora camminano sulle loro teste. Pinotti invece il cristallo l’ha rotto. Da tre anni è ministra della Difesa, prima donna in Italia. E oggi dice che per lei, donna ed ex comunista, è stato più facile farsi accettare dalle arcigne Forze Armate che dai politici, compresi quelli di sinistra. Una storia che ricorda alla lontana quella di Angela Merkel: cresciuta nella Gioventù comunista della Germania Est, ma poi trapiantata con successo in un’aiuola ideologicamente lontanissima, quella cristiano-democratica.

Chissà se a Frau Angela, la tri-cancelliera in cui molti vedono il solo vero uomo politico europeo, qualcuno ha mai consigliato di mantenere il senso del limite. O per rimanere in Germania, a Tatjana Festerling, la pasionaria di Pegida, destra radicale, o a Frauke Petry, ex leader dei nazionalisti di Alternative fur Deutschland, o ad Alice Weidel, attuale vice presidente del partito, o alle sue aristocratiche capi-corrente Doris von Sayn-Wittgenstein e Beatrix von Storch, imparentate con tutte le teste coronate d’Europa. Sembra che il senso del limite, rimanere un passo indietro rispetto ai maschi, senza mai alzare la voce o pestare i piedi, sia una virtù richiesta soprattutto alle politiche di sinistra. La destra europea pullula di donne «no-limits». In Francia, paese politicamente sessista almeno quanto l’Italia, ci sono le due Le Pen, Marine e Marion; in Inghilterra Theresa May, Diane James dell’Ukip, Leanne Woods dei nazionalisti gallesi e la bombastica Jayda Frensen, pasionaria dell’ultradestra di British First i cui tweet islamofobi sono stati improvvidamente retwittati da Donald Trump. Il giro d’Europa delle lady di ferro tocca la Norvegia, dove il centrodestra e la destra populista sono presidiate da due signore, Erna Solberg e Siv Jensen; la Lituania della Thatcher baltica, Dalia Grybauskaite, la Polonia, governata dalla leader degli ultra-conservatori Beata Szydlo, sconfina in Ucraina, forse la culla dell’euro-nazionalismo al femminile, inaugurato dall’iconica Yulia Timoshenko (la controversa eroina della Rivoluzione Arancione che ha annunciato di voler correre alle elezioni del 2019) e si conclude in Croazia, presieduta dal 2015 dalla conservatrice Kolinda Grabar-Kitarovic, la persona più giovane mai chiamata a ricoprire la massima carica dello Stato, e la prima a rimuovere dal palazzo presidenziale il busto del maresciallo Tito.

Pare che in Europa la leadership della destra, in tutte le sue cinquanta sfumature di nero, si declini preferibilmente al femminile. E visto che perfino da noi l’unica donna capo di partito è Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, da poco raggiunta dalla «pitonessa» Daniela Santanché, possiamo dire che il problema con l’altra metà del cielo, una volta tanto, non ce l’ha solo l’Italia. Ce l’ha proprio la sinistra. (Negli Stati Uniti il problema ce l’hanno sia la sinistra che la destra, una che si mangia ancora le mani per aver puntato su Hillary, l’altra abbrutita da Trump e dal machismo dell’Alt-right, che vede una stridula femminista in ogni donna che lavora.)

Strano, vero? La parte politica che più si è battuta per l’emancipazione, i diritti e le pari opportunità sembra non fidarsi delle donne al comando. Mentre la destra, specie quella populista, trova in giovani, toste e spesso piacenti signore le portavoci ideali. I maschi bianchi impauriti dalla globalizzazione, destabilizzati dall’immigrazione, e magari tignosamente attaccati agli stereotipi di genere, pendono dalle loro labbra senza complessi. Sorprendente ma non troppo: in fondo il nazionalismo si è sempre appoggiato a una simbologia muliebre: da Marianna a Boudicca, le allegorie della Patria sono matrone più o meno discinte, spesso in pericolo, incatenate o concupite da stranieri libidinosi, che incitano il popolo protendendo le braccia tornite. «Nazione come incarnazione di una declinazione patriottica dell’amore romantico», secondo la definizione dello storico Alberto Maria Banti: anziché soffrirne, le donne della destra europea si avvantaggiano, più o meno consapevolmente, dei residui, deboli ma persistenti, di un immaginario sette-ottocentesco maschilista soffuso di sottintesi sadomaso. Una narrativa in cui cent’anni fa il «villain» era, a seconda dei casi, il barbaro tedesco, l’infido ebreo o il russo belluino, e oggi è l’immigrato nero e/o musulmano, supposto violatore di tutto ciò che è violabile: donne e proprietà, chiese e quiete pubblica.

L’appeal di Szydlo e colleghe ha sì un piede nel passato, ma l’altro è ben calato nel presente. Proprio perché donne, appaiono come un’alternativa più netta a un ordine mondiale creato da maschi ricchi e benpensanti in giacca e cravatta, e allo stesso tempo rassicurano un elettorato che si sente sperduto, indifeso, non considerato da poteri patrigni, lontani e cattivi. In un certo senso le leader populiste sono l’apoteosi politica delle mamme cazzute che vanno a litigare con gli insegnanti dei figli perché dànno troppi compiti e fanno favoritismi. L’ «uomo forte» all’antica evocherebbe fantasmi militareschi troppo impegnativi per l’europeo moderno, nato, cresciuto e invecchiato nel più lungo periodo di pace mai vissuto dal Vecchio continente. Nell’era della pop-politica e dell’intimità quasi fisica fra il leader e il suo popolo, l’eccesso di testosterone non fa più sognare l’elettorato conservatore, tant’è che il tipo vincente fra i leader maschi populisti non è il caporione baffuto e mascelluto, ma l’elegante metrosexual con visetto cesellato, chioma ben curata e fisico da attore di soap-opera, vedi Geert Wilders, Sebastian Kurz e, in versione mediterranea, Luigi Di Maio. Perfino Matteo Salvini ha messo da parte le rudi canottiere bossiane e si è ingentilito: fra una ruspa e un post anti-migranti infila una copertina «desnuda» per Oggi e un’intervista in cui parla dei suoi figli e della (poca) cura della barba, e arriva a incassare e perdonare la scappatella ibizenca della fidanzata, accreditandosi presso le sue molte fan come maschio aperto ed evoluto. Ha imparato dal migliore, il maestro inarrivabile della trasformazione del privato in affare pubblico: Silvio Berlusconi, che a ottant’anni, truccato e tirato come Joan Collins, riesce a fare di acciacchi, cateteri e dentiere un’arma di seduzione elettorale.

Per le donne vale l’opposto: esporre il proprio privato non le rende più simpatiche, solo più vulnerabili e meno autorevoli. Devono essere sia Cesare che la moglie di Cesare: assertive e di polso, ma anche inappuntabili dal punto di vista morale. La seconda parte è più difficile della prima, perché nella pop-politica, mediatica e socialmediatica, la morale è anche estetica, e alla donna si rinfaccia tanto la mancanza di avvenenza, giovinezza e civetteria – vedi l’accanimento contro Rosy Bindi – quanto il suo contrario – vedi le campagne grilline «cosa faresti in auto con Laura Boldrini?» e i lazzi volgari, anche da sinistra, contro Maria Elena Boschi ben prima dello scandalo Banca Etruria. Lo stesso trattamento riservato, ai tempi del governo Berlusconi, a Mara Carfagna. Credete che all’estero siano più evoluti? Pochi mesi fa, dopo che Alice Weidel aveva condannato la «political correctness», il Crozza tedesco, Christian Ehring, l’ha presa in parola definendola nel suo show «troia nazista». Denunciato da Weidel, il comico è stato assolto in tribunale in nome della libertà di espressione: le figure pubbliche devono incassare gli sfottò, anche pesanti. Del resto, hanno aggiunto i giudici, «nazista» si riferiva alle posizioni oggettivamente estremiste dell’Afd, e «troia» ha sì una connotazione sessuale, ma «è stato usato solo perché si tratta di una donna e agli spettatore era chiaro che il termine non corrispondeva alla verità». Nella Germania di Angela Merkel, in un contesto di satira televisiva, è lecito dare della troia a una donna, a meno che non lo sia davvero.

Nessun paese è immune dal sessismo. E nessuno schieramento politico. Ma quello plateale e smaccato degli insulti degli oppositori forse fa meno danni del sessismo ipocrita, untuoso e sabotatore che le donne di sinistra incontrano nei loro stessi partiti. Il Pd è «ipnotizzato», come scrive Lea Melandri, «dalla schermaglia più o meno astiosa dei concorrenti alla leadership del partito, da cui le donne sembrano essersi ritratte, forzatamente ricondotte a spettatrici». Alle quali si chiede impegno, generosità e, soprattutto, obbedienza quando il partito chiede di farsi da parte. Esemplare il caso di Laura Puppato: nel 2010, dopo essersi fatta onore come sindaca di Belluno, era la concorrente più accreditata alla presidenza della regione Veneto, sostenuta da comitati locali e da Vip. Eppure il partito alla fine decise di candidare un uomo, Giuseppe Bortolussi, e perse le regionali; Puppato, che correva solo come consigliere regionale, fu eletta con numeri da record. Dopo la sua sconfitta alle primarie Pd del 2012 nessuna si è più azzardata a contendere agli uomini il timone del Nazareno. E malgrado il renzismo ci abbia offerto gran copia di ministre e portavoce, nessuna donna è stata candidata alla poltrona di sindaco di una grande città. L’atteggiamento del Pd rispetto alle donne rispecchia un po’ quello della coppia italiana rispetto alle automobili: in famiglia la donna guida sempre l’auto di cilindrata più piccola. Quella grande e potente è appannaggio dell’uomo, al massimo lei fa da copilota, anche se ha più punti sulla patente.

Più si va a sinistra, peggio è. L’imbarazzante foto di gruppo dell’esordio del tanto atteso nuovo soggetto, Liberi e Uguali, sembra scattata alla pizzata della squadra di calcetto: tutti maschi. Dopo che sul palco dell’Atlantico Live erano passate l’operaia della Melegatti, la ricercatrice del Cnr, le presidenti di Arci e Legambiente: virtuose figurine, perfette per scaldare la platea con funzione di décor politico-emozionale. Ma lo stato maggiore di Liberi e Uguali è for men only, in un momento in cui il tema della violenza di genere è all’ordine del giorno in mezzo mondo. Roba che al confronto il M5s, con Raggi, Appendino, Taverna e Rocchi, pare un collettivo femminista. All’ombra di un padre-padrone di nome Beppe Grillo, certo; sta di fatto che all’ombra di D’Alema, padre nobile di Liberi e Uguali, per ora donne non se ne vedono. «Proprio quando la destra sceglie di rappresentarsi con le donne,» si dispera Silvia Garambois su Strisciarossa, il sito degli ex dell’Unità. Già, ma è anche vero che solo a sinistra le donne si vergognano di voler comandare. Che sia una velenosa eredità del pensiero della differenza, la corrente filosofica femminista made in Italy che ha influenzato tutta una generazione di donne di sinistra? A forza di insistere sullo «specifico femminile», fondato sulla relazione e connotato dal lavoro di cura e di accoglienza, ha finito per colpevolizzare nelle donne l’aspirazione al potere, alla leadership, vista come un concetto naturaliter maschile. Quelle come Boschi, Madia e Pinotti, che non cercano la maternità o non se ne lasciano condizionare, non sono viste come un modello di empowerment e di emancipazione per le giovani donne, ma vengono giudicate divisive: vogliono fare le prime della classe, e chi non ce la fa o non se la sente fa la figura della «meno brava».

A destra certe paturnie non hanno mai attecchito: sotto sotto è rimasta «il mondo soldatesco e affamato, in cui la presenza femminile appariva a stento e scompariva presto, a meno che non sviluppasse qualità amazzoniche, militari, maschili» di cui ha scritto Alessandro Giuli sul Foglio. Secondo cui Giorgia Meloni riassume tutto l’album genealogico delle donne della destra italiana: un po’ donna Rachele, un po’ valchiria, un po’ ausiliaria della Rsi, il tutto condito da una voce roca e romanesca da Evita della Garbatella che fa un po’ simpatia e un po’ paura. Meloni deve misurarsi «solo» con il sessismo dei maschi. Non deve anche rendere conto delle sue scelte personali a una platea femminile criticona e competitiva come quella che giudica le colleghe di sinistra. Pure lei si è sentita dire «faccia la mamma», quando pensava di candidarsi a sindaca di Roma durante la sua gravidanza. Ma glielo disse Guido Bertolaso di Forza Italia, non una compagna di partito.

Pubblicato il 12 dicembre 2017



Riformisti e radicali/ Lezione tedesca per le sinistre di casa nostra

Pensavo che, alla fine, il tentativo di Piero Fassino di unire il centro-sinistra sarebbe andato in porto. E invece no, è stato un disastro su tutta la linea. Prima l’annuncio che Pietro Grasso avrebbe guidato una lista di sinistra “purosangue”, denominata Liberi e uguali, con dentro Mdp (Bersani-D’Alema-Speranza), Sinistra Italiana (Fratoianni), Possibile (Civati). Poi la notizia della rinuncia di Pisapia, che avrebbe dovuto guidare una lista di sinistra “meticcia”, su cui far confluire un segmento elettorale molto importante: quello di quanti non amano Renzi ma non vogliono disperdere il voto.

Questo doppio fallimento consegna al Pd e al suo leader un problema molto serio: come evitare che, con un Pd sempre più indistinguibile dalla figura di Renzi, l’elettorato di sinistra-sinistra si diriga verso i due unici sbocchi possibili, ovvero Liberi e uguali, il neo-nato partito di Pietro Grasso, e il Movimento Cinque Stelle, che non pochi elettori percepiscono come una formazione di sinistra anomala, ma pur sempre di sinistra. Una percezione, bisogna dire, che le ultime esternazioni di Di Maio rendono tutto sommato plausibile: tassare i ricchi, reintrodurre l’articolo 18, sussidiare i poveri, sono tutte misure che piacciono a una parte non trascurabile dell’elettorato progressista. Non ci fosse quella fastidiosa (e politicamente scorrettissima) critica delle politiche di accoglienza, non ci fosse quell’attenzione ai piccoli imprenditori e al lavoro autonomo, non ci fosse quella un po’ aberrante forma di democrazia del web, il partitone di sinistra-sinistra, sognato da milioni di nostalgici del tempo che fu, ci sarebbe già, perché ci ha pensato Grillo a fondarlo, giusto dieci anni fa.

Ma che cosa sposta, la nascita di Liberi e uguali, avvenuta quasi in simultanea con l’estinzione di Campo progressista, il movimento di Giuliano Pisapia?

La mia impressione è che l’effetto in termini di seggi complessivi per il centro-sinistra potrebbe essere modesto. L’esistenza di una lista di sinistra purosangue, che corre separata dal Pd, tende infatti a produrre due conseguenze di segno opposto: fa perdere seggi nella parte maggioritaria, ma ne fa guadagnare in quella proporzionale. Le simulazioni suggeriscono che diversi candidati Pd potrebbero non farcela a causa della concorrenza fratricida di Liberi e uguali, ma alcuni sondaggi suggeriscono anche che una parte dell’elettorato di sinistra potrebbe scegliere Liberi e uguali anziché il Movimento Cinque Stelle. Quale possa essere il saldo fra questi due movimenti nessuno lo sa, ma il paradosso è che un successo elettorale a due cifre della lista di Grasso dissanguerebbe non solo il Pd ma anche, o forse ancora più, il Movimento Cinque Stelle. Un meccanismo che è già visibile nei sondaggi delle ultime settimane, la maggior parte dei quali vedono i Cinque Stelle in costante discesa.

Ben più importante dell’impatto in termini di seggi, invece, potrebbe rivelarsi l’impatto della nuova lista sugli equilibri parlamentari complessivi, ossia, in definitiva, sul funzionamento del nostro sistema politico. Un successo a due cifre (intorno al 10%) di una lista di sinistra-sinistra, accompagnato da una prestazione mediocre del Pd (fra il 25 e il 30%), renderebbe improvvisamente lo stato della nostra sinistra alquanto simile a quello della sinistra in Germania negli ultimi 12 anni. Lì le forze riformiste, ovvero la somma di socialdemocratici (Spd) e Verdi, devono accontentarsi del 30% circa dei consensi, perché il 10% è congelato in una lista di estrema sinistra (la Linke), nata dalla fusione fra gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti duri e puri della Spd, guidati da Oskar Lafontaine.

E’ forse istruttivo ricordare come quella lista nacque. Oskar Lafontaine negli anni ’90 era stato il presidente della Spd, e aveva contribuito a portare al governo Gerhard Schröder, l’ultimo cancelliere socialdemocratico della storia tedesca prima del lungo regno di Angela Merkel. Ma quel cancelliere, nei primi anni 2000, avrebbe impresso alla politica tedesca una spinta riformista tanto decisiva per la salvezza dell’economia tedesca (allora la Germania era considerata “il malato d’Europa”), quanto indigeribile per la sinistra Spd, ostile alle riforme del mercato del lavoro (le famose riforme Hartz), attuate dal secondo governo Schröder fra il 2003 e il 2005. E’ contro questa svolta riformista radicale (e, aggiungo io, assai coraggiosa) che nasce, in Germania, una sinistra fondamentalista e anti-governativa, che riunisce gli ex comunisti dell’Est e gli scissionisti socialdemocratici.

Da allora la Germania è salva (è l’unico paese dell’euro che ha retto bene alla lunga crisi di questi anni), ma i benefici della svolta riformista sono stati in massima parte incassati dall’opposizione, ossia dal partito popolare (Cdu/Csu) di Angela Merkel, che regna incontrastata da 12 anni, ora con l’appoggio dei socialdemocratici (1° e 3° governo Merkel), ora con quello dei liberali (2° governo Merkel). Ai socialdemocratici, da allora, non è mai più stato possibile guidare un governo, e anche ora, dopo le elezioni del 2017 in cui hanno toccato il fondo (20.5% dei voti), il massimo in cui possono sperare è di partecipare al 4° governo della signora Merkel.

Non c’è bisogno di sottolineare le analogie con la situazione italiana, dove la nascita di una lista di sinistra-sinistra si deve in gran parte al rifiuto delle riforme del mercato del lavoro, peraltro assai più blande di quelle tedesche, attuate da governi di sinistra riformista, e specialmente dal governo Renzi con il Jobs Act; e dove è perfettamente possibile che la presenza stabile di una lista di sinistra purosangue, che sequestra il 10% dell’elettorato, sbarri per lungo tempo alla sinistra riformista l’accesso al governo.

Quel che è più interessante, semmai, sono le differenze con la situazione tedesca. La prima differenza è che, in Germania, le forze genuinamente populiste, rappresentate soprattutto da Alternative für Deutschland di Alice Weidel, raccolgono meno del 15% dell’elettorato, mentre in Italia, in base agli ultimi sondaggi, i tre partiti populisti (Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’Italia) sfiorano il 50%.

La seconda differenza è che, in Germania, il baricentro delle forze riformiste è decisamente spostato a destra, dove i popolari della Merkel e i liberali attraggono il 45% dei consensi, contro il 30% circa di socialdemocratici e verdi, mentre in Italia il baricentro delle forze riformiste è a sinistra, dove il Pd attira il 25-30% dei consensi, e Forza Italia poco più del 15%. Questo significa che un ipotetico governo di Grosse-Koalition (ma, dati i numeri, sarebbe meglio cominciare a chiamarlo di Kleine Koalition, di piccola coalizione) in Italia sarebbe un governo di sinistra allargato alla destra, mentre in Germania – se riusciranno a vararlo – sarà un governo di destra allargato alla sinistra.

La differenza più importante, tuttavia, a me pare ancora un’altra: quando la Merkel ebbe ad insediarsi al potere (2005), il duro lavoro delle riforme più impopolari era già stato in gran parte compiuto dal suo predecessore socialdemocratico, il cancelliere Schröder. In Italia, invece, chiunque governi dopo Renzi erediterà un paese in cui qualcosa (non senza errori e concessioni alla ricerca del consenso) si è cominciato a fare, ma il più deve essere ancora fatto. Il debito pubblico è ancora lì; le tasse sono scese, ma di pochi decimali; il Pil è ripartito, ma ancora troppo lentamente; burocrazia e giustizia civile continuano ad essere un freno alla crescita. Insomma, in Italia il cantiere delle riforme è appena stato aperto, e ci vorranno parecchi anni per raccogliere i frutti del lavoro che si è iniziato a fare.

Quindi, in fondo, la questione è assai semplice. Salvo sorprese, la nascita di una Linke italiana renderà più difficile sia la formazione di un governo Cinque Stelle, sia la formazione di un governo di sinistra, guidato dal Pd. Questo significa che, se escludiamo l’ipotesi di un “governo di unità popolare”, guidato dalla troika Di Maio-Renzi-Grasso, le alternative realistiche in campo restano solo due: una vittoria del centro-destra, o la formazione di un governo di Kleine Koalition Pd-Forza Italia.

Ma in entrambi i casi la mission sarebbe la stessa: portare a termine un lavoro che, con le riforme di questi anni, è soltanto iniziato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 9 dicembre 2017



L’affaire Scalfari. Di Maio o Berlusconi?

Anch’io sono rimasto sbalordito, incredulo, senza parole. Ma non perché Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica (e maestro riconosciuto di quel mondo), abbia osato dichiarare, o quantomeno far intendere, che Berlusconi è meno peggio di Di Maio, bensì per le reazioni che quella dichiarazione (rilasciata in tv, rispondendo a una domanda di Giovanni Floris) ha suscitato nel mondo che intorno a Repubblica è cresciuto e ha prosperato.

Reazioni scomposte, violente, cattive, intrise di disprezzo. C’è chi è arrivato a dire che un commento adeguato costringerebbe a usare il turpiloquio, e comunque non si è trattenuto dal qualificare la presa di posizione di Scalfari come “indecente”, frutto di una “parabola reazionaria”, ormai approdata su “lidi di ignominia che rinnegano e azzerano ogni suo merito progressista pregresso” (Flores D’Arcais). C’è chi non ha avuto nemmeno questa delicatezza, e ha attribuito l’uscita di Scalfari all’età e alla vanità, ovvero alla voglia di “riconquistare la scena” (Carlo De Benedetti, in una livorosa intervista rilasciata al “Corriere della Sera”). E vi risparmio le decine di invettive e offese reperibili sul web, come quelle che in questi giorni aprono il blog di Beppe Grillo, ove Scalfari è un “servo del Pd”, uno che “ormai è solo un vecchio ottuso e testardo, irrecuperabile che vomita oscenità”.

Ma anche la reazione del suo giornale e del suo ex editore (De Benedetti ha regalato il Gruppo L’Espresso ai figli) fa riflettere. Subito dopo l’uscita di Scalfari in Tv Repubblica ha cercato di mettere una pezza pubblicando un articolo di precisazione dello stesso Scalfari, che avrebbe dovuto rassicurare ma non ha rassicurato nessuno, perché non conteneva affatto l’auspicata marcia indietro ma solo l’assicurazione che non avrebbe mai commesso peccato mortale (votare Berlusconi). E pensare che, quando eravamo entrambi a “La Stampa”, e io mi stupivo delle diversità di opinione dei suoi editoralisti, era stato proprio Mario Calabresi a spiegarmelo: “un giornale non è una caserma”.

Quanto a Carlo De Benedetti, non ha trovato di meglio che affermare che l’uscita di Scalfari ha “gravemente nuociuto al giornale”, come se Repubblica fosse un partito, e il pluralismo delle opinioni, anche le più paradossali, non fosse un bene prezioso.

Perché mi soffermo su questa vicenda?

Ci sono due ragioni, una privata e l’altra no. La ragione privata è che conosco Eugenio Scalfari fin da quando ero un ragazzo, sono legato a lui e alla sua famiglia (a partire dagli indimenticabili Giulio e Maria De Benedetti) da un profondo affetto, e sono rimasto colpito, quasi ferito, dalle offese che negli ultimi giorni gli sono piovute addosso da persone che, fino a un attimo prima, lo incensavano ed erano nella cerchia dei suoi più stretti amici e compagni. Se una cosa ho imparato nei miei anni giovanili, quando l’università era ancora un posto speciale, e a Torino potevi incontrare decine di veri maestri, è che la stima e l’ammirazione per una persona si riconoscono da questo semplice gesto: quando il tuo maestro dice qualcosa che ti sembra del tutto sbagliato, anziché chiederti se è impazzito lui, ti chiedi, prima, se non sei tu che stai sbagliando qualcosa.

Anche Paolo Mieli, qualche giorno, ha detto qualcosa di simile proprio a proposito di Scalfari. L’ex direttore del Corriere della Sera, intervistato da Lilli Gruber a “Otto e mezzo”, ha detto più o meno così: se una cosa del genere fosse successa al Corriere, come direttore non avrei chiesto a Scalfari un intervento di rettifica, ma piuttosto di spiegare, approfondire, sviluppare un pensiero. In altre parole: aiutare noi, che diciamo di rispettarlo, a capire se effettivamente dissentiamo da lui, o c’è qualcosa che noi stiamo trascurando, qualcosa che ci sfugge alla nostra mappa del modo reale.

Ecco perché difendo Eugenio Scalfari. Lo so, lui ha duramente criticato il mio libro più noto (Perché siamo antipatici, 2005), anzi ha vivamente disapprovato il fatto stesso che io avessi osato scriverlo. E io da anni lo trovo troppo filo-Pd, come peraltro lui stesso dichiara di essere. Ma tutto questo non c’entra e non deve c’entrare. Se anche dissentissi radicalmente da lui, e condividessi al 100% le contro-obiezioni dei suoi critici, resterei della medesima idea: le idee non si combattono lapidando chi ne esprime di diverse dalle nostre.

E qui vorrei venire alla seconda ragione, quella né privata né personale, per cui mi pare valga la pena tornare sull’idea espressa da Scalfari. L’affare Scalfari ci insegna più cose di quante si riconoscano a prima vista.

Intanto ci insegna una cosa, su cui forse Scalfari stesso dovrebbe riflettere. Ai miei occhi, il modo in cui il mondo di Repubblica sta trattando il fondatore la dice lunga su quel mondo stesso. Di cui non mi colpisce tanto la cattiveria e l’animosità (fortunatamente non di tutti), ma la faziosità, l’incapacità di mettersi nei panni dell’altro, l’ostinata convinzione che, su certe questioni, una sola sia la posizione giusta: la nostra posizione. Perché noi siamo la parte migliore del paese, quella che ha visto giusto fin dall’inizio, quella che è impegnata nelle più alte battaglie di civiltà, quella che sa perfettamente che cosa è il bene e che cosa è il male. Quella, soprattutto, che non ha dubbi su che cosa sia il male assoluto: archiviato il nazismo, archiviato il fascismo, resta lui, solo lui, il cattivo per antonomasia, Silvo Berlusconi. Una sorta di pensiero unico progressista impedisce alla sinistra benpensante, che pure predica il rispetto di tutte le differenze, di fare i conti con una piccola differenza, un piccolo scarto, una piccola deviazione all’interno del proprio mondo, quella di un pensiero non completamente convenzionale, e non esclusivamente moralistico, sul nemico Berlusconi. Il mio modesto parere è che, se la sinistra è così spiazzata dal populismo, è anche perché il pensiero unico di cui è (volutamente) prigioniera le impedisce ogni vero accesso al diverso da sé, di cui le istanze populiste sono la massima espressione.

Ma c’è anche un altro aspetto che l’affare Scalfari solleva. Lo ha visto molto lucidamente Marco Travaglio che, a differenza di altri, si è ben guardato dall’attribuire l’uscita di Scalfari alla vanità, all’età avanzata, o a qualche perdita delle capacità intellettuali.

“Porto rispetto a Scalfari e gli voglio bene (…). Dopo la morte di Montanelli, le cose più dure su Berlusconi le ho lette negli articoli di Scalfari” (…).
“Mi sono ben guardato dal dire che Scalfari è anziano. Secondo me, ci sta perfettamente con la testa e ha detto esattamente quello che pensano lui e una gran parte del nostro establishment”

Come si vede, il direttore del “Fatto Quotidiano”, pur essendo il più lontano fra tutti dalle posizioni di Scalfari, ne ha molto più rispetto di quanto ne abbia la sinistra indignata, quella di Micromega, di Libertà e Giustizia, di una parte del mondo di Repubblica. Per Travaglio, Eugenio Scalfari “ci sta perfettamente con la testa”, semplicemente esprime una posizione che pur essendo “incomprensibile” (per Travaglio stesso), è comprensibilissima per altri.

E allora vediamola, questa posizione. A me pare che il nocciolo del problema stia in ciò. C’è una parte del popolo di sinistra (probabilmente la maggioranza degli elettori Pd) che ritiene che le grandi battaglie per cambiare il Paese siano quelle sulla corruzione, il funzionamento della giustizia penale, il conflitto di interesse, i diritti delle minoranze, l’accoglienza dei migranti, le coppie di fatto, la bioetica, l’ambiente, eccetera. Tutte cose che riguardano soprattutto le regole, ma spostano poche risorse.

C’è un’altra parte del popolo di sinistra (probabilmente minoritaria) che, pur non disdegnando le grandi battaglie civili, crede che il futuro si giochi su temi meno sovrastrutturali, più legati all’economia e meno ai diritti: debito pubblico, occupazione, tasse, welfare, giustizia civile, competitività. Non entro qui nel sotto-problema strettamente politico delle ricette, che possono essere modernizzanti (sinistra riformista) o nostalgiche (Sinistra Purosangue). Perché il punto non è se ci piace il Jobs Act oppure no, il punto è che, se ci si colloca in questa seconda prospettiva, più attenta all’hardware del sistema sociale che al suo software, allora tutto cambia. Allora quel che ci si chiede non è che cosa pensa Di Maio del fine vita, o dei diritti dei gay, o delle politiche di accoglienza, ma che cosa succede allo spread dei nostri titoli di Stato se al governo va una forza politica che non ha mai governato, è anti-europea, e nel suo programma ha parecchie misure che potrebbero scassare i conti dello Stato. E anche a una persona come Scalfari, che sicuramente detesta Berlusconi ma ha una formazione culturale da economista, nonché una profonda conoscenza dei delicati meccanismi delle istituzioni economiche, può venire in mente una cosa che alcuni dicono da anni: e cioè che, se parliamo di governo dell’economia, non è facile dire se, in questi 20 anni, siano stati più dannosi (o meno inefficaci) i governi di destra o quelli di sinistra. Tanto più che, per una strana congiunzione astrale, la sinistra ha sempre avuto la fortuna di governare in anni di vacche (relativamente) grasse, e la destra in anni di vacche decisamente magre.

Ecco che, allora, alcune frasi di Scalfari si capiscono. Quando, ad esempio, riprendendo un tema che ricorre in tutti i classici del pensiero politico, da Platone a Machiavelli, osserva:

La politica è una cosa diversa dalla morale. La politica non è un fatto morale, è un fatto di governabilità, questa è la politica.

O, più provocatoriamente:

Per Platone quelli che facevano la politica di una città, di un paese erano i filosofi, che cosa poi i filosofi fossero moralmente era un problema che né Platone né Aristotele prendevano in considerazione. Aristotele fu insegnante della politica sapete di chi? Di Alessandro Magno. Il quale Alessandro Magno della morale se ne fotteva nel più totale dei modi.

Con questo non voglio dire che non la si possa pensare come Savonarola, o come Flores D’Arcais, o come Travaglio, o come Ingroia. Uno può essere convinto che il prius sia la rigenerazione morale di questo orrido popolo italiano, e che tutto il resto segua. O che si debba costruire l’uomo nuovo con una rivoluzione più o meno cruenta. Anzi, arrivo a dire che, a giudicare dall’insuccesso delle infinite riforme con cui ci balocchiamo da decenni, anche i sogni palingenetici, come quelli dei Cinque Stelle, hanno una loro logica.

E tuttavia il vero discrimine non è questo. Il discrimine è che, se invece la si pensa come la sinistra che si occupa soprattutto del funzionamento dell’economia, e in più si ritiene che, finché non si riforma, il nostro paese sia altamente vulnerabile agli shock esterni, allora un’affermazione come “Di Maio è più pericoloso di Berlusconi” diventa perfettamente comprensibile, e tutt’altro che eretica. Anzi, è una frase che, semmai, deriva da un eccesso di razionalità: è la frase di chi ha la forza di mettere a tacere i sentimenti, e il coraggio di far prevalere il cervello, la cruda analisi della “realtà effettuale”, come la chiamerebbe Niccolò Machiavelli. Non posso sapere se siano esattamente questi i timori che hanno spinto Scalfari a prendere così nettamente le distanze dal Movimento Cinque Stelle, ma lo ritengo verosimile.

Quel che stupisce non è che Scalfari abbia potuto esprimere questo genere di preoccupazioni, ma è il corto circuito mentale dei suoi critici, incapaci di uscire da uno schema logico-mentale di cui sono prigionieri: se dico che A (Di Maio) è peggio di B (Berlusconi), allora implicitamente sto legittimando B.

Non so se ve ne siete accorti, ma questo virus è ormai sempre più penetrato nella sinistra benpensante. E’ lo stesso virus che, per fare un solo esempio, a suo tempo ha condotto alla lapidazione mediatica di Debora Serracchiani, rea di aver detto che lo stupro è ancora più grave se commesso da uno straniero, che tradisce la fiducia del paese che lo accoglie: qualcuno ha avuto il fegato di interpretarlo come un’attenuante per gli stupri commessi da italiani.

Eppure è una questione di logica, o forse sarebbe meglio dire di uso non malato della lingua italiana: dire che una cosa è ancora peggiore di un’altra non significa rivalutare la cosa “meno peggiore”. Significa solo esercitare la capacità di giudizio.

C’è un’ultima ragione per cui l’affare Scalfari merita di non essere archiviato. Quella presa di posizione, che io giudico semplicemente segno di coraggio e di libertà intellettuale, sta portando alla luce un tema nascosto. Un tema di cui, soprattutto nell’establishment di sinistra, non si ha il coraggio di parlare, o meglio di parlare apertamente, con la dovuta spregiudcatezza.

Il tema è questo: sul dopo voto la sinistra è divisa, e lo è precisamente sul punto che Scalfari ha sollevato. C’è una parte della sinistra, quella che fa capo a Renzi e al Pd, che pensa che, in assenza di una maggioranza autosufficiente, si potrebbe varare un governo Pd-Forza Italia. Questa possibilità non dovrebbe suscitare alcuno scandalo, non solo perché Pd e Forza Italia sono i due partiti più europeisti (o meno anti-europeisti) del nostro sistema politico, ma perché su molti punti cruciali di politica economica sono sostanzialmente d’accordo: più flessibilità sui conti pubblici, meno pressione fiscale, nessun ritorno all’articolo 18.

Ma c’è un’altra parte della sinistra, molto forte nel mondo di Repubblica, ma anche (secondo i sondaggi) nell’elettorato progressista, che mal sopporta Renzi e simpatizza con i Cinque Stelle, visti come una sorta di sinistra più idealista e pura di quella, tutta modernizzazione e riforme, impersonata da Renzi e dai suoi. Ebbene, questo pezzo della sinistra non lo dice apertamente, ma vagheggia un qualche tipo di “sponda” fra la sinistra stessa e i Cinque Stelle, sul modello dell’operazione invano tentata da Bersani nel 2013. Questa prospettiva piace ovviamente alla sinistra Purosangue, che rappresenta una sorta di ponte ideale fra sinistra riformista e Cinque Stelle ma, per quel che capisco, non dispiace nemmeno a una parte del mondo di Repubblica, che dopo 23 anni di anti-berlusconismo “senza se e senza ma”, è ancora lì, fermo alla demonizzazione del Cavaliere visto come il male assoluto, che come tale non prevede che possa esistere, in natura, un male ancora più grande.

Ecco, temo che sia stato questo il vero peccato del fondatore di Repubblica. Se la reazione del suo mondo è stata così virulenta forse è anche perché, dicendo quel che ha detto, di fatto ha tolto legittimità al flirt che, sia pure obliquamente, una parte della sinistra stava (e sta) imbastendo con i Cinque Stelle (dalla legge sul fine vita alle dichiarazioni sull’articolo 18). Un flirt che, a quel che risulta dai sondaggi, seduce una parte non piccola dell’elettorato progressista, e fino a ieri trovava in Repubblica il luogo adatto per fare capolino.

Con la sua paradossale dichiarazione di preferenza per Berlusconi, Scalfari non ha fatto altro che scoprire il gioco: un contributo alla chiarezza, più che una perdita del senno.

Torino, 6 dicembre 2017