Black Magic Woman

Antefatto. È martedì 5 dicembre 2023, sono passati 2 mesi dall’attacco terroristico di Hamas a civili israeliani. Tre presidenti di prestigiose università americane (tra cui Harvard) sono chiamate a rispondere ad alcune domande davanti al Congresso. Le domande girano intorno al quesito se, secondo le regole degli illustri atenei, invocare il genocidio degli ebrei costituisca oppure no bullismo o molestia (e sia quindi sanzionabile, secondo i codici accademici).

Le malcapitate presidenti, tutte donne e una pure black, cominciano a tergiversare e annaspare, e finiscono per rifugiarsi in un pilatesco “dipende dal contesto”. Di qui un mare di polemiche, che conduce alle dimissioni della presidente dell’Università della  Pennsylvania (la bianca Elizabeth Magill), poi a quelle della presidente di Harvard (la nera Claudine Gay). Al momento in cui scrivo, benché invitata ripetutamente a farlo, non si è ancora dimessa la presidente del MIT (la bianca Sally Kornbluth).

Può sembrare strano, e per qualcuno pure scandaloso, ma le risposte delle tre poverette, per quanto goffe, imbarazzate, e poco lucide, non erano poi così destituite di fondamento su un piano legale. Come ha subito notato Will Kreeley, direttore della Fondazione per i Diritti di Espressione dell’Individuo, effettivamente sul piano legale tutto dipende da come e in che situazione l’invito al genocidio viene formulato. Semmai, come non ha mancato di notare lo stesso Kreeley, è frustrante vedere i vertici accademici, così pronti alla censura quando viene infranta l’ortodossia woke, disseppelire scrupoli pro-libero pensiero (“free speech scruples”) solo sotto il fuoco di un’audizione congressuale. Il massimo dell’ipocrisia: nelle università americane gli studenti sono sanzionabili per le più minuscole ed evanescenti “micro-aggressioni”, ma diventano oggetto di pensose riflessioni sulla libertà di pensiero quando le vittime bisognose di tutela sono gli ebrei.

Ma la storia non è tutta qui. Anzi il lato più interessante viene dopo. Perché, mentre a Elizabeth Magill, presidente dell’università della Pennsylvania, bastano 4 giorni per decidere di dimettersi, a Claudine Gay, presidente della più prestigiosa università statunitense, occorrono ben 2 mesi. La lettera di dimissioni arriva solo il 2 gennaio, pochi giorni fa. Una lettera piena di belle frasi sulle meraviglie di Harvard e sul proprio impegno, ma parca di spiegazioni sulle ragioni delle sue dimissioni, e del tutto priva di scuse.

Che cosa, dunque, ha convinto la presidente di Harvard a dimettersi?

Semplice: l’accusa di plagio, basata sulla scoperta di numerosi passaggi copiati nella sua produzione scientifica (ne ho esaminati diversi, e devo dire che alcuni sono effettivamente inaccettabili, altri banali e perdonabilissimi). Il lato interessante della storia è però quel che è venuto fuori esaminando il suo curriculum accademico: la produzione scientifica della Gay, pluriosannata nei mesi scorsi in quanto prima donna nera eletta a capo della più prestigiosa università americana, è a dir poco imbarazzante. Specie nell’ultimo decennio, la prof.ssa Gay ha pubblicato pochissimo, e sulla qualità di quel poco che ha pubblicato non sono mancate perplessità e dubbi da parte di vari studiosi. Qualcuno ha azzardato una difesa dicendo: che cosa c’entra la produzione scientifica? se fai il rettore di Harvard quel che conta non sono i titoli accademici, quel che conta è che tu sia bravo a rastrellare fondi (o fundraising, che suona meglio). Probabilmente è anche vero, e infatti qualcuno ha notato che proprio per questo la Gay andava cacciata, visto che ci sono già le prime rinunce di donatori importanti (Ferragni docet, sui traffici della beneficenza tutto il mondo è paese).

Ma c’è un’altra lettura possibile, di cui si parla negli Stati Uniti, ma che è rimasta in sordina da noi. Qualcuno ha fatto notare che la vera ragione per cui una mediocre studiosa come la Gay è stata scelta per occupare il vertice della più importante università americana sono le sue “immutable characteristics”, ovvero le sue permanenti qualità innate di essere donna e di essere nera. In un mondo nel quale non si pensa più che lo scopo dell’università sia perseguire la verità, bensì sia di promuovere la Social Justice, non è poi così strano che quelle caratteristiche immutabili facciano miracoli, come pietre magiche: Black Magic Woman, come magistralmente cantavano i Santana mezzo secolo fa.




Diritto alla rappresaglia (linguistica)?

Bene ha fatto Chiara Valerio a definire “gesto dada” la piccola provocazione messa in atto da Cecilia Guerra (deputata Pd) quando, alla Camera dei Deputati, si è rivolta al presidente dell’assemblea Giorgio Mulé chiamandolo “signora presidente”. Altrettanto bene ha fatto Giorgio Mulé a provare a metterla sul ridere. E benissimo ha fatto il quotidiano Libero a prendersi la libertà (se no, perché chiamarsi Libero?) di proclamare Meloni “Uomo dell’anno”, come in passato era già successo con altre donne illustri. Nel 1999, la campagna elettorale per Emma Bonino Presidente della Repubblica ne esibiva una foto sorridente, con la scritta “Finalmente l’uomo giusto”. Per non parlare di Angela Merkel, spesso descritta come grande “uomo di Stato”, o addirittura come l’unico vero uomo di Stato di cui l’Europa disponesse.

Insomma tutto bene finché si resta sul giocoso. La lingua è anche un gioco, l’ironia è una risorsa insostituibile della lingua vivente, guai a chi prova a ingessarla con regole, divieti, intimidazioni più o meno arroganti.

Male, invece, hanno fatto altri. Tanto per cominciare, il deputato Marco Perissa (Fratelli d’Italia), che ha acceso la miccia chiamando “segretario” la segretaria del Pd Elly Schlein, ben sapendo che ella preferisce essere chiamata segretaria. In secondo luogo Cecilia Guerra, che anziché restare sul giocoso, si è spinta a teorizzare una sorta di diritto di rappresaglia linguistica: se il deputato Perissa si permette di chiamare “segretario” la segretaria del mio partito Elly Schlein, allora è lecito a me chiamare  Giorgio Mulé “signora presidente”. In terzo luogo, Elly Schlein, che improvvisamente accortasi che lo statuto del Pd, parlando sempre e solo di segretario del partito, finiva per legittimare il deputato Perissa, non ha trovato di meglio che annunciare un congresso per cambiare lo statuto del partito. Così suscitando
la contro-reazione di Perissa, infantile e logica al tempo stesso : “Finché lo statuto Pd dice che Schlein è segretario nazionale, la chiamerò così”.

Peggio di tutti, almeno ai miei occhi, ha infine fatto Michele Serra, che pare aver perduto il sense of humour che lo aveva reso famoso quand’era giovane e dirigeva Cuore (capolavoro assoluto della satira politica). In un serioso articolo nella sua rubrica su Repubblica, ha definito nientemeno che “inappuntabili sotto ogni punto di vista” le parole di Cecilia Guerra, aggiungendo che il ragionamento della deputata Pd – se tu chiamare uomo me, io chiamare donna te – “non fa una grinza” e “non c’è replica possibile”. Il tutto per lapidariamente concludere: “la deputata Guerra ha ragione, il deputato Perissa ha torto”.

Mah…

Siamo sicuri che non c’è replica possibile?

Io ne ho in mente parecchie, ma le più importanti sono due. Primo, la lingua da sempre ammette infinite variazioni e sfumature, sottigliezze e connotazioni, che ne costituiscono la ricchezza (e la potenza espressiva). La lingua è libera, e nessuno ha diritto di fissare le regole e le parole con cui dobbiamo rivolgerci agli altri, salvo un’unica basilare restrizione: mai offendere intenzionalmente. Da questo punto di vista, Giorgio Perissa e Cecilia Guerra non hanno l’uno torto e l’altra ragione, ma hanno torto entrambi, perché entrambi hanno deliberatamente usato il genere che l’interlocutore non gradiva. Entrambi hanno cercato di ferire.

Secondo. La pretesa degli intellettuali di regolare l’uso della lingua è l’espressione più plateale del “razzismo dei laureati” (copyright Federico Rampini). Una brutta bestia, non solo perché umilia i ceti meno istruiti, che con le sottigliezze dei legislatori della lingua non si raccapezzano, ma perché ingessa il discorso pubblico. Non vi siete accorti di quanto circospetti, prudenti, insipidi – e in definitiva noiosi – stiamo diventando per il terrore di essere beccati in fallo su un aggettivo, un avverbio, un accostamento?

Avanti così, e perderemo del tutto la nostra libertà.




Primo anno di governo – Thank you, boomers!

Con l’uscita degli ultimi dati Istat sul mercato del lavoro, relativi al 3° trimestre 2023 (luglio-settembre), si può tentare un bilancio del primo anno del governo Meloni sul fronte dell’occupazione, che è poi la vera stella polare della sua politica economica. Il 3° trimestre è un ottimo punto di riferimento non solo perché è il periodo più recente per cui si hanno dati ufficiali affidabili, ma perché si situa a un anno esatto di distanza dall’ultimo trimestre interamente “draghiano” (3° trimestre 2023)

Premessa doverosa: pochissimo di quel che cambia nel breve periodo (e un anno è un periodo breve) è dovuto al governo in carica, nel bene e nel male. Però, sapere quel che è successo nel primo anno, è utile lo stesso, perché almeno ci permette di rispondere a una domanda: è giustificato il pianto greco delle opposizioni e della Cgil sull’andamento del mercato del lavoro?

Vediamo. L’indicatore più significativo, che condensa in sé meglio di qualsiasi altro l’andamento del mercato del lavoro, e cioè il tasso di occupazione della popolazione in età da lavoro (15-64 anni) è aumentato di 1.3 punti, toccando il 61.5%, massimo storico da quando (1977) inizia la serie storica su cui è calcolato.

Già, ma obiettano i critici: bisogna vedere di che tipo sono i posti di lavoro, se sono precari o stabili; come va il numero di ore lavorate; che succede nel Mezzogiorno; che ne è delle donne.

E allora procediamo. L’aumento dei posti di lavoro (+481 mila in un anno) riguarda sia i lavoratori indipendenti (+1.6%), sia i lavoratori dipendenti stabili (+3.1%), ma non quelli a temine (o “precari”), che diminuiscono leggermente, con effetti benefici sul “tasso di occupazione precaria”.

Ma le ore lavorate? Non sarà che l’occupazione aumenta ma le ore lavorate diminuiscono, come in effetti può succedere, ed è già successo in passato? Niente affatto, il monte ore lavorate aumenta del 4.1%.

Ok, ma il Mezzogiorno? Che succede nel Mezzogiorno?

Anche lì, niente da fare. Non c’è tracollo, né crisi, né crisetta, né stagnazione. Al contrario, il Mezzogiorno è la ripartizione territoriale in cui l’occupazione cresce di più (+1.9%), davanti al Nord (+1.0%) e al Centro (+0.9%). E se fossero i primi effetti della stretta sul reddito di cittadinanza?

E l’occupazione femminile, la discriminazione delle donne sul mercato del lavoro?

Stessa storia, i dati dicono che il tasso di occupazione femminile cresce di più (+1.4%) di quello maschile (+1.1%).

Possibile che non ci sia nulla che va storto?

Tranquilli, qualcosa che non va c’è. Intanto la produzione industriale sta perdendo colpi da circa un anno, anche a causa della frenata della Germania, entrata in recessione. Se ciononostante l’economia italiana cresce e l’occupazione sale è soprattutto merito del terziario e dell’edilizia, drogata dal super-bonus del 110%.

Quanto al tasso di occupazione è vero che aumenta, ma se andiamo a vedere chi lo fa aumentare, non solo nell’ultimo anno, ma negli ultimi 15 anni, scopriamo un fatto inquietante. I contributi più importanti vengono inequivocabilmente da due grandi categorie, in parte sovrapposte: i lavoratori immigrati, che oggi hanno un tasso di occupazione più alto di quello degli italiani, e i cosiddetti baby boomers, quell’esercito di vecchi, quasi-vecchi e ultra-vecchi, nati fra gli anni ’40 e gli anni ’60.

Potrà sembrare incredibile, ma nel quindicennio che va dal 2008 a oggi il tasso di occupazione che è cresciuto di più è quello della fascia 50-65 anni. E quello della fascia 35-50 anni ha tenuto di meno di quello della fascia 65-90 anni, che è aumentato di oltre 2 punti.

Ci stanno salvando i Matusalemme?




Italia Oggi intervista Luca Ricolfi

Professore, in Francia, grazie ai voti di Rn e senza la sinistra, è stata approvata una legge che inasprisce le misure contro l’immigrazione irregolare e rende più facile anche revocare i permessi di soggiorno. Macron è più a destra del governo di destra italiano?

Per quel che capisco, il punto è che Macron non dispone di una maggioranza autonoma, e quindi è in balia delle opposizioni, di destra e di sinistra. Ma forse la riflessione che la vicenda di questa legge suggerisce è anche che abbiamo un po’ troppo idealizzato il sistema francese, e che dobbiamo compiacerci di non averlo preso come modello per la riforma del nostro sistema. Tra l’altro, trovo stupefacente che un primo ministro – in questo caso la semisconosciuta Mme Élisabeth Borne – sia costretta a varare una legge dicendo che probabilmente è incostituzionale. Almeno, in Italia le accuse di incostituzionalità provengono da chi le leggi non le ha votate…

Quanto alla sostanza del problema, credo che la chiave sia molto semplice: fra 6 mesi si vota per il Parlamento europeo, e i politici stanno capendo che l’opinione pubblica – oggi più che mai – vede gli immigrati come un problema, più che come una risorsa.

Non è strano per i politici di destra e centro-destra, ma è una novità per quelli di sinistra, che sono spaccati fra chi comincia a capire il nesso fra immigrazione e criminalità e chi resta abbarbicato alle vecchie parole d’ordine cosmopolite.

Perché l’immigrazione irregolare è diventata tema così sentito anche nell’elettorato di sinistra?

Non è una novità assoluta, il problema è sentito a destra almeno da 30 anni. Quel che è nuovo, forse, è che ormai anche i progressisti si rendono conto che c’è un conflitto insanabile fra imperativo dell’accoglienza e sicurezza dei cittadini. In Italia è chiarissimo: gli immigrati sono meno del 9% della popolazione, ma commettono circa il 40% dei reati, compresi quelli più odiosi, come le aggressioni in strada e gli stupri. E, a giudicare dagli ultimi dati ufficiali e consolidati (fermi al 2022), dopo il Covid i minorenni stranieri stanno dando un apporto sempre maggiore alla criminalità.

Alcuni le risponderebbero che se ci sono più minori stranieri che delinquono rispetto agli italiani è perché non siamo stati capaci di fare abbastanza integrazione. Siamo noi a essere inadeguati.

Certo, in astratto è così. Ma vale in tutti i campi. C’è sempre qualcosa che la società avrebbe potuto fare per evitare centinaia di emergenze sociali. Avremmo potuto mettere più medici e infermieri negli ospedali, più insegnanti nelle scuole, più alloggi popolari nelle periferie, più badanti nelle case, più psicologi alle calcagna di ogni sbandato, più cultura e meno violenza/sesso/droga nei media, più sport e meno telefonini, più concerti e meno trapper, più scienziati e meno influencer, ma la domanda è: con quali risorse, con quali priorità, con quali restrizioni alla nostra libertà?

Più specificamente: la precondizione di un’accoglienza riuscita è la possibilità di regolare il flusso degli ingressi sulle risorse disponibili per accoglienza e integrazione. È illogico teorizzare il diritto di entrare liberamente in Europa, e poi stupirsi se le condizioni di vita di una parte degli immigrati non sono degne di un paese civile.

L’accoglienza diffusa dei migranti resta uno dei cavalli di battaglia del Pd di Elly Schlein. Quanto vale elettoralmente questa posizione?

A occhio, direi che vale un -10% di consensi, che poi è precisamente quel che manca alla sinistra per diventare maggioranza.

Romano Prodi è tornato a evocare la necessità di un federatore per il campo del csx. Conte ha subito replicato che forse servirà per le correnti del Pd. Che cosa si giocano i due partiti alle prossime Europee?

Come partiti, non si giocano molto. Avranno comunque il 35% dei seggi europei destinati all’Italia, e difficilmente si assisterà a un trionfo di Schlein su Conte, o di Conte su Schlein. La vera posta in gioco dell’appuntamento europeo, a mio parere, non è il destino di Pd e Cinque Stelle, ma il colore della prossima Commissione, che potrebbe – per la prima volta – escludere o marginalizzare i socialisti. Quanto a Conte e Schlein, ho l’impressione che non saranno né lei né lui a federare il centro-sinistra alle prossime elezioni. Mi aspetto che, di qui al 2027 emergano altre figure, un po’ meno scialbe.

Certo, è anche possibile che a cavare le castagne dal fuoco dello schieramento progressista non sia l’apparizione di un federatore (o di una federatrice), ma che ci pensi il governo in carica, che potrebbe inciampare in qualche guaio così grosso da far rimpiangere il Pd e i Cinque Stelle. Ma se questo non dovesse accadere, ai progressisti resterebbe il problema di trovare un leader o una leader in grado di reggere il confronto con Giorgia Meloni. E secondo me è più verosimile che un leader nuovo e carismatico emerga dal mondo Cinque Stelle piuttosto che dalla nomenklatura del Pd.

Quindi lei pensa a uno schieramento di sinistra-centro in cui a federare sia il M5s?

No, penso che anche la mia ipotesi sia improbabile, ma non così improbabile come l’ipotesi che dai 20 capicorrente del Pd miracolosamente salti fuori un leader capace di controllare il partito e imporre la propria guida anche ai Cinque Stelle.

Sta formulando una specie di endorsement dei Cinque Stelle?

Per niente. La mia opinione sui Cinque Stelle resta negativa, se non altro perché hanno scassato i conti pubblici (se Giorgia Meloni dovrà remare tutta la Legislatura per tentare di varare qualche straccio di riforma economico-sociale, è solo perché i Cinque Stelle hanno devastato la finanza pubblica).

In realtà la mia apertura – possiamo chiamarla così? – verso i Cinque Stelle nasce da una considerazione sociologica: il problema del centro-sinistra è recuperare i ceti popolari, e i Cinque Stelle sono l’unica forza politica (nominalmente) di sinistra ancora in grado di attirarne i voti. Il compito storico del Pd è tenersi i voti dei ricchi e dei “ceti medi riflessivi”, cosa per la quale Elly Schlein è fin troppo attrezzata con le sue idee sul green, la transizione energetica, i diritti LGBTQIA+ (ho dimenticato qualche lettera?). Il compito dei Cinque Stelle è riportare a sinistra nuovi segmenti dell’elettorato popolare.

Sarebbe la fine della centralità del Pd…con quali effetti sul csx?

Malefici, se i Cinque Stelle non riusciranno a liberarsi del qualunquismo e della superficialità che si portano dietro dall’origine. Benefici, se la cultura politica dei Cinque Stelle evolvesse, e dovesse riuscire a sinistra quel che, negli ultimi 10 anni, Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno fatto a destra: convogliare verso di sé una parte dei voti popolari così cospicua da rompere l’egemonia del partito più grande (Forza Italia) e del leader più ingombrante (Berlusconi).

A più di un anno dall’insediamento del governo Meloni, come è cambiata la politica italiana? Le esperienze dei governi tecnici sono alle spalle?

Direi proprio di sì. Se si farà, la riforma presidenzialista renderà impossibile la formazione di “governi del Presidente” (che poi questo sia un bene, è tutto da vedere, anche se è difficile negare che è stato proprio un certo abuso del potere presidenziale a legittimare il cambio di assetto istituzionale). Quanto ai mutamenti della politica italiana nell’era Meloni, direi che sono essenzialmente due, strettamente interdipendenti: poche riforme economico-sociali (perché le risorse sono state prosciugate dallo sciagurato bonus del 110%), e conseguente spostamento dell’asse dell’azione di governo sul teatro internazionale. Dove, a quanto pare, Meloni ha una marcia in più.




Perché si fanno pochi figli – A proposito di “inverno demografico”

Nel 2011, in piena crisi finanziaria, per la prima volta dall’Unità d’Italia la popolazione italiana supera i 60 milioni di abitanti. Nei due anni successivi continua a crescere, toccando l’apice di 60 milioni e 350 mila abitanti nel 2013. Da allora inizia un inesorabile declino, che nel 2017 la riporta sotto i 60 milioni di abitanti, nel 2022 sotto i 59 milioni di abitanti, fino a questo 2023 che si chiuderà con una popolazione intorno ai 58.8 milioni di abitanti.

È un trend inesorabile?

Sì e no. Con le nascite scese sotto le 400 mila unità l’anno, e le morti salite intorno alle 650 mila (dopo i picchi dell’epidemia, quando avevano superato le 700 mila l’anno), lo sbilancio è di almeno 250 mila unità l’anno. Quindi il calo della popolazione è inevitabile, a meno che l’afflusso netto di stranieri si attesti intorno alla medesima cifra, o le donne residenti in Italia – italiane e straniere – tornino a fare figli.

Ma né la prima né la seconda condizione si stanno verificando. Come mai?

Apparentemente, il flusso degli stranieri (100-150 mila sbarchi l’anno, decine di ingressi dalla rotta balcanica, più 150 mila arrivi attraverso i decreti flussi) sarebbe sufficiente a neutralizzare il calo demografico “naturale”. Se ciò non avviene, è per un complesso di motivi: molti stranieri si limitano a transitare dall’Italia, diretti verso altri paesi europei; altri – per lo più irregolari – si fermano da noi, ma non prendono la residenza; quanto ai lavoratori ammessi con i decreti flussi, più di metà dei permessi sono stagionali. Il risultato è che la popolazione straniera residente, da circa un decennio, fluttua appena al di sopra dei 5 milioni di persone, senza alcuna capacità di attenuare il calo demografico.

Quanto alla seconda condizione, ossia una ripresa della natalità, è ancora più chimerica della prima. Le nascite sono poche sia perché, esaurito il baby boom degli anni ’50 e ’60, le donne in età fertile sono sempre di meno, sia – soprattutto – perché le donne fanno sempre meno figli. Ciò vale per le italiane, il cui tasso di fecondità è sceso sotto 1.2 nati per donna (era ancora vicino a 2 intorno al 1980), ma anche per le straniere, la cui propensione a fare figli – tuttora maggiore di quella delle italiane – è scesa ancora più rapidamente.

Quanto sia incisivo questo fattore lo rivela un semplice calcolo: se le donne italiane avessero un tasso di fecondità analogo a quello delle donne francesi (1.9), le nascite si salirebbero da meno di 400 mila a oltre 600 mila l’anno, una cifra quasi sufficiente a pareggiare il numero di morti.

Ma perché le donne italiane fanno così pochi figli?

Si sente spesso invocare la precarietà di tante occupazioni, la mancanza di asili nido, l’incertezza del futuro. Queste spiegazioni, tuttavia, sono basate su una confusione concettuale: è vero che con posti di lavoro meglio retribuiti, maggiori servizi sociali, un’economia più dinamica, il tasso di fecondità sarebbe maggiore di quello attuale; nello stesso tempo, però, non si può non notare che negli anni ’70 e ’80, quando i tassi di fecondità erano ancora prossimi a 2, la carenza di asili nido era ancora maggiore di oggi, la quota di posti di lavoro precari era analoga (se non superiore), e il tenore di vita era decisamente più basso di quello attuale. Quel che si tende a ignorare, se non a nascondere, è l’abissale cambiamento culturale che è intervenuto fra l’epoca in cui era il lavoro il centro delle nostre vite, e l’epoca in cui centrali sono diventati il consumo, l’intrattenimento, l’organizzazione scientifica del tempo libero. È perché teniamo troppo al nostro modo di vita e alle nostre più o meno abusate libertà che l’impresa di fare figli ci appare tanto ardua e rischiosa. Un figlio – non solo per la madre – significa meno cene con gli amici, meno weekend lunghi, meno svaghi, meno tempo per sé stessi, in definitiva: meno spensieratezza, fine dell’adolescenza prolungata. È anche per questo, e non solo per ragioni professionali, che una quota così ampia delle giovani donne che, alla fine, i figli comunque li fanno, attendono lo scoccare dei 30-35 anni, quando l’orologio biologico le avverte che il tempo sta per scadere.

La realtà indicibile è che, se non fossimo diventati una “società signorile di massa”, impegnata ad espandere senza limiti la sfera dei diritti, e refrattaria ad ogni contenimento dei desideri individuali, l’avventura di mettere al mondo dei figli ci spaventerebbe di meno.

Ecco perché le spiegazioni basate su precarietà, servizi sociali carenti, incertezza del futuro ci appaiono tanto seducenti, a dispetto della loro debolezza scientifica. Attribuendo a cause esterne l’origine delle nostre decisioni, quelle spiegazioni funzionano come perfette razionalizzazioni, che ci evitano il disagio di riconoscere le ragioni per cui, oggi, la scelta di fare e allevare figli è diventata così poco attraente.