Sinistra, il DNA è cambiato

La sinistra è in crisi. Il suo partito di riferimento, il Pd, lotta per sopravvivere. Eppure, ancora 5 anni fa, alle elezioni europee del 2014, aveva toccato il 40.8% per cento, per poi precipitare al 18.8% nel giro di soli 4 anni, alle ultime elezioni politiche (4 marzo 2018).

Che cosa è successo?

Per capirlo dobbiamo cominciare a smontare un mito, ovvero che la sinistra sia in crisi un po’ dappertutto. Non è così, per lo meno dal punto di vista elettorale. Alle elezioni americane Hillary Clinton ha preso più voti di Donald Trump, e solo il sistema elettorale, basato sui “grandi elettori”, ha sottratto la vittoria alla candidata democratica. Nel Regno Unito la sinistra-sinistra di Jeremy Corbin gode di ottima salute. In Portogallo, in Grecia e in Spagna la sinistra è al potere, ora con formazioni tradizionali (Portogallo), ora con formazioni di neo-sinistra radicale (Tsipras in Grecia), ora con un compromesso fra sinistra tradizionale e neo-sinistra radicale (Sánchez in Spagna). In Germania i socialdemocratici sono in forte calo, ma il loro declino è compensato dall’ascesa dei Verdi.

Se guardiamo ai grandi paesi di cultura occidentale, una vera crisi di consenso della sinistra si osserva solo in Francia e in Italia, dove la sinistra tradizionale è stata travolta dall’affermazione dei partiti populisti di destra (il Front National di Marine Le Pen, la Lega di Salvini), di sinistra (la France Insoumise di Mélenchon), e né di destra né di sinistra (il Movimento Cinque Stelle di Grillo).

Ma torniamo all’Italia e alla crisi del Pd. In nessuna elezione politica del dopoguerra, dal 1948 al 2013, il maggiore partito della sinistra, che si chiamasse Partito comunista, Pds, Ds o Pd era mai sceso sotto il 20% (unica eccezione apparente, il 2001, in cui c’erano 2 partiti alla pari: Ds e Margherita, complessivamente oltre il 31%). Che cosa è successo, dunque?

Questa è la domanda che molti si fanno, da qualche mese a questa parte. Io però me ne sono sempre fatta un’altra, negli ultimi 20 anni, e cioè: perché non è ancora successo? Come ha potuto il maggior partito della sinistra evitare così a lungo il tracollo?

Questa domanda mi ha sempre fatto compagnia dalla fine degli anni ’90, perché fin da allora mi erano evidenti tre limiti della sinistra riformista, che mi è anche capitato di descrivere e analizzare in qualche libro (La frattura etica, 2002; Perché siamo antipatici?, 2005).

Il primo limite era l’antipatia della sua classe dirigente, ovvero quel mix di supponenza, oscurità di linguaggio, ipocrisia che si potrebbe sinteticamente descrivere come il “complesso dei migliori”. Il secondo limite era l’atteggiamento completamente acritico verso l’Europa e verso il carattere asfissiante di tante sue regole: non tanto il 3% di deficit, quanto la ipertrofia delle leggi, delle direttive e dei regolamenti, un male che negli stessi anni Giulio Tremonti denunciava lucidamente in un suo libro (Rischi fatali, 2005). Il terzo limite, forse il più grave, era la radicale trasformazione della propria base sociale, e la conseguente mutazione del partito della classe operaia in “partito radicale di massa”, secondo la definizione (e la profezia) di Augusto del Noce. Un partito attento alle esigenze dei ceti medi, per i quali l’immigrazione è innanzitutto una risorsa, e sempre più insensibile a quelle dei ceti popolari, per i quali l’immigrazione è un problema, quando non una minaccia.

Poiché questi limiti erano evidenti già vent’anni fa, la domanda vera diventa: perché solo ora?

La risposta, forse, è semplicemente che, fino al deflagrare della crisi (2008-2009), non è stato difficile fingere. O, se preferite, alla sinistra è stato facile far passare il proprio racconto, la propria narrazione della realtà: noi difendiamo i deboli, noi difendiamo le minoranze, noi stiamo con gli immigrati, noi siamo i difensori dei diritti, noi siamo le forze dell’apertura (dei commerci e delle frontiere). Quel racconto poteva reggere perché l’economia, sia pur a un ritmo modesto, cresceva ancora, la povertà era ai minimi, l’immigrazione non era fuori controllo e, last but not least, l’offerta politica era stagnante: il movimento di Grillo era appena agli albori (il “vaffa day” è del 2007), la Lega non aveva ancora compiuto la “svolta nazionale” che nel 2018 la porterà al potere.

Poi è arrivato il 2011, che ha aperto il vaso di Pandora dei mali del nostro mondo. La crisi finanziaria ha fermato l’economia, il numero dei poveri è raddoppiato, la caduta di Gheddafi ha moltiplicato le partenze dalle coste libiche. Ma, soprattutto, i governi di sinistra, tutti a guida Pd (Letta, Renzi, Gentiloni), hanno fatto – di fronte a questi cataclismi – due mosse cruciali, che hanno definitivamente cambiato il DNA della sinistra.

La prima è stata di fare dell’accoglienza una questione morale (“noi siamo umani, i nostri avversari sono disumani”) anziché un problema politico. La seconda è stata di destinare le poche risorse disponibili (in particolare i 10 miliardi degli 80 euro) sulla propria base sociale tradizionale, fatta di lavoratori dipendenti e garantiti, anziché sui veri deboli: che non sono solo gli immigrati, ma i precari, i disoccupati, i lavoratori in nero, più in generale l’esercito dei poveri cresciuto a dismisura negli anni della crisi.

Di questi due errori una parte della classe dirigente del Pd a un certo punto si è accorta, e infatti, a fine legislatura, è arrivata la stretta sull’immigrazione del ministro Minniti, e un primo timido avvio del Rei (reddito di inclusione), una misura diversa dal reddito di cittadinanza dei Cinque Stelle solo nel nome, e per la scarsità di risorse messe in campo. Ma ormai era tardi, l’elettorato aveva perso la pazienza, e del Pd non si fidava più. Per affrontare il problema degli immigrati, a molti è sembrato più credibile Salvini, per affrontare quello della povertà a molti è sembrato più affidabile Di Maio.

Non pare che, in vista delle Europee, qualcosa di sostanziale stia cambiando. La rinuncia di Minniti alla corsa per la segreteria del Pd ha tolto al maggiore partito della sinistra ogni residua possibilità di recuperare fiducia sul versante della sicurezza e del controllo dell’immigrazione. Quanto alla lotta alla povertà, è curioso che il Pd non si renda conto che la filosofia del reddito di cittadinanza, così aspramente criticata, è assai simile a quella del Rei e delle politiche attive del lavoro, propugnate per tanti anni dalla sinistra riformista ma mai messe veramente in atto, come testimonia lo stato penoso dei Centri per l’impiego.

Ma non dobbiamo stupirci troppo. Il DNA del Pd è cambiato, e non da ieri. E dalle mutazioni non si torna indietro facilmente, in biologia come in politica.




Sicurezza, tasse e reddito di cittadinanza. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. Molti sindaci, da Leoluca Orlando di Palermo a Luigi De Magistris di Napoli a Federico Pizzarotti di Parma, sono in rivolta contro il governo Conte: non applicheranno il decreto Sicurezza. E ci sono regioni pronte a fare ricorso alla Consulta contro la legge. E’ in atto uno scontro istituzionale? O siamo in campagna elettorale?

Risposta. Tutti e due, direi, però penso che i ricorsi ci sarebbero anche senza elezioni imminenti. La sinistra ha bisogno di identità, e fare la parte dei buoni sul problema dei migranti è un boccone troppo ghiotto per rinunciarvi.

D. Eppure, vista la batosta elettorale del 4 marzo, il buonismo verso i migranti ha dimostrato di non pagare.

R. Ma la classe dirigente di sinistra è come il cane di Pavlov: di fronte a certi stimoli non sa resistere, anche se l’esperienza recente dovrebbe averle insegnato che la polpetta migratoria è avvelenata, almeno sul piano del consenso elettorale.

D. Una delle critiche avanzate è che bloccare i procedimenti di regolarizzazione, come fa il decreto Salvini, produrrà solo maggiori problemi anche in termini di sicurezza delle città, con migliaia di sbandati irregolari per strada. Non c’era un’alternativa?

R. Sì, forse c’era, si poteva adottare una filosofia più berlusconiana, ovvero: regolarizziamo chi già c’è, sperando di essere in grado di fermare i flussi futuri.

Ma un minimo di onestà intellettuale dovrebbe condurre a riconoscere che soluzioni semplici non ce n’erano e non ce ne sono, se è vero che gli irregolari sono più di 500 mila e per la maggior parte di essi non sarà possibile rimpatriarli.

D. Perché è così difficile risolvere il problema?

R. Le ragioni per cui non ci sono soluzioni semplici a mio parere sono tre. Le soluzioni papiste-buoniste hanno dimostrabilmente l’effetto di aumentare la pressione migratoria: il Papa può infischiarsene, lo Stato italiano no. Le soluzioni leghiste-cattiviste invece aumentano il numero di irregolari non rimpatriabili, non occupabili, non integrabili, con conseguente aumento della criminalità “per necessità”, ovvero per mancanza di alternative. E poi, per ragioni che mi sono incomprensibili, né la destra né la sinistra sono disponibili a riformare il sistema penale in modo da mandare (e tenere) in carcere i delinquenti abituali.

D. Matteo Salvini è sempre in una botte di ferro?

R. Sul piano logico, Salvini andrebbe criticato anche da destra, non solo da sinistra. La gente non ce l’ha con gli immigrati, ma con la criminalità: se fai un decreto che aumenta il numero di sbandati, e continui con la prassi di questi anni, per cui consenti di stare a piede libero a chi è stato arrestato anche 10 o 20 volte, la gente prima o poi capisce che il cane salviniano abbaia ma non morde.

D. La rivolta dei politici locali è diventata l’unica, al momento, voce di opposizione che è stata capace di farsi sentire nel Paese. Una traccia su cui costruire un’opposizione di governo e su cui rifondare il Pd?

R. La rivolta dei sindaci e dei governatori, finché non pretende di calpestare le leggi dello Stato e si limita alla denuncia politica e alle iniziative giudiziarie, non solo è perfettamente legittima, ma è sacrosanta: sono loro che, sui rispettivi territori, pagheranno l’aumento degli sbandati e dei “criminali per necessità”.

Detto questo, il trapianto di questa lotta sul corpaccione del Pd, nel disperato tentativo di rianimarlo rispolverando l’imperativo categorico dell’accoglienza, mi pare un autogoal perfetto, perché il grosso dell’elettorato, compresa una cospicua porzione di quello progressista, potrà sentirsi dalla parte dei sindaci solo se la critica a Salvini verrà condotta in nome della sicurezza, non in nome dell’accoglienza.

D. Il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, è in pole per la segreteria del Pd, il partito che sta organizzando potrà trarre giovamento dal dossier immigrazione nella campagna elettorale per le Europee?

R. Non credo proprio, anche perché su questo terreno l’unico credibile, l’unico che avrebbe potuto parlare di sicurezza da sinistra – cioè Marco Minniti – si è fatto da parte. Con Minniti il Pd avrebbe potuto tentato di recuperare l’elettorato che si è salvinizzato per disperazione, con Zingaretti invece questo elettorato non potrà tornare all’ovile.

D. A suo avviso, che Pd si profila sotto la guida di Zingaretti?

R. Il gioco mi sembra chiaro: consegnando il Pd a Zingaretti si cercherà di ricostituire una sinistra plurale, uliveggiante, e aperta ad alleanze con “la parte migliore dei Cinque Stelle”. Una sinistra, in altre parole, che alle solite divisioni fra riformisti e vetero-sinistri, aggiungerà la nuova frattura fra l’anima Pd e l’anima Cinque Stelle.

D. Dalle parti del Pd in tanti sperano che su temi come l’immigrazione il Movimento5stelle possa spaccarsi confluendo in un’area di opposizione comune con tutta la sinistra.

R. Mah, ne dubito. Il Movimento Cinque Stelle si può riportare nell’alveo della sinistra solo rilanciando lo statalismo e l’assistenzialismo, magari conditi con un po’ di giustizialismo e moralismo anti-casta. Sugli immigrati, la base Cinque Stelle la pensa come Grillo: prima gli italiani.

D. Immigrazione, sbarchi, sicurezza sono ancora il cavallo di battaglia vincente di Salvini alle Europee?

Sì, penso che Salvini lì sarà ancora costretto a battere, avendo clamorosamente tradito la promessa principale, ovvero la flat tax per tutti. E potrebbe anche funzionare, almeno fino a settembre dell’anno prossimo, quando l’emergenza sbarchi verrà di nuovo spenta dal sopraggiungere dell’inverno e delle mareggiate. Poi, dall’autunno 2019, se sarà ancora al governo, il leaer dela Lega dovrà inventarsi qualcos’altro, perché gli italiani sono volubili e si stufano presto.

D. E il cavallo di battaglia dei grillini?

R. Per il Movimento Cinque Stelle la posta in gioco è una sola: o riescono a far funzionare in modo non disastroso il reddito di cittadinanza, oppure anche per loro arriverà il calo di consensi.

Il problema politico interessante è chi intercetterà i voti gialloverdi quando gli italiani si saranno stufati di Salvini e Di Maio. La mia impressione è che gli sbocchi possibili non siano né il Pd né Forza Italia, ma solo l’astensione o un partito nuovo di zecca, dotato di ampi mezzi economici e culturali.

 Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata il 9 gennaio 2019 su Italia Oggi



Tragedia del Pollino, una lezione dalla Norvegia?

Dopo la morte di 10 persone durante un’escursione nelle gole del torrente Raganello (Parco Nazionale del Pollino, provincia di Cosenza), è immediatamente partita, come sempre accade in Italia di fronte a simili tragedie, la macchina della “individuazione delle responsabilità”. Il ministero dell’Ambiente ha avviato un’inchiesta amministrativa, mentre la Procura di Castrovillari ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando i reati di omicidio colposo, lesioni colpose, inondazione e omissione di atti d’ufficio. La Procura ha anche acquisito diversi documenti da alcuni degli enti coinvolti nella gestione del Parco, nonché disposto il “sequestro probatorio” dell’area del torrente Raganello, con conseguente divieto di accesso alle gole.

Nei resoconti giornalistici sulle due inchieste si legge che si tratta di “accertare responsabilità ed omissioni che hanno provocato la morte di dieci persone”, e che il procuratore della Repubblica di Castrovillari, Eugenio Facciolla, “è al lavoro per capire se gli amministratori locali (e non solo) avrebbero potuto e dovuto fare qualcosa per evitare la tragedia”.

Suppongo che la Magistratura calabrese stia facendo il proprio lavoro, e che più o meno la stessa sequenza di azioni si sarebbe prodotta in qualsiasi altra parte d’Italia. E tuttavia c’è qualcosa che mi lascia perplesso in questa vicenda, come in tante vicende consimili. Qualcosa che non saprei definire con una parola soltanto, forse perché non è un dubbio unico, ma è una catena di dubbi che ogni volta si affacciano alla mia mente.

Il primo dubbio è di natura logica. Il ragionamento secondo cui una proibizione (in questo caso di accesso all’area) avrebbe il potere di evitare una tragedia ha senso se è formulato prima dei fatti, ma diventa debolissimo a posteriori. È assolutamente ovvio che, quando accade una disgrazia, ci siano decine di comportamenti che avrebbero potuto evitarla (o renderla improbabile), ma è troppo facile indicarli con il senno di poi. Quasi tutte le disgrazie che avvengono in montagna, al mare, in gite ed escursioni, non si sarebbero mai verificate se non si fosse incentivato il turismo di massa, se l’accesso alla bellezze naturali fosse ristretto e iper-regolamentato, e inoltre legioni di poliziotti, forestali, guardie costiere fossero impegnate giorno e notte a garantire l’osservanza dei divieti. La vera domanda non è se una certa regola avrebbe impedito la disgrazia, ma se moltiplicare regole e divieti sia la strada giusta, e se in una determinata situazione è evidente a priori – non a cose fatte, dopo la disgrazia – che un divieto è necessario. E spesso è proprio la frequenza di incidenti o disgrazie, o l’intensificazione della pericolosità, il meccanismo che conduce all’introduzione di divieti, come ad esempio è accaduto a Stromboli, dove un tempo si poteva salire al vulcano senza guide alpine o vulcanologiche, mentre da qualche anno non è più possibile. Nel caso del Raganello, pur spesso teatro di incidenti (per lo più non gravi) in passato, pare che l’ultimo incidente mortale risalga a ben 60 anni fa, quando un turista tedesco, inseguendo il volo degli uccelli, perse la vita a causa del cedimento di una roccia cui si era aggrappato, un chiaro esempio di fatalità, non certo di imprudenza o di evento meteorologico estremo (così riferisce Paolo Brera in un articolo su “Repubblica”).

Ma non è solo l’accanimento con cui si cerca ad ogni costo il colpevole di qualsiasi disgrazia a lasciarmi perplesso, come se non potessimo accettare che, in certi casi, le cause di una morte possano essere semplicemente l’imprudenza e la sfortuna, anziché i mille imputati d’occasione: il sindaco che non ha emesso l’ordinanza, il presidente del Parco del Pollino che non ha ancora fatto entrare in vigore il regolamento “Gole sicure”, la Protezione civile che non ha allertato abbastanza, e poi, naturalmente, il business delle escursioni, l’avidità delle guide, in generale la cattiva organizzazione della macchina delle visite al Parco e alle sue meraviglie. Il dubbio che mi serpeggia nella mente è se non sia invece sbagliato proprio l’approccio al problema della “sicurezza turistica”, se così possiamo chiamarla, ossia l’idea che il turista sia un bambino che lo Stato e le istituzioni hanno il dovere assoluto di proteggere in ogni modo, in ogni circostanza e da ogni pericolo.

Forse, quando avviene una disgrazia, la compassione per le vittime non ci dovrebbe impedire di porre la domanda fondamentale: esistono elementari regole di prudenza che, se rispettate, sarebbero state sufficienti ad evitare la disgrazia?

Nel caso del Pollino, ad esempio, le cronache non riferiscono solo che il tempo prometteva pioggia, che la Protezione civile aveva diramato un’allerta gialla (che segnala, fra l’altro, la possibilità di “repentini innalzamenti dei livelli idrometrici” dei torrenti), ma raccontano i ricordi degli anziani, secondo cui, un tempo, ai bambini si permetteva di entrare nell’area del Raganello solo “dopo tre giorni di bel tempo”, per evitare che un temporale improvviso allagasse le forre travolgendo tutto e tutti. Ma, anche restando all’oggi, le regole di prudenza non mancano, come ha ricordato uno dei primi soccorritori, da anni nella squadra calabrese del soccorso alpino: “Per prassi, quando piove nel torrente non si entra. Ieri il cielo era nero e io non sarei mai entrato in quelle condizioni”. Mentre lui, il soccorritore, in quel canyon pericoloso racconta di aver incontrato “esploratori improvvisati in costume da bagno”.

Di qui il mio dubbio: siamo sicuri che molte disgrazie non avvengano semplicemente perché abbiamo delegato ad altri, anziché a noi stessi, la tutela della nostra incolumità fisica? Non sarà che è il nostro rapporto con la Natura, e la sua immane forza, che è intrinsecamente sbagliato, perché irrealistico?

Sono anni che Reinhold Messner, il nostro più grande scalatore, ce lo ricorda. Una parte del pericolo, in montagna ma anche altrove, ovunque la Natura sia in agguato, è proprio l’iper-protezione e l’illusione di sicurezza che alimenta. Parlando del turismo di massa in montagna, ad esempio, Messner afferma: “per sciatori e snowboarders è importante che la neve ci sia; poi da qualche parte si scende senza preoccuparsi di valanghe o crepacci, mentre gli scalatori si fidano dei chiodi piantati da qualcun altro, gli alpinisti delle previsioni meteo, chi si arrampica su ghiaccio di quattro attrezzi, e  tutti, nell’eventualità, fanno affidamento sul cellulare nello zaino, con il quale è possibile chiamare l’elicottero per farsi soccorrere”.

Ma non è solo Messner ad instillare il dubbio che il rimedio non sia moltiplicare i cartelli, le allerte, le protezioni, i divieti, ma semmai rovesciare l’atteggiamento verso il rischio di turisti, esploratori, escursionisti. Perché dobbiamo renderci conto che l’approccio italiano ai problemi della sicurezza turistica non è l’unico possibile. In Norvegia, ad esempio, le autorità adottano una filosofia opposta alla nostra. Proprio perché la Natura è potente, e pericolosa, si preferisce sviluppare nel pubblico il timore per la Natura stessa, anziché perseguire l’obiettivo impossibile di transennarla tutta quanta con recinzioni, parapetti, ringhiere, staccionate.

Il caso della rocca di Preikestolen illustra bene il principio. Si tratta di una falesia di granito alta 604 metri, che si erge a strapiombo sul Lysefjord, uno spettacolare fiordo nel sud del paese (vedi foto accanto).

Ebbene, in cima alla piattaforma di pietra da cui centinaia di turisti possono ammirare il fiordo, e provare vertigini senza pari, non esiste alcuna protezione: né ringhiere, né parapetti, né transenne. Chiunque può avvicinarsi al bordo, sporgersi, fare foto, senza incontrare alcun ostacolo o barriera. Perché? Perché le autorità norvegesi pensano che mettere barriere sarebbe ancora più pericoloso, in quanto disincentiverebbe le persone a proteggere sé stesse con comportamenti appropriati, basati sulla circospezione e la prudenza. A nessuno, in quel paese, verrebbe in mente di accusare le autorità o il governo perché un turista è precipitato nel fiordo e forse una ringhiera ne avrebbe evitato la morte. La protezione contro la Natura selvaggia è innanzitutto in capo a chi si avventura in essa, non a istituzioni, enti, autorità investite della missione impossibile di tutelare i turisti a dispetto della loro imprudenza.

Non so, naturalmente, come siano andate esattamente le cose nella tragedia del Pollino, o nelle numerose altre del medesimo tipo che si verificano ogni anno in Italia. Ma il dubbio mi rimane: se la smettessimo di pretendere che ad assicurare la nostra sicurezza siano gli altri, chiunque essi siano, e ricominciassimo a pensare che proteggerci dai rischi è innanzitutto compito nostro, forse, alla fine, la conta dei morti sarebbe meno drammatica.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il  26 agosto 2018




I poveri votano a destra, i ricchi a sinistra

Che il voto del 4 marzo, e quelli successivi nelle elezioni amministrative, sia stato un voto di protesta, di alterità verso la “casta”, contro l’establishment, e contro i governi che hanno coinvolto il Pd, dal 2011 ad oggi, ci sono pochi dubbi. E le motivazioni che hanno condotto verso questo comportamento elettorale ce ne hanno dato ampia conferma; sulle cause del successo della Lega c’è una sostanziale omogeneità di pensiero: il traino decisivo è giudicato unanimemente la volontà leghista di combattere efficacemente i problemi di insicurezza derivanti dai postumi della crisi economica, dall’immigrazione incontrollata e dall’aumento, in generale, del clima di pericolosità sociale.

La parole d’ordine di tipo economico-occupazionale, e fiscale, le battaglie sulla legittima difesa e per un controllo più duro nei confronti dei clandestini sono state fondamentali per l’avanzata elettorale del partito di Salvini in tutte le aree settentrionali e centrali del paese, anche in zone dove nel passato la Lega (Nord) era elettoralmente inesistente. E per il suo successivo radicamento, fino a farla diventare, oggi, la forza politica con i consensi più elevati nelle dichiarazioni di voto raccolte nelle ultime indagini demoscopiche, superando il Movimento 5 stelle.

Anche i motivi prevalenti del successo pentastellato possono essere individuati nella volontà di “mandare a casa” la vecchia classe politica, per cambiare radicalmente le politiche pubbliche. Per un nuovo inizio: un orientamento che accomuna le tendenze più diffuse nell’elettorato italiano, dal nord fino al sud del paese. Hanno per questa ragione avuto successo le due forze politiche che maggiormente si fanno paladini della volontà di cambiamento, assieme alle due tematiche ricordate, il rifiuto delle vecchie modalità di fare politica e, soprattutto, il bisogno di maggior sicurezza economica e sociale.

Da questi elementi è nato nel giugno scorso il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, un esecutivo che gode attualmente di un consenso talmente elevato, vicino al 70% della popolazione italiana, che sarà difficile nei prossimi mesi immaginare una opposizione capace di contrastarlo efficacemente. Anche perché, tralasciando l’indubbia capacità comunicativa del leader leghista, il motivo più profondo del favore per il governo è che gli elettorati delle diverse forze politiche sono attenti alla risoluzione di problemi piuttosto differenti tra loro. Per l’elettorato di sinistra (o di centro-sinistra), le cose più urgenti da risolvere sono il tema del lavoro e quello dell’insorgente razzismo nel nostro paese, veicolato dai costanti proclami di Salvini stesso. Per gli elettori di centro-destra (e della Lega in particolare) sono invece: l’immigrazione, più o meno clandestina, le tasse e la sicurezza, insieme ovviamente agli effetti della crisi economico-occupazionale.

Ancora differente è la gerarchia degli elettori pentastellati, tra cui soltanto il tema del lavoro tende ad essere egemonico, mentre gli altri problemi non sono considerati rilevanti. Ora, dal momento che l’occupazione, la creazione di nuovi posti di lavoro, la crescita dell’economia, la messa a punto di un quadro di efficace regolamentazione del frastagliato mondo del lavoro (e, se vogliamo, lo stesso problema del razzismo) sono tutte cose che non possono avere una rapida risoluzione, va da sé che la comunicazione di Salvini, così presente e costante, riesca in questo momento a convogliare su di se, e sul suo partito, una crescente quantità di potenziali elettori, cui egli si rivolge.

Durerà nel tempo? Suppongo di sì, perché il suo discorso tocca le corde giuste della popolazione, molto più delle argomentazioni di Di Maio e molto molto di più di quelle della sinistra e del Partito Democratico. Soprattutto perché i destinatari di questa comunicazione e di queste proposte politiche sono in particolare i settori sociali maggiormente in difficoltà, sia dal punto di vista economico che da quello sociale, e che sono certo quelli numericamente più numerosi nel nostro paese, dopo le crisi dell’ultimo decennio. E trovano nelle forze politiche oggi al governo, i 5 stelle ma soprattutto la Lega, un elevato livello di attenzione proprio nei loro confronti.

Non a caso i motivi che, secondo gli elettori italiani, hanno portato alla sconfitta del Partito Democratico, nonostante il premier Gentiloni non fosse così malvisto nemmeno dagli elettori leghisti e pentastellati, risiedano principalmente sull’incapacità del Pd di pensare (anche) ai cittadini con problemi economici e sociali. Viene sottolineato ancora una volta come le proposte e le politiche della sinistra o del centro-sinistra siano percepite – da chi non li vota – come più vicine alla società più garantita, quella dei ceti medi o medio-alti, mentre la fascia più debole della popolazione non viene tenuta in sufficiente considerazione. E il buon successo elettorale in alcune delle aree più benestanti del paese ne è una indiretta conferma, mentre i leader e gli stessi elettori della sinistra non paiono rendersene pienamente conto.

Un’analisi empirica che mette in relazione, a livello comunale, le scelte di voto ed il reddito pro-capite dei cittadini lombardi mostra in maniera evidente quanto è stato finora argomentato. La correlazione tra il voto al centro-sinistra e la ricchezza pro-capite appare significativamente alta e positiva (con un coefficiente pari a +0.45): all’incremento del reddito si incrementa anche la percentuale di consensi aggregata (Partito Democratico + LeU + Potere al Popolo) per le formazioni di sinistra; risulta al contrario negativa (r = -0.52) la stessa correlazione con i partiti di centro-destra, mentre non è significativa – benché con un segno positivo –  la correlazione tra voto ai 5 stelle e il reddito pro-capite.

Mentre nei comuni della provincia di Milano nessuna delle correlazioni, per nessuna delle formazioni politiche, appare significativa, e occorre quindi operare un’analisi più approfondita, esse sono non a caso particolarmente accentuate nelle province pedemontane (Brescia, Bergamo, Sondrio, Varese, Como e Lecco), vale a dire nelle maggiori roccaforti della Lega e del centro-destra, con coefficienti (negativi) che si avvicinano a 0.60. Come dire: più i comuni sono poveri, più si vota Salvini; più sono ricchi, più si vota Partito Democratico.




Non solo Salvini. Le origini dell’insicurezza

Fra le convinzioni più granitiche del mondo progressista vi è quella che la domanda di sicurezza, e la connessa paura dello straniero, siano l’amaro frutto della propaganda di destra, e in particolare della spregiudicatezza comunicativa di Matteo Salvini, sempre pronto ad amplificare qualsiasi episodio di violenza che veda come vittima un italiano e come autore uno straniero, specie se migrante, richiedente asilo o rifugiato.
A sostegno di questa tesi vengono citati, quasi sempre, i dati sull’andamento dei delitti, un po’ vecchiotti (fermi al 2016) ma piuttosto univoci: in era renziana i delitti totali, compresi quelli di maggiore allarme sociale come omicidi, furti, violenze sessuali, mostrano una netta tendenza alla diminuzione. Se i delitti calano, come spiegare il crescente senso di insicurezza degli italiani, nonché la conseguente impetuosa crescita della domanda di sicurezza, se non come il risultato di una manipolazione dell’opinione pubblica, scientemente aizzata ad avere paura?
Questa lettura di quel che è successo non è insensata, o puramente autoconsolatoria. Penso anch’io che, senza l’azione combinata della politica e dei media, il senso di insicurezza degli italiani non sarebbe aumentato tanto quanto è aumentato in questi ultimi anni. E tuttavia credo che, da sola, quella spiegazione non funzioni. Quando si parla di insicurezza, e si imputa la sua crescita essenzialmente agli “imprenditori della paura”, a mio parere si dimenticano due importantissimi fattori che, in questi anni, hanno contribuito non poco ad alimentare insicurezza e domanda di protezione.
Per illustrare il primo fattore riporto qualche passaggio di una mail, alquanto cruda, che ho ricevuto qualche tempo fa da un giovane studioso italiano che ha avuto la ventura di entrare per la prima volta negli Stati Uniti per un convegno. Parlando degli “sbarchi via aereo”, comincia con il farmi notare la ingombrante burocrazia dei visti d’ingresso, le domande cui tutti – bianchi e non bianchi – devono rispondere (tipo: cosa vieni a fare? quando te ne vai? a che indirizzo pernotti? quanti soldi hai?). Per poi concludere: “la mera esistenza di questa procedura di selezione degli ingressi (che fa anche un po’ paura, ci sono stemmi della polizia intimidatori ecc.) dà l’impressione che per lo meno gli USA cercano di proteggere i loro cittadini, mentre in Italia questo è l’ultimo dei problemi. C’è anche questo modo di vederla: se gli accessi fossero regolati e avessero un aspetto meno selvaggio di un barcone pieno di africani, i cittadini italiani avrebbero forse più l’impressione che allo Stato importa qualcosa di loro, cosa di cui l’americano medio non dubita”.
Naturalmente so bene che le situazioni dell’Italia e degli Stati Uniti sono molto diverse, anzi speculari (là il problema è la frontiera con il Messico, qui è il Mediterraneo), però la domanda fondamentale resta la stessa: in questi anni i nostri governi hanno dato l’impressione che allo Stato interessasse proteggere i propri cittadini filtrando rigorosamente gli ingressi?
La risposta è: assolutamente no. Per anni il messaggio è stato esattamente quello contrario: non dovete preoccuparvi, e se lo fate è perché siete preda di paure irrazionali; la nostra missione, e quindi la nostra priorità, è salvare vite umane. C’è voluto l’approssimarsi delle elezioni, e l’avvento di Minniti, per cambiare registro, ma era troppo tardi, e comunque non poteva bastare. Perché la gente non si basa sulle statistiche, ma su quel che vede: 100 mila ingressi regolari e controllati creano meno inquietudine di un solo barcone con 100 migranti che non si potranno mai respingere, anche quando risultasse che non hanno diritto ad alcuna forma di protezione. E dire che, anche a sinistra, qualcuno aveva provato a dirlo, che non c’è dialogo senza sicurezza: “la sensazione di sicurezza da entrambi i lati della barricata è una condizione essenziale per il dialogo fra le culture” scriveva Zygmunt Bauman nel 2011, giusto prima dell’inizio delle primavere arabe (Per tutti i gusti, Laterza 2011).
La rinuncia di chi ha il dovere di proteggere a prendere sul serio il proprio ruolo non è però l’unico fattore che ha fatto lievitare il senso di insicurezza. Ce n’ è anche un altro, molto più subdolo e sottile. Anche in questo caso preferisco spiegarmi con un esempio: qualche giorno fa, guardando un telegiornale, apprendo che, in vista di qualche giornata un po’ calda, le autorità stanno predisponendo una gigantesca campagna di sorveglianza e protezione denominata “estate sicura”, come se un gravissimo pericolo incombesse sulle nostre vite. Lungi da me criticare una simile lodevole iniziativa, ma non posso non notare che una campagna simile era inconcepibile anche solo un paio di decenni fa, e che sono ormai centinaia le iniziative, le pubblicità, gli eventi nei quali siamo implacabilmente avvertiti dei pericoli che corriamo, nonché dei rimedi che, per lo più a pagamento, sono a nostra disposizione purché prendiamo atto della nostra vulnerabilità. Non so se lo avete notato, ma è da anni e anni che sia la pubblicità commerciale, sia la pubblicità progresso, ci terrorizzano con quello che ci potrebbe succedere se non stiamo attenti alla placca dentaria, se non stipuliamo un’assicurazione, se non installiamo impianti di allarme nella nostra casa, se non disinfettiamo la stanza in cui gioca il bambino, se non ci sottoponiamo a controlli medici periodici, se non ci vacciniamo contro l’influenza, se non portiamo il cane e il gatto dal veterinario, se non mettiamo la mascherina anti-smog, se non scegliamo un’auto con 9 airbag (salvo aggiungere: “ma gli airbag non bastano più”, e giù dispositivi elettronici che ci avvertono di tutto e ci proteggono in ogni situazione). E questo martellamento, come stanno documentando molti studi di psicologia (specie negli Stati Uniti), non sta solo impaurendo le generazioni più anziane, ma sta forgiando una generazione di ragazzi sempre più insicura, intimorita, iperprotetta, e proprio per questo non attrezzata ad affrontare le difficoltà della vita adulta. Già una quindicina di anni fa, parlando dell’evoluzione della società americana, Hara Estroff Marano ebbe a coniare l’espressione Nation of Wimps (una “nazione di schiappe”), mentre un’altra psicologa, Jean Twenge, da poco ha pubblicato un libro (iGen, in italiano Iperconnessi, Einaudi 2018) nel cui sottotitolo i ragazzi della generazione internet sono descritti come “del tutto impreparati a diventare adulti”, proprio per l’eccesso di attenzioni protettive da parte di genitori e docenti.
E’ il progresso, ovviamente. Come si fa a non compiacersi degli standard sempre più elevati di sicurezza? Tuttavia forse sfugge l’altra faccia della medaglia: una società bombardata dall’imperativo della sicurezza, ossessivamente invitata a proteggersi da ogni sorta di minaccia, non diventa soggettivamente sempre più sicura, bensì sempre più vigile, e inevitabilmente sempre più sensibile ai problemi della sicurezza. Avete notato quanto è aumentato l’uso, soprattutto nei media, di espressioni come “sicuro”, “sicurezza”? e l’uso ossessivo, nelle situazioni più disparate, dell’espressione “mettere in sicurezza”?
Il paradosso delle campagne per la sicurezza è che il loro effetto collaterale è di aumentare il sentimento di insicurezza. Ma tutto questo non può non avere effetti anche sul modo in cui viene percepito il problema dei migranti. Più una società è impegnata in una ricerca ossessiva della sicurezza, più è destinata a mal digerire qualsiasi evento che appaia fuori controllo.
E’ la dialettica della protezione. Nella società italiana la paura dello straniero è stata certamente alimentata dalle campagne politiche anti-sbarchi e anti-Ong, ma non possiamo dimenticare che il terreno della paura era stato scrupolosamente concimato da due meccanismi, per certi versi opposti, che con Salvini nulla hanno a che fare. Il primo si ha quando chi deve proteggerti (governo) cerca di convincerti che le tue preoccupazioni sono infondate. Il secondo si ha quando chi vuole offrirti un prodotto o un servizio (pubblicità) cerca di convincerti che ti devi preoccupare. Il cocktail fra questi due grandi meccanismi della psicologia sociale, entrambi assai rigogliosi negli anni della crisi, ha reso altamente infiammabili le anime dei cittadini: è forse per questo che è bastato Salvini a farle prendere fuoco.