Il referendum del 29 marzo

Fra chi segue settimanalmente i sondaggi si sta facendo strada una sensazione, se non una previsione: il Pd gode di una discreta salute, i Cinque Stelle stanno perdendo consensi settimana dopo settimana, al punto che – a breve – potrebbero essere sorpassati da Fratelli d’Italia, l’unico partito in costante ascesa da mesi. Con la Lega vicina al 30%, il Pd vicino al 20, e il partito della Meloni in vista del 15 i Cinque Stelle (che, lo ricordiamo, in Parlamento sono di gran lunga il primo partito) potrebbero precipitare al quarto posto.

Chi vede le cose in questo modo, però, forse non fa i conti fino in fondo con un evento politico che ormai è alle porte: il referendum confermativo sul taglio del numero dei parlamentari (da 945 a 600), previsto fra una manciata di settimane (domenica 29 marzo). Qualsiasi cosa si pensi di questa riforma costituzionale (personalmente la trovo tanto ragionevole quanto di scarso impatto: sono assai più sostanziali i cambiamenti delle regole di cui ci sarebbe bisogno), resta il fatto che essa è stata una bandiera di un solo partito (il Movimento Cinque Stelle), è stata osteggiata con decisione dal Pd, e alla fine è passata non certo perché il Pd si sia convertito, ma perché i Cinque Stelle l’hanno posta come condizione per imbarcare il Pd e Leu nel nuovo governo.

Dunque quel che dobbiamo attenderci non è che il referendum passi nell’indifferenza generale (visto che nessun partito osa schierarsi apertamente a favore del no), bensì che il Movimento Cinque Stelle, che di quella riforma si considera – del tutto giustamente – il promotore e l’artefice, colga l’occasione per passare all’incasso sul piano del consenso. E’ quasi certo che il taglio dei parlamentari avrà l’approvazione della stragrande maggioranza dei votanti, ed è impensabile che, su questo successo, i Cinque Stelle non tentino un’operazione di recupero del consenso perduto, magari trasformando l’evento degli Stati generali in un’occasione di autocelebrazione, che non potrà non sfociare in un revival della retorica anticasta che ne ha segnato le origini.

Con quali effetti sul seguito elettorale?

Difficile dirlo, perché spesso il consenso ad A è anche il frutto del discredito di B, C e D, ovvero delle altre forze politiche. Quel che però mi sembra ragionevole prevedere è che questa vittoria possa rallentare (se non invertire) il trend di declino dei Cinque Stelle, ma soprattutto possa rendere più evidente l’abdicazione del Pd da ogni velleità di dare un segno, il proprio segno, al governo giallo-rosso. Dopo aver ceduto sul taglio dei parlamentari, dopo essersi rassegnato al reddito di cittadinanza (aspramente criticato fino a pochi mesi fa), dopo aver piegato la testa su concessioni autostradali e giustizia, dopo avere esitato e temporeggiato su tutto ciò che riguarda l’immigrazione (dai decreti Salvini allo ius soli), il Pd zingarettiano appare pronto a tornare quel che era prima di Renzi, forse fino al punto di riaccogliere, a braccia più o meno aperte, i transfughi fin qui rifugiati in Leu.

Un processo, questo, che l’attivismo di Renzi non fa che mettere impietosamente a nudo. Perché è vero che a salvare i Cinque Stelle da un’ecatombe elettorale è stato Renzi, è vero che a sdoganarli a sinistra è stato Renzi, è vero che Italia Viva fin qui ha digerito quasi tutto ciò che il convento giallo-rosso imponeva ai suoi adepti, ma non si può non notare che quello che Renzi oggi dice e rivendica a nome di Italia Viva altro non è, sulla maggior parte delle questioni, esattamente ciò che il Pd diceva e rivendicava fino a ieri.

La conclusione è semplice. I Cinque Stelle sono stati il vero dominus del governo giallo-rosso e si apprestano a rinverdire il loro populismo anticasta. Renzi e Italia Viva, dopo la mossa opportunista e anti-salviniana di far nascere il Conte 2, stanno tornando ad assumere il loro profilo naturale, quello di una sinistra riformista e garantista. Solo il Pd resta un enigma, incerto fra il suo passato renziano e il suo presente grillino.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 febbraio 2020



True News … Good News

Le questioni istituzionali e di policy giudiziaria sono certamente uno dei terreni sui quali più frequentemente il dibattito viene sepolto sotto la coltre tossica e grigia delle fake news, pseudo news e non-news. Una folla di protagonisti, più o meno qualificati, vaga in quest’universo della surrealtà, con la serietà e la determinazione di chi sta lottando per la sopravvivenza, mentre i dati oggettivi urlano muti il loro desiderio di essere vendicati in nome di una verità semplice, non della Verità ideologica o, peggio, di convenienza, cui si tenta di piegare continuamente la realtà.

Alcuni esempi di questa surrealtà fanno veramente effetto. Mi è capitato qualche giorno fa, ad esempio, di partecipare ad un dibattito pubblico sulla nuova legge elettorale e sentir dire un autorevole esponente politico di un importante gruppo parlamentare che non possa dubitarsi del fatto che una legge elettorale che stabilisce una soglia dell’8 per cento sia certamente più “rappresentativa” (sic) di una che colloca quella soglia al 3 per cento.

La manipolazione della comunicazione pubblica con l’arma impropria della falsificazione è ancora più evidente allorché si applichi quella che io chiamo la “disinformazione di qualità”, la disinformazione cioè messa in atto non da “informatori generici o professionali” (come ad esempio i giornalisti), ma da coloro che professionalmente sarebbero i depositari del sapere tecnico o scientifico: “gli esperti”.

E, tanto per cambiare, i “disinformatori di qualità” pullulano nel mondo del diritto. Un elementare istinto di sopravvivenza mi impedisce di esemplificare questa affermazione con citazioni di episodi realmente accaduti, anche in forma anonima e con omissis sui protagonisti. Si sa, all’occhio vigile della legge non sfugge nulla e lo stesso vale per quello dei giuristi. Meglio non rischiare.

Raramente però si mette in luce un ulteriore effetto nefasto del frullatore della disinformazione. Che cioè la fake news rischiano di nascondere non solo le notizie scomode per taluni interessati, ma anche quelle notizie che potrebbero costituire un motivo di soddisfazione generale, al di là delle opinioni di ciascuno sul loro merito.

Un esempio recente è dato, a mio parere, dal confronto tra la vicenda catalana e quella dei referendum di Lombardia e Veneto. Nell’un caso come nell’altro la materia è certamente molto politicizzata e anche molto divaricante: un ottimo terreno per la mistificazione informativa allo scopo di accrescere i dividendi partigiani.

Eppure, proprio le polarizzazioni spregiudicate, impediscono di mettere in luce alcuni dati che, almeno dal nostro punto di vista, dovrebbero essere considerati un plus  per tutti.

Mi riferisco alla circostanza che, a differenza di quanto accaduto al di là del mediterraneo, la vicenda dei referendum italiani meriterebbe un compiacimento complessivo per come il nostro stato costituzionale ha funzionato, attivando quei meccanismi selettivi che hanno consentito di arginare le spinte anticostituzionali, senza però mortificare l’aspirazione democratica a suggellare con un referendum l’avvio di processi per la realizzazione di forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi dell’art. 116 della Costituzione.

La vicenda referendaria italiana va, infatti, letta, non solo attraverso la lente del processo politico, ma anche attraverso quella delle garanzie costituzionali che si sono manifestate con la sentenza n. 118/2015 della Corte costituzionale, la quale ha sostanzialmente dato il via libera al referendum sulla disciplina dell’art. 116 della Costituzione, frenando invece le pulsioni extra ordinem verso forme di indipendentismo incompatibili con l’Unità della Repubblica italiana.

Insomma in Italia lo stato costituzionale questa volta a funzionato bene.

Che qualcuno valorizzi questi fatti, irriducibili alla partigianeria della polemica abituale (e dunque politicamente apolidi), ma fondamentali per quel Nation building, ancora tutto da fare in questo paese, sarebbe veramente una buona True News.

Un ulteriore mission per questo sito.