Investimenti: ritorno agli anni ’70?

Nel mondo degli investimenti, il sentimento che si rileva spesso da parte dei risparmiatori è la nostalgia per gli anni ’80. Si ha spesso la sensazione che fosse più facile investire e far crescere i propri risparmi in quegli anni: era sufficiente investire in un buono postale, tenerlo lì fermo 10 anni, e alla fine ritrovarsi il capitale ben rivalutato, senza che fosse necessario avere una grande cultura finanziaria per far fare le scelte giuste.

Oggi, invece, molti risparmiatori si sentono quasi sopraffatti dal fatto di dover “seguire” i mercati, mentre in passato non era affatto così.

Insomma, molti vorrebbero rendimenti “certi” e senza sorprese, e così, si sono abituati a vivere l’investimento obbligazionario come un investimento con pochissimi rischi, però oggi questo non corrisponde più alla realtà.

L’investimento obbligazionario piace a molti perché c’è un punto di partenza, una scadenza, e paga cedole fisse (che sono viste come rendimento fisso): anche se il prezzo dell’obbligazione scende, questo tende a creare poche preoccupazioni in genere, perché molti sono disposti ad “aspettare la scadenza” per riavere il capitale (nominale) investito.

La possibilità che il titolo possa rendere molto meno del tasso di inflazione, e dare cioè un rendimento reale negativo, non sembra preoccupare, forse perché è da oltre 30 anni che l’inflazione scende e dunque questa possibilità non preoccupa più. Oggi forse ci siamo dimenticati che l’obiettivo dell’investimento finanziario è proprio quello di mantenere il passo con l’inflazione, ed evitare la svalutazione nel tempo dei propri risparmi.

Negli ultimi 40 anni, l’investimento in obbligazioni a cedola fissa è stato il miglior investimento possibile, proprio perché durante tale periodo, il tasso di inflazione è stato in costante discesa.

All’inizio degli anni ’80, il tasso di inflazione toccò un picco massimo in tutto il mondo occidentale, superando il 15% in molti paesi. Per cercare di far scendere il tasso di inflazione, le banche centrali introdussero una politica monetaria stringente, facendo salire i tassi di interesse, e così l’inflazione iniziò il suo percorso di discesa. Tale discesa sarebbe durata quasi 40 anni, e con buona probabilità sta giungendo a termine.

Nel grafico seguente vengono invece riportati il tasso di inflazione negli USA (linea nera) e nei paesi G7 (linea blu) dagli anni Sessanta ’60 ad oggi, insieme ai tassi di rendimento dei titoli di stato decennali americani (linea rossa) e dei titoli di stato dei paesi G7 (linea arancione).

Si vede bene come i tassi di rendimento dei titoli di stato abbiano seguito nel tempo il tasso di inflazione. Negli anni ’80 non soltanto le obbligazioni rendevano molto più di oggi, in linea con un tasso di inflazione più elevato, ma le obbligazioni decennali avevano un rendimento reale positivo, cioè ben superiore rispetto al tasso di inflazione. Negli ultimi 15 anni, invece, i rendimenti reali, cioè i rendimenti al netto dell’inflazione, si sono ridotti notevolmente.

Quando acquistiamo un titolo obbligazionario con cedole fisse, blocchiamo quel rendimento fisso fino alla scadenza. Se poi, successivamente all’acquisto, l’inflazione scende rispetto al momento in cui abbiamo acquistato il titolo, finiamo per aver bloccato un rendimento superiore all’inflazione che va via via scendendo (esempio nel terzo grafico sotto). In pratica, finiamo per ottenere un rendimento reale positivo.

Negli anni ’80 e ’90, gli investitori in obbligazioni in particolare hanno beneficiato di questa possibilità di bloccare rendimenti fissi mentre l’inflazione scendeva.

Nei periodi di inflazione crescente, invece, com’è accaduto dagli anni ’50 fino al 1981/1982, accadeva l’opposto: investire in obbligazioni a tasso fisso non permetteva di avere un rendimento reale positivo, anzi. Acquistare un titolo di stato con cedole fisse portava a vincolarsi ad un rendimento fisso che si rivelava penalizzante in quanto c’era una situazione di inflazione crescente, risultando in un rendimento reale negativo.

Negli ultimi anni, a causa dei rendimenti bassi offerti dai titoli di stato e dalle obbligazioni “sicure” dette “investment grade”, è partita la ricerca per il rendimento da parte dei risparmiatori, arrivando ad investire in obbligazioni “sub prime” (2005–2008), in obbligazioni bancarie subordinate (2012–2015), in obbligazioni high-yield, in certificates, ecc. Si tratta comunque di strumenti complessi e più rischiosi.

Molti risparmiatori quindi scelgono di tenere i soldi sul conto corrente e di non investire, questo per paura di restare scottati, oppure perché investire sembra diventato veramente troppo complicato. Tenere i soldi sul conto va bene fino a quando continuiamo ad avere un tasso di inflazione vicino allo zero: in una situazione di inflazione crescente, situazione che potrebbe arrivare nei prossimi anni, è la scelta peggiore.

L’idea di investire in strumenti “senza rischio” è un’ illusione: è come dire di voler guidare l’auto senza correre il rischio di incidente. Possiamo ridurre il rischio, possiamo minimizzarlo, ma non possiamo eliminarlo del tutto. In questa ricerca di certezze, molte persone si affidano a polizze o a prodotti a “capitale garantito”. I prodotti a capitale garantito garantiscono il rimborso del capitale nominale, non del capitale in termini reali: non garantiscono il rimborso di un capitale rivalutato al tasso dell’inflazione.

Questi prodotti devono inoltre sostenere dei costi per poter dare una garanzia del capitale nominale; pertanto, i prodotti a capitale nominale garantito spesso hanno costi impliciti più alti a parità di altri fattori rispetto ad investimenti uguali che non offrono la garanzia del capitale nominale, e dunque alla fine il prezzo del capitale nominale garantito è quello di ottenere rendimenti più bassi.

La ricerca di certezze negli investimenti è la vera bolla

È comprensibile voler evitare il rischio di perdita definitiva di capitale, come accade quando un emittente di un titolo non rimborsa e fa default: è un rischio che viene ridotto tramite la diversificazione del portafoglio. Voler eliminare invece completamente la volatilità e l’incertezza sui singoli componenti di un portafoglio è un’illusione: è come coltivare un orto avendo la pretesa di poter prevedere le condizioni climatiche e garantire che tutte le coltivazioni andranno bene in ogni momento. Le previsioni finanziarie sono simili alle previsioni del meteo: vanno riviste e rettificate man mano che escono nuove informazioni, e anche le strategie di portafoglio vanno rettificate in funzione delle nuove informazioni. Sono queste incertezze che creano volatilità e incertezze nei risultati di breve periodo.

Molti si innamorano dell’idea di poter fare un investimento dove non ci sono sorprese o incertezze, ed è forse per questo motivo che qualcuno sceglie di investire in strumenti che promettono certezze, come le polizze vita.

Le polizze vita sono prodotti di tutela, non sono investimenti finanziari in senso stretto. Hanno una componente di investimento finanziario, a cui si abbina qualche tutela legale per proteggersi da rischi personali, in copertura per i beneficiari della polizza. Queste tutele in alcuni casi possono essere utili, però le tutele costano!

È giusto pagare i costi per certe tutele offerte da una polizza solo se c’è una vera esigenza personale. Non è sempre giustificabile scegliere una polizza come investimento finanziario semplicemente perché promette un capitale o un rendimento nominale garantito a scadenza.

La diversificazione vera e la diversificazione finta

Invece di cercare a tutti i costi prodotti che promettono rendimenti certi, credo che sia più utile “gestire” la volatilità invece che cercare di comprimerla. Se è così diffusa la ricerca di rendimenti certi, probabilmente i prodotti che promettono certezze saranno sopravalutati: possiamo avere un vantaggio netto se abbandoniamo le false illusioni di avere rendimenti certi e garanzie inutili, in favore della gestione della volatilità. Così, invece di pagare costi per avere garanzie nominali, possiamo operare nella realtà e tenere per noi il denaro non speso per tali costi.

Il primo passo: suddividere il patrimonio per obiettivi.

Può essere una buona idea avere più di un conto/dossier titoli: un conto può essere dedicato alle spese ed entrate quotidiane, dove va tenuta una cifra che serve per affrontare imprevisti e che non va mai investita. Sul secondo conto con dossier, invece, teniamo il capitale che serve per affrontare l’obiettivo di investimento di medio periodo; sul terzo dossier teniamo il capitale che serve per affrontare gli obiettivi di lungo periodo (oltre 10 anni). Molte banche offrono la possibilità di avere di più di un dossier titoli senza spese; in questo modo possiamo essere prudenti con il capitale che serve magari entro tempi brevi, ed accettare più volatilità sul capitale che serve tra 10 anni, ad esempio.

Questo non vuol dire correre rischi non calcolati, significa avere aspettative realistiche.

Secondo passo: costruire una diversificazione utile

Diversificare non vuol dire investire piccolissime cifre in tantissimi fondi simili tra loro: significa abbinare investimenti che hanno andamenti molto diversi tra loro tramite strumenti che danno un valore aggiunto. Noto spesso che molte persone investono in titoli di Stato italiani non tramite acquisti diretti, ma tramite fondi o ETF.

Se il prodotto in questione investe solo in titoli di Stato italiani, dobbiamo chiederci che valore aggiunto offre questo prodotto, dato che si possono comprare titoli di Stato direttamente presso un qualsiasi intermediario. Se invece il fondo diversifica davvero, investendo in obbligazioni di emittenti molto diversi tra loro, allora posso anche trovare il valore aggiunto. In altre parole, è una buona idea analizzare il contenuto dei prodotti che abbiamo in portafoglio. Se abbiamo fondi o ETF che investono solo in Btp, possiamo chiederci se non sia il caso di sostituire il fondo con l’acquisto diretto di Btp, ad esempio.

Poi dobbiamo chiederci se il portafoglio di fondi che abbiamo offre una vera diversificazione oppure una “finta” diversificazione. Vediamo un esempio: qui sotto, nel grafico 4, (sotto) si vede l’andamento di un ETF che investe in obbligazioni societarie globali (linea nera) ed un ETF che investe nell’indice azionario globale (linea rossa).

I due prodotti non hanno un andamento identico, però sono sicuramente molto simili, cioè molto correlati. La diversificazione tra questi due strumenti quanto valore aggiunto crea la qualità del portafoglio?

Nel grafico 5, (sotto) invece, si vede l’andamento di un ETF che investe in titoli di Stato americani in dollari (linea nera) ed un ETF azionario globale (linea rossa): hanno un andamento molto divergente e poco correlato: diversificare in investimenti con andamento divergente può dare un valore aggiunto e servire per migliorare la qualità del portafoglio.

Per capire in quali fondi o ETF investire con l’obbiettivo di diversificare sul serio, è opportuno conoscere il contenuto dei singoli fondi, verificando di non avere troppi prodotti che siano delle “repliche” tra loro, cioè che abbiano andamenti identici.

Tradizionalmente si tende ad investire sia in azioni che in obbligazioni a tasso fisso, con una strategia cosiddetta bilanciata. Le strategie bilanciate di questo tipo sono una scelta sicuramente giusta nei periodi di inflazione calante, mentre possono essere una scelta non ottimale in periodi di inflazione crescente, scenario che potrebbe diventare realtà nei prossimi anni.

[le opinioni espresse in questo articolo sono personali, e non possono essere interpretate come suggerimenti finanziari]




I conti pubblici vanno male, ma non è tutta colpa dei grillini

Prima ancora di insediarsi, questo governo ha già conquistato un record: ieri pomeriggio, poco dopo le 15, lo spread ha toccato i 217 punti base. Non succedeva dal 28 gennaio 2014, pochi giorni prima che il traballante governo Letta fosse dimissionato dall’assalto di Renzi. Da allora lo spread ha attraversato alti e bassi, con un solo periodo critico paragonabile a quello attuale (il trimestre febbraio-aprile 2017), ma mediamente è rimasto sempre abbondantemente al di sotto dei livelli di oggi.

Ancor più inedita è la ripidità della salita dello spread: se guardiamo alla sua velocità di crescita, bisogna risalire alla grande crisi del 2011-2012 per ritrovare degli aumenti altrettanto vertiginosi di quelli delle ultime due settimane. Per non parlare della Borsa, che fino a qualche settimane fa era una delle più dinamiche del vecchio continente, mentre nelle ultime due settimane ha perso oltre il 6%, il che corrisponde a una perdita di oltre 30 miliardi di euro. Difficile fare dei conti precisi, perché le perdite di capitale dei possessori di titoli di Stato sono molto differenziate in funzione delle scadenze (massime per chi ha titoli a lungo termine, minime per chi ha titoli a breve), ma credo che, se si sommano i miliardi bruciati in Borsa e i miliardi bruciati sul mercato dei titoli di Stato, si possa tranquillamente affermare che la cifra che risparmiatori e investitori hanno perso in queste due settimane di incubazione del nuovo governo sia dello stesso ordine di grandezza, se non superiore, a quella (50 miliardi) che il nuovo governo spera di rastrellare con l’ennesimo condono (benignamente ridenominato “pace fiscale”), dai cui proventi spera di ricavare i quattrini per flat tax e reddito di cittadinanza.

Fin qui i disastri imputabili al duo Salvini-Di Maio, di cui non si sa se pensare che siano degli sprovveduti, che non hanno la minima idea di come funzionano i mercati finanziari, o se abbiano intenzionalmente voluto far precipitare la situazione (alcuni analisti si sono spinti a ipotizzare che provocare una crisi finanziaria sia un obiettivo intermedio, coscientemente perseguito, in modo da trovarsi presto “costretti” a uscire dall’euro).

Quella che ho esposto fin qui, tuttavia, è solo una faccia della medaglia. Ce n’è un’altra, che tendiamo a non vedere, ma che a mio parere è ancora più rilevante. Quando si parla di spread, troppo spesso si dimentica che di spread ne esistono due: uno è lo spread ordinario (quello di cui si parla dal 2011), ovvero la differenza di rendimento fra titoli di Stato italiani e tedeschi, l’altro è lo spread relativo, ovvero il rapporto fra il nostro spread e quello degli altri paesi a rischio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna (l’Irlanda è da tempo tornata nel gruppo dei paesi virtuosi). Questo secondo tipo di spread è molto più informativo, perché riflette solo le specificità dell’Italia, evitando di attribuire alle virtù o ai vizi di un singolo paese fenomeni che trascinano interi gruppi di paesi. Detto per inciso, questa è stata una obiezione giustamente sollevata nei giorni scorsi dai difensori del governo giallo-verde, che più volte hanno fatto notare che lo spread stava aumentando non solo in Italia ma anche in altri paesi. Ecco perché la storia di questi anni, vista in termini di spread relativo, potrebbe rivelarsi alquanto diversa da quella che abbiamo imparato attraverso lo spread assoluto.

E allora vediamo come sono andate le cose. Assumendo come metro lo spread dei due Paesi a noi più comparabili (Portogallo e Spagna), la storia è questa (vedi grafico seguente).

Fatto 100 lo spread di Spagna e Portogallo, il nostro spread è sempre stato inferiore a quota 100 sotto tutti i governi succedutisi fra il 2011 (anno di scoppio della crisi) e l’insediamento del governo Gentiloni. Ciò significa che i mercati si fidavano dei conti pubblici italiani più di quanto si fidassero di quelli spagnoli e portoghesi (non a caso messi sotto sorveglianza dalla Troika). Lo spread relativo era mediamente a livello 48 sotto Berlusconi, è salito a 62 sotto Monti, si è portato un po’ sopra quota 70 con Letta e Renzi. La vera svolta, però, è intervenuta nella seconda metà del 2016, con la campagna per il referendum istituzionale del 4 dicembre e in concomitanza con i molti appuntamenti elettorali critici in Europa e in America. Da allora lo spread relativo ha iniziato a crescere ininterrottamente e a un ritmo senza precedenti, fino a portarsi in prossimità della soglia critica dei 100, che indica che i nostri titoli di Stato sono considerati altrettanto rischiosi di quelli portoghesi e spagnoli. Il Rubicone del 100 punti è stato attraversato d’un balzo il 18 settembre dell’anno scorso, regnante Gentiloni. Da allora il nostro spread relativo, pur fra qualche oscillazione, non è mai sceso sotto i 100 punti, e anzi ha continuato a crescere inesorabilmente fino alla vetta attuale di 150 punti.

Ma non è tutto. Se osserviamo attentamente la curva che mostra il deterioramento della nostra posizione rispetto a quella di Spagna e Portogallo (grafico seguente), possiamo notare un paio di cose interessanti. La prima è che i mercati si sono accorti del voto del 4 marzo, perché l’andamento della curva si inverte precisamente a cavallo del 4 marzo (prima l’indice stava migliorando leggermente, poi altrettanto leggermente peggiora).

La seconda, ben più importante, è che al di là di questa piccola fluttuazione intorno alla data del voto, l’andamento generale dello spread relativo non è mutato per nulla: certo, è molto preoccupante oggi, perché siamo sopra quota 100 e la tendenza è alla crescita, ma era altrettanto preoccupante prima: dal gennaio del 2017, ossia da 15 mesi, lo spread relativo non ha fatto che crescere, e il Rubicone dei 100 punti lo ha attraversato ben 6 mesi prima delle elezioni del 4 marzo.

Questo significa che le domande con cui abbiamo a che fare sono due: perché lo spread relativo cresce oggi?, ma anche: perché cresceva pure ieri, quando eravamo saggi ed europeisti?

La mia risposta è che i mercati sono molto imperfetti ma non stupidi. I mercati si sono accorti che alcuni paesi, come Portogallo e Spagna, stanno riducendo il grado di vulnerabilità dei loro conti pubblici, se non altro perché sono tornati a crescere prima e più di noi. Ma, presumibilmente, si sono anche accorti che, dopo un periodo in cui abbiamo fatto qualcosa per risanare l’economia (soprattutto nel 2015-2016), ora il grado di vulnerabilità dei nostri conti pubblici è di nuovo in aumento. Secondo l’indice VS, elaborato dalla Fondazione David Hume, la svolta è avvenuta intorno all’aprile del 2017, circa 13 mesi fa: da allora l’indice segnala una lenta ma non per questo meno preoccupante risalita della vulnerabilità dei nostri conti. Questa circostanza, unita al fatto che, Grecia a parte, siamo giudicati il peggiore dei Piigs (paesi a rischio), dovrebbe farci molto riflettere: in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari, verosimilmente il paese più esposto sarebbe l’Italia.

Ecco perché le preoccupazioni per le intenzioni del nuovo governo sono più che giustificate. Con una sola postilla: se un governo Lega-Cinque Stelle costituisce un pericolo, è anche perché l’eredità che i governi della scorsa legislatura lasciano al governo entrante, al di là delle autolodi con cui essi amano raccontarsi, non è delle più rassicuranti.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Bloomberg
Articolo pubblicato su Il Messaggero del 26 maggio 2018



I conti pubblici vanno male, ma non è tutta colpa del governo giallo-verde

Quando si parla di spread, troppo spesso si dimentica che di spread ne esistono due: uno è lo spread ordinario (quello di cui si parla dal 2011), ovvero la differenza di rendimento fra titoli di Stato italiani e tedeschi, l’altro è lo spread relativo, ovvero il rapporto fra il nostro spread e quello degli altri paesi a rischio, come la Grecia, il Portogallo, la Spagna (l’Irlanda è da tempo tornata nel gruppo dei paesi virtuosi). Questo secondo tipo di spread è molto più informativo, perché riflette solo le specificità dell’Italia, evitando di attribuire alle virtù o ai vizi di un singolo paese fenomeni che trascinano interi gruppi di paesi. Detto per inciso, questa è stata una obiezione giustamente sollevata nei giorni scorsi dai difensori del governo giallo-verde, che più volte hanno fatto notare che lo spread stava aumentando non solo in Italia ma anche in altri paesi. Ecco perché la storia di questi anni, vista in termini di spread relativo, potrebbe rivelarsi alquanto diversa da quella che abbiamo imparato attraverso lo spread assoluto.

E allora vediamo come sono andate le cose. Assumendo come metro lo spread dei due Paesi a noi più comparabili (Portogallo e Spagna), la storia è questa (grafico 1).

Fatto 100 lo spread di Spagna e Portogallo, il nostro spread è sempre stato inferiore a quota 100 sotto tutti i governi succedutisi fra il 2011 (anno di scoppio della crisi) e l’insediamento del governo Gentiloni. Ciò significa che i mercati si fidavano dei conti pubblici italiani più di quanto si fidassero di quelli spagnoli e portoghesi (non a caso messi sotto sorveglianza dalla Troika). Lo spread relativo era mediamente a livello 48 sotto Berlusconi, è salito a 62 sotto Monti, si è portato un po’ sopra quota 70 con Letta e Renzi. La vera svolta, però, è intervenuta nella seconda metà del 2016, con la campagna per il referendum istituzionale del 4 dicembre e in concomitanza con i molti appuntamenti elettorali critici in Europa e in America. Da allora lo spread relativo ha iniziato a crescere ininterrottamente e a un ritmo senza precedenti, fino a portarsi in prossimità della soglia critica dei 100, che indica che i nostri titoli di Stato sono considerati altrettanto rischiosi di quelli portoghesi e spagnoli. Il Rubicone del 100 punti è stato attraversato d’un balzo il 18 settembre dell’anno scorso, regnante Gentiloni. Da allora il nostro spread relativo, pur fra qualche oscillazione, non è mai sceso sotto i 100 punti, e anzi ha continuato a crescere inesorabilmente fino alla vetta attuale di 150 punti.

Ma non è tutto. Se osserviamo attentamente la curva che mostra il deterioramento della nostra posizione rispetto a quella di Spagna e Portogallo (grafico 1), possiamo notare che l’andamento generale dello spread relativo prima e dopo il voto del 4 marzo è molto simile. Certo, è molto preoccupante oggi, perché siamo sopra quota 100 e la tendenza è tuttora alla crescita, ma era altrettanto preoccupante prima: dal gennaio del 2017, ossia da 15 mesi, lo spread relativo non ha fatto che crescere, e il Rubicone dei 100 punti lo ha attraversato ben 6 mesi prima delle elezioni del 4 marzo.

Questo significa che le domande con cui abbiamo a che fare sono due: perché lo spread relativo cresce oggi?, ma anche: perché cresceva pure ieri, quando eravamo saggi ed europeisti?

La mia risposta è che i mercati sono molto imperfetti ma non stupidi. I mercati si sono accorti che alcuni paesi, come Portogallo e Spagna, stanno riducendo il grado di vulnerabilità dei loro conti pubblici, se non altro perché sono tornati a crescere prima e più di noi. Ma, presumibilmente, si sono anche accorti che, dopo un periodo in cui abbiamo fatto qualcosa per risanare l’economia (soprattutto nel 2015-2016), ora il grado di vulnerabilità dei nostri conti pubblici è di nuovo in aumento. Secondo l’indice VS, elaborato dalla Fondazione David Hume, la svolta è avvenuta intorno all’aprile del 2017, circa 13 mesi fa: da allora l’indice segnala una lenta ma non per questo meno preoccupante risalita della vulnerabilità dei nostri conti (grafico 2).

Questa circostanza, unita al fatto che, Grecia a parte, siamo giudicati il peggiore dei Piigs (paesi a rischio), dovrebbe farci molto riflettere: in caso di nuove turbolenze sui mercati finanziari, verosimilmente il paese più esposto sarebbe l’Italia.

L’articolo completo esce oggi su Il Messaggero e sarà disponibile da domani sul sito della Fondazione David Hume



La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici

Come misurare la vulnerabilità dei conti pubblici

Questo articolo riporta una breve sintesi dei risultati di una ricerca che la Fondazione David Hume ha condotto negli ultimi anni sulla vulnerabilità dei conti pubblici delle economie avanzate[1].

1. A che serve una misura di vulnerabilità

Quando un paese ha un debito pubblico troppo elevato, gli investitori richiedono tassi di interesse più alti per sottoscrivere i suoi titoli di Stato: il rischio di non essere rimborsati, o di esserlo solo in parte, innalza il prezzo del prestito concesso. Accade così che i rendimenti dei titoli del debito pubblico possano toccare livelli molto alti, anche al di sopra dei tassi che normalmente vengono considerati usurari. Nel caso della Grecia, ad esempio, al culmine della crisi (febbraio 2012), i tassi sono arrivati a sfiorare il 30%. Quanto all’Italia, c’è stato un momento, alla fine del 2011, in cui i tassi si sono avvicinati pericolosamente alla soglia dell’8%, da molti considerata un punto critico, oltre il quale diventa pericolosissimo spingersi.

Ma come fa un paese a proteggersi contro i rischi di una crisi del suo debito sovrano? Come fa a sapere in anticipo che potrebbe sopravvenire una crisi? Come fa ad accorgersi che è seduto sopra una polveriera? Come fa, in altre parole, a misurare la propria vulnerabilità?

Apparentemente, la risposta è semplice: basta non indebitarsi troppo. Ma questa è una risposta insoddisfacente. Non solo perché non tutti i paesi sono come la Germania, che ha un’economia capace di crescere senza aumentare il debito, ma perché il nesso fra debito pubblico e rendimenti non è lineare: esistono paesi, come il Giappone, che riescono ad approvvigionarsi sui mercati a tassi molto bassi nonostante un enorme rapporto debito/Pil (oltre il 200%), ed esistono paesi, come la Romania, che sono costretti a pagare tassi relativamente elevati a dispetto di un rapporto debito/Pil molto contenuto.

Si potrebbe allora pensare di usare direttamente i rendimenti dei titoli di Stato, eventualmente corretti per l’inflazione, come misure di vulnerabilità. Questa strada, tuttavia, è resa impraticabile da almeno due circostanze.

La prima è che i mercati attraversano lunghi periodi di sonno, nei quali letteralmente ignorano le differenze fra paesi. È stato questo il caso dei primi 9-10 dieci anni dell’euro, nei quali i tassi richiesti a paesi come la Germania sono stati analoghi a quelli richiesti a paesi come la Grecia.

 

(Fonte:ECB)

La seconda circostanza è che i tassi sono fortemente condizionati dalla politica monetaria delle banche centrali, che può sostenere artificialmente i corsi dei titoli di Stato di un paese o, nel caso della Banca centrale Europea durante la crisi, di un gruppo di paesi deboli o ritenuti tali.

Se né il rapporto debito/pil né i tassi di mercato sono un buon metro per valutare la vulnerabilità dei conti pubblici, si potrebbe puntare sulle valutazioni dei debiti sovrani forniti dalle maggiori agenzie di rating, le “tre sorelle” Moody’s, Fitch e Standard and Poors’, con le loro scale a una ventina di posti, da AAA a D.  Sarebbe ragionevole, in altre parole, supporre che il rating sia una sorta di termometro della salute dei conti pubblici. Quando il rating è buono (tripla o doppia A) i conti pubblici del paese non corrono rischi, quando è cattivo (B) o pessimo (C) gli interessi sui titoli di Stato tendono ad essere elevati e rischiano di subire drastici incrementi in caso di crisi.

Sfortunatamente, tuttavia, anche questa strada non funziona bene, per diversi motivi. Il primo è che anche le Agenzie di rating, come i mercati, attraversano periodi di sonno, in cui non si accorgono delle enormi differenze di vulnerabilità che sussistono fra paesi.

Il secondo è che, tendenzialmente, il giudizio delle Agenzie segue e non precede quello dei mercati. Una misura di vulnerabilità dovrebbe essere predittiva e non postdittiva del comportamento dei mercati.

La realtà è che sia le Agenzie di rating sia i mercati sono due black box di cui non conosciamo i circuiti interni ma di cui sappiamo che funzionano in modi diversi, spesso molto diversi. Una comparazione sistematica delle valutazioni delle Agenzie e di quelle dei mercati su 24 paesi (quelli con informazioni complete) dal 1999 al 2016 ha rivelato che i casi di valutazioni coerenti sono più o meno quanti i casi di valutazioni incoerenti o in aperto conflitto (con le Agenzie che indicano un miglioramento quando i mercati segnalano un peggioramento; o viceversa).

Eppure, conoscere il grado di vulnerabilità dei conti pubblici di un paese sarebbe essenziale, per gli investitori come per i governanti. Se vulnerabilità significa, essenzialmente, esposizione al rischio di aumenti futuri dei tassi, una misura di vulnerabilità può essere una guida preziosa per implementare strategie di selezione del portafoglio che tengano conto di fattori (di debolezza o di forza) che sono già presenti, ma di cui i mercati potrebbero accorgersi solo in futuro, quando una crisi dovesse esplodere o viceversa rientrare.

Quanto ai governi, è chiaro che una misura di vulnerabilità dei conti pubblici capace di anticipare evoluzioni future li proteggerebbe da due rischi, uno ovvio, l’altro più sottile. Quello ovvio è di non risanare i conti pubblici solo perché i mercati non si sono ancora accorti della malattia, un’eventualità che ben si attaglia ai casi di Grecia, Portogallo, Italia, che nel primo decennio dell’euro hanno immeritatamente beneficiato del doppio sonno dei mercati e delle Agenzie. Il secondo rischio da cui una misura di vulnerabilità accurata potrebbe proteggere un paese e il suo governo, è quello di subire, nei periodi di crisi, una valutazione dei mercati e delle Agenzie peggiore di quella che la salute di suoi conti pubblici giustificherebbe.

Ecco perché può essere utile disporre di un indice che misuri il grado di vulnerabilità dei conti pubblici.

2. Indice VS e mente dei mercati

A questo scopo, come FDH, abbiamo messo a punto l’indice VS, o indice di Vulnerabilità Strutturale. L’idea-base su cui poggia l’indice VS è di misurare lo stato di salute dei conti pubblici di un paese in un modo che, al tempo stesso, rifletta la “mente dei mercati”, ossia il modo in cui i mercati giudicano i conti pubblici di un paese, e nello stesso tempo non sia sensibile agli elementi contingenti (fluttuazioni di breve periodo, politica monetaria espansiva o restrittiva) che in un particolare momento concorrono alla formazione dei rendimenti dei titoli di Stato.

L’unità di misura dell’indice sono i punti-base, e la sua interpretazione è la seguente: l’indice VS misura i rendimenti che, in base ai suoi fondamentali, dovrebbero avere i titoli di Stato di un paese se i mercati lo giudicassero con i parametri che mediamente hanno utilizzato negli anni 2009-2016, ossia nel periodo successivo al fallimento di Lehman Brothers.

L’indice è stato calcolato per 40 economie avanzate, o relativamente avanzate[2], per tutti gli anni che vanno dall’introduzione dell’euro (1° gennaio 1999) al 2016. Attualmente stiamo lavorando a una nuova versione dell’indice, con cadenza più frequente (trimestre o mese), e capacità di stimare anticipatamente il consuntivo dell’anno in corso.

Ed ecco, in estrema sintesi, alcuni risultati.

1. L’equazione dell’indice permette di scoprire quali sono, per la “mente dei mercati”, i fondamentali che contano e quelli che non contano, e soprattutto quanto contano, ossia quali effetti hanno sui rendimenti; sorprendentemente fra i parametri che non contano c’è il deficit pubblico, mentre un’importanza cruciale rivestono il debito pubblico detenuto da investitori esteri, l’inflazione e la competitività.

2. Applicato al periodo 1999-2016 l’indice VS mette in evidenza il deterioramento dei conti pubblici di Grecia, Portogallo, con molti anni di anticipo (dai primi anni 2000), quando né i mercati né le Agenzie di rating emettevano segnali di rischio.

Come si vede l’indice di vulnerabilità strutturale (linea azzurra) punta decisamente verso l’alto a partire dal 2003-2004 sia in Grecia sia in Portogallo.

Quanto agli altri due paesi che hanno dovuto chiedere aiuto alla Troika (Spagna e Irlanda) l’indice VS mette in evidenza il deterioramento dei rispettivi conti pubblici con qualche anno di anticipo (dal 2006-2007 in Spagna, dal 2006-2008 in Irlanda).

4. Nel caso dell’Italia, la serie storica dell’indice VS mostra che:

a) la tendenza di lungo periodo (dal 2000 al 2009) della vulnerabilità strutturale è all’aumento;

b) tuttavia, nel periodo immediatamente precedente la crisi di fine 2011, la vulnerabilità era in sia pur lieve diminuzione;

c) negli ultimi 4 anni la vulnerabilità strutturale tende a diminuire in termini assoluti, ma ad aumentare in termini relativi, ossia rispetto alle altre economie avanzate.

3. Indice VS, rating delle Agenzie, rendimenti

Forse il modo più efficace di usare l’indice VS è di metterlo a confronto con gli altri due principali strumenti di valutazione della salute dei conti pubblici, ossia i rendimenti dei titoli di Stato decennali sui mercati e il rating dei debiti sovrani forniti dalle Agenzie. Il primo confronto (con i mercati) può essere effettuato direttamente, perché l’indice VS è espresso in punti base, ovvero può essere interpretato come una sorta di rendimento “dovuto”: l’indice VS indica quali rendimenti richiederebbero i mercati se si basassero esclusivamente sui fondamentali e si comportassero con il livello medio di severità espresso nel periodo 2009-2016, allorché – a differenza che nel decennio di esordio dell’euro – erano “all’erta” e non “in sonno”.

Per il secondo confronto, dato che le Agenzie di rating adottano scale ordinali, le abbiamo convertite in punti base, imponendo la medesima media e la medesima deviazione standard osservate per i rendimenti. Inoltre, per il 2017, per il quale si hanno solo dati parziali, abbiamo effettuato una stima del valore dell’indice VS utilizzando tutta l’informazione disponibile fino a ottobre.

Il risultato è piuttosto chiaro, e si può riassumere in quattro punti.

Primo.  Nonostante gli sforzi di risanamento dei governi Monti e Letta, fra il 2011 e il 2013 la vulnerabilità dei nostri conti pubblici (linea azzurra) è aumentata di circa 150 punti base. Questo cambiamento è stato iper-segnalato dalle agenzie di rating, ma non dai mercati, che hanno invece reagito con una riduzione dei rendimenti.

Secondo. Fra il 2013 e il 2016 l’indice VS di vulnerabilità strutturale è rimasto sostanzialmente stabile (lievissimo miglioramento[3]), mentre gli altri due indici, ovvero il rating delle agenzie (linea rossa) e i rendimenti sui mercati (linea grigia tratteggiata) si sono mossi in direzioni opposte: le Agenzie hanno ulteriormente penalizzato l’Italia, i mercati hanno concesso rendimenti sempre più bassi.

Terzo. Come conseguenza di questi andamenti, il 2016 ha registrato il massimo di divaricazione fra il giudizio delle Agenzie e quello dei mercati, con uno scarto che – adottando una scala comune – è arrivato a sfiorare i 500 punti base.

Quarto. Nel 2017, secondo le nostre stime, la vulnerabilità strutturale dell’Italia (indice VS) mostra un significativo miglioramento, proprio mentre il giudizio dei mercati (rendimenti) si fa più severo. Quel che ne risulta è una convergenza fra le due traiettorie, che ora paiono fornire sostanzialmente la medesima valutazione sulla salute dei nostri conti pubblici. Del tutto opposto è l’andamento del rating delle Agenzie, che risente del declassamento del debito italiano BBB+ a BBB operato da Fitch nel mese di aprile.

La conclusione è amara: troppo tenere, o troppo distratte, quando avrebbero dovuto avvertitici della debolezza dei nostri fondamentali, le Agenzie di rating appaiono invece troppo severe oggi che i nostri conti stanno migliorando. Non sarebbe un problema se, dal rating delle Agenzie, non dipendessero pesantemente le scelte dei grandi investitori internazionali. E, soprattutto, se da tempo non si parlasse di nuove regole per valutare i titoli di Stato detenuti dalle banche: ove il valore di questi dovesse essere alterato in funzione del rating delle Agenzie, la tendenza delle Agenzie stesse a sopravvalutare il grado di vulnerabilità dell’Italia potrebbe costarci piuttosto cara.

Da questo punto di vista disporre di un indice che dipende solo dai fondamentali, insensibile sia agli umori dei mercati sia alle valutazioni, presumibilmente anche (lato sensu) “politiche”, della Agenzie di rating, potrebbe rivelarsi uno stimolo a fare di più quando siamo sopravvalutati e uno scudo per difendere la nostra reputazione quando siamo gravemente penalizzati.

[1] La ricerca ha usufruito di un contributo della Compagnia di San Paolo.
[2] Per economie avanzate o relativamente avanzate (o paesi ERA) intendiamo tutti i paesi europei, o extraeuropei ma appartenenti all’Ocse (41 paesi in tutto). Nella nostra analisi ne abbiamo considerati 40 perché nel caso dell’Estonia mancano i dati dei rendimenti dei titoli di Stato.
[3] Al lieve miglioramento in termini assoluti si è accompagnato invece un netto peggioramento relativamente agli altri paesi.