Elogio della distrazione

Un mese fa ho difeso l’attenzione, adesso proverò a elogiare la distrazione. L’esatto contrario dell’attenzione.

Distrarsi vuol dire proprio questo: smettere di fare attenzione. Infatti se mi distraggo durante un compito di matematica, non risolvo il problema e prendo quattro. E se mi distraggo davanti a una scala mobile, inciampo e cado lunga distesa. In entrambi i casi pago la mia mancanza di attenzione.

In realtà distrazione vuol dire “essere tratti via da” qualcosa verso qualcos’altro, cioè smettere l’attenzione in qualcosa per mettere attenzione in altro. Magari mentre salgo la scala mobile passa un mio vecchio compagno di scuola e io, nella gioia di riconoscerlo, mi distraggo. Cioè, faccio attenzione a lui. In tal caso cado, ma felice. Direi “aumentata”, poiché l’incontro ha aggiunto qualcosa di bello alla mia giornata.

Digressione n. 1: può esistere anche la “persona aumentata”, non solo la “realtà aumentata” che tanta parte avrà nel nostro futuro prossimo.

Non potrei scrivere, se non mi distraessi continuamente. Credo che scrivere sia intimamente connesso al distrarsi.

Certo, l’attenzione ai dettagli viene prima di tutto. Ben prima della storia, del tema, del senso. Non importa se racconto la storia di una madre che lavora e trascura il suo bambino di sei anni, il quale ogni tanto si butta in ginocchio e prega. Non è quello il punto. Il punto è che guanti indossa, come si veste, che rumore fa il cellophane quando lei scarta la merendina per suo figlio. Il punto non è che lei ogni sera lava i piatti, ma il verde vischioso del gel, in che modo e con quali pensieri lei lo guarda scivolare sul bianco dei piatti che sta lavando.

La distrazione nella scrittura si chiama digressione. Vai per una certa strada (narrativa), poi ti distrai e prendi un viottolo. Ti perdi in un altro pensiero, un ricordo personale, la storia di un altro. Anche se non c’entra niente. Anche a costo di perdere il filo, parlare di cose irrilevanti, deviare l’attenzione del lettore… Pazienza. E poi, chi lo stabilisce cosa è irrilevante o meno?

Il massimo del romanzo digressivo (si può dire?) è l’Orlando furioso. Non abbiamo più raggiunto simili vette di “scrittura deviata, dis-tratta”. La strabiliante riduzione televisiva di Ronconi, che ha allietato le nostre serate negli anni ‘70, con quei cavalli su rotaie che passavano da una stanza all’altra tirati dal caso, ne è stata la migliore dimostrazione visiva.

Scrivere è degredere di continuo. Un romanzo può essere una serie ininterrotta di digressioni incastonate l’una nell’altra, oppure una digressione ogni tanto, anche minima, dove però si sente che sta il cuore del libro, il nodo del senso: il punto dove l’autore è riuscito a dire quel che veramente gli stava a cuore dire, al di là della storia che sta raccontando, della trama, della coerenza narrativa.

Può capitare che le digressioni siano la vera anima di un libro. Di sicuro ne fanno il ritmo narrativo, sono il respiro della narrazione: ansante, quieto, scoppiettante, ondivago, martellante, disteso… Mare mosso o mare calmo, ochette o cavalloni. Un mondo, un universo. Una “cattedrale”. Tutto Proust, per esempio.

O, altro capolavoro digressivo, il Tristam Shandy.

Escamotage. Scappatoia. Nicchia segreta dove nascondere il tesoro. Nascondere, scappare, sì. Non sempre l’autore vuole svelare e svelarsi, parlare in modo diretto, letterale. A volte preferisce celare, velare. Dire una cosa dicendone un’altra, apparentemente lontana. Non dico ingannare, ma depistare, camuffare, complicare. La scrittura ha un rapporto complicato con la verità: non è dicendo il vero che svelerà la realtà delle cose, spesso è inventando un vero fittizio che meglio riuscirà a toccarla.

La digressione è libertà. E trasgressione. Degredere (o degredire) è anche transgredere (bellissimi verbi che non esistono in italiano): mandare all’aria lo schema, farsene due baffi della progressione logica, e anche delle aspettative del lettore.

È lanciare una sfida molto hard al lettore: vediamo se mi segui là dove ti sto portando, se hai il coraggio di intraprendere questa stradina così nascosta e irrilevante. Vediamo se lo vedi, innanzi tutto, questo viottolino coperto da cespugli di rovo…

In piccolo, anche l’inciso è una digressione. La frase incidentale, o la parola tra parentesi.

Gadda ne è maestro. Sentite qua, da quel surreale eppur realisticissimo racconto che è L’incendio di via Keplero: “Il Besozzi (…) si asciugava – con un asciugamano color topo di chiavica -; si pettinava – con un suo mezzo pettine tascabile, verde, di celluloide –, e poi…”.

L’inciso è lo spazio dei dettagli, dell’apparente insignificante e irrilevante.

Un giorno mi piacerebbe scrivere un romanzo pieno di incisi e parentesi. Almeno una parentesi a pagina, per esempio.

Ogni distrazione ci devia. Ci depista, ci sposta da dove siamo, da chi siamo. Sposta gli occhi, e i pensieri. Ci fa andare via, pur rimanendo col corpo dove siamo. Ci porta quindi in luoghi che non avevamo previsto. Ci fa viaggiare, esplorare mari sconosciuti.

E andare via, ogni tanto, ci fa bene. Ci aiuta a diventare altro da noi, stranieri, sconosciuti a noi stessi.

Il problema poi è tornare. Riprendere il filo. Il rischio esiste, di non riprenderlo più, di perdersi. Ulisse e Orlando son due che hanno rischiato grosso; potevano non tornare mai, non ri-diventare quel che erano: il re di Itaca, il campione dell’esercito cristiano.

Giro-vagare. Scrivere da vagabondi senza meta, o con una meta che abbiamo perso. Non andare più da nessuna parte. Essere vaghi. Vagabondi. Come il fannullone di Eichendorff (o perdigiorno) che va suonando il suo violino di qua e di là. Come i violinisti volanti nei cieli di Chagall. Evitare con cura l’obiettivo, la carriera, il potere e ogni ruolo definito. Mancare la vittoria. Perdere….

Atalanta è la fanciulla che non vuole sposarsi. Corre più veloce di tutti, e un giorno indice una gara crudele: chi vuole sposarla deve batterla nella corsa, se no morirà. Ippomene la vuole, è innamorato. Corre, ma lei gli sta sempre davanti, imprendibile. Allora lui lascia cadere sulla strada tre mele d’oro, una dopo l’altra, e Atalanta, attratta da quell’oro, rallenta e devia dalla meta. Si distrae.

Si perde?

Di sicuro perde la corsa.

Credo che attenzione e distrazione debbano andar congiunte. È bello che convivano, che ci sia complicità, tra di loro.

Il fatto è che lo sguardo è mobile, viaggia sulle cose. Ma esiste il tempo, abbiamo deciso che lo sguardo è progressivo, e anche la nostra vita: la pensiamo come un insieme di istanti. Fotogrammi che mettiamo in successione, a costruire una linea temporale che in realtà, forse, è una finzione. Il tempo puntiforme? Non sapremo mai se il tempo esiste o tutto è racchiuso in un punto. Barbour, nel suo libro La fine del tempo, solleva dubbi….

E il multitasking? Direi che la distrazione è esattamente il contrario del multitasking che oggi tanto ammiriamo. La virtù del multitasking consiste nel mettere attenzione a tanti oggetti contemporaneamente, esser capaci di dedicarsi a mestieri e gesti diversi, aprire più finestre e tenerle “accese” tutte insieme. La distrazione invece è lasciare un oggetto per andare su un altro. E quando si va su un altro, sul primo oggetto cade il buio, per forza di cose. Non c’è accumulo, non vince la pluralità. C’è sempre una cosa soltanto in luce, che semplicemente non è più quella di prima.

C’è il tempo, dentro la distrazione. È uno spostarsi nello spazio e nel tempo. Prima guardavo un quadro alla mostra di Van Gogh, ora guardo la formichina che mi cammina sul piede. Non guardo sia Van Gogh sia la formichina, non m’interessa tenere insieme le due visioni. O non ne sono capace. O meglio, decido che non ne sono capace. Atalanta non è capace di continuare la corsa e guardare la mela d’oro. Segue la mela e abbandona la corsa, per forza. C’è il tempo come successione, nella sua vita. Dunque c’è la scelta. Altissimo valore morale: vogliamo perderci il valore della scelta, in questa corsa sfrenata al futuro?

Digredire e trasgredire impongono sempre di scegliere. Una cosa piuttosto che un’altra.

Non so se il multitasking produrrà performance mentali innovative e strabilianti. Alcuni sono convinti di sì, molto convinti. Ma credo che nessuno abbia certezze. Quindi, nel frattempo, mi asterrei da tanta esaltazione.

Per quel che riguarda il mio mestiere, non so se si possa scrivere, in modalità multitasking. O se per scrivere sia necessario esattamente il contrario: un’attenzione a un unico oggetto per volta, e uno spostamento continuo (e lento) da un oggetto all’altro. La digressione è un viaggio, il multitasking, in fondo, è star fermi. Si è in più luoghi ma si sta fermi, gli occhi posati su più punti, cose, persone, panorami, contemporaneamente.

È quel contemporaneamente che non mi convince: c’è assenza di tempo. O un tempo che mi sembra statico, e anche presuntuoso. C’è la presunzione di onnipresenza (e onnipotenza), nel multitasking. Ma noi non siamo Dio. E ogni tanto andiamo via, lasciamo luoghi amati e persone care.

Anche per scrivere (o creare in generale) bisogna perdere qualcosa: andare via di continuo vuol dire di continuo abbandonare qualcosa, qualcuno. C’è tristezza, in questo, e nostalgia. Ma c’è anche un premio: non farsi trovare mai nello stesso posto. Diventare imprendibili.

Il multitasking mi fa pensare alla grande cucina di un ristorante, dove il cuoco deve badare nello stesso momento a una decina di pentole, cibi e cotture diverse: buttare la pasta, girare il sugo, salare le patatine, aggiungere le spezie all’arrosto, spegnere il forno, girare la frittata. Bravissimo, questo cuoco. Ma sta sempre in cucina. Non si muove.

Distrarsi vuol dire lasciare la cucina e andare in giardino, e poi in sala, e poi sul balcone e poi scendere per strada. Spostarsi. E ogni volta essere un altro, raccontare altro, cambiare se stessi, e il senso di quel che diciamo.

A costo di perdersi.

E sì, se fai digressioni rischi di non ritrovare la strada. Potresti non tornarci mai, in quella cucina.

Per questo, comunque, mi piacciono i perdenti. Quelli che perdono tutte le gare, che arrivano ultimi. Non perché gli ultimi saranno i primi, non ci ho mai creduto. Ma perché gli ultimi si sottraggono alla gara, e quindi sono i veri vincenti. Mi piacciono quelli che si rifiutano di competere, e magari alla fine vincono fuori da ogni competizione, in qualche idilliaco paradiso a-mediatico, novello giardino edenico. (Mi scuseranno gli sportivi, ma proprio non ce la faccio. La competizione mi annebbia un po’ lo sguardo, mi offusca la pace interiore).

Magari lo studente che si distrae durante il compito di latino o matematica prende quattro. Anzi, è sicuro. Ma magari si è distratto per scrivere una poesia bellissima. E allora, chi ha perso, chi ha vinto? Cosa è meglio e cosa è peggio?

Cosa ne sappiamo noi di che cosa siamo veramente chiamati a fare? Distrarsi è anche lasciarsi andare. Credere, confidare in un destino.

Atalanta come sappiamo sposerà Ippomene. Perdendo la gara, ha vinto l’amore.




Fare attenzione

I cartelli di pericolo ci esortano a fare attenzione. Attenzione al gradino, all’incrocio, al passaggio di animali, alle buche. Se no cadiamo, precipitiamo, anneghiamo, scivoliamo. Senza attenzione, ci facciamo male.

Anche a scuola l’insegnante esorta gli allievi, da secoli: State attenti! Vuol dire che è bene ascoltare la lezione trattenendo qualcosa nella memoria, o badare a non fare errori nelle verifiche in classe.

Mi ha colpito, in questi giorni, una frase di Philip Roth che ho letto in un’anticipazione dei suoi scritti nonfiction, appena pubblicati da Einaudi: Perché scrivere? Saggi conversazioni e altri scritti. La frase riguarda un aneddoto della sua infanzia, quando andava ogni quindici giorni nella piccola biblioteca di quartiere, prendeva cinque o sei libri in prestito e li portava a casa nel cestino della bici. Ecco, Roth dice che scrivere è parlare di quel cestino, evocarlo, descriverlo. Mettere attenzione ai particolari. È bellissimo questo, ha ragione. Se scrivesse solo che si portava a casa i libri della biblioteca, non sarebbe letteratura (secondo una certa idea di letteratura, almeno…). Diverso dire che se li metteva nel cestino della bici. È quel cestino, il centro. Perché così noi lo vediamo, quel bambino che pedala verso casa, con i libri che gli sballonzolano nel cestino. E, poiché lo vediamo, non è più soltanto lui: siamo tutti noi. Uguale: letteratura.

Scrivere è far vedere le cose, leggere è vedere. Se azzeriamo i particolari, il gioco finisce.

Credo che l’attenzione sia un bene prezioso, una qualità che l’essere umano decide o no di usare, e di coltivare. Credo sarebbe meglio che decidesse di usarla, e vivesse con attenzione, osservando le cose e le persone nei particolari. Vale per la scrittura, ma direi in generale per la vita.

Scrivere è certamente fare attenzione. No, lo dico meglio: scrivere è vivere facendo attenzione.

(Ecco perché si è scrittori anche quando non si scrive: perché si vive in un certo modo, osservando, ascoltando. Captando segnali ovunque lo si possa fare).

L’altro giorno una ragazza mi ha chiesto come s’impara a scrivere un romanzo. Domanda a cui non ho mai saputo rispondere. Neanche a scuola sapevo insegnare a scrivere… Una non-qualità che mi è stata spesso imputata, da genitori e colleghi. Be’, a quella ragazza ho risposto proprio questo: per imparare a scrivere bisogna osservare con attenzione. Mi ha chiesto:

Osservare cosa?

Tutto, i gesti delle persone, le scarpe, i colori dell’autunno, le scatole dei pelati, i topi di fogna che passano lungo il fiume, la piega dei pantaloni di un manager, le briciole che ti cadono sul maglione. E ovviamente i sentimenti, tuoi e degli altri.

Si osservano i sentimenti?

Certo che sì.

E come?

Be’, di questo dovremmo parare a lungo, adesso mi scusi ma devo andare…

Fuga? Sì, fuga. A gambe levate.

Mi soccorre, per fortuna, Hemingway. Trovo un suo librino meraviglioso, dell’editore che ormai è diventato il mio preferito: parlo delle edizioni Henry Beyle, di Vincenzo Campo. Il libro s’intitola Lettere dall’alto mare sullo scrivere, e già da qui, dal titolo, come non saltare sulla sedia dalla felicità? Lo leggo tutto. Sottolineo ogni riga, e vorrei parlare di questo libro a ogni Paginetta. Ma oggi mi limiterò a passarvi queste parole, sentite qua: “Come scrittore non dovresti giudicare. Dovresti capire. E poi ascolta. Quando la gente parla ascoltala totalmente. Non pensare a quello che dovrai dire. La maggior parte della gente non ascolta mai. E neanche osserva. Dovresti essere capace di entrare in una stanza e quando esci sapere tutto quello che hai visto”.

Non pensare a quello che dovrai dire… com’è vero! Ascoltiamo sempre pensando a quel che poi ci toccherà rispondere, alla bella figura che, rispondendo, ci piacerebbe fare! Non ascoltiamo mai la domanda. Non facciamo per niente attenzione a quel che l’altro ci chiede o ci dice, prestiamo attenzione soltanto a noi, a quel che gli altri penseranno di noi a seconda di come avremo risposto. Non è ascoltare, questo, è guardarsi allo specchio. È stare chiusi dentro un perenne esercizio di egocentrismo. Insuperabili, in questo paradossale non-ascolto, sono proprio coloro che per mestiere fanno domande: gli intervistatori della tivù, per esempio. Lo vediamo chiaramente che, mentre l’intervistato risponde alla domanda numero 1, il conduttore non ascolta la risposta ma pensa alla sua domanda successiva.

Bisogna, allo stesso modo, osservare molto. Osserviamo? Normalmente no, direi. Usiamo gli occhi, certo, li mandiamo a destra e manca. Guardiamo, vediamo, registriamo visivamente cose e persone. Ma osserviamo mai davvero? Mettiamo attenzione ai particolari, esterni ed interni? Voglio dire, tanto il gesto del nostro gatto di pulirsi i baffi, quanto i nostri imbarazzi, risentimenti, le nostre soddisfazioni, irritazioni e improvvise felicità? Questo dicevo alla ragazza. Anche senza prendere appunti, non importa: quel che avremo osservato, poi entrerà in qualcosa che scriveremo, senza volerlo, quando meno ce lo aspettiamo.

Anche leggere è fare attenzione. Alle parole, non alla trama. Sono le parole che fanno un libro, il modo in cui la storia è raccontata vale di più della storia in sé. Il romanzo di Manzoni è un capolavoro per come l’ha scritto, la trama si ridurrebbe più o meno a questo: due giovani vogliono sposarsi, ma un giovinastro del paese s’invaghisce della promessa sposa e impedisce il matrimonio. Pochino.

Leggere è prestare un’attenzione spasmodica alle parole, ai legami, alla posizione all’interno della frase, ai possibili sinonimi, alla loro ambiguità, e possibile molteplicità di sensi. Indugiare con amore sulle parole, amarle, una per una.

Filologia vuol dire questo.

L’attenzione. Viene da attendere, rivolgere l’animo, la mente a qualcosa. Implica concentrazione, riflessione, interesse, impegno. Diligenza, cura, prudenza, riguardo, cortesia. Per le persone e per le cose.

Per esempio l’educazione dei figli esige attenzione. Il genitore attento è colui che osserva e ascolta il figlio. Sta in silenzio a guardare ogni sua minima mossa, ogni rossore, ogni pianto o sorriso. E ne indaga il senso. Si chiede qualcosa intorno a quel che osserva. Inevitabilmente interpreta, e può anche fraintendere. E forse un’idea del figlio se la farà soltanto dopo molti anni, e sarà comunque un’idea parziale, limitata, e forse persino sbagliata. È così. Siamo difettosi, “esseri manchevoli”, anche come genitori. Non è detto che li capiamo davvero nel profondo, i nostri figli. Ma l’importante sarà averli osservati e ascoltati: aver dato loro la nostra attenzione. Nel qual caso, è possibile anche che perdoneranno i nostri errori.

In una parola, l’attenzione è amore.

Ancor più, sicuramente, l’amore è attenzione.

Lo ha sempre detto Susanna Tamaro nei suoi libri. Anche nell’ultimo, appena uscito, Il tuo sguardo illumina il mondo (edizioni Solferino), dedicato all’amico poeta Pierluigi Cappello. A un certo punto dice: “Cos’è infatti l’amicizia se non un’attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro?”.

L’attenzione è in pericolo oggi?

Stiamo smettendo di stare attenti, di prestare attenzione?

Alcuni di noi hanno qualche apprensione riguardo al mondo digitale e robotico che verrà, proprio perché è possibile che ci tolga attenzione. O così ci pare che potrebbe succedere: per esempio ci viene il dubbio che non saremo più capaci di restare concentrati su quel che facciamo, diciamo, scriviamo o ascoltiamo. Questo preoccupa un po’ alcuni di noi, per quel discorso sull’amore, sull’attenzione che è amore e viceversa…

Ma poi ci passa. Pensiamo che il mondo andrà dove deve andare ed è bene così, l’essere umano troverà altri modi di stare “attento”, oppure scoprirà che può benissimo farne a meno.

Personalmente, sono molto tranquilla. Credo per esempio che, nonostante il proliferare di tablet, instagram, iphone e altro, e anche nell’ipotesi che diventeremo un corpo computerizzato (cioè che prima o poi  ci immetteranno, in un braccio o tra le costole, un meccanismo elettronico) credo che continueremo a camminare sulle spiagge, dove batte l’onda, per respirare ozono, per guardare il mare. Dunque, credo che continueremo a stare attenti: ai sassi, alle conchiglie, ai piccoli vetri verzolini, a quei frammenti di bottiglia che il mare ha levigato per mesi, anni (o secoli? non ho mai avuto chiaro quanto ci metta il mare a prendersi un pezzetto di vetro e a restituircelo così tondo e liscio).

Sono quasi certa che accadrà, perché l’attrazione del mare, del camminare sulle spiagge e raccogliere sassi, è insostituibile e inalienabile e si manterrà intatta nei millenni a venire. Ed questa eternità del mare – o meglio, del rapporto tra noi e il mare e i suoi sassi – la cosa su cui possiamo contare, e che ci rende fiduciosi del futuro, pur così tecnologicamente nebuloso.

 Presteremo sempre attenzione, raccogliendo i sassi del mare.

E adesso, dopo aver tanto elogiato l’attenzione, mi verrebbe da elogiare la distrazione.

Ma aspetto le prossime Paginette.

Pubblicato su Il Sole24Ore il 1 novembre 2018