Sexting e revenge porn – Il dilemma della città vecchia

In questi giorni mi è tornato alla mente un episodio di oltre quarant’anni fa. Con i miei colleghi e colleghe sociologhe, per lo più provenienti da università del nord e del centro Italia, eravamo sbarcati in una importante città del Sud per partecipare a un convegno di sociologia. Appena arrivati in albergo, qualcuno ci avvertì: evitate la città vecchia, perché c’è il rischio di essere scippati e derubati.

Alcuni di noi, prevalentemente maschi se ricordo bene, accettarono di buon grado il consiglio e si limitarono a girare nei quartieri prossimi all’albergo, situato al di fuori della città vecchia. La maggior parte delle colleghe sociologhe, invece, non si fecero alcun problema ad avventurarsi nella città vecchia. Secondo loro non c’era alcun pericolo, era evidente che eravamo di fronte a un pregiudizio anti-meridionale, un pregiudizio che andava sfatato. Mai e poi mai avrebbero rinunciato a visitare la città vecchia e a fare shopping per uno stupido pregiudizio.

Al ritorno dal giro nella città vecchia, nessuna si presentò indenne: a tutte era stato sottratto qualcosa.

Perché questa differenza di comportamento? Dopo tutto eravamo sociologi sia noi, il gruppo dei prudenti (più maschi che femmine), sia loro, il gruppo delle audaci (più femmine che maschi).

Una risposta possibile è che ognuno ha una diversa propensione al rischio, nonché una diversa inclinazione a credere agli stereotipi negativi (l’immigrato che delinque, lo zingaro che borseggia, il meridionale sfaticato). Di fronte a un allarme, si può prenderlo sul serio o declassarlo a credenza infondata. C’è chi gli stereotipi li considera pre-giudizi, e chi pensa che talora siano post-giudizi, frutto dell’esperienza.

Ma credo non sia tutto. Nella reazione di chi dice “io nella città vecchia ci vado lo stesso” c’è anche una sorta di ribellione a un ricatto. È come dire: è mio diritto girare per la città vecchia senza essere aggredito, non lascerò che qualcuno mi tolga questo diritto. Insomma, per alcuni può essere anche una questione di principio: si va incontro a un rischio non perché lo si giudica del tutto inesistente, ma perché defilarsi significherebbe piegarsi a una prepotenza, rinunciare a qualcosa che nessuno è titolato a sottrarci. Di qui il dilemma: evitare il rischio e rinunciare a un diritto, o esercitare il diritto e correre il rischio?

L’episodio mi è tornato alla mente perché, nel mondo di oggi, il “dilemma della città vecchia” è diventato più attuale che mai, specialmente per le donne. Le scelte di abbigliamento, i modi di stare sui social, la selezione dei luoghi, delle compagnie e degli orari in cui muoversi in una città, sono tutte decisioni che riproducono il dilemma: se mi espongo affermo un principio, ma corro un rischio; se non mi espongo, evito il rischio ma rinuncio a far valere un principio.

Questo dilemma si presenta tipicamente in materia di sexting (condivisione di immagini sessualmente esplicite). E con speciale drammaticità per le ragazze più giovani, per le quali il sexting può essere una libera scelta, ma pure una pretesa indebita da parte di partner prepotenti e ricattatori. A valle di ogni atto di sexting, infatti, è sempre in agguato il rischio del cosiddetto revenge porn, ossia che qualcuno diffonda le immagini senza consenso, o anche semplicemente minacci di farlo per ottenere prestazioni sessuali, denaro, o altri favori.

Anche qui, a prima vista, sembra riproporsi il dilemma: rischiare per affermare il principio, o rinunciare per evitare il rischio?

Sul punto, credo che la posizione più saggia sia quella assunta dall’avvocata Francesca Florio nel suo libro Non chiamatelo revenge porn (Mondadori 2022). A suo parere, nessuno ha il diritto di stigmatizzare il sexting, e le persone che lo praticano non hanno ragione di vergognarsene; e tuttavia, nello stesso tempo, è molto pericoloso nascondere o minimizzare gli immensi rischi che con il sexting vengono assunti. Fare sexting solo per affermare il principio che si ha tutto il diritto di farlo è autolesionistico. E stigmatizzare chi – come mamme, genitori, educatori – lo sconsiglia vivamente è profondamente sbagliato. Perché la “città vecchia” esiste, e avventurarvisi solo per affermare la propria libertà può costare caro. Molto caro. Come può rendersi conto chiunque legga le tante, drammatiche storie splendidamente raccontate da Francesca Florio nel suo libro.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 aprile 2025]




In margine all’8 marzo – Sexting, trionfo del maschilismo

Se ripercorriamo i quasi 80 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, il cammino delle donne ci appare lastricato di conquiste legislative e di vittorie, alcune eclatanti e ben note, altre meno vistose ma non prive di importanza. Fra le prime: diritto di voto (1946), legge sul divorzio (1970, e referendum 1974), legge sull’aborto (1978, e referendum 1981). Fra le seconde: accesso ai pubblici uffici e alle professioni (1963), riforma del diritto di famiglia (1975), abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (1981), parità salariale (2010), contrasto alla violenza di genere (2013), codice rosso (2019).

Se però abbandoniamo il piano normativo, e ci interroghiamo sui cambiamenti effettivi della condizione della donna, il quadro si fa più complesso. Intanto, è difficile non vedere che, con l’importante eccezione del diritto di voto, la maggiore libertà di cui godono oggi le donne dipende assai più da processi sociali che da cambiamenti legislativi. Alla libertà sessuale, ad esempio, hanno dato un contributo decisivo la larga disponibilità di contraccettivi (e, con molti ostacoli, l’accesso alla “pillola del giorno dopo”). Quanto alla libertà economica, moltissimo ha fatto l’autonoma scelta delle ragazze di studiare, impegnarsi, ed entrare nel mercato del lavoro: se oggi per una donna è più facile separarsi o divorziare non è solo perché c’è una legge che lo consente, ma perché in tante, fin dagli anni ’70 e ’80, hanno preferito investire sullo studio e sul lavoro, piuttosto che sulla ricerca di un partner benestante. E i risultati si vedono: dal 1990, le ragazze superano sempre più ampiamente i ragazzi nella corsa alla laurea e, quanto alla scuola dell’obbligo, oggi non c’è una sola materia (nemmeno la matematica) in cui le ragazze non siano più preparate dei ragazzi.

Questi processi di emancipazione e di empowerment (come li chiamano gli psicologi), tuttavia, raccontano solo una parte della storia. Intrecciati ad essi, coesistono meccanismi e tendenze che investono in modo negativo la condizione della donna, e impattano in modo diverso sulle varie generazioni. Anche questi meccanismi  hanno a che fare con la libertà, ma in modo per così dire imprevisto: non come conquiste, ma – semmai – come effetti collaterali delle conquiste.

Una prima tendenza è la moltiplicazione del numero di donne che crescono i loro figli da sole, o comunque senza il padre. In una società in cui il numero di separazioni e di divorzi ha superato quello dei matrimoni, e in cui i giudici quasi sempre assegnano il figlio alla madre, si tratta di una conseguenza inevitabile. Una conseguenza che tocca soprattutto le madri della cosiddetta generazione X (1965-80), intermedia fra quella dei baby boomers (1946-1964) e quella dei millennials (1981-1996).

Una seconda tendenza, invece, ha a che fare soprattutto con le ultime generazioni (zeta e alpha), e più esattamente con quanti hanno attraversato l’adolescenza dopo il 2010. Queste due generazioni, da 10-15 anni stanno sperimentando – in tutto l’occidente – una drammatica esplosione di sintomi di sofferenza psicologica o esistenziale: depressione, stress, ritiro sociale, atti di autolesionismo, suicidi tentati e riusciti. Una crisi che investe con violenza la gioventù in tutte le fasce, ma colpisce in modo speciale le adolescenti.

Le cause sono ormai chiarissime, anche se enormi interessi economici e potenti forze psicologiche (e politiche) ostacolano un discorso di verità. Una impressionante mole di ricerche ha dimostrato che a mettere a repentaglio la salute mentale e la felicità di tanti ragazzi (e soprattutto ragazze) sono i vissuti di inadeguatezza che la pubblicità e i social alimentano in continuazione mediante i modelli di perfezione – soprattutto fisica ed estetica – che vengono fatti circolare in rete: un meccanismo infernale, al cui centro si trovano il materiale pornografico, che viaggia senza restrizioni, e la pratica del sexting (invio di testi, immagini e video – privati e non – sessualmente espliciti), che coinvolge un numero sempre più alto di adolescenti (ma anche di giovani e adulti).

Con milioni di persone che praticano il sexting (di cui 1/3 vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo), con milioni di ragazze e ragazze che passano una frazione sempre più alta della loro giornata sui social, e incautamente affidano ai like la costruzione della propria identità e auto-stima, non stupisce che psichiatri, psicanalisti e psicologi sociali denuncino l’esplosione – dopo il 2010 (anno di uscita dell’iPhone 4) – di un’epidemia di disturbi mentali e sofferenza psicologica. Un’epidemia che, non a caso, colpisce innanzitutto le ragazze, che della pratica del sexting e del revenge porn(diffusione di immagini osé per vendetta) sono le principali vittime, come tristemente insegnò a suo tempo il suicidio di Tiziana Cantone.

In queste circostanze, non si può non provare ammirazione per il lavoro di chi, come la giovane giurista Francesca Florio, mette in guardia e insegna come denunciare (suo lo splendido libro Non chiamatelo revenge porn), ma forse si dovrebbe pure sollevare un interrogativo: perché i maschi progressisti – anziché autoflagellarsi per ogni femminicidio compiuto da altri, e difendere il sexting di immagini private come pratica normale, se non come suprema manifestazione della libertà sessuale della donna – non si decidono a dire la verità?

Che è tanto amara quanto semplice: la produzione, condivisione, diffusione di immagini sessualmente esplicite è la forma più aggiornata e ubiqua di sopraffazione del maschio sulla donna.




Schiaffi, Sexting e libertà

Notizia. Il Tribunale assolve la madre che, nel 2016, aveva schiaffeggiato la figlia dodicenne che su Instagram aveva mandato foto osé a un diciannovenne.

Mi stupisce che una madre, otto anni fa, tirasse ancora schiaffi ai figli. Mi stupisce che si finisca in tribunale per aver tirato uno schiaffo ai figli. E mi stupisce che il giudice abbia oggi dato ragione alla madre.

  Non si fa più da anni di educare a suon di schiaffi. La sberla è stata abolita nell’uso comune familiare, rimpiazzata dalla lezioncina morale e dalla contrattazione eterna. La parola, il dialogo hanno vinto. Ti spiego perché hai sbagliato, voglio che tu capisca, non farlo più e chiudiamola qui. Oppure: tu figlio vuoi uscire, io ti dico di no, ti spiego perché, e poi accetto che tu esca a patto che mangi la minestra, studi storia, o altro.

Non so se sia un bene o un male. Dico solo che mi è capitato spesso di assistere a queste negoziazioni, e le ho trovate ogni volta estenuanti, e molto imbarazzanti per il genitore, il quale 99 volte su 100 finisce per capitolare acconsentendo all’iniziale richiesta del figlio: eh, mi prende sempre per sfinimento, dice il genitore. Lo schiaffo era più breve, certamente. Diretto, non ambiguo, e decisamente spiccio. Ma abbiamo deciso che appartiene all’era troglodita di quando c’era l’autorità, e pronunciare quella parola non era un delitto.

E ora invece che succede? I giudici danno ragione alla madre schiaffeggiante e non alla figlia schiaffeggiata. Dicono che esiste un “potere/dovere di educazione e correzione dei figli”. Certo, forse “ha ecceduto nell’impiego della forza per redarguire la figlia”, ma trattasi in ogni caso di episodio penalmente irrilevante. Insomma, i giudici ammettono lo “schiaffo educativo”, per così dire. Bene. Pendiamo atto. Lo schiaffo, così assolto, potrebbe tornare utile a quei genitori che, di fronte alla bocciatura del figlio, fanno ricorso al Tar o accoltellano l’insegnante: da oggi in poi potranno decidere di dare uno scappellotto al figlio che non ha studiato. Naturalmente non saranno esenti dalla giudicante e severissima comunità dei social.

Il punto però è che una ragazzina di dodici anni mandi in giro messaggi e foto osé a un diciannovenne. Non so se si possa, oggi, fermare una ragazzina e impedirle di usare i social per mandare foto osé. E non so se lo schiaffo sia il modo migliore, ma penso che la ragazzina andasse comunque fermata. Per due motivi. Uno riguarda la libertà e l’altro la questione femminile. Entrambe mi stanno parecchio a cuore.

Ricordo il suicidio di Tiziana Cantone, che fece molto scalpore. S’impiccò il 13 settembre 2016, a 33 anni. Aveva inviato dei filmati sui suoi rapporti sessuali a conoscenti che poi li avevano divulgati, e tentò invano di far rimuovere i video hard, invocando il diritto all’oblio. Ricordo che molti, dolendosi dell’accaduto, difesero comunque la pratica del sexting come gesto di libertà sessuale, dissero che filmarsi o fotografarsi in intimità e poi mandarsi video era assolutamente normale, e che solo una mentalità bigotta e bacchettona poteva condannare comportamenti come quello di Tiziana. Ricordo che pensai allora quel che penso adesso: una cosa è la libertà, un’altra è la prudenza. Prudenza come perfezionamento (e non riduzione!) della libertà. Vorrebbe dire non essere così arroganti e prepotenti da esigere una libertà assoluta e illimitata. Riconoscere che esiste il male ed esiste il caso, e che il mondo ideale purtroppo è solo un’utopia. Abbiamo tutto il diritto di passare sulle strisce pedonali senza guardare l’auto che arriva (va rieducato l’automobilista, non il pedone?), ma poiché esiste l’automobilista distratto e l’imprevisto, potrei ritenermi libero di passare sulle strisce ma al contempo essere prudente. Allo stesso modo, i social non sono il mondo ideale. Esiste il revenge porn, per esempio…

Questione femminile. Facciamo tanto oggi (e tanto abbiamo fatto ieri!) per combattere il potere maschile maschilista che ci riduce a meri oggetti sessuali, e poi noi donne, noi ragazzine, non troviamo di meglio che usare i social per gareggiare a chi si mostra più bella e più sexy, riproponendo noi stesse l’immagine della femmina preda del maschio? È questa la libertà che vogliamo?

Infine ci sarebbe la questione del pudore. Ma inutile parlarne. Parola sparita. Sentimento archiviato. Il pudore è démodé, e molto reazionario.