Cultura e politica

Una delle cose che più mi stupiscono, quando si approssima una scadenza elettorale (e noi ne abbiamo giusto una in arrivo: le Europee di maggio 2019), è come le solenni promesse dei partiti si concentrino su pochissimi argomenti-chiave, lasciando in ombra tutto il resto. Nelle elezioni del 4 marzo, ad esempio, il 90% del dibattitto politico ha ruotato intorno a quattro soli temi: immigrazione, flat tax, riforma Fornero, sussidi ai poveri variamente denominati (reddito di cittadinanza, di inserimento, di dignità ecc.).

Ma ancor più che la concentrazione su pochi temi, quel che mi stupisce è la completa espulsione dal dibattito politico di determinati temi, che pure in teoria o in altri contesti tutti riconoscono come importantissimi. Uno di questi è l’ambiente, ma meglio sarebbe dire il futuro del pianeta, messo a rischio dai nostri comportamenti quotidiani ma soprattutto dalla latitanza delle istituzioni, ben poco attente a problemi come il riscaldamento globale, i rifiuti, l’inquinamento delle falde acquifere. Un altro è il futuro dei giovani, compromesso dall’aumento del debito pubblico e dalla controriforma delle pensioni. Un altro ancora è la cultura, ovvero il funzionamento di istituzioni e organizzazioni fondamentali come la scuola, l’università, le case editrici, i giornali, la radio, la televisione, i teatri, i musei.

Su questo genere di argomenti il silenzio dei partiti e degli uomini politici è assordante, come se ritenessero che ai cittadini queste cose non importino, e dunque possano essere espulse dal dibattito politico. C’è una differenza, però, fra i primi due temi che ho citato (ambiente e giovani) e il terzo (la cultura). Ed è che, pur stupendomi del disinteresse del mondo politico per questo genere di temi, per i primi due riesco a darmi una spiegazione, per il terzo no. La spiegazione è molto semplice: ambiente e giovani sono problemi del futuro, non dell’oggi, e quindi è normale che la politica, divenuta miope e irresponsabile, non li affronti, o lo faccia in modo puramente ideologico, senza prendere il toro per le corna. Per il terzo tema, l’istruzione e la cultura, la spiegazione invece non c’è. Quel che si fa o non si fa in questo ambito ha conseguenze molto importanti fin da subito, ed è dunque strano che ai politici interessi così poco.

A quali conseguenze mi riferisco?

Se ne potrebbero citare molte, ad esempio si potrebbe ricordare che, secondo diversi studi di tipo empirico, il più importante fattore di crescita del benessere, in occidente, è il capitale culturale, ossia il livello di competenza della forza lavoro. Insieme alle tasse troppo alte e alle pastoie burocratico-giudiziarie, è proprio il basso livello di istruzione il freno fondamentale alla crescita del Pil.

Ma la ragione più importante per cui la politica fa male a non occuparsi della cultura è che la rinuncia a elevare il livello culturale effettivo della popolazione, a partire dalla scuola e dall’università, è un formidabile fattore di diseguaglianza. Si può capire che il tema non appassioni la destra, per cui la diseguaglianza non è il problema fondamentale della nostra società, ma la sinistra? Che cosa fa la sinistra per elevare il livello culturale della popolazione?

Se guardiamo agli ultimi 50 anni di storia, quel che dobbiamo registrare è, purtroppo, che la politica del mondo progressista nei confronti della cultura ha quasi sempre e quasi ovunque avuto due pilastri. Uno è lo sforzo, benemerito, di allargare la platea degli utenti di ogni forma di consumo culturale, dalla lettura dei quotidiani a quella dei libri, dalle notti bianche ai festival. L’altro è l’accettazione, e in alcuni casi la promozione intenzionale e consapevole, di un generale abbassamento degli standard, visto come precondizione per un allargamento della platea degli studenti, nella scuola come nell’Università. E questo abbassamento, se da un lato ha allargato l’utenza (termine orribile, ma che rende bene l’idea di che cosa siano diventate oggi la scuola e l’università), dall’altro ha disarmato completamente i ceti popolari, che avevano nella conquista di una cultura elevata l’unica strada, e l’unica arma, per bilanciare i privilegi dei figli di papà.

Questo fino a ieri. Oggi non c’è neppure questo, perché l’istruzione è uscita dal radar della sinistra, divenuta completamente indifferente ai contenuti culturali, e tutt’al più sensibile ai problemi occupazionali del ceto insegnante (vedi le assunzioni della “buona scuola”, che nulla ha fatto per alzare gli standard).

Da sempre poco interessante per la destra, trattata nel modo sbagliato (perché anti-egualitario) dalla sinistra, la cultura non sembra avviata a un destino glorioso neppure nell’emergente mondo populista. Né potrebbe essere diversamente. Dacché si è teorizzato che “uno vale uno”, dacché esperti e competenti sono stati additati al pubblico disprezzo, dacché chiunque – in televisione o su internet – si sente autorizzato a dire la sua su argomenti su cui non ha la minima cognizione di causa o esperienza, è inevitabile che il mondo della cultura, il suo rafforzamento, la sua difesa dalle contraffazioni, non interessino più la politica.

Ma forse mi sto sbagliando. Forse è vero il contrario. A ben vedere, la cultura alla politica di oggi interessa moltissimo. Anzi la politica non fa altro, 24 ore su 24, che occuparsi di cultura. Solo che il suo scopo, forse consapevole forse no, è semplicemente di rimuovere la cultura dall’orizzonte del discorso pubblico. Perché la cultura è un ostacolo, forse l’unico vero ostacolo rimasto, al dilagare senza freni e senza inibizioni dello spettacolo della politica. Uno spettacolo che i protagonisti preferiscono mettere in scena da soli, e cui il mondo dei media, social e no, fornisce un insperato e durevole palcoscenico. H24.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 09 dicembre 2018



Pd, difendere l’Europa non basta

Questa volta, per la prima volta da 40 anni, ossia da quando esiste il Parlamento europeo (1979), le elezioni europee saranno quel che sempre avrebbero dovuto essere e mai sono state: un confronto sull’Europa, le sue politiche, il suo futuro. Quanto all’Italia, il 26 maggio prossimo sarà un banco di prova decisivo per almeno due soggetti politici: il governo giallo-verde (ammesso che sia ancora in sella) e il Partito Democratico, l’unica forza di opposizione che riscuote ancora un consenso a due cifre (16%, secondo gli ultimi sondaggi).

Ma come si presenterà il Pd al cruciale appuntamento di maggio? Chi lo guiderà?

Qui la nebbia è totale. Per alcuni il Pd dovrebbe addirittura essere sciolto, per far spazio a una formazione politica nuova di zecca. Per altri il Pd dovrebbe aprirsi alla società civile e diventare il perno di una larga alleanza. Per altri ancora l’unico modo per scongiurare la dissoluzione dell’Europa è la nascita di un “fronte repubblicano”, da Tsipras a Macron. Riguardo alla leadership, tramontata a quanto pare l’ipotesi di una candidata donna, le possibilità vere al momento paiono solo tre: Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Marco Minniti (se scioglierà la riserva); sempre che Carlo Calenda non ci ripensi, e scenda in campo pure lui.

Personalmente sono molto scettico sull’idea di un fronte europeista e anti-sovranista. L’ultima volta che la sinistra ha provato a coalizzarsi in un fronte è stato nel 1948, e sappiamo come è andata: trionfo della Dc (48%) e débâcle del fronte popolare, fermo al 31%. Per non parlare del paradosso che si produrrebbe oggi: visto che il popolo sta con Salvini e Di Maio, quello che vedremmo nascere sarebbe una sorta di “fronte anti-popolare”, concetto curioso e difficile da digerire.

In realtà, più che di formule vincenti, o capaci di limitare il disastro, quello di cui si sente la mancanza sono le idee. Dicendo “idee” non mi riferisco a minuziosi programmi di riforma, o ai soliti proclami di politica economica. No, quello che mi pare manchi completamente sono un bilancio onesto sugli errori commessi dalla sinistra (non solo Pd), e risposte chiare alle due domande su cui Lega e Cinque Stelle hanno sfondato: la richiesta di protezione da criminalità e immigrazione, e la richiesta di protezione economica.

Su questo l’attuale campo progressista mi pare balbetti, o si mostri già ampiamente diviso. Penso al caso delle occupazioni di case, o quello del sindaco di Riace. Una parte della sinistra (maggioritaria, suppongo) ritiene che, anche ove emergessero irregolarità e violazioni di legge, la buona causa in nome della quale sono state commesse assolva i loro autori. Quando una legge è sbagliata, e viola principi che la nostra coscienza (o la nostra interpretazione della Costituzione) ritiene fondamentali, è giusto ribellarsi, come sotto i regimi autoritari; una posizione, peraltro, abbastanza simile a quella della destra, quando per difendere gli evasori parla di “evasione di necessità”, giustificata da tasse troppo alte. Un’altra parte della sinistra pensa invece che, in un regime democratico, le leggi si rispettano, e se non funzionano si cerca di cambiarle. Analogo discorso si potrebbe fare sugli sbarchi: una parte del popolo di sinistra è per l’accoglienza senza se e senza ma, un’altra parte condivide la linea dura di Minniti, che Salvini ha un po’ spettacolarizzato ma che resta sempre la stessa: gli ingressi irregolari in Europa (e in Italia) debbono essere combattuti con determinazione.

Ma penso anche a un altro tema, quello della lotta alla povertà e alla disoccupazione. Una parte del popolo di sinistra trova meravigliosa l’idea del reddito di cittadinanza, e si duole soltanto che a pensarci siano stati i Cinque Stelle anziché il Pd. Un’altra parte non ritiene ancora persa la battaglia per creare nuova occupazione, e considera il reddito di cittadinanza come una misura assistenziale, da usare con cautela perché mina dalle fondamenta la civiltà del lavoro.

E ancora. Una parte del popolo di sinistra ritiene che la riduzione della pressione fiscale e contributiva sia un obiettivo sacrosanto, per stimolare la crescita, un’altra parte pensa che i nostri problemi li risolveremo solo con maggiori imposte sul reddito e sul patrimonio (secondo il celebre slogan del 2006: “far piangere i ricchi”). Una parte dell’elettorato progressista crede che il debito non sia un problema, e anzi sia necessario per far ripartire l’economia, un’altra parte pensa che sia un ingiusto fardello sulle future generazioni.

Si potrebbe continuare con gli esempi. Ma quello che voglio dire è solo questo: su queste divisioni i candidati alla guida del campo progressista tendono a non prendere posizioni nette, perché sanno che scontenterebbero una parte, una parte troppo grande, dei loro potenziali sostenitori. Il rischio è che, non essendo nella condizione di spiegare in modo chiaro se e come intendano dare risposte nuove alla domanda di protezione che ha portato al successo dei movimenti populisti, non trovino di meglio che unirsi in una santa alleanza a difesa dell’Europa e della moneta unica.

Sarebbe un disastro. Non perché Europa ed euro non siano risorse cruciali per il nostro futuro, ma perché quella è solo la cornice. E la cornice non basta, ci vuole un pittore che trovi il coraggio di riempire la tela.

Pubblicato su Il Messaggero del 20 ottobre 2018

 




Gli errori della sinistra. Intervista a Luca Ricolfi

Questa ennesima tornata elettorale del 2018 ha come risultato il titolo del suo ultimo libro: “Sinistra e popolo“. Era una profezia?

In un certo senso sì, tuttavia è dal 2000, ossia da quasi vent’anni, che denuncio che “la sinistra non è più di sinistra”.

Dove ha sbagliato e continua a sbagliare il Pd, che ha perso anche santuari come Pisa e Siena?

Il Pd sbaglia sui due punti fondamentali, ossia sulla questione della sicurezza e su quella dell’eguaglianza, perché di fatto sottovaluta entrambe. Ma sbaglia anche in ciò con cui le sostituisce: puntare quasi tutte le carte su diritti umani e diritti civili significa trasformare il Pd in una specie di partito radicale, libertario e individualista.

Però ormai la frittata è fatta. È prima che doveva correggere la rotta, non ora che il vento soffia nelle vene dei populisti. Se domani cambiassero completamente linea, nessuno gli crederebbe…

È più dannoso un segretario che non si dimette mai (Renzi) o un partito Ztl che rappresenta l’alta borghesia dei centri storici?

La seconda che ha detto: il partito Ztl è più dannoso del suo segretario. Le colpe di Renzi sono ampiamente sopravvalutate: se il problema del Pd fosse Renzi, una valanga di voti sarebbe piovuta su LEU.

Un Pd così in difficoltà avrebbe potuto rimanere un partito rifugio (parole sue) contro la strana alleanza 5stelle-Lega. Perché non è così?

Perché la gente è stufa di chiacchiere, e detesta i racconti trionfalistici. Chi vota i populisti non lo fa in base a una scelta di fondo, o a convinzioni ferme. Semplicemente pensa: Renzi è un bullo chiacchierone e inconcludente, vediamo se questi qui riescono a combinare qualcosa.

Tenete presente che, qualsiasi indicatore serio si prenda (Pil, occupazione, disoccupazione, povertà), siamo agli ultimissimi posti in Europa, e su molti indicatori le cose sono peggiorate con Renzi e Gentiloni. Per cui chi si sente ripetere fino alla noia “siamo stati bravi, abbiamo portato la barca in salvo, con noi le cose vanno meglio”, tutt’al più pensa ai barconi dei migranti, non certo alla barca-Italia.

C’è un altro partito che soffre in silenzio dentro la coalizione di centrodestra: Forza Italia. È un declino passeggero o un tramonto?

Tramonto, direi. A meno di un cambio completo di persone, idee, organizzazione, che però è del tutto improbabile: i vecchi tendono a conservare sé stessi, e Forza Italia è un partito culturalmente vecchio, senza guizzi e senza ricambio. Vi sembra possibile che sia ancora Gasparri a dire la sua frasetta preconfezionata ogni giorno nei Tg di Stato?

Cosa pensa di questa prima fase governativa di Salvini e Di Maio? La grinta piace agli italiani? Dalle risposte nell’urano si direbbe di sì.

Penso quel che pensano le persone normali: sull’immigrazione almeno questi ci provano a cambiare le regole, stiamo a vedere se ottengono qualcosa.

Sull’economia resto della mia idea: o ridimensionano molto il programma, o ci portano al disastro. Teniamo presente che lo spread è 120 punti sopra il livello ante-elezioni, e che altrettanti punti sono destinati ad aggiungersi quando finirà il Quantitative Easing. Ma i politici italiani fanno il solito errore: credono che il problema sia Bruxelles, mentre il problema sono i mercati. Quando lo spread tornerà vicino a 400 punti base sarà del tutto inutile ottenere più flessibilità sui conti pubblici.

Wolfgang Munchau, condirettore del Financial Times e mai tenero con l’Italia, ha scritto che finalmente il nostro è un Paese che non ha paura. E l’Europa dovrà tenerne conto. Sensazione reale o passeggera?

Sensazione reale, speriamo non passeggera.

L’Europa, soprattutto quella di Emmanuel Macron, è molto infastidita dal nuovo governo italiano. Perché?

Un po’ è un fatto di classe. L’Europa di Bruxelles è fatta di persone istruite, estremamente educate, diplomatiche (talora anche un po’ ipocrite), che reagiscono a Salvini come nei salotti si reagisce se entra un barbone, o come i nobili del’800 reagivano ai borghesi. Macron è un esemplare perfetto di questa specie di élite.

Poi naturalmente ci sono i conflitti di interesse reali fra Francia e Italia, che i media italiani si ostinano a non vedere. Su questo una delle poche voci coraggiose è stata quella di Roberto Napoletano, che con “Il cigno nero e il Cavaliere bianco” (La Nave di Teseo, 2017) ha provato a spiegare un po’ di cose sul nazionalismo francese.

La sinistra vincente sembra rimasta solo nelle redazioni, da dove partono anatemi nei confronti degli italiani ignoranti. È una strategia o un dirotto della Valtellina?

Solo nelle redazioni? Non direi, la sinistra è tuttora egemone nel mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo, in una parte della magistratura, nel terzo settore, e ovunque controlla il potere locale. La non-sinistra, invece, è tuttora in difficoltà, perché non possiede un contro-racconto dell’Italia. E’ questa la forza della sinistra: finché la non-sinistra sarà impersonata da figure come Salvini, Di Maio o Berlusconi, la sinistra purosangue continuerà ad esercitare un’influenza rilevante, se non a dettar legge come in passato.

Quali caratteristiche dovrà avere la sinistra del futuro per tornare a vincere in Italia?

La sinistra italiana è così impermeabile agli input esterni che non credo proprio possa tornare a vincere cambiando sé stessa. Tendo a pensare che, se tornerà a vincere, sarà soprattutto perché gli italiani sono volubili: se neanche questi due (Salvini e Di Maio) funzionano, e Forza Italia dovesse restare appisolata come oggi, prima o poi riproveremo quelli di prima.

Intervista a cura di Giorgio Gandola pubblicata su La Verità del 27 giugno 2018



PD: stupefacente è quanti lo votano ancora

Per molti versi i risultati dei ballottaggi non fanno che confermare quelli del primo turno. L’elettorato si è spostato decisamente a destra, il movimento Cinque Stelle non riesce a replicare il successo delle politiche, la sinistra arranca. Se però si osservano le cose più da vicino, si possono notare anche altri elementi.

Il primo è che in diversi comuni i risultati hanno ribaltato le previsioni della vigilia, o hanno contraddetto i trend nazionali. In Sicilia, il Movimento di Grillo ha perso Ragusa, che governava da cinque anni; ma in Puglia il centro-sinistra, sconfitto alle Politiche del 4 marzo, ha vinto 10 ballottaggi su 11. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Si potrebbe osservare che la mobilità dell’elettorato italiano non è una novità, perché risale almeno ai primi anni ’90. Ma l’impressione è che ora si sia davanti a un salto di qualità. Con l’affermazione del tripolarismo, e la formazione di un’alleanza di governo del tutto inedita, gli elettori sono diventati pronti a capovolgere le proprie scelte ad ogni appuntamento elettorale, non di rado in una logica essenzialmente punitiva. Al modello della “fedeltà leggera” (cambiamenti di partito all’interno del medesimo schieramento), descritto da Paolo Natale ormai molti anni fa, sembra essere subentrato un modello che si potrebbe chiamare di “infedeltà repentina”, per cui l’elettore non si sente minimamente vincolato ad alcuna appartenenza, sia pur definita in senso lato.

E qui incontriamo il secondo elemento saliente di queste ultime tornate elettorali: la perdita, da parte del principale partito della sinistra, di molte sue roccaforti delle regioni rosse, in particolare in Toscana (emblematico il caso di Siena).

Ora il gruppo dirigente del Pd si interroga sul perché dell’ennesima sconfitta, tanto più sorprendente se si pensa che, dopo l’alleanza dei Cinque Stelle con la Lega, per i delusi di sinistra è diventato molto più difficile di prima punire il partito di Renzi votando quello di Grillo. Quel che stupisce, tuttavia, non è la sconfitta della sinistra, ma che essa sia arrivata così tardi. Personalmente trovo miracoloso che, nonostante il carattere elitario della cultura di sinistra, i ceti popolari abbiano pazientato così a lungo prima di abbandonare il partitone in cui quella cultura si incarnava. Anzi, in un certo senso, trovo che – per quel che è diventato – il Pd abbia ancora troppi voti.

Provo a spiegare queste due affermazioni, volutamente provocatorie (ho ancora un lumicino di speranza che qualcuno le provocazioni le raccolga).

La ragione per cui trovo stupefacente che la sinistra abbia mantenuto i suoi consensi fino a poco fa ha un nome e un cognome: Giorgio Guazzaloca. Ve lo ricordate? Il 27 giugno 1999 (esattamente 19 anni fa) veniva eletto sindaco di Bologna, primo sindaco non comunista della città rossa. Nella vittoria di Guazzaloca un posto centrale occupava il tema della sicurezza, che giusto in quegli anni emergeva anche in altre città del Nord (ad esempio a Torino, a Padova), e nel 2001 avrebbe contribuito non poco al trionfo elettorale del centro destra (2° punto del “Contratto con gli italiani”). Ebbene quella vittoria, avvenuta nel cuore dell’Emilia rossa, era un campanello d’allarme chiarissimo, e perciò difficilissimo da ignorare. E invece la classe dirigente del maggior partito di sinistra, con pochissime eccezioni, ci riuscì benissimo. Allora come oggi, di fronte ai timori della gente, la parola d’ordine della cultura di sinistra è sempre rimasta la stessa: dimostrare alla gente che le sue paure sono infondate. L’ho sentito ripetere ancora pochi giorni fa, in una trasmissione radiofonica, da uno dei più autorevoli giornalisti progressisti: il dovere della sinistra è “smontarle”, le paure della gente. Perciò la mia domanda non è: perché il Pd perde? Ma semmai: perché i suoi elettori hanno resistito così a lungo?

La ragione per cui trovo che il Pd abbia ancora troppi voti ha anch’essa un nome e un cognome: Emma Bonino. Così come Berlusconi non è mai riuscito a costruire un partito liberale di massa (Forza Italia è stato di massa, ma non è mai stato liberale), così Emma Bonino (con e senza Marco Pannella) non è mai riuscita a costruire un partito radicale di massa (le liste Bonino-Pannella sono state radicali, ma non di massa). Quel che non è riuscito ai radicali, tuttavia, è riuscito perfettamente al Pd: oggi il Pd è un perfetto partito radicale di massa. Se pensate ai temi su cui, specie in questa legislatura, il Pd ha puntato per definire la sua identità, trovate: unioni civili, testamento biologico, riforma carceraria, reato di tortura, ius soli, accoglienza dei migranti, Europa (ricordate lo slogan? ci vuole “più Europa”). E che cosa sono questi temi? Sono i temi tipici di un partito radicale di massa, assai più attento ai diritti civili che a quelli sociali. Ecco perché dico che il bicchiere del Pd può essere visto come mezzo vuoto ma anche come mezzo pieno. Il Pd è un partito ormai piccolo, se continuiamo a pensarlo come l’erede unico del Pci, ma è un grande partito se lo pensiamo come la realizzazione del sogno radicale.

Che queste, al di là della provocazione, possano essere in realtà due facce della medesima medaglia lo aveva perfettamente capito il grande filosofo Augusto del Noce, che nel 1978, giusto 40 anni fa, in un libro significativamente intitolato “Il suicidio della rivoluzione“, aveva coniato quella definizione, intuendo quel che il Pci sarebbe diventato: non il partito della rivoluzione (e del popolo) ma il partito della borghesia, attento alle aspirazioni individualiste e libertarie dei ceti medi.

Non c’è niente di male nell’essere un partito radicale (quasi) di massa, paladino dei diritti individuali, aperto alla globalizzazione e ai flussi migratori. Quel che stride è credersi quel che più non si è, ovvero un partito popolare, paladino dell’eguaglianza, attento ai poveri e ai diritti sociali (nel marxismo si chiama falsa coscienza, in filosofia autoinganno). Perché gli elettori possono metterci più tempo dei filosofi a cogliere i grandi cambiamenti, ma prima o poi li riconoscono.




Due Sinistre

Checché ne pensino i presunti vincitori, non esistono vincitori di queste elezioni. Solo mezze vittorie, o se preferite mezze sconfitte, perché sia il centro-destra sia i Cinque Stelle sono riusciti a raccogliere appena un terzo dei voti, e sono dunque lontanissimi sia dal 50% dei consensi, sia dal 50% dei seggi parlamentari. Se di vincitori non ce ne sono, in compenso uno sconfitto c’è, ed è il Pd, anzi è la sinistra tutta. Perché se è vero che il Pd ha più che dimezzato i voti del 2014, è altrettanto vero che le altre formazioni di sinistra sono andate decisamente male: malissimo i fuorusciti di Liberi e Uguali, che si sono dovuti accontentare di un misero 3.4% (più o meno il risultato di Sel nel 2013); male la Lista più Europa di Emma Bonino, che non è riuscita a raggiungere la soglia del 3%; penosamente i due cespugli alleati del Pd, che sono rimasti abbondantemente al di sotto della soglia dell’1%.

Ma il risultato più importante di questa tornata elettorale, a mio parere, è il cataclisma che ha investito l’elettorato della sinistra. Fino a ieri, per la maggior parte degli elettori esistevano il centro-destra, i Cinque stelle e la sinistra, con le sue varie anime e fazioni. Dopo il 4 marzo non è più così. Per molti è difficile ammetterlo, ma ormai la realtà è questa: una persona che si sente di sinistra si trova di fronte non una, ma almeno tre opzioni politiche fondamentalmente diverse: la sinistra riformista del Pd e di Più Europa, la sinistra conservatrice e nostalgica di Leu, la pseudo-sinistra o neo-sinistra dei Cinque Stelle. In parte era già così, perché molti elettori di sinistra da tempo avevano cominciato a votare Cinque Stelle, o a vedere con una certa simpatia chi lo faceva. Sono anni che, in una parte dell’elettorato progressista, i Cinque Stelle sono visti come una sorta di sinistra più pura, magari un po’ingenua e rozza, ma comunque meno compromessa con le logiche del Palazzo. E’ come se, agli occhi di una parte non piccola dell’elettorato progressista, ci fossero almeno due sinistre: quella tradizionale (Pd e fuorusciti), sostanzialmente identificata con l’establishment, e quella anti-establishment, più o meno adeguatamente rappresentata dai Cinque Stelle.

Questa doppia rappresentanza, riformista e populista, dell’elettorato progressista può non piacere a molti. Però bisogna rendersi conto che non è un’anomalia italiana. Una sinistra populista, che contende il primato alla sinistra tradizionale, esiste anche in altri paesi mediterranei, in particolare in Grecia (con Syriza) e in Spagna (con Podemos). La particolarità dei Cinque Stelle è di essere riusciti, finora, a nascondere la loro matrice principale che, secondo la stragrande maggioranza dei sondaggi degli ultimi anni, è più di sinistra che di destra. Le elezioni del 4 marzo hanno semplicemente reso evidente, per non dire plateale, l’esistenza in Italia di (almeno) due sinistre, fra le quali, che lo voglia o non lo voglia, l’elettorato progressista è chiamato a scegliere.

Questo disvelamento non disturba i Cinque Stelle, che non perdono certo il loro elettorato di destra per il solo fatto di attirare sempre più voti da sinistra: l’adattività del movimento di Grillo, il suo camaleontismo ideologico, sono oramai leggendari. Disturba invece profondamente il Pd, che credeva di avere solo il manipolo di Liberi e Uguali alla propria sinistra, e si trova improvvisamente con un vicino scomodo, molto scomodo, come i Cinque Stelle, una formazione che non si lascia facilmente descrivere in termini di destra e sinistra, ma indubbiamente compete con il Pd per attirare il voto dell’elettorato che “si sente” di sinistra.

Il Pd sembrava, fino a pochi anni fa, essere rimasto l’unico vero partito, organizzato e radicato in tutto il territorio nazionale. Ora che i Cinque Stelle hanno sfondato in tutta la penisola, e la stessa Lega è sbarcata in forze nelle regioni del centro-sud, si trova completamente spiazzato.

Che cosa lo ha ridotto a quello che oggi è? Come è stato possibile, nel volgere di meno di 4 anni, passare dal 40.8% dei consensi alle Europee (2014) al 18.7% delle Politiche?

La risposta facile è: Renzi, solo Renzi, nient’altro che Renzi. E c’è del vero in questa risposta. E’ stato Renzi, in un solo anno, a portare il Pd dal deludente 25.4% di Bersani al 40.8% del trionfo europeo. Ed è stato il medesimo Renzi, da allora, a commettere una serie impressionante di errori politici e comunicativi, a partire dal bullismo mediatico con cui ha condotto la campagna referendaria.

Però sarebbe riduttivo, e alquanto ingiusto, caricare il solo Renzi del disastro del 4 marzo. Non tanto perché, scissionisti a parte, sono stati ben pochi coloro che alle scelte di Renzi si sono opposti, ma perché la crisi del Pd fa parte di una storia molto più grande, e più incisiva, della mera stagione renziana. La crisi del Pd, a mio parere, ha almeno due grandi e lontane radici.

La prima è la progressiva trasformazione del Pci, “partito della classe operaia”, in una sorta di “partito radicale di massa”, un processo che il grande filosofo cattolico Augusto del Noce intravide già una quarantina di anni fa. In questi decenni il partito comunista e i suoi eredi sono divenuti sempre più i rappresentanti dei ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, affascinati dalle grandi battaglie sui diritti civili e ben poco interessati ai problemi che angustiano i ceti popolari: povertà, sicurezza, criminalità, immigrazione. Fra le ragioni dell’insuccesso della lista Bonino c’è anche, molto semplicemente, il fatto che un partito radicale ed europeista esisteva già, ed era il Pd renzizzato, imbevuto di retorica dell’accoglienza e di “grandi battaglie di civiltà”.

La seconda radice della crisi del Pd ha a che fare, invece, con l’evaporazione della forma partito. I dirigenti di quel partito paiono non essersi resi conto che, oggi, la rappresentanza politica è sempre meno di classe e di ceto, e sempre di più, semplicemente, di interessi e pretese forti, non importa quanto integrate in un disegno organico, non importa quanto espressione di blocchi sociali omogenei: flat tax, abolizione della legge Fornero, reddito di cittadinanza, reintroduzione dell’articolo 18, stop all’immigrazione irregolare. Questo è il tipo di cose che gli elettori comprendono, questo è il tipo di cose per cui sono pronti a concedere una chance a chi li governerà, senza andare troppo per il sottile riguardo alle alleanze e alle ascendenze ideologiche.

Del Pd si può apprezzare la (relativa) sobrietà dei programmi, anch’essi costosi e irrealistici ma non quanto quelli dei suoi avversari. Ma non si può non notare due tratti inconfondibili, che hanno informato tutta la campagna elettorale: la mancanza di una meta significativa specifica, e un racconto dell’Italia autocelebrativo e iper-ottimistico, del tutto sganciato dalla realtà, specie per i territori e i ceti più periferici.

Questo doppio limite, mancanza di idee e scarso contatto con la realtà, non è certo un’esclusiva della gestione di Renzi: è il marchio di fabbrica della rottamazione, un’operazione che ha portato alla sostituzione di un ceto dirigente mediocre e attempato con un esercito di modesti apprendisti dell’arte politica.

E’ successo, così, che anche il Pd di Renzi finisse per offrire alla sua base la stessa cosa che, da alcuni decenni, il maggior partito della sinistra offre a chi lo vota: identità, autostima, considerazione di sé. Basate sulle certezza di essere la parte migliore del paese, quella che è aperta, razionale, moderna, non teme l’Europa e la globalizzazione, vuole l’accoglienza e si batte per le grandi questioni civili. Una bella offerta, indubbiamente. Che tuttavia, dopo un decennio di crisi, pare interessare ancora intellettuali, artisti, docenti, giornalisti, dipendenti pubblici, “ceti medi riflessivi” in genere, ma a quanto pare non scalda più il cuore dei ceti popolari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2018