Dove riparte il contagio

di Rossana Cima e Luca Ricolfi

Nel corso della settimana che va da martedì 7 luglio a lunedì 13 luglio si sono registrati complessivamente 1.425 nuovi contagi, contro i 1.378 della settimana precedente.

Per capire se vi siano indizi di ripresa dell’epidemia si può guardare l’andamento dei contagi in un periodo di tempo più o meno lungo (qui riportiamo i dati a partire dal 1° giugno). Come si può vedere, la curva epidemica risulta in calo fino ai primi giorni di luglio, ma da poco più di una settimana ha iniziato a tendere leggermente verso l’alto.

Sono 5 le Regioni/Province Autonome che presentano, nell’ultima settimana (7-13 luglio), un incremento di nuovi casi significativo rispetto alla settimana precedente (30 giugno – 6 luglio). Si tratta di Emilia Romagna (+101), Lazio (+33), Veneto (+25) e Bolzano (+18) dove la curva epidemica risulta in aumento da almeno una settimana. Vi è poi la Calabria dove l’incremento dei nuovi casi è legato essenzialmente all’individuazione di migranti sbarcati a Roccella Ionica risultati positivi in seguito ad uno screening.

Le Marche presentano una situazione meno preoccupante. L’incremento rispetto alla settimana precedente è più modesto (+5), ma il trend degli ultimi giorni è in leggero aumento.

Accanto a queste 5+1 regioni ve ne sono 3 (Lombardia, Piemonte e Liguria) dove il numero di nuovi contagi settimanali rimane ancora alto, ma da almeno una settimana la curva risulta stabile.

Vi sono poi cinque regioni (Toscana, Abruzzo, Umbria, Friuli V.G. e Campania) dove si osserva una riduzione tendenziale della curva dopo un periodo di accelerazione più o meno marcata dell’epidemia. In quattro di esse (Toscana, Abruzzo, Friuli V.G. e Campania) i valori attuali sono comunque ancora nettamente al di sopra del punto di minimo toccato verso la fine di giugno.

La situazione appare invece meno preoccupante in sei regioni (Sardegna, Trento, Puglia e soprattutto Basilicata, Molise e Valle d’Aosta) dove il numero di nuovi casi settimanali risulta relativamente contenuto.

Nota tecnica

I dati utilizzati nell’analisi sono quelli diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile aggiornati al 13 luglio (ore 18).
Le serie storiche dei dati regionali sono state corrette per tenere conto dei ricalcoli effettuati dalla Protezione Civile.
Dall’analisi è stata esclusa la Sicilia perché oggetto di consistenti correzioni. Qui di seguito riportiamo comunque la serie storica ricalcolata.

 

 




Regioni: la grande retromarcia sui tamponi

La settimana che ora si è conclusa è certamente, da tre mesi, quella in cui abbiamo subito meno restrizioni. Caduto l’obbligo di restare in casa, caduto il divieto di spostarsi fra regioni, concessa la riapertura di quasi tutte le attività, restano solo le ben note regole minime: mascherine, distanziamento, lavaggio frequente delle mani, disinfezioni e sanificazioni, il tutto affiancato qua e là dai primi esperimenti di tracciamento.

Quel che è molto difficile capire, però, è a che punto è l’epidemia. Non dico capire quel che ci aspetta in autunno (questo nessuno può saperlo), ma quel che sta succedendo ora. I messaggi che ci arrivano, infatti, sono estremamente contrastanti. Più che informazioni, quel che riceviamo dalle autorità e dai media è un frastuono di segnali ambigui, confusi, incoerenti.

Questo fa sì che ognuno sia autorizzato a leggere la situazione come meglio gli aggrada. Chi è sufficientemente giovane da non temere il virus, o sufficientemente ottimista da scommettere sul ritorno alla normalità, può appoggiarsi sulle dichiarazioni del dott. Zangrillo, secondo cui “clinicamente” il virus è morto. Del resto questo modo di vedere le cose è supportato da una larga parte della stampa e delle tv, la cui linea editoriale è amplificare i segnali positivi e non calcare troppo la mano su quelli negativi. Linea che, più che essere suggerita dalle dichiarazioni delle autorità (preoccupate che la gente abbassi la guardia), è suggerita dagli atti del governo e dell’Istituto Superiore di Sanità, quando si affannano a dipingere l’Italia come un paese sicuro, o diffondono report secondo cui in nessuna regione – nemmeno in Lombardia – Rt è salito sopra 1.

Chi invece è sufficientemente vecchio da temere il virus, o sufficientemente scettico da non credere che sia tutto finito, e tanto meno che “andrà tutto bene”, può trovare (s)conforto alle sue credenze nelle interviste di tanti esperti (dal prof Galli al prof. Crisanti), che paiono suggerire che la riapertura sia stata un azzardo non in sé, ma stante il nostro scarsissimo attuale livello di preparazione sui 4 fronti fondamentali: tamponi, tracciamento, mascherine, indagine Istat. E anche qui non mancano i media la cui linea editoriale è sottolineare i pericoli che stiamo correndo.

Ma come stanno effettivamente le cose per un osservatore che voglia basarsi solo sui dati di fatto?

La mia risposta è che ci sono due tipi di osservatori e nessuno dei due è in condizione di dirci come stanno le cose. Le autorità sanno più cose di noi, ma non ce le dicono tutte perché vogliono tenersi le mani libere: se ci lasciassero accedere ai dati di cui dispongono, alcune loro decisioni potrebbero apparire più discutibili di quanto già appaiono. Gli studiosi indipendenti (non legati al potere politico) sono perfettamente liberi di dire come stanno le cose, ma non hanno accesso ai dati cruciali, perché le autorità – spesso con la inconsistente scusa della privacy – preferiscono impedire l’accesso ai database.

In questa situazione, tutto quel che possiamo fare è di raccontare, sulla base dei dati (scarsi e di pessima qualità) cui abbiamo accesso, quel che riusciamo a intravedere.
Comincio con l’unico indizio positivo: finora la temperatura media dell’epidemia, misurata con il termometro della Fondazione Hume, continua a scendere, sia pure ad una velocità sempre più bassa (in concreto questo significa che il numero di nuovi infetti era decrescente almeno fino a un paio di settimane fa). Il vantaggio di questo strumento di misura è che non si fonda solo sul numero di nuovi casi positivi, che è drogato dal numero di tamponi, ma su altre informazioni come le ospedalizzazioni, i decessi e, appunto, il numero di tamponi effettuato.

Le buone notizie, tuttavia, si fermano qui. Se dal livello dell’Italia nel suo insieme ci spostiamo a quello delle singole regioni, da qualche settimana i segnali non appaiono rassicuranti. Sono circa una decina le regioni, infatti, in cui la curva dei decessi ha ormai cessato di piegare verso il basso, e in alcune ha persino cominciato a rialzare la testa. Del resto, anche sul piano nazionale l’andamento dei morti è piuttosto preoccupante: 500 morti alla settimana non sono pochi, se non altro perché sono di più di quanti (400) se ne registravano quando Conte annunciava il lockdown.

Ma il segnale più preoccupante viene dalla politica dei tamponi. Ci eravamo illusi, all’inizio di maggio, che il nostro appello a fare tamponi di massa (come in Veneto) fosse stato raccolto dalle autorità sanitarie e dai governatori delle Regioni. E in effetti, per una quindicina di giorni, le cose erano sensibilmente migliorate: improvvisamente la curva del numero di tamponi, ma soprattutto quella del numero di persone testate, aveva invertito la sua discesa e aveva cominciato a puntare risolutamente verso l’alto.

Ma poi…

Poi, a partire dal 25 maggio entrambe le curve, e segnatamente quella delle persone testate, hanno cominciato a puntare verso il basso: oggi il numero settimanale di persone testate è al minimo storico (da quando la Protezione Civile fornisce il dato), e  circa il 27% sotto il livello di domenica 24 maggio. L’obiettivo di “fare come il Veneto” si allontana sempre di più. E, fatto forse ancora più preoccupante, questa tendenza a fare meno tamponi è generalizzata, perché riguarda quasi tutte le 21 Regioni/Province autonome.

Se consideriamo l’intervallo fra la settimana che si è appena conclusa (primi 7 giorni di giugno) e l’ultima settimana prima della riapertura completa (la settimana del 17-24 maggio), c’è una sola regione – il Molise – che ha aumentato sia i tamponi sia le persone testate.

Tutte le altre hanno diminuito o il numero di tamponi, o il numero di persone testate o entrambi.

E nella maggior parte delle regioni le riduzioni sono state drastiche, dell’ordine del 20-30%, ma in alcuni casi addirittura superiori al 50%, fino al caso limite della Valle d’Aosta, che ha ridotto i tamponi del 63.2%, e le persone testate del 73.9%.

Ma che cosa è successo lunedì 25 maggio per far sì che le migliori intenzioni delle autorità politiche e sanitarie si sciogliessero come neve al sole?

Credo sia successo quel che, pochi giorni prima che accadesse, avevamo previsto e temuto dalle colonne del Messaggero. E cioè che, se il governo non avesse solennemente sganciato la “pagella” delle Regioni dal conteggio dei nuovi infetti, con l’avvio della Fase 2 l’incentivo a ridurre il numero di tamponi (per evitare di scoprire troppi infetti) sarebbe divenuto irresistibile.

Così è stato. Dal 25 maggio, giorno in cui a quasi tutte le attività è stato permesso di riaprire, la maggior parte delle Regioni, per paura di subire limitazioni all’attività economica e al turismo, hanno pensato bene di frenare i tamponi.

Ed eccoci al punto di partenza. Chi sa come stanno andando le cose non parla, né ha il coraggio di rendere accessibili i dati in suo possesso. Chi vorrebbe sapere, e potrebbe parlare, è costretto a lavorare con dati parziali, scadenti, e inquinati dalla paura di scoprire nuovi casi.

Cosi, alla fine, ci resta solo la pietrosa realtà dei morti, la cui contabilità è meno soggetta ai capricci della politica, o all’alea delle procedure amministrative. E quella realtà non ci dà ancora, purtroppo, il segnale di speranza che cerchiamo.

[questo testo riprende in parte i contenuti di un articolo apparso sul Il Messaggero l’8 giugno 2020]




Il monitoraggio dell’epidemia

Nei giorni scorsi si è molto discusso di tre regioni – Lombardia, Molise, Umbria – che, secondo i parametri monitorati dalle autorità sanitarie, presentavano un rischio di ripresa dell’epidemia più alto di quello delle restanti regioni. In Umbria, in particolare, il famigerato indice Rt avrebbe sfondato la barriera di 1, portandosi a 1.23, un valore sufficiente (ove confermato in futuro) a far ripartire l’epidemia. Di qui la preoccupazione dei cittadini, e la ferma protesta della governatrice Donatella Tesei. Dopo un po’ di giorni di polemiche, ha provveduto l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) a gettare acqua sul fuoco con varie precisazioni e distinguo. In sostanza: tranquilli, Rt è ballerino quando i casi sono pochi, e comunque non è una pagella.

Ieri il caso dell’Umbria si è improvvisamente sgonfiato: il nuovo valore di Rt comunicato da Iss e Ministero della Salute è solo 0.53, migliore di quello di altre 10 regioni (la maglia nera, in compenso, è passata alla Valle d’Aosta, che secondo l’ultimo report ha un valore di 1.06, un pelo al di sopra della soglia critica).

Il fatto che fino a ieri si discutesse della rischiosità della situazione umbra, però, è paradossale, e getta una luce inquietante sull’intero sistema di monitoraggio dell’epidemia. Provo a spiegare perché.

Primo. La discussione sull’Umbria si è prolungata fino al 21 maggio, ma i dati su cui si basava erano relativi alla prima settimana di riapertura (dal 4 al 10 maggio), e a loro volta riflettevano – nella migliore delle ipotesi – i contagi avvenuti nell’ultima settimana di aprile. Dunque quello di cui si stava discutendo ieri, 21 maggio, era se l’Umbria potesse riaprire stante la presunta dinamica dei contagi un mese prima, ossia a fine aprile, in pieno lockdown. Leggermente surreale.

Secondo. I dati di base su cui si basa il monitoraggio delle autorità sanitarie sono gestiti come un segreto di stato. Se un analista indipendente o un’università vogliono controllare i calcoli, anche solo per perfezionarli, non possono farlo, perché mentre esiste un database pubblico dei dati della Protezione Civile non esiste un database dei micro-dati dell’Istituto Superiore di Sanità. La differenza fra le due fonti è cruciale: i dati della Protezione Civile sono spesso incoerenti e poco disaggregati, mentre quelli dell’Istituto Superiore di Sanità sono di qualità largamente superiore, se non altro perché per lo più corredati di informazioni temporali (data del decesso, ad esempio) e spaziali (comune di residenza del soggetto). In breve: nonostante il nostro paese continui a credersi una democrazia, l’accessibilità ai dati dell’epidemia ricorda quella dei regimi dispotici.

Terzo. La classificazione di una regione come più o meno a rischio si basa su 21 parametri (in qualche caso descritto in modo confuso, generico o farraginoso), ma l’algoritmo che trasforma i 21 parametri in un giudizio di rischiosità non è specificato in modo rigoroso ed esplicito. Questo impedisce ai cittadini, ma soprattutto ai governatori di Regioni e Province autonome, di valutare la razionalità ed equanimità del giudizio finale. Detto altrimenti: l’eccesso di indicatori, e l’assenza di un algoritmo esplicito, rendono incontrollabile (e quindi insindacabile) il giudizio delle autorità centrali. Una Regione che si senta ingiustamente penalizzata non ha alcuno strumento per difendersi. Non vorrei essere un governatore.

Quarto. Non so quanta importanza le autorità sanitarie attribuiscano a Rt, né se lo usino per capire la situazione o per legittimare le proprie scelte. Però quello che so, in quanto studioso di analisi dei dati, è che è difficile, nell’oceano della letteratura matematico-statistica, trovare un dispositivo di misurazione così dibattuto, controverso, ricco di varianti, nonché fortemente dipendente dalle ipotesi e dalle scelte dell’analista. In questa situazione sarebbe auspicabile che, quando si dice che una regione, in un certo momento o periodo, ha un determinato valore di Rt, fosse possibile riprodurre il procedimento che ha condotto a calcolarlo. Il che significa fornire: matrice dati utilizzata, procedimento di stima adottato, ipotesi e stime cui si è dovuto ricorrere. Così procede la scienza, così dovrebbero procedere istituzioni e comitati scientifici.

Quinto. E’ inquietante che, a causa dei ritardi nell’avviare l’indagine campionaria sulla diffusione del virus (altri paesi l’hanno già condotta, nonostante abbiano avuto meno tempo di noi), ancora nulla di preciso si sappia sul grado di diffusione dell’epidemia nei vari territori. Ed è ancora più inquietante che, a causa di questo vuoto di conoscenza, si sia costretti ad affidarsi – nella valutazione del rischio epidemico di ogni territorio – al più ambiguo e potenzialmente fuorviante degli indicatori – ovvero al numero di casi diagnosticati. Quanti siano i nuovi casi accertati ogni giorno in un determinato territorio, infatti, dipende non solo da quanti siano i nuovi casi effettivi (notoriamente molti di più), ma dalle politiche che le autorità sanitarie locali prediligono: dare o non dare la caccia agli asintomatici, fare o non fare il tampone ai malati non ospedalizzati, favorire o ostacolare la collaborazione delle università e dei privati.

Ed eccoci al punto cruciale. Una Regione attiva nella ricerca dei contagiati (ad esempio il Veneto) potrebbe essere giudicata a rischio solo perché aumentano i casi diagnosticati, mentre una regione pigra, o che ha scelto consapevolmente di fare pochi tamponi, potrebbe risultare a basso rischio solo perché non si dà molto da fare per scovare i contagiati. Di qui il paradosso: se il governo continuerà a monitorare l’epidemia conteggiando il numero di nuovi casi, le Regioni che non vogliono tornare in lockdown dovranno limitare il numero di tamponi; e le Regioni che, per salvare vite, hanno scelto di fare tanti tamponi, rischieranno di essere giudicate a rischio.

Credo che la situazione non lasci molte alternative. O il governo sgancia la valutazione del rischio regionale dalla conta dei nuovi casi (ma in che modo, se le indagini sierologiche sono in alto mare?), oppure le Regioni avranno un forte incentivo a fare pochi tamponi. Con la conseguenza, tragica, di aumentare ancora il bilancio dei morti.

Pubblicato su Il Messaggero del 23 maggio 2020




A che punto siamo? Bollettino Hume sul Covid-19

Bollettino bisettimanale sull’andamento dell’epidemia

Iniziamo oggi, martedì 28 aprile, la pubblicazione di un bollettino sull’andamento dell’epidemia, che sarà disponibile sul sito della Fondazione Hume ogni martedì e ogni venerdì, di norma entro la mattina.
In questo primo bollettino, che esce a meno di una settimana dall’inizio della fase 2, ci concentriamo su due domande che riteniamo cruciali:
1) a che punto siamo nel percorso che dovrebbe condurci alla meta di “contagi zero”?
2) esiste almeno una regione italiana che è pronta alla ripartenza?
Per rispondere a queste domande in modo rigoroso, dovremmo avere informazioni che purtroppo non abbiamo. Alcune di esse semplicemente non esistono (è il caso del numero effettivo di contagiati in Italia), altre esistono ma sono tenute nascoste dalle autorità (è il caso dei dati sui flussi di ingresso e di uscita dagli ospedali). Dunque dobbiamo tentare una risposta con il poco che passa il convento della Protezione Civile.
Un modo per rispondere alle nostre due domande è di chiederci qual è il punto in cui l’Italia (o una sua regione) oggi si trovano, fatto 100 il numero di morti o di nuovi contagiati toccato nel giorno peggiore dall’inizio dell’epidemia (il cosiddetto giorno di picco): se il contagio è ancora galoppante il valore dell’indice dovrebbe essere prossimo a 100, se si è ridotto e si sta spegnendo il valore dovrebbe essere prossimo a zero.
Ebbene, la risposta per l’Italia nel suo insieme è che il ritmo quotidiano dei decessi ufficiali è il 36.2% del valore di picco, mentre quello dei nuovi contagi registrati è il 26.5%. E’ vero che il primo dato si riferisce a contagi avvenuti circa 3 settimane fa, e il secondo a contagi avvenuti circa 2 settimane fa, e dunque la situazione potrebbe nel frattempo essere migliorata. Ma in entrambi i casi non si tratta certo di dati rassicuranti: per dire che siamo vicini alla meta di “nuovi contagi zero” quei due dati dovrebbero essere molto più vicini a zero di quanto lo siano, specie se si considera quanto a lungo una persona può restare contagiosa dopo aver contratto il virus.
Una buona regola potrebbe essere: aspettiamo almeno fino al momento in cui entrambi questi indici, e soprattutto quello dei decessi (assai più affidabile di quello dei contagiati registrati), siano scesi vicino a zero. Un valore prossimo a zero, infatti, indicherebbe che 2-3 settimane fa il numero di nuovi contagiati era basso, e che presumibilmente la maggior parte dei nuovi contagiati di allora ha cessato di essere contagiosa.
E nelle singole regioni, com’è la situazione?
Estremamente differenziata, a quanto pare. Ci sono regioni (poche, purtroppo) in cui il contagio già 2-3 settimane fa era relativamente vicino a zero: Valle d’Aosta, Umbria, Basilicata, provincia di Bolzano.
E ci sono regioni (quasi tutte grandi) nelle quali la situazione (sempre 2-3 settimane fa) era ancora molto preoccupante sia sul versante dei decessi, sia su quello dei nuovi contagiati: Veneto, Piemonte, Liguria, Toscana.

Colpiscono, in particolare, la situazione del Veneto, in cui i decessi erano al 87.8%, ossia poco al di sotto del picco, e quella del Piemonte, in cui i nuovi contagi erano al 69.2% (valore massimo tra tutte le regioni).
Anche la Liguria desta molta preoccupazione, perché sia il numero di decessi, sia il numero di nuovi contagi, superava il 60%.
Fra le grandi regioni, infine, è il caso di segnalare la posizione della Toscana, che risulta tra le regioni con il numero di nuovi contagi più elevato (5° posto). Quanto alla Lombardia la sua posizione è tuttora preoccupante per il numero di nuovi contagi ma è relativamente rassicurante per quanto riguarda i deceduti.

Che cosa sia accaduto nel frattempo, e come sia la situazione oggi, sfortunatamente non è dato sapere. I dati ufficiali su cui siamo costretti a basarci si comportano come la luce delle stelle: non ci dicono quel che accade nel tempo presente, ma quel che accadeva in un passato più o meno remoto.




Umbria e Basilicata: la lepre e la lumaca nella lotta al Coronavirus

(il termometro della Fondazione Hume regione per regione)

Da lunedì 6 aprile la Fondazione David Hume inizia la pubblicazione di un bollettino settimanale sull’andamento dell’epidemia nelle 19 Regioni italiane e nelle 2 Province autonome di Trento e Bolzano.
Il bollettino settimanale sulle Regioni e Province si affianca al bollettino giornaliero sull’Italia nel suo insieme, che esce ogni giorno alle 20 sul sito della Fondazione, nonché, alla medesima ora, nell’ambito del telegiornale di La7.
Entrambi i bollettini forniscono una valutazione dell’andamento dell’epidemia mediante un nuovo indice sintetico e intuitivo. L’indice si legge come una temperatura, e misura la velocità di propagazione del contagio su una scala che va da 42° (epidemia galoppante) a 37° (epidemia sostanzialmente arrestata).

Risultati dell’ultima settimana. Nel corso della settimana che va da lunedì 6 aprile a lunedì 13 aprile la temperatura dell’epidemia è scesa nella maggior parte delle regioni.
Sei sono invece le regioni che registrano una tendenza all’aumento: Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Friuli V.G., Piemonte e Molise.

Se consideriamo le tendenze più recenti, ovvero gli ultimi due giorni della settimana, la regione con la temperatura più bassa (ossia con la dinamica del contagio più lenta) è risultata l’Umbria, quella con la temperatura più alta (ovvero con la dinamica del contagio più pronunciata) è stata la Basilicata.
Oltre all’Umbria, anche altre cinque regioni mostrano un andamento migliore di quello dell’Italia nel suo insieme: Calabria, Marche, Lombardia, Sardegna e Campania.
Per questa settimana la regione-lepre (la più rapida nella corsa ai 37 gradi) è l’Umbria, che ha già raggiunto 37.0.
La regione-lumaca (la più lenta) è la Basilicata, con 38.6.
Questa settimana, nessuna regione ha più di 40 di febbre.

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Appendice

Riportiamo, di seguito, i diagrammi dell’evoluzione settimanale della temperatura nelle 21 Regioni e Province.