Sacko: lettera aperta al Dubbio (rivolta anche a Giuliano Ferrara)

Caro Direttore, ho letto con commossa, profonda, adesione il tuo editoriale “Hanno fucilato un negro in Calabria? Beh, che vuoi: sono cose che succedono”. Qualche perplessità solo sull’insistita ironia sulla frase di Matteo Salvini «è finita la pacchia». Il leader leghista non mi è congeniale, non ho mai votato per lui né prevedo di farlo in futuro, ma credo che la pacchia si riferisse agli scafisti e alle organizzazioni che hanno fatto dell’immigrazione un business. Comunque non è questo il punto e non voglio certo fare il difensore d’ufficio (non ne ha bisogno) del ministro dell’Interno, azzannato ormai da tutti i giornali – dell’establishment e non.

Vorrei invece richiamare la tua attenzione su un fatto tanto preoccupante quanto indecente ovvero sul buonismo gratuito e irresponsabile diffuso nel nostro paese – e sicuramente più a sinistra che a destra, più tra i cattolici che tra i vecchi e sopravvissuti laici non laicisti. Siamo il paese dell’accoglienza generosa e disinteressata, della mensa del convento aperta a tutti ma poiché il liberalismo è una pianta che da noi non ha mai allignato ci guardiamo bene dal porci la domanda, fondamentale per un amico della “società aperta”: «chi paga?» (Ricordi il saggio di Milton Friedman, Nessun pasto è gratis?). Da una parte, le dottrine sociali della Chiesa-per definizione diffidenti verso ogni comunità chiusa come, indubbiamente è, e non può non essere, lo Stato nazionale-dall’altra, il diritto cosmopolitico dei maîtres-à-penser alla Luigi Ferrajoli, hanno diffuso un’etica pubblica che demonizza ogni diritto a tutelare il proprio spazio geografico e culturale, a “chiudere le porte” agli altri. Naturalmente fanno eccezione le porte della nostra abitazione: siamo tutti fratelli ma nella casa comune dello Stato, dove a “pagare” non siamo noi ma la “collettività”; a casa nostra entriamo solo noi.

Ai poveri diseredati del continente nero, diciamo, “crescete e moltiplicatevi” e se volete venire da noi, le “ragioni umanitarie” non ci consentiranno di ricacciarvi indietro. Posto ce n’è sempre per tutti: le porcilaie sono ampie e spaziose e tra i rifiuti dell’ “uomo bianco” si trova sempre di che sfamarsi. (Quante volte, sotto casa, non ho visto extracomunitari rovistare nella spazzatura…). Leggerezza, superficialità irresponsabilità sembrano essere divenute le nuove qualità degli Italiani, sempre pronti a indignarsi contro i paesi che regolano i flussi migratori (che fascisti gli Stati Uniti quando limitavano quello proveniente dall’Europa orientale e dall’Italia!) dimenticando che, nel racconto biblico, il buon samaritano soccorreva il derelitto, curandogli le ferite, rifocillandolo, affidandolo a una casa amica.

A noi, per metterci il cuore in pace, basta soltanto non impedire lo sbarco. L’inferno che poi accoglierà le migliaia di profughi che fuggono guerre e fame di loro non ci riguarda.

In un bellissimo articolo sul Foglio, “Il martire Spoumayla Sacko e noi che, dal nostro tinello, ci prendiamo la colpa e lasciamo a quelli come lui la punizione” Giuliano Ferrara ha parlato giustamente di martirio – un termine spesso abusato ma questa volta più che pertinente. Condivido il lutto per l’episodio e vado oltre: perché in un paese in cui i monumenti ai politici rientrano nella logica del pirandelliano Vestire gli ignudi, non si eleva un monumento a Soumaya Sacko come a Jerry Massolo – il sindacalista nero ucciso nel 1989 a Villa Literno e che solo tu hai ricordato? Ferrara, però, chiude il suo articolo con la sua martellante polemica contro le «posizioni populiste di destra e di sinistra» che attribuiscono la tragedia calabrese «all’establishment, al sistema, alle elite». E qui non seguo più né il suo sarcasmo, né il tuo silenzio.

E chi dovremmo incolpare della morte di Sacko se non gli apparati pubblici e i governi di oggi, di ieri e dell’altro ieri? Quando mai hanno inviato ispettori del lavoro, forze dell’ordine, funzionari Asl nei recinti calabresi, siciliani, campani dei nuovi schiavi? Cosa hanno fatto per portare davanti ai tribunali i caporali e i loro datori di lavoro? Retate di polizia e processi e condanne esemplari hanno riempito le cronache nere dei quotidiani? Quando su certi giornali si descrivono le condizioni disumane (un eufemismo!) in cui vivono migliaia di africani, c’è sempre il sottinteso: «guardate a cosa portano la logica del profitto, il mercatismo, l’auri sacra fames?» Ci manca poco se i mali del presente non vengono riportati alla Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith e a quel capitalismo selvaggio al quale l’Occidente avrebbe venduto la sua anima.

Ai buonisti antimercatisti bisognerebbe consigliare la lettura di una straordinaria pagina delle Lezioni di politica sociale [1949] di Luigi Einaudi: «coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è».

Nel meridione d’Italia non ci sono né carabinieri, né guardie municipali, né pretori ovvero ci sono ma le loro mani sono legate da camorra, mafia, ndrangheta. E questa «assenza della legge e dell’ordine» a chi si deve se non «all’establishment, al sistema, alle elite» che, assieme ai sindacati – operai e padronali – hanno sgovernato e massacrato il bel paese? Ormai termini come “populismo” e “sovranismo”, come già fascismo, stanno diventando gli spaventapasseri su cui riversare tutto il marcio che ci circonda. È lo stile ideologico italiano che non riusciremo mai a scrollarci di dosso: invece di chiederci se quanti avversiamo e certo non a torto— dai fascisti di ieri ai populisti di oggi– non abbiano, per caso, qualche buona ragione da far valere, preferiamo criminalizzarli, nel peggiore dei casi, ridicolizzarli, nel migliore, ma sempre relegandoli nella matta bestalitade da cui doverci guardare per non esserne contaminati.

ORMAI TERMINI COME “POPULISMO” E “SOVRANISMO”, COME GIÀ FASCISMO, STANNO DIVENTANDO GLI SPAVENTAPASSERI SU CUI RIVERSARE TUTTO IL MARCIO CHE CI CIRCONDA

Articolo pubblicato su Il Dubbio il 06 giugno 2018