Diseguaglianza e povertà

Il reddito di cittadinanza per un singolo inoccupato ammonterà a 780 euro al mese. Ma sono moltissimi i lavoratori che, in Italia, guadagnano meno di 800 euro al mese, spesso facendo lavori molto faticosi e impegnativi. Di qui la domanda che un po’ tutti ci facciamo in questi giorni: un reddito minimo garantito di 780 euro non è un po’ troppo alto per il nostro paese? Che cosa potrà pensare, un occupato che deve sudare sette camicie per portare a casa 800 euro al mese, del suo vicino di casa che riesce a ottenere lo stesso reddito non facendo nulla?

Ma soprattutto: dopo i falsi invalidi e i falsi disoccupati, di cui sono piene le cronache (e gli studi) degli ultimi decenni, dovremo anche assistere impotenti alla crescita di un esercito di falsi poveri?

Vorrei notare subito una cosa: quasi nessuno, a livello politico, ha titolo per ergersi a giudice delle storture del reddito di cittadinanza. Il godimento indebito di un sussidio, di un’agevolazione, di uno sconto è una costante della nostra storia nazionale. Sappiamo benissimo, e da decenni, che appena si fa un controllo si scopre che una percentuale enorme (talora prossima al 50%) di soggetti che autocertifica una condizione economica disagiata non ha affatto diritto ai benefici che riceve. Sappiamo anche benissimo che, nel virtuosissimo Nord, un esercito di lavoratori “estivi” del turismo e dell’agricoltura, non appena arriva la stagione fredda, cumula salario di disoccupazione e lavoro in nero. Ma nessun partito, sindacato o associazione, che ora si indigna per il reddito di cittadinanza, ha mai veramente combattuto questo genere di fenomeni. E si potrebbe pure aggiungere, su questa linea di non demonizzazione del reddito di cittadinanza, che per certi versi lo scandalo non è che si possano guadagnare ben 800 euro non facendo nulla, ma che se ne possano guadagnare appena 800 ammazzandosi di fatica.

Detto tutto questo, però, il problema rimane. Che i censori del reddito di cittadinanza non abbiano le carte in regola per parlare, non implica che il reddito di cittadinanza – così com’è concepito – sia una misura saggia. Perché una misura non va giudicata per le sue intenzioni (in questo caso senz’altro lodevoli) ma per le conseguenze che è verosimile che produca, al di là delle illusioni più o meno sincere dei suoi proponenti.

Ma per capire le conseguenze di una misura, occorre partire dalla “realtà effettuale”, ossia dall’Italia così com’è, non come ce la raccontano i politici per blandirci ed autoassolversi. E la realtà alcune cose molto chiare ce le dice. La prima è che il costume delle autocertificazioni false non riguarda una piccola minoranza di disonesti. La seconda è che i controlli sono e non potranno che restare del tutto insufficienti, se non altro per il loro costo. La terza è che fornire ad alcuni milioni di persone piani individuali di formazione e offerte di lavoro congrue è semplicemente impossibile, anche qui già solo per il fatto che nessuno ha stanziato il volume di risorse necessario, né si è dato il tempo che un piano del genere richiederebbe (almeno un paio di anni).

La cosa più importante, però, è un’altra ancora: l’argomento secondo cui occorrerebbe alzare i salari, non abbassare il reddito di cittadinanza, è eticamente pesuasivo ma non regge a un’analisi disincantata della realtà italiana. Se i salari medi sono scandalosamente bassi, la prima ragione non è certo l’iper-sfruttamento della mano d’opera, che pure esiste (vedi la raccolta del pomodoro, o l’industria delle consegne a domicilio), ma è a causa del ristagno ventennale della produttività del lavoro, un fenomeno che – fra i paesi avanzati – è dato osservare solo in Italia, e che nessuno studioso è ancora riuscito a spiegare in modo convincente. Poiché questa è la pietrosa realtà dell’economia italiana, un salario di cittadinanza a 780 euro, introdotto in un paese in cui non ci sono margini per aumenti salariali significativi, non potrà non avere le conseguenze che la teoria e l’esperienza prevedono: una riduzione del numero di persone effettivamente disposte a lavorare, un aumento del costo unitario del lavoro per le imprese, una contrazione dei posti di lavoro. Tutti processi che l’eventuale introduzione di un salario minimo legale (caldeggiato anche dal Pd, almeno in campagna elettorale) non potrà che aggravare, perché un salario minimo legale di 8-9 euro l’ora (come quello prospettato in questi giorni) non potrà che far esplodere il lavoro nero.

Di qui un paradosso. Nato per “cancellare la povertà”, il reddito di cittadinanza potrebbe anche riuscirci, sempre che i soldi non finiscano prima del tempo (quelli stanziati ammontano a circa 1/3 di quelli necessari), ma a un prezzo paradossale: far esplodere le diseguaglianze, e l’invidia sociale, all’interno delle fasce deboli della popolazione. Diseguaglianze e invidie fra chi guadagna lavorando e chi guadagna senza lavorare, ma anche fra chi usufruisce del sussidio dove i prezzi sono alti e chi ne usufrusice dove i prezzi sono bassi, fra chi riesce a lavorare in nero senza incappare nei controlli, e chi ci prova ma finisce nella rete del fisco.

Insomma, un’Italia incattivita dalla proliferazione degli arbitri e dal dilagare del caso. Il colmo per un provvedimento che – modulato con saggezza e con misura – avrebbe una sua logica e una sua piena giustificazione, e rischia invece di rovesciarsi nel suo contrario per un fatale difetto di fabbricazione.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 febbraio 2019



Piazza e governo. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, la manifestazione a Torino per la tav, e quindi contro il M5s, è stata un successo superiore alle aspettative. Come la interpreta?

Superiore alle aspettative? Forse sì, ma si potrebbe capovolgere il giudizio: con una maggiore organizzazione e più tempo davanti si potevano portare ancora più persone in piazza. Io penso che se la Tav non parte, e il Governo continua a non fare nulla per il Nord (o addirittura a disfare quel che aveva fatto l’esecutivo precedente), fra un paio di mesi di gente in piazza ne vedremo molta di più. 

I ceti produttivi, soprattutto al nord, iniziano a ribellarsi al governo? 

Certo, quel che è stupefacente è che abbiano messo così tanto tempo ad accorgersi che per il governo gialloverde i ceti produttivi vengono dopo quelli improduttivi (pensionati e inoccupati).

Beppe Grillo dice che sono tornati “i borghesucci più aggressivi e sempre più benpensanti”, accreditando così l’idea che il popolo è con loro, mentre l’élite borghese è nemica del governo. La convince questa tesi del comico?

Come sociologo la trovo imbarazzante (o forse semplicemente degna di un comico) nella sua completa incapacità di leggere la realtà. La protesta di Torino non è né solo borghese né solo popolare, perché è una protesta interclassista, a differenza della “marcia dei 40 mila” del 1980, che era fondamentalmente di ceto medio e anti-operaia. Quel che unisce oggi non è una condizione sociale specifica, ma è il rifiuto dell’immobilismo di fronte al declino che minaccia i ceti produttivi, specie nel Nord-Ovest.

Lei con la Fondazione Hume ha calcolato il costo del governo M5s-Lega per l’Italia. Finora è enorme, eppure il governo sembra godere ancora di buoni sondaggi di popolarità.

Abbiamo finito giusto pochi minuti fa di completare il calcolo delle perdite virtuali del sistema Italia nell’ultima settimana, che sono risultate pari a circa 12 miliardi, che aggiunte alle perdite dei mesi scorsi fanno un totale di 175 miliardi dalla data del voto, e di 114 miliardi dalla nascita del governo.

Pensa che la manovra con i suoi effetti pratici possa essere l’inizio di un’inversione di tendenza? La fine della luna di miele con gli italiani?

Sì, lo penso, anche se non posso non aggiungere che la percezione dei danni avverrà con tempi diversi a seconda dei ceti sociali. I primi colpiti, in ordine di tempo, sono i ceti medi detentori di ricchezza finanziaria sensibile, che hanno già subito perdite virtuali per 70 miliardi (136 dalla data delle elezioni). Poi, dopo le elezioni Europee, toccherà a imprenditori, artigiani, commercianti, su cui più peserà la restrizione del credito bancario. Poi, fra circa un anno, sarà il turno dei lavoratori dipendenti, a causa della contrazione dell’occupazione. Infine, nel lungo periodo, le vittime saranno i giovani, cui toccherà pagare i debiti addizionali che lo Stato contrae oggi. Per capire come evolverà il consenso, dobbiamo ricordarcelo: la manovra è un missile a 4 stadi.

Il reddito di cittadinanza sarà un ulteriore enorme trasferimento di risorse dal nord al sud, dove si concentra la maggior parte di potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza. Che effetto avrà secondo lei?

Molto dipende da fattori tecnico-organizzativi. Se riusciranno a farlo partire ordinatamente ci sarà un aumento di consenso per i Cinque Stelle, se invece sarà un caos, e gli abusi saranno numerosi e pubblicamente denunciati, sarà un boomerang per la Lega di Salvini.

Non la sorprende che sia proprio la Lega ad avallare un sussidio pubblico del genere, dopo aver denunciato per anni il “sacco del Nord”, per riprendere il titolo di un suo libro?

Sì mi sorprende, ma le dico di più: proprio non riesco a capire Salvini. Non perché ha lasciato passare il reddito di cittadinanza, ma perché non ha preteso in cambio la flat tax.

L’attacco violento alla stampa dato da Di Maio e Di Battista come lo giudica?

Lo trovo aberrante nella forma, del tutto fuori luogo sul caso Raggi, ma non del tutto infondato parlando in generale.

Quanto durerà questo governo?

Dipende soprattutto da due fattori: la crescita dell’economia e la nascita di nuove forze politiche. Se l’economia non dovesse ripartire, e scendesse in campo un nuovo imprenditore politico, l’attuale governo difficilmente potrebbe sopravvivere.

Lei è convinto che cadrà per colpe proprie, non per meriti delle opposizioni, che in effetti sembrano molto deboli?

I governi non cadono da sé: se questo governo cadrà, sarà per perché nasce un’opposizione, o di piazza (come a Torino) o politica (nuovo partito).

Alle Europee ci sarà uno scontro tra fronte populista-euroscettico, e moderati europeisti. C’è un vento populista che soffia in tutta Europa, o quella italiana è una anomalia?

No, il vento c’è dappertutto, ma non soffia con la stessa forza a tutte le latitudine.

Intervista a cura di Paolo Bracalini per Il Giornale, pubblicata il 13 novembre 2018



Quel che non funziona nel reddito di cittadinanza

Intanto cominciamo a chiamare le cose con il loro nome: quello su cui si polemizza in questi giorni non è il reddito di cittadinanza, che non esiste in nessuna parte del mondo (quello dell’Alaska è un modesto bonus di meno di 200 dollari al mese), e in Svizzera è stato rifiutato dalla maggioranza dei cittadini in un recente referendum. Quello di cui si parla è semplicemente il reddito minimo, una misura universale di sostegno del reddito che esiste da anni in tutti i paesi dell’Unione europea (tranne che in Grecia), e in Italia è stata progressivamente, e molto limitatamente, introdotta dagli ultimi governo di centro-sinistra.

In linea generale il reddito minimo è un sussidio che viene erogato a chi non raggiunge una certa soglia minima di reddito, ed è legato al rispetto di alcune condizioni, tipo frequentare corsi di formazione, cercare attivamente un lavoro, essere disponibile ad accettare (ragionevoli) offerte di lavoro. La filosofia è sostanzialmente la medesima di quello che i Cinque Stelle si ostinano a chiamare “reddito di cittadinanza”, sicuramente un’espressione più glamour che “minimo vitale”, o “sussidio ai poveri”, o “social card”.

Ma quando si può dire che una misura di reddito minimo funziona bene?

Le condizioni base sono tre.

La prima è che la misura sia destinata ai poveri veri e propri, che sono solo i poveri assoluti, ossia chi fa parte di famiglie che non sono in grado di acquistare il cosiddetto “paniere di sussistenza”, ossia l’insieme minimo di beni e servizi che assicurano un’esistenza dignitosa. Se anziché essere agganciato alla povertà assoluta il reddito minimo venisse agganciato a quella relativa (guadagnare meno di metà della famiglia media) si assisterebbe al paradosso per cui il sostegno potrebbe aumentare anche quando non si è più poveri (solo perché l’economia cresce), o diminuire quando l’economia va male (perché l’asticella della povertà relativa si abbassa).

La seconda condizione è che la definizione di povertà assoluta adottata tenga conto del livello dei prezzi, che in un paese come l’Italia è molto differenziato, non solo fra Nord e Sud ma anche fra piccoli e grandi centri. Un punto questo su cui hanno più volte attirato l’attenzione l’Istituto Bruno Leoni, con la proposta di un “minimo vitale” agganciato al livello dei prezzi, e le associazioni del Terzo settore, con varie proposte e piani di lotta alla povertà.

La terza condizione è che il reddito minimo non disincentivi troppo la ricerca di un lavoro, e soprattutto non favorisca eccessivamente comportamenti opportunistici, come accade quando si rinuncia a un lavoro per non perdere un sussidio, o si lavora in nero per conservarlo. Questa è chiaramente la condizione più difficile da rispettare, perché, contrariamente a quanto talora si sente affermare, la capacità dei centri per l’impiego di trovare un lavoro ai percettori del sussidio non dipende tanto dalla efficienza e dalle risorse dei centri stessi, quanto dalla crescita dell’economia: se, come oggi in Italia, il Pil ristagna e ci sono quasi 3 milioni di disoccupati, è inevitabile che la maggior parte dei percettori del sussidio non riceva alcuna offerta di lavoro.

Vediamo ora le due principali proposte in campo, quella vigente del Pd (il Rei) e quella imminente dei Cinque Stelle. Il Rei, o “reddito di inclusione”, tendenzialmente rispetta la prima condizione (si rivolge ai poveri assoluti), ma non la seconda (non è agganciato al livello dei prezzi). Quanto alla terza (non disincentivare la ricerca di un lavoro), la rispetta solo perché il sostegno è molto modesto e probabilmente soggetto a troppe condizioni.

Il reddito minimo in versione Cinque Stelle, invece, non rispetta nessuna delle tre condizioni che abbiamo esposto. In primo luogo, perché si propone di sostenere chi è in posizione di povertà relativa, anziché i veri poveri, ossia chi è in condizione di povertà assoluta. In secondo luogo perché non tiene conto del livello dei prezzi, e quindi taglierà fuori buona parte dei poveri del centro-nord e dei grandi centri urbani. In terzo luogo perché non prevede alcun meccanismo per evitare che chi percepisce il sussidio, ben sapendo che i centri per l’impiego non saranno in grado di trovargli un lavoro, si adagi nella condizione di sussidiato, tanto più che il sussidio colma interamente la differenza fra il reddito percepito e la soglia di povertà relativa, posta vicina a 10 mila euro l’anno per un singolo, e oltre 20 mila per molte tipologie familiari.

Ma non è tutto. Nel reddito di cittadinanza in formato Cinque Stelle ci sono altre due insidie, di cui una è stata notata pochi giorni fa da Salvini, l’altra potrebbe essere notata da una sinistra fedele all’ideale dell’eguaglianza.

L’insidia-Salvini è che, se non si delimitano accuratamente i requisiti per godere del reddito minimo, circa un terzo delle risorse non andrebbero agli italiani, bensì agli immigrati, che – pur essendo l’8% della popolazione, sono il 30-35 % dei poveri. Può essere giustissimo sostenerli (non siamo per l’integrazione?), ma in quel caso non sarebbe semplicissimo spiegarlo a coloro cui si è raccontato che spendiamo troppi soldi per l’accoglienza.

L’insidia egualitaria, di cui stranamente né il Pd né Leu si sono ancora accorti, è che se i Cinque Stelle riuscissero a varare il reddito minimo secondo le linee del loro disegno di legge, l’effetto sarebbe una crescita clamorosa delle diseguaglianze negli strati medio-bassi della popolazione. Tutto infatti lascia prevedere che, nel giro di pochi anni, a una minoranza di poveri che lavorano duramente e galleggiano intorno alla soglia di sussistenza, si affiancherebbe un esercito di poveri che percepiscono un reddito decoroso ma, non per colpa loro bensì a causa di un mercato del lavoro asfittico, possono permettersi di non lavorare.

Ma forse non dobbiamo stupirci troppo. Dopotutto siamo già abituati a una sinistra che fa la destra, non sarà così difficile abituarci a una destra che fa la sinistra. Sì, perché le ragioni dell’equità, in questo caso, non le difende la presunta sinistra dei Cinque Stelle, ma la presunta destra della Lega, l’unica forza che sembra aver intuito il lato oscuro del cosiddetto reddito di cittadinanza.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 22 settembre 2018




Parole di nebbia

Sul piano dei contenuti, questo governo non somiglia granché a nessun governo del passato. I governi del passato, infatti, o guardavano a sinistra, o guardavano a destra, o si barcamenavano fra destra e sinistra, alla ricerca di un compromesso, di un punto di equilibrio. Ora no: a giudicare dai programmi e dai primi atti questo governo cerca di essere, al tempo stesso, molto di destra e molto di sinistra, a settimane alterne. Ora un colpo inferto ai migranti (blocco dei porti alle Ong), ora un colpo inferto alle imprese (decreto dignità). In attesa del colpo definitivo, quello ai conti dello Stato (flat tax e reddito di cittadinanza).

Se sul piano dei contenuti tutto è cambiato, sul piano del metodo, dello stile di governo, dei modi di comunicazione, la continuità con il passato è perfetta. Come i governi che l’hanno preceduto, anche l’esecutivo Conte non esita ad abusare dello strumento del decreto legge, contando sul fatto che la prassi ormai è quella, e nessuno può impedire a un governo di fare ciò che è sempre stato concesso ai governi precedenti. Il cosiddetto “decreto dignità”, ad esempio, viola due principi fondamentali, l’uno stabilito dalla Costituzione, l’altro dalla legge 400 del 1988. Secondo il primo lo strumento del decreto può essere utilizzato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Quanto al secondo, la legge stabilisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Basta dare una scorsa all’accozzaglia di materie di cui si occupano i 15 articoli del cosiddetto decreto dignità per rendersi conto che il loro contenuto non è omogeneo, e che per nessuna di esse sussistono condizioni di necessità e urgenza, tantomeno di “straordinaria” necessità e urgenza (a meno di considerare straordinariamente necessaria e urgente l’esigenza di Di Maio di recuperare consenso e togliere spazio a Salvini).

Quel che più mi colpisce, però, non è la somiglianza con il passato nell’abuso dei decreti legge; quel che mi colpisce è l’abuso manipolatorio delle parole, accuratamente scelte per indorare la pillola che viene somministrata ai cittadini, nascondendo la sostanza di cui è fatta. Faccio tre esempi.

Pensioni d’oro. Nell’immaginario collettivo una pensione d’oro è una pensione di importo altissimo, non giustificata dal lavoro e dai meriti del beneficiario, tipicamente percepita da un membro della “casta”. Nelle dichiarazioni dei Cinque Stelle, e nel discorso di insediamento del presidente Conte, il concetto è stato esteso a chiunque percepisca una pensione alta con una componente retributiva. Ma alta quanto? Ancora a giugno Di Maio e Conte assicuravano che il taglio dei compensi avrebbe riguardato solo le pensioni sopra i 5000 euro netti. Poi, qualche settimana fa si è cominciato a parlare di 4-5000 euro, senza specificare se netti o lordi. Negli ultimi giorni la soglia è scesa a 4000 euro. Così un provvedimento, più o meno condivisibile, che colpisce (retroattivamente) i ceti medio-alti, viene presentato come sacrosanto intervento contro gli ingiustificati e intollerabili privilegi della “casta”.

Decreto dignità. Se si vara un decreto “a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese” ci si aspetta che esso intervenga con urgenza per impedire violazioni della dignità di questi due soggetti. Ma se mi si parla di “dignità”, e per di più si aggiunge che l’intervento ha carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, a me vengono in mente fenomeni come la richiesta del pizzo (che offende la dignità delle imprese), e il caporalato nelle campagne (che offende la dignità dei lavoratori). In questo secondo caso, data la stagione estiva, sussisterebbe anche il requisito di urgenza. Pensate che bello: dopo anni in cui tutti i governi hanno preferito chiudere un occhio, il governo giallo-verde decide di stroncare il caporalato, ispezionare i campi e le baraccopoli, garantire ai lavoratori (spesso immigrati dall’Africa, quasi sempre privi di contratto) condizioni di lavoro e di salario umane. E invece no: se andate a leggere il decreto dignità, in mezzo a un guazzabuglio di norme che con il lavoro nulla hanno a che fare, quel che trovate sono soprattutto norme che rendono un po’ più difficile e costoso per le imprese attivare alcuni tipi di contratto perfettamente regolari, e che certo non offendono la dignità del lavoratore.

Reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora che forma prenderà il reddito di cittadinanza, se e quando verrà varato. Ma già sappiamo, perché esistono progetti e disegni di legge, che non sarà un reddito di cittadinanza, ma una normalissima misura di reddito minimo per le famiglie povere. Per reddito di cittadinanza si intende un reddito dato a ogni individuo (anche ai ricchi) senza alcuna condizione. Per reddito minimo si intende un reddito dato esclusivamente alle famiglie povere, sotto condizioni stringenti: ricerca attiva di un lavoro, corsi di formazione, prestazioni di lavoro gratuite, disponibilità ad accettare offerte di lavoro. Le proposte dei Cinque stelle sono proposte di reddito minimo, camuffate da reddito di cittadinanza. La loro filosofia è molto simile a quella del reddito di inclusione varato dal Pd, con due sole differenze: tante nuove assunzioni nei centri per l’impiego, molti più soldi (se troveranno le coperture) ai beneficiari. Ed è curioso che il Pd continui a dire che reddito di cittadinanza significa “dare i soldi alla gente perché non lavori”, anziché andare a vedere che cosa effettivamente c’è scritto nei progetti del Movimento Cinque Stelle.

A che serve chiamare reddito di cittadinanza quello che ovunque, in Europa e nella letteratura scientifica, si chiama reddito minimo?

Dal punto di vista del Pd serve a differenziare il Pd stesso dai Cinque Stelle (noi vogliamo creare posti di lavoro, voi volete tenere la gente a casa). Dal punto di vista dei Cinque stelle serve a nascondere la sostanza economica della loro proposta, che peraltro è la medesima del reddito di inclusione del Pd: sussidiare il Mezzogiorno. Chiamandolo “reddito di cittadinanza” se ne sottolinea il carattere universalistico, di provvedimento equo in quanto rivolto a tutti i cittadini. Eppure i dati dicono chiaramente che, a parità di condizione economica, la possibilità di beneficiare di misure come il reddito di inclusione o il cosiddetto reddito di cittadinanza, sarà sensibilmente maggiore per un cittadino del Sud che per uno del Nord e, a parità di zona geografica, per un abitante di un piccolo comune che per uno di una grande città.

La ragione è assai semplice: nonostante il livello dei prezzi sia diversissimo da Nord a Sud, nonché fra grandi e piccoli centri, la soglia di accesso è definita in termini nominali anziché in termini reali. Così può accadere che, a parità di potere di acquisto, due famiglie siano l’una inclusa e l’altra esclusa solo a causa del luogo in cui risiedono (zona del paese, ma anche comune grande o piccolo). E infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, il Nord ha il 37% dei poveri assoluti ma solo il 18% dei beneficiari (in gran parte immigrati). Il Centro ha il 15% dei poveri, ma solo il 12% dei beneficiari. Il Sud ha il 48% dei poveri ma il 70% dei beneficiari. Questo tipo di iniquità territoriale è il difetto comune di tutte le misure di sostegno delle famiglie povere, dalla social card di Tremonti al Sia di Letta, dal Rei di Renzi al cosiddetto reddito di cittadinanza di Di Maio (l’unica proposta che non ha questo difetto è il minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni, ovviamente ignorato dalla politica). Ed è anche uno dei più grandi errori delle politiche di sostegno alle zone svantaggiate del passato, che troppo spesso hanno preferito elargire sussidi impropri e dunque iniqui (qualcuno ricorda le false pensioni di invalidità?) piuttosto che fare investimenti e creare posti di lavoro.

Dunque: si parla di pensioni d’oro per non riconoscere che si tagliano le pensioni alte, si parla di dignità per non dire che si irrigidisce (un pochino) il mercato del lavoro, si parla di cittadinanza per nascondere i clamorosi squilibri nell’accesso al sussidio. Non è una novità: già nel 1981, parlando della comunicazione pubblica, Natalia Ginzburg denunciava con sgomento: “il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. Sono passati quasi 40 anni, ma siamo sempre lì: le parole della politica sono solo nebbia che circonda le cose, le indora, o semplicemente le traveste, le maschera, le camuffa. Parole che, in ogni caso, non dicono la verità.




Attenti alla rabbia secessionista: intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, riprendendo la mappa giallo-blu (grillini e centrodestra) dell’Italia uscita dalle elezioni del 4 marzo, balza agli occhi che se andasse in porto l’ipotesi di un governo giallo-rosso (M5S-Pd) un pezzo del Paese rischierebbe di essere tagliato fuori, è così?

Sì, il Nord si sentirebbe ulteriormente tosato, e prenderebbe assai male qualsiasi cosa che venisse battezzata “reddito di cittadinanza”. Anche perché i calcoli statistici mostrano che circa l’80% dei sussidi ai poveri finirebbero a due soli gruppi sociali: i cittadini meridionali e gli immigrati.

Secondo la Lega non solo sarebbe esclusa la coalizione che ha preso più voti, un centrodestra che per la verità ora appare diviso, ma il Nord Italia ribollirebbe. E’ una minaccia concreta?

Sì, un governo Pd-Cinque Stelle farebbe resuscitare istanze anti-fiscali e separatiste.

Quale governo potrebbe dare risposte più consone a quelle che lei giudica le priorità politico-economiche del Paese?

Il governo meno dannoso per l’Italia sarebbe un governo che promuovesse una rivoluzione liberale, soprattutto in campo fiscale, e al tempo stesso non spaventasse l’Europa e i mercati finanziari. In termini politici: un governo di grande coalizione destra-sinistra, come in Germania, con la destra che guida la politica economica e la sinistra che le impedisce di esagerare.
Peccato che una simile alternativa, pur avendo più numeri di tutte le altre (a parte ovviamente il governo di tutti senza il Pd), sia l’unica che il nostro Presidente della Repubblica non pare avere alcuna intenzione di esplorare.

Andando con ordine, dal punto di vista fiscale se venisse archiviata l’ipotesi Flat tax e, al contrario, si procedesse nella direzione del reddito di cittadinanza che ripercussioni ci sarebbero per il Settentrione?

Un po’ più di tasse, e tanta rabbia di chi il reddito se lo guadagna lavorando duramente.

Il reddito di cittadinanza è destinato al fallimento come per esempio è successo in Finlandia?

No, può benissimo essere varato, purché l’Italia accetti di continuare sul sentiero di declino su cui è avviata da 25 anni: “dimagrire insieme, dimagrire tutti” potrebbe essere la nuova frontiera. Ci piace una prospettiva del genere?

Salvini, che nelle regioni locomotiva del Paese, tocca punte percentuali tra il 30 e il 40%, ha sbagliato secondo lei a smorzare le ragioni autonomistiche a vantaggio di una politica nazionale?

No, egoisticamente ha fatto benissimo, era l’unico modo per non restare un partito territoriale. Il problema è che, con un governo Pd-Cinque Stelle, le ragioni autonomistiche del Nord sono destinate a risorgere da sé, senza bisogno di una Lega che le promuova.

Le regioni del Nord registrano un Pil pro capite medio superiore alla media europea. Moody’s ha appena confermato il rating della Lombardia su un gradino superiore a quello dell’Italia. Perché siamo ancora alla Questione meridionale, mentre anche la Spagna ci supera?

Perché la Questione meridionale abbiamo sempre preteso di affrontarla con poco Stato dove serviva (mafia, criminalità, evasione fiscale, assenteismo, inefficienza della sanità e della scuola), e con troppo Stato dove era meglio farne a meno (sussidi, clientele, finti posti di lavoro).

Popolo delle partite Iva e piccole imprese contro dipendenti pubblici. E’ ancora corretto pensare all’Italia spaccata a metà sulla base di queste categorie produttive?

No, non è corretto. Adesso la frattura sanguinosa sarà fra chi lavora e chi vive del lavoro altrui.

Un patto di governo grillino-leghista potrebbe mettere assieme le esigenze del Nord e del Sud o non è realistico?

Non lo si può escludere a priori, perché comunque il Sud ha le sue ragioni e il Nord pure, però ci vorrebbero De Gasperi e Di Vittorio, non Di Maio e Salvini.

Il Pd, che da Roma in giù il 4 marzo non ha vinto nemmeno una sfida diretta, sarebbe secondo lei malvisto dagli elettori del Sud nell’ipotesi di governo giallo-rosso?

No, credo che in tal caso il Pd sarebbe visto meglio di oggi, ma solo perché accodato ai Cinque Stelle, ossia all’unico partito che ha mostrato di prendere sul serio le rivendicazioni dei cittadini meridionali. In compenso verrebbe cancellato dalla geografia politica del Centro-Nord.

Intervista a cura di Marcella Cocchi pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 26 aprile 2018