Perché gli insegnanti non sono più autorevoli?

Gli insegnanti devono tornare a essere autorevoli: come non condividere l’auspicio del ministro Valditara?

Forse però sarebbe utile riflettere anche sulle ragioni per cui la maggior parte degli insegnanti, a tutti i livelli, hanno perso autorevolezza rispetto a quella che potevano avere negli anni ’50 e ’60. È un discorso urticante, ma va fatto. A costo di scatenare l’ira di tutti: docenti, studenti, genitori.

Partiamo dai docenti. Un motivo, banalissimo, per cui un docente di oggi è meno autorevole di uno di 50 anni fa, è che è meno preparato. Spesso molto meno preparato.

E questo per elementari ragioni demografiche. I docenti sono un’élite intellettuale, ma se ne devi reclutare 1000 anziché 100 è inevitabile che il livello di preparazione e di talento dei reclutati sia significativamente più basso. Dagli anni del dopoguerra  a oggi il numero di docenti delle scuole secondarie superiori e dell’università è quasi decuplicato, mentre la popolazione italiana è cresciuta relativamente poco (un po’ meno del 30%). A ciò si aggiunge il fatto che gli standard di preparazione richiesti dalla scuola si sono progressivamente abbassati. Gli insegnati di oggi hanno frequentato scuole meno esigenti di quelli di ieri. Possiamo stupirci che a una minore preparazione media corrisponda una minore autorevolezza? Gli studenti di una classe capiscono al volo se un docente è ferrato nella sua materia o ha solo un’infarinatura. E si comportano di conseguenza.

Passiamo agli studenti. Oggi i poveri infelici docenti si trovano davanti ragazzi che, tipicamente, non sono stati allenati dai loro genitori a differire la gratificazione, né a obbedire agli adulti, né a rispettare il prossimo. Tendenzialmente, lo studente medio di mezzo secolo fa era “pre-lavorato” dalla famiglia, lo studente di oggi è semmai “dis-educato” dalla famiglia. Eppure dovrebbero saperlo, le famiglie, che insegnare l’autocontrollo, la disciplina e la costanza è cruciale per la crescita dei figli. Diversi studi ed esperimenti suggeriscono che è necessario farlo (perché prima dei 25 anni la corteccia prefrontale è ancora poco sviluppata), e che – se non lo si fa – si rischia di ridurre le chance future dei figli nella vita e sul mercato del lavoro. Di nuovo: possiamo stupirci che, con una massa di scavezzacolli iper-cinetici attaccati 4 o 5 ore al giorno a internet (sto esagerando, ma serve a rendere l’idea), i docenti abbiano qualche problema a farsi, non dico rispettare, ma anche solo ascoltare mentre fanno lezione?

Infine, i genitori. Ho lasciato per ultima la minaccia più grande all’autorevolezza dei docenti. Fino a 20-30 anni la scuola si reggeva su un patto di alleanza non scritto fra genitori e insegnanti. Se un insegnante dava un brutto voto, una nota, una punizione a un ragazzo, di norma i genitori stavano dalla parte dell’insegnante. Solo in circostanze particolarissime e gravissime poteva accadere che un padre e una madre andassero, non dico a picchiare il docente, ma nemmeno a protestare. Il docente  sapeva che, una volta che il ragazzo fosse arrivato a casa, sarebbe stata la famiglia a completare il suo lavoro educativo.

Oggi non è così. I genitori, da alleati degli insegnati, si sono trasformati in sindacalisti dei figli. Il docente sa che, per ogni brutto voto o punizione che dà, incombe la possibile sfuriata dei genitori. Come sa che, se non altro per non perdere l’utente, il preside si sentirà in dovere di essere molto comprensivo con i genitori che si lamentano. E magari, anziché convocare il ragazzo che ha preso una nota, convocherà il docente che ha osato dargliela.

E non è tutto. Il docente sa pure che, al momento degli scrutini e degli esami, le pressioni dall’alto per promuovere tutti o quasi tutti si faranno fortissime. E che dietro quelle pressione c’è una cosa sola, lo spettro, incubo o spada di Damocle di tutti i commissari di esame in tutti gli ordini di scuola e in tutti i concorsi: il RICORSO al Tar.

Questa metamorfosi, la trasformazione dei genitori in sindcalisti dei loro pargoli, è avvenuta circa 20-30 anni fa, ossia ben dopo il ’68 e le relative gesta. Credo che sottovalutiamo l’importanza di questo passaggio. Perché l’alleanza genitori-docenti non è un optional, ma è il prerequisito minimo perché le istituzioni educative funzionino.




Il pasticcio degli esami di maturità in Emilia-Romagna

L’8 giugno scorso il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha emanato un’ordinanza, la n. 106, con cui sono stati disposti per le aree alluvionate dell’Emilia-Romagna esami di stato conclusivi del primo e secondo ciclo di istruzione in forma agevolata. La valutazione per gli studenti residenti nelle zone interessate è stata così affidata a un solo colloquio, che, nel caso della “maturità”, integra momenti di accertamento relativi all’italiano e alla materia di indirizzo su cui si sarebbero dovute effettuare le prove scritte, ora eliminate.

Pare che la misura sia stata sollecitata da studenti, sindaci e dal presidente dell’UPI (Unione delle Province d’Italia), Michele De Pascale. Di fronte al manifestarsi nel mondo della scuola delle prime reazioni di dissenso, il ministro ha poi spiegato come non avrebbe agito da solo, ma sulla base di una scelta condivisa, all’interno di una “cabina di regia” tenutasi il 7 giugno, con l’Ufficio scolastico regionale e lo stesso Presidente della Regione, Stefano Bonaccini. La circostanza, mai smentita dai diretti interessati, è divenuta tuttavia piuttosto opaca in seguito alle dichiarazioni rese dall’assessore regionale alla scuola, Paola Salomoni, che fin dal 13 giugno, consapevole delle criticità e delle proteste via via emerse, ha più volte sottolineato che «i contenuti della modalità di svolgimento della Maturità sono di competenze esclusiva del ministero e Valditara le ha utilizzate senza mai coinvolgere la Regione» (“Repubblica Bologna”, 21 giugno). Come dire: se qualcosa del genere il territorio aveva chiesto, non era però certo quello che il ministro si è risolto a dare.

Quale sia stato il processo deliberativo alla base della scelta ministeriale è questione non secondaria, dal momento che è divenuto chiaro fin dai primi istanti come una vasta platea, forse la maggioranza, dei suoi destinatari non avesse desiderato tale agevolazione, né avesse intenzione di ricorrervi una volta decretata. Già il 9 giugno, infatti, la studentessa romagnola Maria Elena Merlo lanciava su change.org una petizione (Scritti anche in Romagna) che in poche ore raggiungeva oltre 1000 firme. Nel testo si evidenziavano dati di fatto inoppugnabili: il fenomeno alluvionale del 17 maggio è giunto a due settimane dalle fine delle lezioni e, quindi, non ha potuto compromettere in alcun modo la preparazione dei maturandi (la legge prevede, del resto, che i programmi d’esame siano conclusi e resi pubblici, con documento del consiglio di classe, entro il 15 maggio); gli scritti sono un banco di prova essenziale per competenze altrimenti difficilmente accertabili; la seconda prova negli indirizzi tecnici e professionali ha spesso carattere pratico e non può essere surrogata all’interno di un prova solo orale. La petizione, che vale di per sé un’attestazione di “maturità” per la studentessa che l’ha concepita, si concludeva ricordando come «dopo l’emergenza del Covid, che per più di due anni ci ha privato del contatto, della scuola intesa anche come “comunità”, di ogni aspetto relazionale dell’essere studenti, quest’anno finalmente abbiamo potuto vivere un ritorno pieno alla normalità, di cui l’Esame di Stato era uno dei simboli più evidenti. Questo provvedimento, per quanto pensato per agevolarci, ci ripiomba in qualche modo a quei giorni di privazioni e di anormalità e, in questo caso, senza una reale emergenza».

C’è da chiedersi, dunque: si è forse ecceduto nell’assegnare all’alluvione effetti così catastrofici da farne discendere una riduzione dell’esame di stato, come nei precedenti citati dei terremoti dell’Emilia e de L’Aquila? Il ministro, l’amministrazione scolastica territoriale e le altre autorità coinvolte hanno peccato per eccesso di zelo? Si è trattato di un atto di “buonismo” non richiesto, o addirittura di un caso di deprecabile demagogia politica?

Astenendosi dai giudizi e restando ai fatti, si deve constatare che l’impatto della calamità naturale sulla vita di insegnanti e studenti è stato in realtà assai differenziato, spesso anche all’interno dei confini di un medesimo comune, a seconda dei quartieri e persino delle strade. L’ordinanza tuttavia ha fatto di tutta l’erba un fascio, utilizzando la ricognizione topografica effettuata dalla Regione per censire danni a colture, attività produttive, case e viabilità quale strumento idoneo a constatare un universale e identico stato di bisogno per il sistema dell’istruzione e dunque la necessità dell’esonero per tutti – circa 7000 persone, pari al 20 per cento dei maturandi emiliano-romagnoli – dagli esami nella loro forma ordinaria. Il Ministero, in altre parole, si è rifiutato di affidare all’autonomia degli istituti scolastici la facoltà di individuare, sulla base dell’autocertificazione della loro residenza, gli studenti che intendessero avvalersi della facilitazione (soluzione di buon senso proposta, per esempio, da molti dirigenti scolastici del bolognese, con circolari emanate il 9 giugno). Al contrario, ha centralisticamente preteso di affermare la tassativa obbligatorietà del regime agevolato, sulla base di un’asserita, ma mai dimostrata, impossibilità tecnica di garantire ai singoli residenti delle aree alluvionate una facoltà di opzione tra la forma ordinaria d’esame e quella semplificata.

È qui che si è aperto un grave vulnus. Il ministro, per alleviare la situazione di chi dopo il 17 maggio non aveva potuto più dedicarsi alla scuola e allo studio, ha di fatto sottratto a chiunque – anche a quanti avevano perduto pochi giorni di frequenza, o magari nessuno, e non si consideravano danneggiati dalla calamità quanto al loro percorso scolastico – la possibilità di cimentarsi nell’esame secondo le forme alle quali si era lungamente preparato durante l’anno (le stesse “simulazioni” delle prove scritte si erano già tenute negli istituti, come previsto, generalmente tra aprile e la prima decade di maggio).

Il vulnus si è rivelato poi particolarmente doloroso nei casi in cui, come nel territorio bolognese, molte scuole site in zone non alluvionate sono frequentate da studenti di aree pedecollinari, montane o di pianura colpite dall’alluvione. Questi studenti, così, in virtù dell’ordinanza sono stati separati dai loro compagni di classe, che risiedendo in area non alluvionata hanno svolto, come il resto d’Italia, le prove scritte nei giorni 21 e 22 giugno. Proprio in quei giorni, come si suol dire, rituali, in cui la carriera scolastica si conclude e ci si avvia all’età adulta, intere classi sono state spezzate: gruppi significativi di 4-5 (talvolta 10) studenti per classe sono stati tenuti fuori dagli edifici pubblici, resi oggetto di divieto, a prescindere dalla propria volontà, di entrare in aula e sedersi a fianco dei loro compagni di cinque anni. Dopo il danno dell’alluvione, dunque, la beffa di un’ordinanza ministeriale!

Gli insegnanti delle scuole del bolognese hanno denunciato a più riprese, inascoltati, la forzatura e i guasti, le difformità amministrative e il rischio di contenzioso a cui il Ministero stava spianando la strada. Anche alla luce del fatto, davvero abnorme sotto il profilo giuridico, che l’ordinanza è intervenuta a modificare le modalità d’esame il giorno 8 giugno, a scuole chiuse e a scrutini d’ammissione già avvenuti. Come dire: i maturandi, benché “alluvionati” sono stati valutati il 7 e l’8 giugno dai loro consigli di classe e giudicati idonei a svolgere un esame secondo modalità ordinarie (ex OM n. 45 del 9 marzo 2023), ma hanno appreso dopo poche ore, il 9 giugno, che quelle modalità, solo per loro e indipendentemente dalla loro volontà, non esistevano più.

L’eco di queste denunce ha faticato a uscire dalla dimensione locale, raggiungendo risonanza nazionale solo grazie a “Il Messaggero” del 18 giugno (Romagna, prof e studenti contro la mini-maturità), ad una lettera di una studentessa diffusa da “Il Sole 24 Ore” del 19 giugno (La pretesa di farci rimanere bambini) e ad un commento di Nadia Urbinati sul “Domani” del 21 giugno (Il disastro delle buone intenzioni). Questi titoli riassumono bene i nodi cruciali di una vicenda in cui il ministro ha preso le sue determinazioni senza consultare chi – prof, studenti e presidi – vive tutti i giorni quel complicato mondo sociale che è la scuola pubblica, manifestando per giunta una desueta attitudine paternalistica e un’ostinazione capace di trasformare una lodevole esigenza di soccorso in una stolida imposizione autoritaria.

Resta infine da chiedersi che spazio sia stato riservato questa volta al “merito”, che Giuseppe Valditara ha voluto incidere a chiare lettere nella nuova denominazione del Ministero. Gli studenti che sono stati defraudati delle loro legittime aspettative a sostenere un esame normale, in cui mostrare il proprio valore in ambiti fondamentali come quelli dell’analisi e produzione testuale o delle discipline caratterizzanti il loro specifico corso di studi, hanno subito un’ingiustificabile discriminazione, in contrasto con quell’articolo 34 della Costituzione in cui il diritto fondamentale alla progressione fino ai “gradi più alti degli studi” è riconosciuto precisamente ai “capaci e meritevoli”.




Sull’inattualità di don Milani

Inevitabilmente, in questi giorni in cui ricorre il centenario della nascita di don Milani, si moltiplicheranno le celebrazioni del suo pensiero, della sua opera, della sua perdurante attualità. Non so se sia il modo giusto di ricordarlo, se sia questo il modo migliore per onorare i grandi del passato. Provo sempre un po’ di disagio, quando un autore classico viene usato per fargli dire quel che piace a noi, che viviamo in un’epoca completamente diversa. Dante era di destra? Manzoni ci invita a non parlare di etnie? Don Milani ci dice come dovrebbe essere la scuola oggi?

Proprio per questo, ho accolto con sollievo l’uscita, giusto in questi giorni, di un libriccino di Adolfo Scotto di Luzio (uno dei più autorevoli studiosi della storia della scuola), che parla del Priore e della sua opera in un modo diverso, non agiografico né strumentale, e che definirei semplicemente rispettoso (L’equivoco don Milani, Einaudi). Rispettoso perché filologico, perché si sforza – attraverso gli scritti – di farci entrare nella testa del Priore, con le sue ansie, i suoi sogni, il suo modo di vedere le cose. Evitando di ridurre “una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino” al “figurino senza spessore del pedagogismo nostrano”.

Il risultato dell’operazione è spiazzante, perché non ci fornisce affatto – come spesso si presume – una soluzione ai problemi della scuola di oggi. Ma semmai ci rivela la radicale inattualità del pensiero di don Milani, una inattualità che, fin da subito, fu pienamente intuita da Pasolini, e da pochissimi altri. Lettera a una professoressa, spiega Scotto di Luzio, “è un pressante invito ad abbandonare ambizioni e illusioni del moderno”. Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti. Se avesse potuto vedere la scuola (e la gioventù) di oggi, don Milani ne avrebbe avuto orrore. Consumismo e volontà di autorealizzazione, cardini del nostro tempo, erano per lui debolezze piccolo-borghesi: solo la dedizione totale agli altri rendeva una vita degna di essere vissuta.

Ma qual era l’idea di scuola pubblica del Priore?

Fondamentalmente, poggiava su tre cardini. Primo, la cultura popolare, e contadina in particolare, fatta di esperienza e saperi pratici, ha pari dignità rispetto alla cultura alta, formale, borghese, insegnata nelle scuole. Secondo, la scuola dell’obbligo dovrebbe riconoscere il pieno valore della cultura popolare, e rinunciare a trasmettere conoscenze prive di utilità pratica (matematica, letteratura, filosofia, ecc.), puntando tutte le carte sull’attualità (leggere i giornali) e sul controllo della lingua (non solo italiana). Terzo, l’orario scolastico dovrebbe essere molto più lungo, perché è nelle ore di non-scuola che i figli dei ricchi acquisiscono un vantaggio rispetto a quelli dei poveri, costretti a lavorare quando non sono a scuola (di qui il favore con cui don Milani vedeva il “pieno tempo”, e persino le “classi differenziali”).

Da questo complesso di idee derivava una conseguenza fondamentale. Diversamente da Gramsci, da Concetto Marchesi, e dallo stesso Togliatti, don Milani non vedeva l’accesso alla cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione degli strati popolari. Per lui, come per Pierre Bourdieu pochi anni dopo, la cultura alta era uno strumento di dominio, che imponeva saperi arbitrari, fatti apposta per consentire ai ricchi di umiliare ed escludere i poveri. Come tale, andava lasciata ai ceti alti e a quanti, fra i poveri, preferivano tradire la loro classe di origine, sottomettendosi alla scuola borghese e frequentando quelle che don Milani spregiativamente considerava “Scuole di Servizio dell’Io”, università e licei in particolare.

In questa sua visione dei compiti dell’istruzione, don Milani si situa agli antipodi del pensiero dei Padri Costituenti, in particolare di Piero Calamandrei. Per loro la scuola doveva rompere il monopolio borghese della cultura, facendo sì che la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana potesse attingere alle forze migliori di ogni ceto sociale. Era a questo alto compito che guardava l’articolo 34 della Costituzione, che al comma 2 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”.

Piero Calamandrei considerava quell’articolo il più importante della Costituzione. Don Milani, invece, detestava l’articolo 34. Per lui, diventando chirurgo o ingegnere, il povero perdeva la sua purezza, il suo legame con i compagni, l’appartenenza al magico universo della cultura popolare. Premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi” non era la strada giusta. E infatti non fu seguita. Le borse di studio che l’articolo 34 prometteva (al comma 3) sono rimaste in gran parte sulla carta: don Milani ha vinto, Piero Calamandrei ha perso.

Fu un bene? Fu un male? Su questo, fra una celebrazione e l’altra, forse varrebbe la pena riflettere.




Chiediamo troppo ai ragazzi?

Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?




Follemente corretto (8) – Presunto colpevole

Supponete che il Parlamento italiano approvasse una legge controversa, ad esempio una norma che regola le adozioni dei bambini da parte delle coppie di fatto (non importa qui che tipo di norma). Credo che nessuno si stupirebbe se varie associazioni di genitori, educatori o altre categorie scendessero in campo, a favore o contro la legge. Nemmeno ci stupiremmo troppo se scrittori, studiosi, docenti, giornalisti, artisti e celebrità varie dicessero la loro, sui quotidiani o in tv. Così come considereremmo normale, in un mondo infestato dai social, che migliaia di utenti di internet fornissero il loro parere non richiesto sulla nuova norma.

Quello che invece ci apparirebbe strano, per non dire assurdo, è che l’amministratore delegato di un’azienda che non ha nulla a che fare con le adozioni – per esempio la catena di supermercati Esselunga – si scusasse con le proprie commesse e i propri impiegati per non aver preso immediatamente posizione contro la legge. Se lo facesse, lo considereremmo fuori luogo. Che cosa c’entra la Esselunga con le adozioni?  E poi, visto che la questione è controversa, perché mai l’amministratore delegato di una catena di supermercati dovrebbe prendere posizione contro? Perché non a favore?

Adesso spostiamoci negli Stati Uniti: lì invece può succedere. Anzi, è già successo. La questione controversa è a che età si può cominciare, nella scuola, a parlare di scelta di genere e orientamento sessuale. Come noto, le associazioni LGBT+ premono perché la scuola ne parli il più presto possibile. Diverse associazioni di genitori, invece, chiedono che venga rispettato l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948), che al comma 3 recita: “I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli”.

Insomma, un caso perfetto di questione controversa. Su di essa, qualche mese fa, il Governatore (repubblicano) della Florida ha varato una legge che fissa il confine fra la 3° e la 4° elementare: nell’asilo e fino alla terza elementare non si può parlare di temi LGBT+, dopo invece sì può.

Risultato: Bob Chapek, amministratore delegato della Disney (un’azienda che ha una forte presenza in Florida), si è scusato con i propri dipendenti per non aver preso posizione tempestivamente contro la legge. E lo ha fatto con parole patetiche, per non dire piagnucolose: “Avevate bisogno di me come alleato più forte nella lotta per la parità di diritti e io vi ho deluso. Mi dispiace”.

Perché è intervenuto, lui che fa film e cartoni animati? Perché si è sentito in dovere, su una questione altamente controversa, di prendere posizione contro, anziché a favore?

La risposta non è semplice, perché è fatta di due tasselli logici distinti. Il primo è che l’establishment americano (di cui Chapek è parte) è progressista, e per i progressisti americani quella questione non è politica ma etica. Dunque ammette un’unica soluzione, esattamente come – per i fanatici religiosi – la sacralità della vita del feto chiude ogni possibilità di discussione sull’aborto.

Fin qui siamo di fronte a un problema di intolleranza laica, variante illuminista dell’intolleranza clericale. Ma questo spiega solo perché il Ceo di Disney abbia preso posizione contro la legge, anziché a favore. Non spiega come mai si sia sentito in dovere di assumere pubblicamente una posizione, anziché occuparsi del prossimo cartone animato.

Già, come mai?

E qui veniamo al secondo tassello. La ragione per cui, a differenza di quel che accadrebbe in Italia, in America un amministratore delegato si sente tenuto a prendere posizione, è che lì il politicamente corretto è riuscito a imporre una sorta di (folle) presunzione di colpevolezza: dato che discriminazione e razzismo sono ubiqui e “sistemici”, siamo tutti colpevoli fino a prova contraria. E prendere posizione nel modo giusto è l’unica chance che abbiamo per provare la nostra innocenza.