L’Italia è un paese sicuro?

L’Italia è un paese sicuro?

La domanda riceve risposte perentorie solo da chi è schierato in modo ideologico. Se prendete un politico di destra, ad esempio Salvini, vi sentirete rispondere che l’Italia non è un paese sicuro, e che occorre un giro di vite. Se prendete un intellettuale di sinistra, ad esempio Gianrico Carofiglio, vi può capitare di sentir dire che l’Europa è uno dei posti più sicuri del mondo, e che noi italiani “stiamo vivendo nell’epoca in assoluto più sicura della nostra storia”. Se poi parlate con una militante femminista, vi inonderà di indignazione per i femminicidi, descritti come una mattanza, uno sterminio, un’ecatombe.

Il tutto, non di rado, condito da dati statistici: ad esempio i tassi di criminalità degli immigrati, che sembrano dare ragione a Salvini, i tassi di omicidio, che sembrano dare ragione a Carofiglio, il numero di donne uccise dal partner, che sembrano dare ragione alla femminista.

Se vogliamo capire come stanno le cose, la prima cosa da fare è evitare quello che gli inglesi chiamano cherry picking (selezionare ciliegie), ovvero usare solo i dati che fanno comodo alla tesi cui siamo affezionati. E allora proviamoci, nei limiti di spazio di un articolo.

Punto numero uno: effettivamente, se consideriamo i comportamenti violenti, e in particolare quelli contro la donna (femminicidi e stupri), l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Però attenzione, c’è una importante differenza: gli omicidi, sia di uomini sia di donne, sono relativamente pochi, e abbastanza stazionari negli ultimi anni, ma le violenze sessuali sono in forte aumento, sia nel breve periodo (ultimi anni) sia nel lungo (rispetto agli anni ’50 e 60). Difficile, senza prove, rassicurarsi ipotizzando che il loro aumento nel tempo rifletta solo un aumento del tasso di denuncia.

Anche sugli omicidi in generale occorre andarci piano. Usando il cherry picking possiamo auto-rassicurarci dicendo che, rispetto al picco del 1991 (in cui c’erano stati quasi 2000 omicidi) le cose vanno benissimo (nel 2024 sono sati solo 319). Ma quel che invariabilmente si dimentica, quando ci compiacciamo della spettacolare riduzione del numero di omicidi dal 1991 a oggi, è il fatto che il 1991 è un anno specialissimo, che conclude una altrettanto spettacolare ascesa degli omicidi iniziata subito dopo il ’68, allorché gli omicidi erano ancora sotto quota 400, dunque non molto lontano dal livello cui sono oggi.

In breve: se parliamo di violenza, è vero che in Italia ce n’è meno che in Europa, ma non si può dire che sia minore di com’era negli anni ’60. Il vero crollo degli omicidi è avvenuto fra gli anni dell’immediato dopoguerra, in cui erano diverse migliaia all’anno, e la metà degli anni ’60, in cui erano scesi sotto i 400: una diminuzione di un fattore 10.

Ma la insicurezza non è fatta solo di esposizione alla violenza. È fatta anche, forse soprattutto, di esposizione a reati più comuni e diffusi, come quelli che attentano alla proprietà privata (furti, rapine, truffe).

Ebbene, se diamo un’occhiata alle statistiche disponibili per i paesi avanzati (Oecd o UE) scopriamo che, in generale, l’Italia si situa nel gruppo dei paesi in cui la proprietà è esposta a maggiori pericoli. E, sorpresa, in tale gruppo – oltre all’Italia – troviamo paesi considerati civilissimi come Svezia, Norvegia, Svizzera, Danimarca, Canada, Francia. Mentre nel gruppo dei paesi in cui i crimini predatori sono più diffusi troviamo soprattutto i paesi dell’Est europeo, tendenzialmente meno ricchi, meno democratici, meno avanzati sul piano dei diritti, meno aperti all’immigrazione.

Conclusione. Quando parliamo di sicurezza, dobbiamo distinguere nettamente fra attacchi alle persone fisiche (omicidi e violenze sessuali) e attacchi alla proprietà. Chi cerca di rassicurarci ha ragione se parliamo di attacchi alla persona e il termine di paragone sono le altre società avanzate. Ma ha torto se il termine di paragone è il passato remoto del nostro paese (l’Italia non è più sicura che negli anni ’60 del Novecento), o se parliamo di attacchi alla proprietà (l’Italia è meno e non più sicura delle altre società avanzate).

[articolo uscito sulla Ragione il 24 giugno 2025]




Criminalità – La paura e il rimpianto

Anche se ogni tanto qualcuno a sinistra ci prova, il tema della sicurezza non riesce proprio a far breccia nella mente dell’establishment progressista. A neutralizzare questa eventualità provvede un racconto standard, terribilmente ripetitivo, che più o meno suona così.

Viviamo nell’epoca più sicura della storia, l’Europa è una delle aree più sicure del pianeta, l’Italia è uno di paesi più sicuri d’Europa. I crimini violenti, e in particolare gli omicidi, sono in calo vertiginoso dall’Ottocento, se qualche tipo di reato (ad esempio stupri ed estorsioni) è in crescita in realtà è un bene, perché vuol dire che la gente denuncia di più. Gli immigrati non sono il problema, non delinquono più degli italiani. La paura non è razionale, perché ad alimentarla provvedono i media e gli “imprenditori della paura”, non certo l’aumento effettivo dei crimini commessi. La buona politica deve impegnarsi a mostrare ai cittadini l’infondatezza delle loro paure.

Questo racconto è basato su un buon numero di errori statistici e logici, e pure su qualche piccola furbizia. Ad esempio usare come termine di paragone il 1991, anno in cui i crimini hanno toccato il picco, o concentrarsi sugli omicidi, ossia su uno dei pochissimi crimini su cui effettivamente l’Italia è uno dei paesi più sicuri d’Europa. Ma il difetto principale del racconto rassicurante è di fraintendere radicalmente lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Oggi la preoccupazione per il crimine, i vissuti di insicurezza, l’ostilità verso gli immigrati non poggiano, come in passato, sulla sensazione, più o meno fondata, di un recente più o meno improvviso aumento dei reati. La loro base è molto più ampia e profonda, perché affonda le radici in un cambiamento più generale della nostra percezione della realtà in cui viviamo.

Dopo i quattro grandi shock degli ultimi anni – Covid, guerra in Ucraina, guerra Israele-Hamas, attacco all’Iran – la sensazione di vivere in un mondo profondamente insicuro e sempre più a rischio di catastrofi globali (pandemie, disastri climatici, guerra nucleare), è diventata pane quotidiano delle nostre coscienze. Ma questo ha anche modificato il modo di vivere la preoccupazione per il crimine. Se ieri potevamo essere turbati da ondate, vere o presunte, di comportamenti criminali, oggi quello che si fa strada nella mente di molti è un sospetto molto più radicale: che il progresso non sia progresso, che il mondo di ieri fosse ben più sicuro e vivibile di quello di oggi. Detto in altre parole, la gente, specie se ha vissuto parte della sua vita nel Novecento, non si chiede se l’Italia sia più sicura di 5 anni fa, ma semmai se lo sia rispetto a decine di anni fa.

Ma come stanno le cose?

Difficile, con l’informazione statistica disponibile, formulare una risposta rigorosa, ma una approssimativa invece la possiamo dare. Fatto 1 il livello dei vari crimini a metà degli anni ’60, possiamo dire che oggi le lesioni dolose sono salite a livello 3, i furti a livello 5, le violenze sessuali e le estorsioni a livello 6, le frodi e le truffe a livello 7, le rapine a livello 12, la produzione e commercializzazione di stupefacenti oltre livello 100. In breve: la gente ha ragione, oggi la criminalità è più forte, molto più forte di ieri. E sono diversi i reati (ad esempio furti e frodi) per cui l’Italia è meno e non più sicura della maggior parte degli altri paesi europei.

C’è una sola eccezione importante, che non a caso è sistematicamente invocata da chi nega o cerca di sminuire il problema della sicurezza: gli omicidi.

Effettivamente è vero che il tasso di omicidio in Italia è fra i più bassi d’Europa. Ed effettivamente è vero che negli ultimi 30 anni il numero di omicidi è crollato. E infine è vero che, nel lunghissimo periodo, con la modernizzazione e la crescita del benessere, il numero di omicidi volontari tende a diminuire. Negli ultimi decenni dell’Ottocento erano circa 4000 (su una popolazione di 30 milioni di abitanti), mentre oggi sono poco più di 300 (su una popolazione di 58 milioni di abitanti).

Quello che sempre si dimentica, tuttavia, è di specificare che il grosso del tracollo degli omicidi è avvenuto nei primi 100 anni della nostra storia nazionale, fra gli anni ’60 dell’Ottocento e gli anni ’60 del Novecento, e che negli ultimi 60 anni la diminuzione è stata modestissima, dai circa 400 del 1965 ai circa 300 di oggi. L’impressione di un crollo del numero di omicidi è dovuta a un rozzo trucco statistico: per dare l’impressione di un inarrestabile progredire della civiltà si usa come termine di paragone il 1991 (quasi 2000 omicidi), ossia l’anno terminale di una drammatica galoppata degli omicidi, enormemente cresciuti dopo il ’68. Se il paragone, anziché con il 1991, si facesse con il dato del 1965, dovremmo amaramente ammettere che – in quasi 60 anni – gli omicidi sono scesi da circa 400 a circa 300, un ben misero risultato considerata la lunghezza del periodo.

Ecco perché, oggi, parlare semplicemente di paura è riduttivo. Quello che si sta facendo strada nell’opinione pubblica è un sentimento assai più complesso, che ha più a che fare con il rimpianto che non con la paura. Rimpianto di un’epoca forse un po’ idealizzata, ma in cui i crimini erano molti di meno, e l’impunità era meno sistematica e legalizzata di oggi. Un’epoca in cui non era vivo quanto oggi il sentimento generale di ingiustizia che ogni crimine impunito suscita nelle vittime e nei comuni cittadini.

Possiamo deplorare la nostalgia per il passato, e sforzarci di elencare le innumerevoli cose che vanno meglio oggi di ieri. Ma non possiamo non vedere che il futuro non è più costellato di speranze come lo si pensava nel secolo scorso, e la nostalgia ha le sue buone ragioni.

[articolo uscito sul Messaggero il 20 giugno 2025]




Sinistra, il DNA è cambiato

La sinistra è in crisi. Il suo partito di riferimento, il Pd, lotta per sopravvivere. Eppure, ancora 5 anni fa, alle elezioni europee del 2014, aveva toccato il 40.8% per cento, per poi precipitare al 18.8% nel giro di soli 4 anni, alle ultime elezioni politiche (4 marzo 2018).

Che cosa è successo?

Per capirlo dobbiamo cominciare a smontare un mito, ovvero che la sinistra sia in crisi un po’ dappertutto. Non è così, per lo meno dal punto di vista elettorale. Alle elezioni americane Hillary Clinton ha preso più voti di Donald Trump, e solo il sistema elettorale, basato sui “grandi elettori”, ha sottratto la vittoria alla candidata democratica. Nel Regno Unito la sinistra-sinistra di Jeremy Corbin gode di ottima salute. In Portogallo, in Grecia e in Spagna la sinistra è al potere, ora con formazioni tradizionali (Portogallo), ora con formazioni di neo-sinistra radicale (Tsipras in Grecia), ora con un compromesso fra sinistra tradizionale e neo-sinistra radicale (Sánchez in Spagna). In Germania i socialdemocratici sono in forte calo, ma il loro declino è compensato dall’ascesa dei Verdi.

Se guardiamo ai grandi paesi di cultura occidentale, una vera crisi di consenso della sinistra si osserva solo in Francia e in Italia, dove la sinistra tradizionale è stata travolta dall’affermazione dei partiti populisti di destra (il Front National di Marine Le Pen, la Lega di Salvini), di sinistra (la France Insoumise di Mélenchon), e né di destra né di sinistra (il Movimento Cinque Stelle di Grillo).

Ma torniamo all’Italia e alla crisi del Pd. In nessuna elezione politica del dopoguerra, dal 1948 al 2013, il maggiore partito della sinistra, che si chiamasse Partito comunista, Pds, Ds o Pd era mai sceso sotto il 20% (unica eccezione apparente, il 2001, in cui c’erano 2 partiti alla pari: Ds e Margherita, complessivamente oltre il 31%). Che cosa è successo, dunque?

Questa è la domanda che molti si fanno, da qualche mese a questa parte. Io però me ne sono sempre fatta un’altra, negli ultimi 20 anni, e cioè: perché non è ancora successo? Come ha potuto il maggior partito della sinistra evitare così a lungo il tracollo?

Questa domanda mi ha sempre fatto compagnia dalla fine degli anni ’90, perché fin da allora mi erano evidenti tre limiti della sinistra riformista, che mi è anche capitato di descrivere e analizzare in qualche libro (La frattura etica, 2002; Perché siamo antipatici?, 2005).

Il primo limite era l’antipatia della sua classe dirigente, ovvero quel mix di supponenza, oscurità di linguaggio, ipocrisia che si potrebbe sinteticamente descrivere come il “complesso dei migliori”. Il secondo limite era l’atteggiamento completamente acritico verso l’Europa e verso il carattere asfissiante di tante sue regole: non tanto il 3% di deficit, quanto la ipertrofia delle leggi, delle direttive e dei regolamenti, un male che negli stessi anni Giulio Tremonti denunciava lucidamente in un suo libro (Rischi fatali, 2005). Il terzo limite, forse il più grave, era la radicale trasformazione della propria base sociale, e la conseguente mutazione del partito della classe operaia in “partito radicale di massa”, secondo la definizione (e la profezia) di Augusto del Noce. Un partito attento alle esigenze dei ceti medi, per i quali l’immigrazione è innanzitutto una risorsa, e sempre più insensibile a quelle dei ceti popolari, per i quali l’immigrazione è un problema, quando non una minaccia.

Poiché questi limiti erano evidenti già vent’anni fa, la domanda vera diventa: perché solo ora?

La risposta, forse, è semplicemente che, fino al deflagrare della crisi (2008-2009), non è stato difficile fingere. O, se preferite, alla sinistra è stato facile far passare il proprio racconto, la propria narrazione della realtà: noi difendiamo i deboli, noi difendiamo le minoranze, noi stiamo con gli immigrati, noi siamo i difensori dei diritti, noi siamo le forze dell’apertura (dei commerci e delle frontiere). Quel racconto poteva reggere perché l’economia, sia pur a un ritmo modesto, cresceva ancora, la povertà era ai minimi, l’immigrazione non era fuori controllo e, last but not least, l’offerta politica era stagnante: il movimento di Grillo era appena agli albori (il “vaffa day” è del 2007), la Lega non aveva ancora compiuto la “svolta nazionale” che nel 2018 la porterà al potere.

Poi è arrivato il 2011, che ha aperto il vaso di Pandora dei mali del nostro mondo. La crisi finanziaria ha fermato l’economia, il numero dei poveri è raddoppiato, la caduta di Gheddafi ha moltiplicato le partenze dalle coste libiche. Ma, soprattutto, i governi di sinistra, tutti a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni), hanno fatto – di fronte a questi cataclismi – due mosse cruciali, che hanno definitivamente cambiato il DNA della sinistra.

La prima è stata di fare dell’accoglienza una questione morale (“noi siamo umani, i nostri avversari sono disumani”) anziché un problema politico. La seconda è stata di destinare le poche risorse disponibili (in particolare i 10 miliardi degli 80 euro) sulla propria base sociale tradizionale, fatta di lavoratori dipendenti e garantiti, anziché sui veri deboli: che non sono solo gli immigrati, ma i precari, i disoccupati, i lavoratori in nero, più in generale l’esercito dei poveri cresciuto a dismisura negli anni della crisi.

Di questi due errori una parte della classe dirigente del Pd a un certo punto si è accorta, e infatti, a fine legislatura, è arrivata la stretta sull’immigrazione del ministro Minniti, e un primo timido avvio del Rei (reddito di inclusione), una misura diversa dal reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle solo nel nome, e per la scarsità di risorse messe in campo. Ma ormai era tardi, l’elettorato aveva perso la pazienza, e del Pd non si fidava più. Per affrontare il problema degli immigrati, a molti è sembrato più credibile Salvini, per affrontare quello della povertà a molti è sembrato più affidabile Di Maio.

Non pare che, in vista delle Europee, qualcosa di sostanziale stia cambiando. La rinuncia di Minniti alla corsa per la segreteria del Pd ha tolto al maggiore partito della sinistra ogni residua possibilità di recuperare fiducia sul versante della sicurezza e del controllo dell’immigrazione. Quanto alla lotta alla povertà, è curioso che il Pd non si renda conto che la filosofia del reddito di cittadinanza, così aspramente criticata, è assai simile a quella del Rei e delle politiche attive del lavoro, propugnate per tanti anni dalla sinistra riformista ma mai messe veramente in atto, come testimonia lo stato penoso dei Centri per l’impiego.

Ma non dobbiamo stupirci troppo. Il DNA del Pd è cambiato, e non da ieri. E dalle mutazioni non si torna indietro facilmente, in biologia come in politica.




Sicurezza, tasse e reddito di cittadinanza. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Molti sindaci, da Leoluca Orlando di Palermo a Luigi De Magistris di Napoli a Federico Pizzarotti di Parma, sono in rivolta contro il governo Conte: non applicheranno il decreto Sicurezza. E ci sono regioni pronte a fare ricorso alla Consulta contro la legge. E’ in atto uno scontro istituzionale? O siamo in campagna elettorale?

Risposta. Tutti e due, direi, però penso che i ricorsi ci sarebbero anche senza elezioni imminenti. La sinistra ha bisogno di identità, e fare la parte dei buoni sul problema dei migranti è un boccone troppo ghiotto per rinunciarvi.

D. Eppure, vista la batosta elettorale del 4 marzo, il buonismo verso i migranti ha dimostrato di non pagare.

R. Ma la classe dirigente di sinistra è come il cane di Pavlov: di fronte a certi stimoli non sa resistere, anche se l’esperienza recente dovrebbe averle insegnato che la polpetta migratoria è avvelenata, almeno sul piano del consenso elettorale.

D. Una delle critiche avanzate è che bloccare i procedimenti di regolarizzazione, come fa il decreto Salvini, produrrà solo maggiori problemi anche in termini di sicurezza delle città, con migliaia di sbandati irregolari per strada. Non c’era un’alternativa?

R. Sì, forse c’era, si poteva adottare una filosofia più berlusconiana, ovvero: regolarizziamo chi già c’è, sperando di essere in grado di fermare i flussi futuri.

Ma un minimo di onestà intellettuale dovrebbe condurre a riconoscere che soluzioni semplici non ce n’erano e non ce ne sono, se è vero che gli irregolari sono più di 500 mila e per la maggior parte di essi non sarà possibile rimpatriarli.

D. Perché è così difficile risolvere il problema?

R. Le ragioni per cui non ci sono soluzioni semplici a mio parere sono tre. Le soluzioni papiste-buoniste hanno dimostrabilmente l’effetto di aumentare la pressione migratoria: il Papa può infischiarsene, lo Stato italiano no. Le soluzioni leghiste-cattiviste invece aumentano il numero di irregolari non rimpatriabili, non occupabili, non integrabili, con conseguente aumento della criminalità “per necessità”, ovvero per mancanza di alternative. E poi, per ragioni che mi sono incomprensibili, né la destra né la sinistra sono disponibili a riformare il sistema penale in modo da mandare (e tenere) in carcere i delinquenti abituali.

D. Matteo Salvini è sempre in una botte di ferro?

R. Sul piano logico, Salvini andrebbe criticato anche da destra, non solo da sinistra. La gente non ce l’ha con gli immigrati, ma con la criminalità: se fai un decreto che aumenta il numero di sbandati, e continui con la prassi di questi anni, per cui consenti di stare a piede libero a chi è stato arrestato anche 10 o 20 volte, la gente prima o poi capisce che il cane salviniano abbaia ma non morde.

D. La rivolta dei politici locali è diventata l’unica, al momento, voce di opposizione che è stata capace di farsi sentire nel Paese. Una traccia su cui costruire un’opposizione di governo e su cui rifondare il Pd?

R. La rivolta dei sindaci e dei governatori, finché non pretende di calpestare le leggi dello Stato e si limita alla denuncia politica e alle iniziative giudiziarie, non solo è perfettamente legittima, ma è sacrosanta: sono loro che, sui rispettivi territori, pagheranno l’aumento degli sbandati e dei “criminali per necessità”.

Detto questo, il trapianto di questa lotta sul corpaccione del Pd, nel disperato tentativo di rianimarlo rispolverando l’imperativo categorico dell’accoglienza, mi pare un autogoal perfetto, perché il grosso dell’elettorato, compresa una cospicua porzione di quello progressista, potrà sentirsi dalla parte dei sindaci solo se la critica a Salvini verrà condotta in nome della sicurezza, non in nome dell’accoglienza.

D. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, è in pole per la segreteria del Pd, il partito che sta organizzando potrà trarre giovamento dal dossier immigrazione nella campagna elettorale per le Europee?

R. Non credo proprio, anche perché su questo terreno l’unico credibile, l’unico che avrebbe potuto parlare di sicurezza da sinistra – cioè Marco Minniti – si è fatto da parte. Con Minniti il Pd avrebbe potuto tentato di recuperare l’elettorato che si è salvinizzato per disperazione, con Zingaretti invece questo elettorato non potrà tornare all’ovile.

D. A suo avviso, che Pd si profila sotto la guida di Zingaretti?

R. Il gioco mi sembra chiaro: consegnando il Pd a Zingaretti si cercherà di ricostituire una sinistra plurale, uliveggiante, e aperta ad alleanze con “la parte migliore dei Cinque Stelle”. Una sinistra, in altre parole, che alle solite divisioni fra riformisti e vetero-sinistri, aggiungerà la nuova frattura fra l’anima Pd e l’anima Cinque Stelle.

D. Dalle parti del Pd in tanti sperano che su temi come l’immigrazione il Movimento5stelle possa spaccarsi confluendo in un’area di opposizione comune con tutta la sinistra.

R. Mah, ne dubito. Il Movimento Cinque Stelle si può riportare nell’alveo della sinistra solo rilanciando lo statalismo e l’assistenzialismo, magari conditi con un po’ di giustizialismo e moralismo anti-casta. Sugli immigrati, la base Cinque Stelle la pensa come Grillo: prima gli italiani.

D. Immigrazione, sbarchi, sicurezza sono ancora il cavallo di battaglia vincente di Salvini alle Europee?

Sì, penso che Salvini lì sarà ancora costretto a battere, avendo clamorosamente tradito la promessa principale, ovvero la flat tax per tutti. E potrebbe anche funzionare, almeno fino a settembre dell’anno prossimo, quando l’emergenza sbarchi verrà di nuovo spenta dal sopraggiungere dell’inverno e delle mareggiate. Poi, dall’autunno 2019, se sarà ancora al governo, il leaer dela Lega dovrà inventarsi qualcos’altro, perché gli italiani sono volubili e si stufano presto.

D. E il cavallo di battaglia dei grillini?

R. Per il Movimento Cinque Stelle la posta in gioco è una sola: o riescono a far funzionare in modo non disastroso il reddito di cittadinanza, oppure anche per loro arriverà il calo di consensi.

Il problema politico interessante è chi intercetterà i voti gialloverdi quando gli italiani si saranno stufati di Salvini e Di Maio. La mia impressione è che gli sbocchi possibili non siano né il Pd né Forza Italia, ma solo l’astensione o un partito nuovo di zecca, dotato di ampi mezzi economici e culturali.

 Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata il 9 gennaio 2019 su Italia Oggi



Tragedia del Pollino, una lezione dalla Norvegia?

Dopo la morte di 10 persone durante un’escursione nelle gole del torrente Raganello (Parco Nazionale del Pollino, provincia di Cosenza), è immediatamente partita, come sempre accade in Italia di fronte a simili tragedie, la macchina della “individuazione delle responsabilità”. Il ministero dell’Ambiente ha avviato un’inchiesta amministrativa, mentre la Procura di Castrovillari ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando i reati di omicidio colposo, lesioni colpose, inondazione e omissione di atti d’ufficio. La Procura ha anche acquisito diversi documenti da alcuni degli enti coinvolti nella gestione del Parco, nonché disposto il “sequestro probatorio” dell’area del torrente Raganello, con conseguente divieto di accesso alle gole.

Nei resoconti giornalistici sulle due inchieste si legge che si tratta di “accertare responsabilità ed omissioni che hanno provocato la morte di dieci persone”, e che il procuratore della Repubblica di Castrovillari, Eugenio Facciolla, “è al lavoro per capire se gli amministratori locali (e non solo) avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa per evitare la tragedia”.

Suppongo che la Magistratura calabrese stia facendo il proprio lavoro, e che più o meno la stessa sequenza di azioni si sarebbe prodotta in qualsiasi altra parte d’Italia. E tuttavia c’è qualcosa che mi lascia perplesso in questa vicenda, come in tante vicende consimili. Qualcosa che non saprei definire con una parola soltanto, forse perché non è un dubbio unico, ma è una catena di dubbi che ogni volta si affacciano alla mia mente.

Il primo dubbio è di natura logica. Il ragionamento secondo cui una proibizione (in questo caso di accesso all’area) avrebbe il potere di evitare una tragedia ha senso se è formulato prima dei fatti, ma diventa debolissimo a posteriori. È assolutamente ovvio che, quando accade una disgrazia, ci siano decine di comportamenti che avrebbero potuto evitarla (o renderla improbabile), ma è troppo facile indicarli con il senno di poi. Quasi tutte le disgrazie che avvengono in montagna, al mare, in gite ed escursioni, non si sarebbero mai verificate se non si fosse incentivato il turismo di massa, se l’accesso alla bellezze naturali fosse ristretto e iper-regolamentato, e inoltre legioni di poliziotti, forestali, guardie costiere fossero impegnate giorno e notte a garantire l’osservanza dei divieti. La vera domanda non è se una certa regola avrebbe impedito la disgrazia, ma se moltiplicare regole e divieti sia la strada giusta, e se in una determinata situazione è evidente a priori – non a cose fatte, dopo la disgrazia – che un divieto è necessario. E spesso è proprio la frequenza di incidenti o disgrazie, o l’intensificazione della pericolosità, il meccanismo che conduce all’introduzione di divieti, come ad esempio è accaduto a Stromboli, dove un tempo si poteva salire al vulcano senza guide alpine o vulcanologiche, mentre da qualche anno non è più possibile. Nel caso del Raganello, pur spesso teatro di incidenti (per lo più non gravi) in passato, pare che l’ultimo incidente mortale risalga a ben 60 anni fa, quando un turista tedesco, inseguendo il volo degli uccelli, perse la vita a causa del cedimento di una roccia cui si era aggrappato, un chiaro esempio di fatalità, non certo di imprudenza o di evento meteorologico estremo (così riferisce Paolo Brera in un articolo su “Repubblica”).

Ma non è solo l’accanimento con cui si cerca ad ogni costo il colpevole di qualsiasi disgrazia a lasciarmi perplesso, come se non potessimo accettare che, in certi casi, le cause di una morte possano essere semplicemente l’imprudenza e la sfortuna, anziché i mille imputati d’occasione: il sindaco che non ha emesso l’ordinanza, il presidente del Parco del Pollino che non ha ancora fatto entrare in vigore il regolamento “Gole sicure”, la Protezione civile che non ha allertato abbastanza, e poi, naturalmente, il business delle escursioni, l’avidità delle guide, in generale la cattiva organizzazione della macchina delle visite al Parco e alle sue meraviglie. Il dubbio che mi serpeggia nella mente è se non sia invece sbagliato proprio l’approccio al problema della “sicurezza turistica”, se così possiamo chiamarla, ossia l’idea che il turista sia un bambino che lo Stato e le istituzioni hanno il dovere assoluto di proteggere in ogni modo, in ogni circostanza e da ogni pericolo.

Forse, quando avviene una disgrazia, la compassione per le vittime non ci dovrebbe impedire di porre la domanda fondamentale: esistono elementari regole di prudenza che, se rispettate, sarebbero state sufficienti ad evitare la disgrazia?

Nel caso del Pollino, ad esempio, le cronache non riferiscono solo che il tempo prometteva pioggia, che la Protezione civile aveva diramato un’allerta gialla (che segnala, fra l’altro, la possibilità di “repentini innalzamenti dei livelli idrometrici” dei torrenti), ma raccontano i ricordi degli anziani, secondo cui, un tempo, ai bambini si permetteva di entrare nell’area del Raganello solo “dopo tre giorni di bel tempo”, per evitare che un temporale improvviso allagasse le forre travolgendo tutto e tutti. Ma, anche restando all’oggi, le regole di prudenza non mancano, come ha ricordato uno dei primi soccorritori, da anni nella squadra calabrese del soccorso alpino: “Per prassi, quando piove nel torrente non si entra. Ieri il cielo era nero e io non sarei mai entrato in quelle condizioni”. Mentre lui, il soccorritore, in quel canyon pericoloso racconta di aver incontrato “esploratori improvvisati in costume da bagno”.

Di qui il mio dubbio: siamo sicuri che molte disgrazie non avvengano semplicemente perché abbiamo delegato ad altri, anziché a noi stessi, la tutela della nostra incolumità fisica? Non sarà che è il nostro rapporto con la Natura, e la sua immane forza, che è intrinsecamente sbagliato, perché irrealistico?

Sono anni che Reinhold Messner, il nostro più grande scalatore, ce lo ricorda. Una parte del pericolo, in montagna ma anche altrove, ovunque la Natura sia in agguato, è proprio l’iper-protezione e l’illusione di sicurezza che alimenta. Parlando del turismo di massa in montagna, ad esempio, Messner afferma: “per sciatori e snowboarders è importante che la neve ci sia; poi da qualche parte si scende senza preoccuparsi di valanghe o crepacci, mentre gli scalatori si fidano dei chiodi piantati da qualcun altro, gli alpinisti delle previsioni meteo, chi si arrampica su ghiaccio di quattro attrezzi, e  tutti, nell’eventualità, fanno affidamento sul cellulare nello zaino, con il quale è possibile chiamare l’elicottero per farsi soccorrere”.

Ma non è solo Messner ad instillare il dubbio che il rimedio non sia moltiplicare i cartelli, le allerte, le protezioni, i divieti, ma semmai rovesciare l’atteggiamento verso il rischio di turisti, esploratori, escursionisti. Perché dobbiamo renderci conto che l’approccio italiano ai problemi della sicurezza turistica non è l’unico possibile. In Norvegia, ad esempio, le autorità adottano una filosofia opposta alla nostra. Proprio perché la Natura è potente, e pericolosa, si preferisce sviluppare nel pubblico il timore per la Natura stessa, anziché perseguire l’obiettivo impossibile di transennarla tutta quanta con recinzioni, parapetti, ringhiere, staccionate.

Il caso della rocca di Preikestolen illustra bene il principio. Si tratta di una falesia di granito alta 604 metri, che si erge a strapiombo sul Lysefjord, uno spettacolare fiordo nel sud del paese (vedi foto accanto).

Ebbene, in cima alla piattaforma di pietra da cui centinaia di turisti possono ammirare il fiordo, e provare vertigini senza pari, non esiste alcuna protezione: né ringhiere, né parapetti, né transenne. Chiunque può avvicinarsi al bordo, sporgersi, fare foto, senza incontrare alcun ostacolo o barriera. Perché? Perché le autorità norvegesi pensano che mettere barriere sarebbe ancora più pericoloso, in quanto disincentiverebbe le persone a proteggere sé stesse con comportamenti appropriati, basati sulla circospezione e la prudenza. A nessuno, in quel paese, verrebbe in mente di accusare le autorità o il governo perché un turista è precipitato nel fiordo e forse una ringhiera ne avrebbe evitato la morte. La protezione contro la Natura selvaggia è innanzitutto in capo a chi si avventura in essa, non a istituzioni, enti, autorità investite della missione impossibile di tutelare i turisti a dispetto della loro imprudenza.

Non so, naturalmente, come siano andate esattamente le cose nella tragedia del Pollino, o nelle numerose altre del medesimo tipo che si verificano ogni anno in Italia. Ma il dubbio mi rimane: se la smettessimo di pretendere che ad assicurare la nostra sicurezza siano gli altri, chiunque essi siano, e ricominciassimo a pensare che proteggerci dai rischi è innanzitutto compito nostro, forse, alla fine, la conta dei morti sarebbe meno drammatica.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il  26 agosto 2018