Dov’è sparita la scuola?

Sono tempi di sparizioni. Sono spariti da un po’ i pomodori col gusto di pomodoro, come aveva scritto Pietro Citati (anche le mele col gusto di mela, per quel che ne penso io). Sono sparite le videocassette, le sarte, il teatro radiofonico, i capelli cotonati, la lacca. Spariscono sempre più i generi letterari, le spiagge (mangiate dal mare), i ghiacciai (mangiati dal caldo). Spariranno forse a breve anche i libri con tutti gli annessi: scrittori, editori, librerie e biblioteche.

E la scuola, è sparita?

No di certo: essendo settembre, è ricominciata.

Sembrerebbe sparita, però. Non se ne parla più. Non se n’è mai parlato così poco, direi. Silenzio assordante. Da mesi e mesi, nel perenne stato di propaganda politica pre e post elettorale in cui viviamo, nessun candidato o leader dei vari movimenti o partiti ha mai fatto nemmeno un accenno, fuggevole, magari per errore, al tema scuola. A parte l’ex ministro Calenda, che ha più volte nominato in pubblico, mostrando grande coraggio, le parole istruzione, libri, lettura e, qua e là, persino la parola cultura. Eroico. Ha tutta la mia ammirazione. È l’unico, mi pare. Per il resto, tema completamente sparito. Non era nelle priorità per il paese, non era nell’agenda dei politici.

E, visto che i politici oggi fanno politica seguendo i like dei loro follower, dovremmo a malincuore dedurne che il tema scuola non interessa agli italiani, cioè a nessuno di noi. Può darsi. O a ben pochi, una componente elettorale tanto irrisoria che si può benissimo ignorare. Sì, è possibile che la maggioranza mandi i figli a scuola per una sorta di inerzia sociale e la consideri di fatto un’incombenza (nel senso che incombe) inutile e uggiosa nella vita dei figli, qualcosa di cui non vale più la pena nemmeno di parlare. Altri i temi scottanti del dibattito, televisivo e non, tutti economici, o al più moraleggianti: le tasse, le pensioni, la disoccupazione, lo spread; gli immigrati, gli sbarchi, l’accoglienza, le ONG.

Ma è settembre, e la scuola, come sempre, è ricominciata. Che dire?

Non sono più un’insegnante in servizio, e guardo ormai la scuola da una lontananza siderale. Per esempio, conosco poco le ultime novità, solo per sentito dire, non avendole esperite: il registro elettronico, l’alternanza scuola-lavoro, i cambiamenti dell’esame di maturità. Ma il tema mi sta sempre molto a cuore. Parlarne può essere di una sconcertante inutilità, lo so. Soltanto parole. Ma il non parlarne è il segno di una battaglia persa per sempre. Le parole non sono irrilevanti, se usate non a vuoto. Le parole sono idee. E senza idee si muore. Dunque, che il mio Paese non abbia più parole, e idee, sulla scuola mi fa un’enorme tristezza. Difficile fondare o rifondare qualcosa se non si parte dall’istruzione, dai libri, dallo studio, dall’esercizio del pensiero. Difficile far andare avanti il mondo se non si pensa a coltivare le menti degli esseri umani fin dalla loro tenera età. Età scolastica, appunto.

Ci sarebbe molto da dire, soprattutto se la scuola così com’è oggi non ci piacesse, se fossimo animati da qualche dubbio sull’ondata tecnologica, per esempio, o sulla dittatura dei test a crocette, e se volessimo che la scuola tornasse a essere un ascensore sociale, che muove i giovani dai piani bassi dove per nascita la sorte li ha collocati, ai piani alti dove un più alto livello di studi potrebbe farli arrivare. Sì, ci sarebbe molto da dire e molto lavoro da fare. Forse si potrebbe pensare, una buona volta, di cambiare drasticamente rotta…

Ma adesso, quest’anno per la prima volta, mi coglie una preoccupazione nuova. Ho letto sui giornali che alcuni insegnanti vogliono fare politica a scuola: insegnare l’antirazzismo, per esempio. L’antifascismo, l’antibullismo… La solidarietà, la convivenza civile, la democrazia…

Grandi valori, non c’è dubbio. Lodevoli propositi. Ma… Avrei qualche non piccola obiezione. Per dire, non credo che l’antirazzismo si possa “insegnare”, ecco. L’amore, la generosità, il rispetto, l’altruismo non s’insegnano. Non funziona in modo così scoperto, letterale, diretto. Non riesco a immaginare corsi per far innamorare qualcuno, o per convincerlo a convivere amorevolmente con una persona di altro colore e di altra cultura. Cioè, non è dicendo che non bisogna essere razzisti, e dicendolo con apposite conferenze di esperti, convegni psico-sociologici o prediche più o meno laiche, che otterremo che la gente non sia razzista. Credo anzi che la lezione morale, inevitabilmente retorica e pedante, possa addirittura in certi casi suscitare l’effetto contrario. Pinocchio, ricordiamolo, prende a martellate il Grillo Parlante.

Capisco la solitudine degli insegnanti, sempre più abbandonati a se stessi, ricattati dalla maleducazione di genitori e allievi, impigliati nella rete frustrante della burocrazia e nella rete tout court, dilacerati tra programmi vetusti e meravigliosi nuovi metodi, nonché ripetutamente gettati nei pentoloni bollenti dei corsi di aggiornamento. Capisco ancor di più che oggi gli insegnanti, di fronte alla decadenza culturale, morale e politica dell’intero nostro Paese, si sentano animati da nobili propositi educativi e vogliano in qualche modo dirigere al meglio gli animi. Migliorare l’umanità, cambiare il mondo, eccetera…

Ma far politica nelle scuole siamo sicuri che sia la via giusta?

Ho fatto il liceo negli anni ’70, e li ho visti da vicino gli insegnanti cosiddetti “politicizzati”. Arrivavano in classe come sul piede di guerra, e accantonando libri e registri cominciavano, infervorati, le loro concioni quasi fossero in piazza con le bandiere. Ne ho avuti alcuni che per tutto il triennio del liceo classico non hanno quasi mai (direi mai, affidandomi ai miei ricordi, ma non vorrei esagerare) fatto lezione. Voglio dire che per tre anni non hanno insegnato la loro materia!

Credo che ritenessero d’aver ben altri compiti, che quello di spiegarci le guerre puniche, le teorie kantiane o le formule di prostaferesi. Troppo banale, semplice, irrilevante.  Avevano materie più scottanti di cui parlarci: la Cina di Mao, i Khmer rossi in Cambogia, gli scioperi, i picchetti, le assemblee, la lotta operaia, gli scontri con i picchiatori fascisti. Probabilmente ritenevano, in buona fede e in ottemperanza alle loro più profonde convinzioni, che fosse molto più importante discutere di attualità e agitare le coscienze, che non insegnare nozioni ai loro occhi vetuste, astratte e atemporali, di matematica, filosofia o storia dell’arte. Hanno preferito fare politica, piuttosto che fare scuola. Usando inevitabilmente parole faziose, non neutre, non imparziali, per influenzare, per plasmare. Per indottrinare!

Non li ho mai perdonati. Perché non è vero che poi, negli anni, uno se le studia comunque, se vuole, le materie che non ha fatto a scuola. Non è vero. Quelle materie per me sono state perse per sempre, un buco irreparabile, una ignoranza che mi ha accompagnato tutta vita, sicuramente impoverendola.

Forse gli insegnanti dovrebbero limitarsi a far lezione. Ma dovrebbero farlo pensando che non sia una limitazione, anzi, dovrebbero pensare che il loro più vero impegno “politico” sia proprio questo: non privare i giovani della cultura, dar loro il massimo delle conoscenze, e al livello più alto possibile, perché questo li renderà “umani”.

Le parole di Inge Feltrinelli mi giungono da un’intervista televisiva, in questi giorni tristi dedicati al suo ricordo: “I libri non sono per imparare, per studiare. Sono per la vita”. Non saprei dirlo meglio. La vita di una persona, in tutta la sua pienezza e complessità, nutrita dai libri, dal sapere che diventa possesso personale, unico. Allora sì, in questo senso, la cultura rende davvero umano un essere umano. La cultura scolastica prima di tutto, che è quella che si acquisisce lentamente, negli anni dell’infanzia e giovinezza. Studiando, sì, le “materie”. Storia, geografia, fisica, arte, matematica, letteratura, chimica, filosofia. Dante, Keplero, Mozart, Van Gogh, Freud, Einstein… È leggendo i libri, è attraverso le opere dei grandi, scrittori, scienziati, artisti, che da studenti impariamo i valori più nobili. Ed è facendo lezione che, da insegnanti, incidiamo nella mente dei ragazzi, insegniamo loro – ma in modo indiretto! – a essere rispettosi, generosi, altruisti, misericordiosi… E non razzisti! Senza bisogno di parole dirette, faziose, predicanti. Parole troppo “piccole”, anguste, limitate: ancorate soltanto alla contingenza del presente.

La cultura apre a orizzonti temporali ben più vasti. È spazio senza confini. È parola non faziosa e non attuale. È libertà assoluta di pensiero.

 … e la poesia?

E la poesia, esiste ancora?

Sì, esiste. Non è vero che è morta. Si pubblicano ancora libri, ci sono collane, editori, autori. E ci sono premi, convegni, persino festival di poesia.

Dunque la poesia esiste.

Sì. Ma mi viene da pensare ai fuochi che si facevano in campagna per bruciare i legni, gli sterpi, i vari rimasugli di una vita contadina, che così come produceva, sapeva anche distruggere il superfluo, il pattume. Ora non c’è più la vita contadina, e comunque i fuochi in campagna sono proibiti. Ciò nonostante ogni tanto qualcuno che abita in campagna, o un po’ ai lati delle periferie, non sapendo cosa farne delle foglie secche, dei rami potati, accende un grosso fuoco. Magari verso sera, o all’alba di certi giorni particolarmente nebbiosi, perché siano poco visibili, perché nessuno se ne accorga.

Così è per la poesia. Non ci sono più le condizioni per cui si possa produrre poesia; non ci sono più lettori, per esempio. E forse non ci sono nemmeno più poeti; poeti grandi, dico, riconosciuti come tali. Ma qualcuno resiste, ai margini; qualche poeta sparuto, grande o piccolo lo sapremo poi o non lo sapremo mai, che se ne vive appartato e che quasi di nascosto scrive i suoi versi che chissà mai chi leggerà. Una o due poesie, o anche un librino vero, se ha fortuna di pubblicarlo, se trova un editore: allora fa un giretto sul palco di qualche festival e magari vince anche qualche piccolo premio.

Ne parlo con una mia grande amica, con cui ho condiviso studi e passioni letterarie per tutta la vita. Prendiamo un caffè, qualche giorno fa, e le chiedo che ne è della poesia, secondo lei, cosa fanno oggi i poeti.

Ci pensa un po’. Mi guarda con i suoi occhi piccoli e scuri, un po’ triangolari, poi risponde:

– Vanno a capo.

Folgorante. Già. La poesia è andare a capo a ogni verso. Ma se diventa soltanto andare a capo?

Non diciamo più niente. Lei mi sorride, io le sorrido. E ci finiamo il caffè.

Pubblicato su Il Sole24Ore del 1 ottobre 2018




Mettiamoli in castigo

Scenetta n. 1

Siamo in un bar molto elegante, un caffè storico nel centro di una grande città. Divanetti e poltroncine di velluto, boiserie, quadri ottocenteschi, specchi, tappeti, e gran carrelli di dolci e salati. Camerieri in livrea. Le cinque del pomeriggio.

Entra una giovane coppia con bambino, sui quattro anni. Molto carino, riccioli biondi, camicia a quadri, jeans. Si siedono a un tavolino, sorridenti. Loro, si siedono, i genitori. Il bambino no. Il bambino si allunga, si sdraia, si divincola, si contorce, sul divanetto e poi per terra, dove comincia a strisciare, va sotto le sedie, ne esce, si mette a correre tra i carrelli, urla, saltella, sbraita. Mamma e papà si alzano a turno, cercando di riprenderlo, domarlo, acquietarlo. Alla fine, in due, lo riportano al tavolino, ma non riescono a farlo sedere. Il bambino ricomincia a sdraiarsi, strisciarsi, scivolarsi…

La scena è, per me, molto penosa. Credo anche per quei due ragazzi sulla trentina, divenuti (loro malgrado, verrebbe da dire!) genitori.

La pena sta nel constatare che non ce la fanno. I due giovani genitori non riescono proprio: pur tentando in ogni modo, tenero e violento, mettendocela tutta, impegnandosi, falliscono miseramente. Alla fine accettano. Subiscono. Sopportano. In una parola, perdono la battaglia. Il bambino non si siederà mai, e loro se lo terranno accanto alla bene e meglio, trattenendolo per un braccio in modo che almeno non vada a correre tra i tavoli.

La pena sta nel fatto che vorrei che non accettassero la situazione. Vorrei che vincessero loro, o almeno che non facessero questa patetica figura mista di imbarazzo, vergogna, impotenza, rabbia e rassegnazione.

Il problema è che a mia volta non saprei né cosa dire né cosa fare, come comportarmi. Mi sento nei loro panni e, nello stesso tempo, mi sento contro, avversa, contrariata. E infinitamente triste.

Scenetta n. 2

Questa non la vedo con i miei occhi, me la raccontano.

Me la racconta una ragazza rumena che fa la babysitter presso una famiglia e deve badare a due bambini, 2 e 5 anni. Siamo sul pullman. Non so come attacchiamo bottone e lei si sfoga. Mi dice che non ne può più. Sta coi bimbi otto ore al giorno, i genitori non ci sono mai perché lavorano entrambi. Lei fa tutto in casa, stira, pulisce, fa da mangiare e sta con i piccoli, gioca, li mette a dormire, dà loro da mangiare. Un inferno. Ma non per l’eccesso di lavoro. È che mi picchiano, dice. Mi prendono a calci, mi tirano addosso sassi e mi insultano. Me ne dicono di tutti i colori, il più grande soprattutto mi urla sempre contro e mi dice Va’ via, brutta… (ometto la parola, perché non riesco nemmeno a scriverla). Giocano, lo capisco. Ma io non ne posso più. E ho paura, perché non mi obbediscono mai e ho paura che gli succeda qualcosa e poi ci vado di mezzo io.

Le chiedo se ha informato della situazione i genitori. Mi dice che lo sanno come sono i loro figli e le chiedono di aver pazienza; se lei raccontasse loro cosa succede veramente ogni giorno in casa, potrebbero dire che non è in grado di tenerli, e magari la licenzierebbero. E io non posso perdere questo posto di otto ore, non posso proprio.

Scendo alla mia fermata. La lascio lì, seduta su quel pullman, con la sua grossa sporta di tela in braccio, le braccia robuste abbandonate in grembo, che scoppiano nella camicetta troppo stretta, gli occhi persi lontano, credo al suo paese rumeno dove ha lasciato marito e figlio per venire a lavorare qui da noi.

Scenetta n. 3.

In pizzeria una sera come tante. Tavolata di amici quarantenni con figli, dai due ai dieci anni più o meno. Figli che disturbano, urlano, si agitano, schiamazzano, si alzano, corrono fuori, tornano dentro, si aggrappano alle vesti per chiedere, per avere, per tormentare. Solita scena di una sera al ristorante. Poi, di colpo, tutti i genitori tacitamente e “naturalmente” concordi piazzano un tablet ai loro pargoli. E tutto miracolosamente tace e s’acquieta. Regna di colpo una grande pace. E un silenzio ristoratore regna finalmente sovrano intorno a noi.

Scenetta n. 4

Fine degli anni ’70. Avevo poco vent’anni, più o meno, e cominciavo a fare le prime supplenze, un po’ ovunque: scuole medie, licei, istituti tecnici, in centro, in periferia, in provincia. Arrivo in una scuola media e, prima di entrare in aula, mi avvicina una bidella avvertendomi, con gentilezza e spavento: Guardi che l’ultima supplente l’hanno picchiata. Non ci possono credere, e mi tremano le gambe. Faccio un giro in corridoio e nei bagni, prendo tempo. Non so che fare. Poi, entro. Entro come una furia sbattendo i libri sulla cattedra e cominciando la mia lezione. Invento una lezione, credo sul mio poeta preferito. Non importa chi e come, l’importante è parlare subito, ancor prima di sedermi, senza nemmeno salutarli, parlare, inondarli di parole, delle mie parole. In breve, dire chi sono facendo lezione: sono un insegnante, insegno letteratura italiana, voglio vedere chi osa aggredirmi, aggredisco io voi, a colpi di poesie, faccio la voce grossa, vi anniento a furia di versi e di bellezza…. Qualcosa del genere, che oggi mi fa sorridere. Avevo vent’anni. Non voglio dire che questo sia il modo, oggi: era l’unico modo che io, ieri, avevo trovato.

Solo per dire che il problema esisteva già. Era il contorno, che era diverso, il mondo attorno, le famiglie, le istituzioni, la società, la politica, le biblioteche, i libri, le penne stilo…. Tutto. Diverso. Intorno.

Scenetta n. 5

Mi è capitato anche di recente di incontrare la… “maleducazione scolastica” (o bullismo?), tre anni fa, dunque in tempi molto recenti. Era il mio ultimo anno insegnamento. Ero quindi, si può dire, un’insegnante quasi anziana, in ogni caso una signora di una certa età, non più così agile e scattante, ecco. Una professoressa un po’ polverosa e appesantita. Mi danno un’ora di supplenza. In una quarta liceo, una classe non mia. Le supplenze sono il martirio del nostro lavoro: ti sbattono in una classe sconosciuta davanti a ragazzi sconosciuti a supplire una materia sconosciuta. E tu non sai che fare. Hai parecchie opzioni: puoi inventarti una lezione tua, puoi dir loro di lavorare alle loro cose, puoi interrogarli, sederti con loro a parlare o startene seduta a leggerti un libro. Ognuno decide quel che vuole, basta che “tieni” la classe. Qual è il problema? È che appena entri nessuno ti vede. O meglio, tutti fanno finta di niente, manco ti considerano. Così tu hai la sensazione di non essere entrato, anzi, di non essere. Ti siedi. Parli. Saluti, fai l’appello, dici qualcosa, chi sei, cosa insegni. Nulla. Il nulla. Allora ti innervosisci. Ti sale una collera, Provi a fare la voce grossa, ti parte qualche ordine, qualche divieto. Niente. qualcuno si volta e ti fa cadere addosso uno sguardo tra il pietoso e l’indifferente. Mi è capitato così, tre anni fa. Allora mi è partito un discorso dei miei, edificante moraleggiante, sul rispetto, l’autorità, la gentilezza, il ruolo, l’educazione, il dovere…. Un disastro. Poi, l’ora è passata. Perché alla fine le ore passano. Ne sono uscita a pezzi.

Ma qui è chiaro: chi fa supplenza non ha potere. Chi non ha potere non viene rispettato, perché dovrebbe? Il rispetto in sé, gratuito, non esiste. Io ti rispetto per paura, per convenienza. Ti rispetto se sei il mio insegnante titolare, che alla fine dell’anno mi dà il voto. Se no niente perché tu non sei niente.

Scenetta n. 6

Fine anni ’60. Facevo terza media in una scuola di periferia. Era il 1969. Avevano il grembiulino nero noi bambine, e i compagni la giacca e i calzoni corti al ginocchio, calzettoni e scarpe marroni allacciate. C’è un’ora di supplenza. Entra un professore che non sappiamo chi sia e cosa insegni. Fa lezione. Ci parla di Konrad Lorenz e dei suoi esperimenti con le anatre, ci spiega che cos’è la scienza che si chiama etologia. Nessuno di noi ne sapeva niente. tutti siamo stati ad ascoltare per un’ora esatta, in totale silenzio.

Trentasei anni dopo, nel 2005, scrivo un libro su una piccola anatra che appena nata non sa chi è, e scambia una pantofola per sua madre.  Quella lezione me la sono ricordata tutta la vita e di sicuro, magari inconsciamente, deve aver ispirato quella mia storia. Ancora oggi provo gratitudine per quel professore, di cui ricordo che indossava un cappotto blu scuro.

Cosa voglio dire? Che i tempi sono cambiati? No. Volevo solo parlare della gratitudine.

Scenette n. 6, 7, 8, 9…….

E veniamo all’oggi. Al caso ormai noto del professore di Lucca. A cui se ne aggiungono infiniti altri: studente che minaccia la prof di scioglierla nell’acido, banchi scaraventati per aria, insulti, genitori che prendono a calci e pugni l’insegnante del figlio. E altro, non mi dilungo.

Ho inanellato questa serie di scenette, così diverse e lontane tra di loro, perché credo che siano invece straordinariamente legate, e unite da un parola cruciale: autorità. È questo che non tolleriamo più, da una sessantina d’anni. Per ragioni ideologiche (l’autorità non è democratica, discrimina, colloca qualcuno in basso e qualcuno in alto). Ma anche per ragioni più esterne che attengono a quel che chiamiamo progresso: perché viviamo immersi nei social, in questo universo della rete che ci attrae in modo esorbitante e morboso.

Visto che abbiamo in odio qualsiasi forma di autorità, e anche la parola stessa, abbiamo smesso di educare. Educazione e autorità mi sembrano piuttosto legate. Abbiamo smesso di educare quando abbiamo rifiutato, consapevolmente e deliberatamente, il concetto di autorità. Abbiamo fermamente voluto, deciso, e perseguito con grande determinazione, questa dismissione dell’autorità. A partire dagli auctores in senso letterale: via gli autori grandi del passato, i classici e ogni ipse dixit, conta l’ultimo libro pubblicato, l’ultimo messaggino su twitter. Parità. Uguaglianza. Democrazia.

Certo, nei casi di bullismo tra ragazzi emerge anche il non rispetto dell’altro, l’assenza di ogni limite, il narcisistico parossismo dell’apparire e dell’occupare la scena del mondo, ad ogni costo. Ma il bullismo verso gli insegnanti è altro. È oltraggio all’autorità.

C’è un verbo che ho sentito pronunciare da un ragazzo, intervistato a proposito dell’episodio di Lucca: Non bisognerebbe permettersi, io non mi sarei permesso. Un tempo dicevamo: Ma come ti permetti? Ecco. Noi abbiamo permesso.

Abbiamo permesso che i nostri figli non obbediscano. Che i nostri studenti non studino (anzi, abbiamo persino smesso di dare ordini e di imporre doveri, così non c’è problema).

Non solo non educhiamo. Abbiamo anche permesso che i media e i social dominino le nostre vite.

E tutto questo inizia dall’inizio, questo è il punto: inizia quando un bambino nasce. Il punto cruciale è la famiglia, siamo noi, che oggi siamo gli adulti. Siamo noi genitori che decidiamo, di fronte al figlio appena nato, se lasciarlo piangere o no, se dargli o no uno scapaccione, se ficcargli in mano a due anni un telefonino, se rabbonirlo e placarlo con un filmato, un cartone, un videogioco, per essere lasciati in pace. Siamo noi che decidiamo di rimproverare o lasciar correre, punire o premiare o non fare nessuna delle due cose. Siamo noi che permettiamo che i figli ci saltino in testa mentre ceniamo, parlino mentre stiamo parlando noi, urlino, distruggano oggetti, insultino la madre, il padre e la babysitter, non facciano i compiti, copino dai compagni, non aprano un libro, non si alzino per far sedere un anziano, non salutino il vicino di casa in ascensore. Siamo noi che li promuoviamo anche se non studiano, che permettiamo che facciano il chiasso più inverosimile in classe mentre stiamo facendo lezione. noi siamo i primi a non essere rispettosi di noi.

Perché abbiamo permesso tutto questo?

Credo che sia perché ci fa comodo. Per quieto vivere. Ma ancor di più per lieto vivere: goderci la vita, prenderci i nostri piaceri in santa pace. Edonismo. Troppa fatica educare, pretendere, rimproverare, punire. Poco gratificante e autolesionista. Meglio lasciar perdere. Va bene, abbiamo di conseguenza figli e allievi ormai ingestibili. Selvaggi senza regole, cavalli imbizzarriti (Susanna Tamaro ha scritto proprio pochi giorni fa un articolo stupendo su questo tema: “I ragazzi selvaggi e il tramonto dell’educazione”). Ma pazienza, gli somministriamo lo zuccherino: un video, un cartone, gli mettiamo in mano un tablet, uno smartphone, e tutto si risolve. Loro si placano, scende il silenzio e noi possiamo cenare, guardarci un film, parlare con gli amici, berci una birra, farci un aperitivo in piazza, chattare in rete.

Le conseguenze di tutto ciò le abbiamo chiamate “bullismo”. Non dovremmo stupirci se uno studente prende a testate con tanto di casco da moto indosso un prof. Quel che sta succedendo è molto semplice: quei ragazzi non educati ora rivolgono la loro non-educazione contro di noi. Siamo noi le vittime. Ma siamo stai noi i carnefici, noi che li abbiamo privati di regole e valori, di divieti e limiti.  E ora non possiamo che tacere. Il professore di Lucca che non dice, non denuncia, occulta il fatto di cui è è vittima, la dice lunga. Silenzio. E non è nemmeno il silenzio degli innocenti, perché noi non siamo innocenti.

Siamo noi che abbiamo creato il “bullismo”. E ora ci inventiamo i modi per combatterlo. Geniale. Corsi. Convegni. Petizioni. Piattaforme dove lanciamo s.o.s. Petizioni. Centri anti-bullismo, associazioni, portali. Parliamo, discutiamo nei talk show. Auspichiamo leggi, provvedimenti ministeriali (da una ministra che sta rendendo obbligatorio l’uso dei telefonini in classe come strumento didattico?).

E non basta, facciamo ancora di più: ne parliamo a iosa! Occupiamo i giornali e i telegiornali, i siti, twittiamo e condividiamo, moltiplicando così a dismisura la notizia, espandendola all’infinito. Per esempio, a ogni edizione e riedizione di un tg, mandiamo in onda il video del prof oltraggiato. Così, se per caso qualcuno si fosse perso il video sul cellulare, se per disgrazia non fosse stato raggiunto dal solerte popolo del web, ecco che ci pensano i giornalisti, gli opinionisti, i signori del talk show.

Allora, già che tutto è video, vorrei vedere non solo il video dei ragazzi che oltraggiano un professore, ma anche il video in cui si prendono le loro responsabilità, rendono conto e chiedono scusa. E pagano per quel che hanno commesso. Pubblicamente, davanti a tutti. Se ogni cosa dev’essere mediatica, lo sia anche la sanzione, non solo l’ingiuria. Non occhio per occhio, dente per dente. Ma video per video.

E poi, anche, vorrei questo: tacere. Fare un po’ di silenzio. Passare sotto silenzio, invece di amplificare. Se uno su cento oltraggia un prof, non facciamone il protagonista, l’eroe da imitare. Ci sono gli altri 99. Diamo visibilità a questa moltitudine di ragazzi che vive come può, nel mondo difficilissimo che abbiamo noi approntato per loro, e che comunque dimostra ancora di possedere qualche valore, magari latente, magari soffocato e offeso. Rendiamo virale la virtù. Oscuriamo il marcio. Raccontiamo le storie buone, anche inventandole, invece di videoregistrare l’esistente spacciandolo per documento. Il mondo s‘inventa, non solo si descrive. Si inventa come lo si vuole, non lo si descrive per quel che è e basta. Finiamola con i messaggini e i video, siamo capaci di meglio. Per esempio usiamo l’arte e la letteratura, che sono da sempre lo strumento più nobile e più alto che l’uomo abbia trovato, il più umano e il più divino insieme, per cercare di cambiare il mondo.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 29 aprile 2018



Votate per il Patas!

È l’acronimo del Partito Anti Telefonini A Scuola.

Chi di voi s’iscrive?

Compassi e poesia

Se a scuola, come pare, vincerà Internet e tutti avranno il loro bravo telefonino in mano e (forse) anche un PC sul banco, sarà la fine delle cartolerie. Non serviranno più quaderni, biro, pennarelli, gomme, temperini, fogli protocollo, cartelline, righelli, squadre, goniometri, compassi, cartucce per la stilo. Si chiama smaterializzazione. Gli oggetti se ne vanno, si volatilizzano e noi restiamo sgombri, e privi.

Soprattutto veniamo privati di uno dei piaceri più belli della vita: andare in cartoleria a prendere personalmente gli oggetti che ci servono per la scuola.

(Parentesi. Come genitori, credo che dovremmo lasciare i nostri figli liberi di andare da soli in cartoleria, non accompagnarli e tanto meno comprare noi le cose di scuola o ordinarle su internet, seguendo l’arido elenco che i nostri figli ci hanno dato. Non sarebbe un servizio che facciamo loro, ma un torto. Più in generale, dovremmo smetterla di “servire” i nostri figli, bambini, adolescenti o adulti che siano. Dovremmo smettere di accompagnarli in auto ovunque, per esempio, perché andare a piedi e prendere il pullman sono due esperienze meravigliose e molto utili perché insegnano tre cose: guardare il mondo, accorgersi degli altri, e tenere in conto il valore del tempo).

Tornando al piacere della cartoleria, prendiamo un ragazzino di undici anni, a ottobre, appena entrato in prima media. Ha compiuto un grande salto, dalle elementari, e ora si sente già molto grande. È pomeriggio. Fa un po’ di compiti, fa merenda, e poi va in cartoleria. Prende il foglietto con l’elenco, si mette scarpe e giubbotto, esce. Va per le strade del suo rione, da solo. Ha in mente quel che deve comprare, sono le cose che i professori gli han detto di comprare, che gli serviranno per i suoi studi. È orgoglioso di essere già alle medie, di iniziare un corso di studi che gli è ancora ignoto ma che lo proietta dritto, a poco a poco, nel mondo degli adulti. È anche molto contento di andarsi a comprare delle cose che non sono futili, come i soliti giochi, videogiochi, aggeggi elettronici o pelouche; sono cose utili, che davvero deve comprare, ha l’obbligo perché gli servono. È una differenza molto importante, di cui stiamo perdendo un po’ coscienza: comprare cose che ci sono utili conferisce al gesto di comprare una ragione moralmente ineccepibile, nonché la piacevole sensazione di non sprecare i soldi. Sensazione piuttosto rara, oggi, in una società abituata a comprare cose di cui si potrebbe benissimo fare a meno.

Insomma, il ragazzino entra. E qui vorrei che nel negozio ci fosse un lungo bancone, dietro il quale ci fosse una commessa gentile che gli chiede cosa gli serve, gli mostra i vari articoli e, se è il caso, lo indirizza nelle scelte. Lo so che non funziona più così: uno entra ed è libero di gironzolare tra gli scaffali e prendersi quel che vuole, poi va alla cassa e paga. L’abbiamo chiamata “libertà”. Lasciar libero il cliente, non opprimerlo, non aggredirlo appena entra con la domanda, invadente e violenta: Cosa desidera? L’abbiamo chiamata libertà e salutata come un miglioramento, lo so. Ma avremmo dovuto chiamarla “solitudine dell’acquirente”. È bellissimo, invece, che qualcuno appena entriamo ci chieda cosa siamo venuti a comprare e ci aiuti a districarci nella selva delle migliaia di prodotti e varianti. È bellissimo perché possiamo parlare con quel qualcuno, e non sentirci troppo soli. Magari chiediamo un compasso, ed è possibile, soprattutto se abbiamo undici anni, che sia la prima volta che vediamo un compasso. Siamo venuti a comprarlo perché il professore ci ha dettato sul diario: compasso, ma non sappiamo bene che cosa sia, a che cosa ci servirà, non abbiamo un’idea chiara di come si usi, e ora siamo lì a comprare il primo compasso della nostra vita, e per fortuna abbiamo davanti una signorina gentile che ce ne mostra vari modelli, apre gli astucci e ci fa vedere le differenze, dal compasso basic nell’astuccio di plastica che costa meno fino al compasso super con decine di accessori, ognuno incapsulato nella sua sede dentro l’astuccio, imbottito di velluto, che costa ovviamente più caro. È una fortuna che ci sia, davanti a noi, quella gentile commessa. Così noi guardiamo allibiti, estasiati, quel compasso che di colpo assurge a simbolo della vita che verrà, di cosa faremo da grandi, o meglio di cosa diventeremo di lì a pochi mesi, alla fine della prima media, quando sapremo usare benissimo un compasso, e lo useremo per anni, sempre meglio, facendo operazioni sempre più complesse. Di colpo, lì, in quella cartoleria, abbiamo il lampo di quel che saremo, e di come andrà la vita, e anche finalmente di che cos’è la scuola. E ci verrà anche una gran voglia di andarci, a scuola, per anni e anni, per diventare qualcuno che sa fare bene qualcosa. Per diventare. Per essere, cioè, quel che saremo, ovvero quel che in fondo  siamo già senza saperlo.

È diverso se, invece, ci dirigiamo al reparto cartoleria di un immenso ipermercato e, davanti al settore Compassi, ne prendiamo più o meno a caso uno e corriamo a pagarlo alla cassa. O se il compasso ci arriva pe posta o ce lo compra nostra madre e ce lo mette davanti la sera a casa, con l’aria soddisfatta come a dire: e anche questa è fatta, che madre efficiente sono!

Non ho la minima idea se si usi ancora il compasso a scuola, e se qualcuno vada a comprarlo in cartoleria all’inizio della prima media. Ma credo che, se a scuola vincerà Internet, i cerchi li faremo con una app geometrica che ce li disegna, o con un sofisticato programma che ci avranno insegnato a “scaricare”. Se così fosse, non saremo, in breve, più capaci a usare un compasso, non sapremo forse nemmeno più che cosa sia un compasso: quindi ci sarà impossibile capire una delle più belle poesie d’amore di tutta la nostra letteratura, A Valediction: Forbidding Mourning di John Donne. Là dove il poeta parla dell’amore lontano e, per dire l’infinita sofferenza e al tempo stesso il senso assoluto di unione che ci prende quando amiamo e siamo lontani dalla persona amata, usa l’immagine metaforica dei due bracci di un compasso, che piegano l’uno sempre più distante dall’altro, ma sempre sono uniti al centro, dal perno che li tiene, dalla mano che li muove.

Non sapendo più cosa sia un compasso, non capiremo niente di questa poesia. E finiremo col non leggerla più. E John Donne sarà morto per sempre.

Compassi e telefonini

Intanto, proprio in questi giorni, la commissione di esperti voluta dal Ministero ha chiuso i lavori e redatto il decalogo per l’uso dei telefonini in classe. Leggo dai giornali che si potranno usare foto e video per documentare una gita, tracciare percorsi col Gps per conoscere una città, fare riassunti via twitter, andare su Minecraft…

Capisco che parlare di compassi, cartolerie e John Donne non abbia più tanto senso…

Mi chiedo solo perché continuiamo, nella scuola, a insegnare ai ragazzi quel che sanno già fare, quel che appartiene già al loro mondo e quindi conoscono forse anche meglio di noi (insegnare ai nativi digitali come si naviga in Internet sarebbe come insegnare ai figli dei contadini come si pota un melo), invece di insegnare cose che siano davvero nuove per loro, che appartengano a universi a loro sconosciuti: perché non insegniamo e a entrare in mondi complessi come la letteratura e l’algebra, invece che a entrare in GoogleMaps?

Mi chiedo anche se qualcuno protesterà, genitori, professori, filosofi, scrittori, opinionisti. Magari anche allievi… Già. Mi chiedo se i ragazzi, poi, siano così d’accordo a usare anche nelle ore scolastiche lo smartphone, visto che lo usano già nel resto della loro giornata. Non verrà loro a noia? Non potrebbero preferire distrarsi, di-vertirsi, con qualche bel libro, magari commentato dalla viva voce del loro insegnante che fa (ancora) lezione?

Paride e le elezioni

Siamo immersi in una campagna elettorale strana, forse la più abominevolmente stravagante che ci sia mai capitata. Una campagna elettorale di partiti-piazzisti, di politici-commercianti che urlano i loro prodotti e le loro offerte strabilianti. Un bazar, un supermercato, in cui noi elettori, temo, voteremo per chi ci promette in regalo il “prodotto” che più ci sta a cuore. Noi sceglieremo il regalo, non un’idea del mondo o una visione della società. Il nostro voto non sarà né ideologico né identitario: sarà biecamente “economico”. Sceglieremo il regalo più costoso, o più comodo, o più attraente: avere un bonus bebé, non pagare il bollo auto, andare in pensione quando si vuole, pagare meno tasse, non pagare il canone TV, ricevere una dentiera gratis, una tessera per il teatro, una cassa di vino, un panettone a Natale…

Mi torna in mente Paride, l’oscuro pastore (in realtà figlio del re di Troia!) designato a decidere chi tra le tre dee sia la più bella. Non sa a chi dare la mela d’oro, tra Atena, Era e Afrodite. Non sa valutare la bellezza. E infatti non sceglie la più bella: sceglie il dono, quindi la dea che gli promette il dono che più lo attira. Sceglierà Afrodite, perché gli promette la donna più bella del mondo.

Così faremo noi elettori, a queste elezioni così aliene. Non sceglieremo il partito che ci sembra migliore. Forse come Paride non sappiamo nemmeno valutare quale sia il migliore, e non sapremmo a chi dare la mela con la frase incisa: “al più bello”. Sceglieremo non il partito più bello, ma il partito che ci promette il dono più bello.

Ecco perché nessuno parla di scuola (meno che mai di telefonini a scuola!), in questa campagna elettorale. Nessun partito, nessun politico fa una proposta, ha in mente qualcosa per migliorare l’istruzione. Al massimo sentiamo parlare genericamente del tema scuola come di un tema molto importante per il nostro Paese, per la crescita, la democrazia, per l’uguaglianza, e blablabla…

Certo! La scuola non è un bene commerciabile, non può far parte dell’elenco dei doni “economici” che un partito promette al suo elettorato. Non è merce di scambio. Potrebbe mai un partito, per esempio, proporre di mantenere l’attuale divieto dei telefonini nelle scuole (divieto in atto in molti Paesi europei, peraltro…)? E che regalo elettorale sarebbe? Chi mai darebbe la mela d’oro a un partito del genere?

Paride, come sappiamo, causò la guerra di Troia. Dieci anni di morti e disgrazie.

Che fare? Fondare immediatamente un partito anti-telefonino-a-scuola, il PATAS?

Articolo uscito su Il Sole 24 Ore del 28 gennaio 2018



Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017



Nuovi emigranti

Ha suscitato qualche preoccupazione il quadro dell’Italia dipinto da un recente rapporto dell’Ocse sullo stato dell’istruzione nelle società avanzate. Pur lodando riforme che qui suscitano minore apprezzamento, dal Jobs Act alla Buona scuola, l’Ocse mette il dito sulla piaga: da noi i laureati sono pochissimi (appena 1 giovane su 5), gli stipendi sono decisamente bassi, i disoccupati sono tantissimi, anche perché i giovani italiani si ostinano a laurearsi in discipline che hanno poco mercato, come la maggior parte di quelle umanistiche. E, comunque, in generale gli studenti italiani risultano molto indietro nei confronti internazionali (i famosi test PISA) in competenze critiche come lettura e matematica.

Di qui, sempre secondo l’Ocse, avrebbe origine il ristagno della produttività, del Pil e quindi dell’occupazione. Se il nostro paese non cresce, è perché si è instaurato un circolo vizioso fra la domanda delle imprese, che tiene in scarso conto i laureati, e l’offerta di lavoro, che risponde in modo bifronte: sempre meno giovani italiani proseguono gli studi oltre il diploma, sempre più sovente chi riesce a laurearsi sceglie l’emigrazione all’estero (la cosiddetta “fuga dei cervelli”). Una diagnosi da cui scaturisce la solita ricetta, cui nessuno si sente di obiettare: più istruzione, più istruzione, più istruzione, secondo il mantra coniato da Tony Blair giusto vent’anni fa (Education, education, education).

Premesso che si tratta di temi complicati, e che nessuno è in grado di ricostruire con certezza quali sono i meccanismi che governano le scelte dei giovani e quelle delle imprese, vorrei almeno insinuare qualche dubbio su questa diagnosi e sulla relativa terapia.

Il primo dubbio è questo: siamo sicuri che la stagnazione dell’economia italiana dipenda così strettamente dalla scarsità di figure professionali qualificate? Dico questo non solo perché, per circa mezzo secolo (dal 1945 al 1995), un ritardo in termini di istruzione ancora maggiore di quello di oggi non ha impedito all’Italia di crescere a ritmi molto elevati, superiori alla media dei paesi Ocse, ma perché sono talmente tanti e gravi i fattori diversi dalla bassa istruzione che secondo tutti gli studi azzoppano la crescita, dalle alte tasse sulle imprese a una burocrazia soffocante, che mettere sul banco degli imputati il cosiddetto capitale umano ha tutto il sapore di una forzatura, quasi un diversivo per non concentrarsi sui problemi veri, la cui soluzione richiede purtroppo interventi molto più radicali e dolorosi.

C’è anche un secondo dubbio, però. Se la qualità della nostra scuola è così bassa, come si spiega il fatto che tanto spesso i giovani italiani che emigrano all’estero intraprendano brillanti carriere e ottengano grandi riconoscimenti? E come conciliare il fatto che, quasi invariabilmente, i nostri studenti liceali che frequentano un anno di scuola all’estero, ritornano stupefatti per il basso livello degli studi dei loro coetanei stranieri?

Una possibile spiegazione è questa. La nostra scuola e la nostra università, oltre ad essere gravemente sottodotate di strutture materiali e organizzative, sono anche arretrate nei percorsi di studio, che restano relativamente tradizionali nei metodi (lezione frontale, studio teorico) e nei contenuti (programmi poco cambiati rispetto al passato). Questo certamente le svantaggia nei test PISA, che sono concepiti per sistemi scolastici più modernizzati, ma crea anche un curioso fenomeno di polarizzazione delle capacità. Da un lato, agli studenti che non hanno voglia o capacità di studiare, ma al tempo tesso non intendono rinunciare al pezzo di carta, è spessissimo offerta la possibilità di conseguirlo pur essendo sprovvisti delle conoscenze e competenze che quel diploma certifica. Dall’altro, agli studenti (ma più spesso: alle studentesse) cui piace lo studio (non più di 1 su 3, secondo la mia esperienza), è offerto un percorso che, specie nelle scuole del centro-nord, li può portare molto in alto nella padronanza delle materie che la scuola e l’università insegnano.

Un fenomeno, questo, di cui esistono indizi anche nei test Pisa, che mostrano un enorme divario fra gli apprendimenti delle scuole del sud e quelle del centro-nord, con le prime molto al di sotto della media Ocse, e alcune delle seconde un po’ al di sopra. Può accadere così che un laureato italiano che ha frequentato una buona università o politecnico, spesso collocato nel centro-nord, possa rapidamente trasformare in un vantaggio lo studio “troppo teorico” che ha compiuto in Italia, arricchendolo con le esperienze pratiche che il lavoro comporta (un percorso, sia detto per inciso, che è molto più difficile compiere il cammino a ritroso, colmando sul posto di lavoro basi teoriche insufficienti). Del resto, pure di questi percorsi esistono indizi statistici. Quando si parla della fuga dei giovani italiani all’estero, un fenomeno che è esploso in questi ultimi 10 anni, tendiamo a pensare a una massa di giovani con titoli di studio elevati: in realtà i laureati sono meno di 1 su 3, e provengono prevalentemente dalle regioni del centro-nord, quelle che secondo le statistiche hanno le scuole e le università migliori.

Ed ecco l’ultimo dubbio. Perché i giovani italiani hanno cominciato a fuggire all’estero? Le statistiche, e gli esperti, suggeriscono che la crisi, con la distruzione di due milioni di posti di lavoro, abbia avuto un ruolo importante. Ma l’esperienza diretta racconta anche un’altra storia: se quelli che se ne vanno sono spesso i migliori è perché il talento è l’unica risorsa che, in Italia, non si può spendere se non si ha anche un santo protettore, una rete di conoscenze, un’entratura nelle stanze che contano. E i nostri giovani questo l’hanno capito: un curriculum in Italia ha alte probabilità di essere cestinato, all’estero viene letto e preso in considerazione.

E’ forse questo, più che la mancanza di investimenti in istruzione, il male oscuro del nostro Paese.

Pubblicato su Panorama l’11 ottobre 2017