Due Sinistre

Checché ne pensino i presunti vincitori, non esistono vincitori di queste elezioni. Solo mezze vittorie, o se preferite mezze sconfitte, perché sia il centro-destra sia i Cinque Stelle sono riusciti a raccogliere appena un terzo dei voti, e sono dunque lontanissimi sia dal 50% dei consensi, sia dal 50% dei seggi parlamentari. Se di vincitori non ce ne sono, in compenso uno sconfitto c’è, ed è il Pd, anzi è la sinistra tutta. Perché se è vero che il Pd ha più che dimezzato i voti del 2014, è altrettanto vero che le altre formazioni di sinistra sono andate decisamente male: malissimo i fuorusciti di Liberi e Uguali, che si sono dovuti accontentare di un misero 3.4% (più o meno il risultato di Sel nel 2013); male la Lista più Europa di Emma Bonino, che non è riuscita a raggiungere la soglia del 3%; penosamente i due cespugli alleati del Pd, che sono rimasti abbondantemente al di sotto della soglia dell’1%.

Ma il risultato più importante di questa tornata elettorale, a mio parere, è il cataclisma che ha investito l’elettorato della sinistra. Fino a ieri, per la maggior parte degli elettori esistevano il centro-destra, i Cinque stelle e la sinistra, con le sue varie anime e fazioni. Dopo il 4 marzo non è più così. Per molti è difficile ammetterlo, ma ormai la realtà è questa: una persona che si sente di sinistra si trova di fronte non una, ma almeno tre opzioni politiche fondamentalmente diverse: la sinistra riformista del Pd e di Più Europa, la sinistra conservatrice e nostalgica di Leu, la pseudo-sinistra o neo-sinistra dei Cinque Stelle. In parte era già così, perché molti elettori di sinistra da tempo avevano cominciato a votare Cinque Stelle, o a vedere con una certa simpatia chi lo faceva. Sono anni che, in una parte dell’elettorato progressista, i Cinque Stelle sono visti come una sorta di sinistra più pura, magari un po’ingenua e rozza, ma comunque meno compromessa con le logiche del Palazzo. E’ come se, agli occhi di una parte non piccola dell’elettorato progressista, ci fossero almeno due sinistre: quella tradizionale (Pd e fuorusciti), sostanzialmente identificata con l’establishment, e quella anti-establishment, più o meno adeguatamente rappresentata dai Cinque Stelle.

Questa doppia rappresentanza, riformista e populista, dell’elettorato progressista può non piacere a molti. Però bisogna rendersi conto che non è un’anomalia italiana. Una sinistra populista, che contende il primato alla sinistra tradizionale, esiste anche in altri paesi mediterranei, in particolare in Grecia (con Syriza) e in Spagna (con Podemos). La particolarità dei Cinque Stelle è di essere riusciti, finora, a nascondere la loro matrice principale che, secondo la stragrande maggioranza dei sondaggi degli ultimi anni, è più di sinistra che di destra. Le elezioni del 4 marzo hanno semplicemente reso evidente, per non dire plateale, l’esistenza in Italia di (almeno) due sinistre, fra le quali, che lo voglia o non lo voglia, l’elettorato progressista è chiamato a scegliere.

Questo disvelamento non disturba i Cinque Stelle, che non perdono certo il loro elettorato di destra per il solo fatto di attirare sempre più voti da sinistra: l’adattività del movimento di Grillo, il suo camaleontismo ideologico, sono oramai leggendari. Disturba invece profondamente il Pd, che credeva di avere solo il manipolo di Liberi e Uguali alla propria sinistra, e si trova improvvisamente con un vicino scomodo, molto scomodo, come i Cinque Stelle, una formazione che non si lascia facilmente descrivere in termini di destra e sinistra, ma indubbiamente compete con il Pd per attirare il voto dell’elettorato che “si sente” di sinistra.

Il Pd sembrava, fino a pochi anni fa, essere rimasto l’unico vero partito, organizzato e radicato in tutto il territorio nazionale. Ora che i Cinque Stelle hanno sfondato in tutta la penisola, e la stessa Lega è sbarcata in forze nelle regioni del centro-sud, si trova completamente spiazzato.

Che cosa lo ha ridotto a quello che oggi è? Come è stato possibile, nel volgere di meno di 4 anni, passare dal 40.8% dei consensi alle Europee (2014) al 18.7% delle Politiche?

La risposta facile è: Renzi, solo Renzi, nient’altro che Renzi. E c’è del vero in questa risposta. E’ stato Renzi, in un solo anno, a portare il Pd dal deludente 25.4% di Bersani al 40.8% del trionfo europeo. Ed è stato il medesimo Renzi, da allora, a commettere una serie impressionante di errori politici e comunicativi, a partire dal bullismo mediatico con cui ha condotto la campagna referendaria.

Però sarebbe riduttivo, e alquanto ingiusto, caricare il solo Renzi del disastro del 4 marzo. Non tanto perché, scissionisti a parte, sono stati ben pochi coloro che alle scelte di Renzi si sono opposti, ma perché la crisi del Pd fa parte di una storia molto più grande, e più incisiva, della mera stagione renziana. La crisi del Pd, a mio parere, ha almeno due grandi e lontane radici.

La prima è la progressiva trasformazione del Pci, “partito della classe operaia”, in una sorta di “partito radicale di massa”, un processo che il grande filosofo cattolico Augusto del Noce intravide già una quarantina di anni fa. In questi decenni il partito comunista e i suoi eredi sono divenuti sempre più i rappresentanti dei ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, affascinati dalle grandi battaglie sui diritti civili e ben poco interessati ai problemi che angustiano i ceti popolari: povertà, sicurezza, criminalità, immigrazione. Fra le ragioni dell’insuccesso della lista Bonino c’è anche, molto semplicemente, il fatto che un partito radicale ed europeista esisteva già, ed era il Pd renzizzato, imbevuto di retorica dell’accoglienza e di “grandi battaglie di civiltà”.

La seconda radice della crisi del Pd ha a che fare, invece, con l’evaporazione della forma partito. I dirigenti di quel partito paiono non essersi resi conto che, oggi, la rappresentanza politica è sempre meno di classe e di ceto, e sempre di più, semplicemente, di interessi e pretese forti, non importa quanto integrate in un disegno organico, non importa quanto espressione di blocchi sociali omogenei: flat tax, abolizione della legge Fornero, reddito di cittadinanza, reintroduzione dell’articolo 18, stop all’immigrazione irregolare. Questo è il tipo di cose che gli elettori comprendono, questo è il tipo di cose per cui sono pronti a concedere una chance a chi li governerà, senza andare troppo per il sottile riguardo alle alleanze e alle ascendenze ideologiche.

Del Pd si può apprezzare la (relativa) sobrietà dei programmi, anch’essi costosi e irrealistici ma non quanto quelli dei suoi avversari. Ma non si può non notare due tratti inconfondibili, che hanno informato tutta la campagna elettorale: la mancanza di una meta significativa specifica, e un racconto dell’Italia autocelebrativo e iper-ottimistico, del tutto sganciato dalla realtà, specie per i territori e i ceti più periferici.

Questo doppio limite, mancanza di idee e scarso contatto con la realtà, non è certo un’esclusiva della gestione di Renzi: è il marchio di fabbrica della rottamazione, un’operazione che ha portato alla sostituzione di un ceto dirigente mediocre e attempato con un esercito di modesti apprendisti dell’arte politica.

E’ successo, così, che anche il Pd di Renzi finisse per offrire alla sua base la stessa cosa che, da alcuni decenni, il maggior partito della sinistra offre a chi lo vota: identità, autostima, considerazione di sé. Basate sulle certezza di essere la parte migliore del paese, quella che è aperta, razionale, moderna, non teme l’Europa e la globalizzazione, vuole l’accoglienza e si batte per le grandi questioni civili. Una bella offerta, indubbiamente. Che tuttavia, dopo un decennio di crisi, pare interessare ancora intellettuali, artisti, docenti, giornalisti, dipendenti pubblici, “ceti medi riflessivi” in genere, ma a quanto pare non scalda più il cuore dei ceti popolari.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 marzo 2018



Due tipi di italiani

Secondo i sondaggi, gli italiani intenzionati a recarsi alle urne si aggirano intorno al 60%, mentre quelli intenzionati a votare Pd, il principale partito di governo, sono più o meno il 15% del corpo elettorale (e il 25% dei votanti). Sempre secondo i sondaggi, il consenso nei confronti di Gentiloni e del suo governo sfiora il 50%, un dato che, a oltre un anno dal suo insediamento, non può certo essere attribuito all’effetto “luna di miele”, ovvero al surplus di popolarità che di norma beneficia i governi appena insediati. A quanto pare il premier trae il suo consenso un po’ da tutti i segmenti della società italiana: dagli elettori del Pd, ovviamente, ma anche da chi pensa di votare altri partiti, o di non votare affatto.

Sono dati che fanno riflettere. Come è possibile che esista una divaricazione così grande fra il consenso al governo e quello al partito di governo?

Conosco la risposta che, istintivamente, siamo portati a fornire: il problema è il fattore R, o fattore Renzi. Bombardati, intontiti ed esausti dalle esternazioni di Renzi e dei suoi, agli italiani non par vero di potere, finalmente, sbadigliare un po’ davanti ai discorsi di un premier che parla lentamente, misura le parole, azzecca i congiuntivi, e soprattutto non offende nessuno.

C’è del vero, probabilmente, in questa diagnosi, ma forse di questi tempi ci sono anche altri meccanismi all’opera. La mia impressione è che si stia formando una sorta di divaricazione fra due segmenti di elettorato, sempre presenti sulla scena italiana ma ora particolarmente distanti l’uno dall’altro.

Che cosa li distingue?

Secondo me essenzialmente l’attitudine verso la demagogia, un tratto del discorso politico spesso erroneamente confuso con il populismo (la demagogia contagia anche i partiti non poco o per niente populisti). In questa stagione politica, resa confusa dall’emergere, per la prima volta in Italia, di un sistema tripolare, gli elettori tendono a polarizzarsi fra due atteggiamenti mentali contrapposti.

Una parte dell’elettorato ha estremamente chiaro chi è il nemico, e per sconfiggerlo è pronta a seguire chiunque prometta di farlo. Per questo segmento, forse maggioritario, quel che conta è che gli “altri” non vincano, e il voto assume spesso una forte valenza espressiva, o identitaria. Se si sceglie una determinata forza politica non è perché si pensa che potrà mettere in atto il suo programma, ma semplicemente perché questo gesto permette di dire qualcosa di sé stessi: chi si è, da che parte si sta, per quali principi si combatte. Di qui un’importante conseguenza: anche se ci si accorge perfettamente dei fiumi di demagogia che affliggono la propria parte politica, li si digerisce abbastanza serenamente, perché l’imperativo categorico è battere l’avversario o, se preferite, sopraffare la demagogia altrui. Questa credo sia la ragione per cui, nonostante lo spudorato e universale ricorso alla demagogia, tutte le forze politiche conservano uno zoccolo di consenso non trascurabile.

C’è un’altra parte dell’elettorato, molto eterogenea, che è insofferente per la demagogia, capisce perfettamente che nessuno, ma proprio nessuno, manterrà le promesse, e per questo motivo è tentata dal non voto, anche se poi alla fine, in diversi casi, un voto finisce per darlo, con le motivazioni individuali più diverse, compreso il “dovere” del voto. Questa, a mio parere, è la ragione principale della divaricazione fra la popolarità di Gentiloni e le intenzioni di voto per il partito di Renzi. L’elettorato insofferente per la demagogia apprezza il basso profilo scelto dagli esponenti del governo ma, per ora, stenta a riconoscere nel Pd un partito immune alla demagogia. Dove per demagogia non intendo solo le proposte chiaramente improvvisate (come l’abolizione del canone, o il salario minimo a 10 euro), ma il petulante racconto di successi che ogni persona non dico di buone letture, ma semplicemente dotata di senso comune, attribuisce senza esitazione alla ripresa economica europea e all’azione della Banca centrale.

Eppure, più che il populismo, credo che proprio il rapporto con la demagogia sia uno degli spartiacque fondamentali di questa stagione. Rispetto a questo spartiacque, ci sono forze politiche che hanno un posizionamento chiaro, e proprio da tale posizionamento ricavano linfa elettorale: è il caso della Lega e dei Cinque Stelle, in cui il ricorso alla demagogia non incontra alcun freno. Ci sono forze politiche in cui c’è una dialettica fra demagogia e realismo (è il caso delle piroette di Forza Italia sul Jobs Act, o sulla legge Fornero). E poi c’è il Pd, che a mio parere soffre di ambiguità proprio su questo punto, quello del rapporto con la demagogia. Troppo poco demagogico per attirare i consensi degli elettori più ideologizzati e radicali, che troveranno senz’altro nella ditta GrGr (Grillo e Grasso) un comodo approdo, lo è ancora troppo per portare dalla propria parte l’elettorato insofferente per la demagogia. Dove il “troppo” di cui parlo non sta tanto nella irrealizzabilità o pericolosità delle proposte (prima fra tutte l’idea di mantenere il deficit al 3% per cinque anni), quanto nella mancanza di sobrietà e realismo nel modo di raccontare questi anni, un tratto di “bullismo nella narrazione” che, a mio modesto parere, accomuna Renzi a Berlusconi, anch’egli incapace, a suo tempo, di stilare un bilancio appena plausibile dei propri anni di governo.

Peccato, perché, a giudicare dalla popolarità del premier, il segmento elettorale che apprezza la sobrietà e detesta la demagogia è tutt’altro che esiguo, e nessuna forza politica importante sembra interessata a farsene paladina fino in fondo. Per parte nostra, da qui al 4 marzo, cercheremo di dare voce a questa componente della società italiana, e di farlo nel modo più diretto: attraverso un’analisi impietosa delle promesse con cui i partiti si contendono il governo del Paese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 gennaio 2017



Sintonia tra PD e Forza Italia. L’intervista a Luca Ricolfi

“Di Maio è più pericoloso di Berlusconi”, ha detto il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari. Per Luca Ricolfi, sociologo e professore di Analisi dei dati all’Università di Torino, l’analisi non dev’essere considerata eretica. Anzi. Come scrive in un articolo sul sito della Fondazione David Hume si tratta “di una frase di chi ha la forza di mettere da parte i sentimenti, e il coraggio di far prevalere il cervello”.

  • Ricolfi, dando ragione a Scalfari, ammette quella che potrebbe essere l’unica soluzione possibile per governare ai tempi del Rosatellum: larghe intese tra Pd e Forza Italia?

No, un governo Pd-Forza Italia non è l’unica soluzione. Anche un governo Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia è una soluzione possibile. Dopotutto un governo Forza-Italia-Lega c’è già stato, e non è risultato catastrofico: semplicemente è stato mediocre come tutti gli altri governi della seconda Repubblica, paralizzati dai veti e incapaci di riformare il Paese

  • Per molti, anche nel Pd, è considerata un’idea indecente e si preferirebbe flirtare con i 5 Stelle. Un’alleanza con gli azzurri su quali presupposti si potrebbe reggere?

Credo che il punto di maggiore sintonia potrebbe essere la riduzione della pressione fiscale. Sfortunatamente sarebbero in sintonia anche su un altro punto: chiedere ulteriore flessibilità all’Europa, e rimandare alle calende greche la riduzione del debito pubblico.

  •  Renzi  ha perso ogni possibilità di costruire una coalizione, essendo stato abbandonato sia  da Giuliano Pisapia (a sinistra) sia da Angelino Alfano (al centro). E’ rimasto da solo?

Sostanzialmente sì. Formalmente no: ci sarà qualche penoso tentativo di creare due contenitori-cespuglio, uno alla propria destra (tipo Udc e simili), uno alla propria sinistra (tipo radicali-verdi-socialisti). Ma non porteranno molti voti, potranno solo assicurare qualche seggio ai notabili dei micro-partiti.

  • La minoranza Pd spinge per un passo indietro di Renzi, mentre Gentiloni sta raccogliendo sempre più consensi. Crede che potrebbe essere una soluzione per compattare il centrosinistra?

Forse Gentiloni potrebbe risolvere un problema politico, ma non credo accelererebbe il percorso delle riforme, che a mio parere è stato più incisivo (o meno lento) sotto Renzi.

  • La leadership di Renzi per molti è al capolinea. Ma c’è anche chi – come Cacciari – sostiene che l’unica sua possibilità sarebbe costruire un partito personale come ha fatto Macron. Che cosa ne pensa?

Per costruire un partito personale bisogna non essersi bruciati prima. Inoltre è bene aver studiato, avere alle spalle esperienze professionali vere, possibilmente di alto livello. Come ha notato saggiamente Lapo Elkann qualche giorno fa a “Otto e mezzo”, Macron – oltre ad essere nuovo – aveva tutte le carte in regola, Renzi no. Renzi ha molta energia, poca cultura, nessuna umiltà.

  • Il Rosatellum, tanto voluto anche dal Pd, non è stato un suicidio visto che le alleanze sono praticamente tutte naufragate?

Sì, direi che è stato il suicidio perfetto. Ma è la maledizione della legge elettorale: chi la cambia per aiutare sé stesso, finisce per aiutare l’avversario.

  • La sinistra-sinistra si è riunita attorno a Grasso. Crede che potrà far male al Pd? O magari potrebbe essere un’interlocutrice del Pd per il post-voto?

Secondo me la lista Grasso farà più male ai Cinque Stelle che al Pd, e dopo il voto farà una serena opposizione, dura e pura.

  • Il Pd, secondo i sondaggi, è ai minimi storici, mentre il centrodestra è in grande spolvero. Secondo lei, le urne confermeranno questo scenario? E, nel caso di un Pd, minoritario (al 20%) Renzi che fine farà?

Io non penso che il Pd prenderà solo il 20%, più facile che, con i cespugli, stia in prossimità del 30%. Quanto al futuro di Renzi non lo so: il ragazzo è sufficientemente scavezzacollo da risultare imprevedibile.

Intervista a cura di Rosalba Carabutti pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 9 dicembre 2017

 




Uno spregiudicato, Grasso. Un irresponsabile, Berlusconi

Grazie a Pierluigi Bersani—a mio avviso uno degli sfascisti più catastrofici della storia italiana (e della sinistra) di questi anni—una legione di pretoriani è riuscita in un’impresa che sarebbe stata impensabile nella Prima Repubblica democristiana, quella di ‘piazzare’ alle tre più alte cariche dello Stato—Quirinale, Montecitorio e Palazzo Madama—tre presidenti di parte, nessuno dei quali concordato con l’opposizione. Il fair play ormai è un lontano ricordo: il leone non si riserva la parte più grossa (quia est leo) ma prende per sé tutto il mazzo sapendo di poter contare sulla maggioranza dei voti.

Vedendo le mosse di Pietro Grasso di questi giorni, il suo grande elettore può ben  dirsi  soddisfatto. La prima performance fu l’estromissione dell’ex Cavaliere dal Parlamento grazie all’imposizione del voto palese: un’autentica vergogna giacché si è impedito il voto segreto per sfiducia nella propria base parlamentare–se nessun senatore del centro destra, infatti, avrebbe votato contro Berlusconi, non pochi senatori di sinistra avrebbero potuto obbedire alla loro coscienza e votare a suo favore, senza attenersi alle direttive dei gruppi parlamentari. Oggi si è avuta la seconda, con la scomunica pubblica del PD renziano e la restituzione della tessera. Sennonché quella tessera Grasso non avrebbe dovuto restituirla nel momento dell’elezione alla presidenza del Senato, come gesto simbolico e impegno a tenersi, nell’esercizio dell’alta carica, super partes? In passato, non tutti i titolari delle tre più alte cariche dello Stato hanno dato   prova di ‘stile’, è vero: non hanno abbandonato i rispettivi partiti né Casini, né Bertinotti, né Fini. Sennonché, a parte il fatto che, nello svolgimento delle loro funzioni, Casini, Bertinotti e Fini hanno cercato di far dimenticare le aree politiche  di provenienza (persino Gianfranco Fini–come dimostra il libro non simpatizzante che gli ha dedicato Paolo Armaroli—come Presidente della Camera  non ha demeritato), nessuno dei tre ha fatto sentire la sua voce per delegittimare pesantemente un partito, dicendo agli Italiani che il vero PD non è quello che pretende di essere tale ma quello del suo ‘benefattore’ Bersani.

 Intendiamoci, nessuno vieta a Grasso di scendere in campo—un liberale è decisamente contrario non soltanto al mandato imperativo ma anche a leggi che impediscano agli eletti del popolo di cambiare casacca—ma non può farlo senza deporre nell’armadio la giacca nera dell’arbitro per indossare la maglietta del giocatore. Mi rendo conto che a ragionare in termini di buon gusto e di correttezza etica in un periodo in cui conta solo il reato accertato dal tribunale e la colpa morale è relegata, come il peccato, nella privacy, si corre il rischio di abbaiare alla luna ma ricordare i codici del ‘mondo di ieri’ forse può configurarsi come un nuovo dovere civico.

 In questo mondo di iene e di sciacalli, è passata inosservata una notizia alla quale ha dato ampio risalto domenica scorsa il quotidiano ‘Libero’ con un articolo di Renato Farina, Sostenere Grasso per colpire Renzi. La tentazione (pericolosa) del Cav. Farina è un giornalista che non mi piace: il suo antirisorgimentismo, il suo tradizionalismo cattolico quasi lefevriano, il suo eccessivo gusto per il politicamente scorretto sono irritanti, almeno per un liberale ottocentesco come me, ma la sua denuncia di un centro-destra pronto, su ordine di Berlusconi, «a far di tutto, pur di facilitare la caduta di Renzi, allo scopo di favorire il consolidamento politico del presidente del Senato  alla testa di una sinistra di sapore comunista e giustizialista» me l’ha fatto apparire come il protagonista del Rinoceronte di Ionesco, l’unico ad essersi mantenuto lucido in una congrega politica  resa fin troppo euforica dal voto siciliano. Giustamente Farina ha ricordato il Kaiser che nel 1917 finanziò la rivoluzione bolscevica, Carter che nel 1979 armò Bin Laden per sconfiggere i sovietici in Afghanistan.« Così non va—ha rilevato—Non è roba liberale, non è lealtà, non porta bene la logica comunista del tanto peggio tanto meglio».

 Non è solo questione di lealtà, tuttavia. Ammettiamo pure che la sinistra antirenziana riesca a spaccare l’attuale PD e che, accanto al vecchio, se ne formi uno nuovo—in sostanza, una riedizione di Rifondazione comunista—di pari entità, quale vantaggio ne trarrebbe il paese? Se assieme—ipotesi dell’irrealtà—i due tronconi della sinistra ottenessero la maggioranza dei seggi parlamentari, che probabilità avrebbe il vecchio di impedire al nuovo di cancellare le poche leggi buone fatte nella breve era renziana? E se il partito antirenziano—rafforzato anche dalla desistenza berlusconiana– potesse far maggioranza col M5S, non sarebbe il trionfo del giustizialismo più disinibito e non comporterebbe per l’ex Cavaliere la ricerca di una sua Hammamet?

 Renzi gioca (malamente) la carta del riformismo socialdemocratico, il centro-destra gioca (o dovrebbe giocare) la carta del riformismo liberale: nemici oggettivi di entrambi sono gli antiriformisti della destra populista e della sinistra neo-massimalista—contro i quali potrebbero essere costretti, centro-destra e centro-sinistra, a coalizzarsi un domani non lontano, seguendo, d’altra parte, un trend europeo ben illustrato recentemente da Sergio Fabbrini sul ‘Sole-24 Ore’. La strategia che ha in mente Berlusconi–se Renato Farina non s’è inventato il foglio d’ordini partito da Arcore—non è la riprova del suo machiavellismo .Machiavelli si rivolterebbe nella tomba sapendo che un uomo politico per eliminare un competitore che gli contende il potere, favorisce l’avversario del suo avversario ovvero un estremista che una volta al governo, gli toglierebbe non solo il potere, ma anche la libertà, i beni e la vita).La strategia di Berlusconi, in realtà, è solo la riprova  della sua irresponsabilità—che rischia di rimanere l’unica caratteristica che lo accomuna ai giovani.




Qualcuno dica al signor Renzi di non vendere patacche

Qualcuno dovrà pur dirglielo, prima o poi, che il Presidente del Consiglio non è più lui.

Questo deve aver pensato il ministro Padoan quando, qualche giorno fa a Bruxelles, i giornalisti gli hanno chiesto di commentare le ultime proposte di Renzi in materia di economia: rottamare il fiscal compact, interrompere (anzi invertire) il già lentissimo percorso di riduzione del deficit, usare il deficit aggiuntivo (5 anni di indebitamento al 2.9%) per abbassare le tasse e fare investimenti pubblici.

Ma l’economia non è l’unico terreno su cui l’ex presidente del Consiglio ci martella da giorni. C’è anche il capitolo migranti, che si arricchisce ogni giorno di dichiarazioni e polemiche. Dopo aver praticato l’accoglienza indiscriminata nel suo triennio di governo, Renzi si è bruscamente risvegliato ed ora pare pensarla come Salvini: “aiutiamoli a casa loro”. Mentre per lo Ius soli arriva la decisione del premier Paolo Gentiloni di rimandare tutto all’autunno, con la possibilità che non se ne faccia più niente, per evitare un pericolosissimo voto di fiducia.

Né passa giorno senza che l’irrequieto segretario del Pd lanci i suoi strali, ora anche attraverso il suo nuovo libro (Avanti). Ce n’è per tutti, ma soprattutto per i suoi predecessori, Letta cui lui non ha fatto nulla (è stato il Pd a chiedergli di rottamarlo), Monti che è la vera causa dei nostri guai (se abbiamo le mani legate in economia è colpa sua). E se la Banca d’Italia rivede al rialzo le previsioni del Pil 2017 (dall’1.1% governativo di qualche mese fa a un incoraggiante 1.4%), eccolo di nuovo, che cinguetta su Twitter attraverso le parole del suo alter ego femminile, la sottosegretaria Maria Elena Boschi: “col tempo arrivano le prove che le politiche dei Mille Giorni erano coraggiose e giuste”.

Di fronte a una simile congerie di chiacchiere, forse, non sarebbe male provare a rimettere in fila i fatti. Perché il rischio dei mesi che ci aspettano, di qui alle elezioni (verosimilmente marzo 2018), è quello di una continua confusione fra il piano della realtà e quello della narrazione, fra la pietrosa verità delle cose e le parole alate con cui la politica prova ad addomesticarle.

Due sono, a mio parere, le insidie da cui dovremmo guardarci nei prossimi mesi. La prima è quella di prendere per buoni i propositi, spesso del tutto irrealistici, enunciati da chi si candida a guidare il paese. Vale per l’economia, dove l’idea di fare deficit (2.9% del Pil) per 5 anni, incrementando ulteriormente il nostro enorme debito pubblico, dovrebbe bastare a screditare chiunque la enunci, anziché essere dibattuta come un’alternativa davvero sul tappeto (e bene ha fatto il ministro Padoan a dissociarsene). Ma vale anche per l’immigrazione, dove sarebbe meglio prendere atto dei tre dati di fondo del problema anziché continuare ad alimentare illusioni: primo, l’Italia non ha né la volontà né la capacità di rimpatriare i migranti economici; secondo, la maggior parte degli Stati europei non hanno la minima intenzione di farsi carico dei rifugiati che noi abbiamo accolto; terzo, nessuno Stato europeo è disposto ad aprire i suoi porti alle navi che salvano migranti in mare.

Ma c’è anche un’altra insidia, ben più sottile, da cui dovremmo guardarci. Ed è l’insidia dei falsi bilanci, o fake stories (come verrebbe da chiamarle in questa strana era di fake news e di story telling). All’università c’è persino una disciplina scientifica che se ne occupa, si chiama “Analisi delle politiche pubbliche”. Dovrebbe essere obbligatoria per chi pretende di fare politica, e non farebbe male neppure a giornalisti e conduttori televisivi.

Che cosa si insegna in questa disciplina? In sostanza si insegnano le tecniche statistico-matematiche che, a certe condizioni, permettono di capire se un cambiamento intervenuto in un determinato sistema sociale in un dato arco di tempo è attribuibile all’azione di un decisore pubblico (tipicamente: un governo, nazionale o locale), e in quale misura. Ad esempio, se un aumento dell’occupazione, o della disoccupazione, o della povertà, è attribuibile a misure varate da un determinato governo. Quando sono usate con successo, queste tecniche di analisi dei dati aiutano ad evitare lo spettacolo cui i politici ci sottopongono sistematicamente quando raccontano i propri anni di governo.

Quali sono i capisaldi di questo spettacolo?

Sono tre: ignorare i fatti negativi, selezionare quelli positivi, attribuire questi ultimi alle politiche del governo.

Esempio. Ignorare che la povertà assoluta è aumentata e che il tasso di occupazione precaria ha toccato il massimo storico; sottolineare che l’occupazione è cresciuta e il Pil sta progredendo più velocemente di prima; attribuire questi ultimi risultati (positivi) all’azione di governo, e non fornire alcun resoconto dei primi (negativi).

Curioso. Uno studente di “Analisi delle politiche pubbliche” che ragionasse così sarebbe bocciato senza la minima esitazione. Un politico, invece, ottiene la deferente attenzione del pubblico e dei media.

Anche questo è un privilegio della casta. E, su di noi cittadini che dai politici siamo governati, produce effetti ben più gravi di quelli che siamo soliti attribuire ai vizi dei nostri governanti.

Pubblica su Panorama il 20 luglio 2017