Una crisi che viene da lontano

Sul fatto che l’Italia sia in recessione, ormai nessuno prova più a sollevare dubbi. E che non si tratti solo di un fatto statistico, di una recessione “tecnica” (calo del Pil per due trimestri consecutivi) è purtroppo provato dai dati negativi sull’export e da quelli disastrosi sul prodotto industriale e sugli ordini. Di questo passo, la domanda non è più se quest’anno il Pil crescerà dell’1.5% (come fino a pochi mesi fa si illudeva il governo), dell’1% (come il governo prevede ora), o dello 0.5% come per lo più pronosticano i centri di ricerca indipendenti, bensì se davanti alla variazione del Pil nel 2019 ci sarà ancora il segno ‘più’o tornerà a comparire il segno ‘meno’, come cinque anni fa.
Se la maggior parte dei cittadini non avverte ancora il problema è perché, proprio come nel 2007-2009, l’occupazione è uno degli ultimi anelli della catena di trasmissione della crisi. Prima che l’occupazione ne risenta in modo apprezzabile devono entrare in crisi la produzione, gli scambi, la borsa, il mercato dei titoli di Stato, e soprattutto il credito alle imprese, la cui stretta è la vera anticamera di fallimenti e licenziamenti.
Il fatto che ancora non ce ne accorgiamo, e che le Agenzie di rating siano ancora relativamente benevole con noi (vedi il mancato declassamento da parte di Fitch), non dovrebbe, tuttavia, renderci ciechi di fronte a quello che si sta preparando e alle sue origini. Perché se l’anno che è appena iniziato non sarà affatto “bellissimo” (come avventatamente pronosticato dal premier Conte), non è solo perché Trump ha dichiarato guerra (commerciale) alla Cina e al resto del mondo, o perché l’Europa sta rallentando la sua crescita. No, se ci aspettano tempi difficili è anche, anzi soprattutto, per causa nostra.
Ma “nostra” di chi?
La risposta facile a questa domanda è che la colpa è del governo giallo-verde, colpevole di aver inutilmente litigato con l’Europa (facendo lievitare lo spread e crollare i mercati borsistici e azionari), nonché varato due provvedimenti assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza), anziché concentrare tutte le risorse disponibili su misure capaci di stimolare l’economia, come investimenti pubblici e sgravi fiscali ai produttori. Ma è una risposta troppo facile, per tanti motivi.
Intanto perché si sopravvaluta il potere dell’esecutivo, che potrà senz’altro infliggere ingenti danni all’economia italiana, ma non ha avuto ancora il tempo necessario per nuocere davvero, visto che i due provvedimenti cardine – quota 100 e reddito di cittadinanza – non sono ancora operanti, mentre la recessione è iniziata ben 9 mesi fa. Ma c’è anche un altro punto che si tende a trascurare. Pochi hanno dubbi sul fatto che all’inizio di una recessione un governo dovrebbe essere in condizione di varare provvedimenti anticiclici, capaci di fornire un po’ di ossigeno a famiglie e imprese. Non occorre essere keynesiani per riconoscere che, in tempi di vacche magre, è bene usare il fieno accumulato in cascina in quelli di vacche grasse (non entro nel merito della natura di questo “fieno”, ossia se si debba trattare di investimenti pubblici, spesa corrente, o minori tasse). Il punto però è che, per poter usare il fieno in tempi di crisi, ci vuole qualcuno che quel fieno abbia accumulato quando le cose andavano meglio, in quanto il Pil cresceva.
Ma che cosa abbiamo fatto noi, nel quadriennio (relativamente) felice 2014-2017? Anziché procedere risolutamente verso il pareggio di bilancio, lo abbiamo rimandato di anno in anno, ogni volta chiedendo flessibilità e promettendo che “poi” avremmo provveduto. Così lo stock del debito è cresciuto, il rapporto debito/pil è rimasto sostanzialmente invariato, e la flessibilità strappata all’Europa (allora assai meno arcigna di oggi) è stata spesa in misura preponderante per acquisire consenso: bonus 80 euro per i lavoratori dipendenti, bonus ai diciottenni, bonus bebé, stanziamenti per l’accoglienza dei migranti. Oggi i mercati presentano il conto: se lo spread non accenna a piegare la testa, e il governo non può permettersi di varare una vera politica anticiclica, non è solo per la sciocca ed autolesionista polemica con l’Europa, ma anche perché i governi precedenti – con il colpevole assenso dell’Europa stessa – avevano prosciugato le non molte risorse che quattro anni di crescita avevano generato.
Ma avrebbero potuto agire diversamente? E oggi, un qualsiasi governo armato delle più ragionevoli e disinteressate intenzioni, potrebbe contrastare efficacemente la recessione in atto?
Per certi versi la risposta è sì. Renzi e Padoan avrebbero potuto occuparsi di più dei conti pubblici e della crescita, e meno della ricerca spasmodica del consenso, un punto su cui, negli anni del renzismo trionfante, solo Mario Monti e pochi altri hanno attirato la dovuta attenzione. Quanto a Conte e Tria, si potrebbe fare un discorso del tutto analogo: se i soldi di quota cento e del reddito di cittadinanza li avessero messi in maggiori investimenti e minori tasse, la recessione in atto sarebbe risultata meno severa.
Ma per altri versi la risposta vera, la risposta principale, è no. I nostri governanti avrebbero anche potuto attuare politiche un po’ più pro-crescita e un po’ meno pro-consenso, ma temo che il problema dei problemi dell’Italia non sarebbe ugualmente stato risolto. Il nostro problema dei problemi è che la produttività del sistema-Italia è ferma da quasi un quarto di secolo, un fatto che non ha riscontro in alcun altro paese avanzato, e un enigma di cui nessuno ha ancora fornito la chiave. Finché non avremo il coraggio di affrontarlo a viso aperto, potremo anche crescere di qualche decimale in più o in meno a seconda di quanto lungimirante è chi ci governa, ma non eviteremo di restare quello che siamo diventati dalla metà degli anni ‘90: un paese che precipita quando gli altri cadono, e ristagna quando gli altri crescono.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2019



L’Italia sta entrando in recessione?

Dopo cinque mesi di governo, per la prima volta si ha la sensazione che qualcosa stia cambiando, sia nei rapporti interni al Governo, sia in quelli con l’elettorato.

Dentro il Governo decreto sicurezza, disegno di legge anticorruzione, condono fiscale, grandi opere, stanno suscitando i primi dissensi veri. Visto dall’esterno, il clima fra gli alleati non sembra armonioso come nei giorni degli sbarchi o in quelli della crociata anti-Bruxelles.

Ma è sul versante dell’elettorato che le cose mi sembrano più in movimento, forse anche perché sono torinese e tocco con mano i primi segni di delusione, che nella mia città sono strettamente legati a due clamorosi no della sindaca Appendino: no alle olimpiadi invernali, che se verranno assegnate all’Italia si terranno a Milano e Cortina; no alla Tav, che se fermata costringerà molte imprese a chiudere o a licenziare. Due no che, almeno qui, paiono indebolire il consenso ai Cinque Stelle sia a livello cittadino, sia a livello nazionale. Qualcuno comincia addirittura a immaginare una nuova “marcia dei 40 mila”, questa volta promossa da un fronte che potrebbe unire imprenditori, sindacati, forze politiche di destra e di sinistra.

Si sarebbe tentati di pensare che il cambio di umori sia legato innanzitutto all’azione dell’esecutivo, assai popolare quando attacca i migranti e l’Europa, assai meno convincente quando tenta di mettere in atto il “contratto di governo”. Credo ci sia del vero in questa impressione, specie per i ceti produttivi, preoccupati del blocco o rallentamento delle grandi opere, ma anche della modestia degli sgravi fiscali alle imprese. Poco per volta, ci si rende conto che, complessivamente, le tasse non diminuiranno affatto, perché gli sgravi sull’Ires e l’Iva sulle piccole imprese (circa 2 miliardi nel 2019) sono più che compensati da nuove tasse e dal venir meno di altre misure di sostegno alle imprese, come l’Ace (che viene soppressa) o l’Iri (che non entra in vigore).

E tuttavia io sospetto che un certo raffreddamento del rapporto con l’elettorato possa avere anche un’altra origine, ben più insidiosa. Forse quello di cui imprenditori, artigiani, commercianti, lavoratori dipendenti cominciano ad accorgersi è che è il ciclo economico stesso a volgere al peggio. Non c’è solo la crescente consapevolezza dei danni prodotti dallo spread a 300 punti base, non c’è solo la preoccupazione per il peggioramento dei rapporti con l’Europa, o addirittura il timore di un’uscita dall’euro. Da qualche giorno, a queste preoccupazioni se ne stanno aggiungendo di assai più concrete e dirette. I dati di settembre sull’export sono pessimi: l’avanzo della bilancia commerciale si è drasticamente ridotto, sia rispetto a luglio sia rispetto a settembre di un anno fa. L’occupazione è in calo, e lo è proprio nella componente che il decreto dignità ambiva a rafforzare, quella dei posti a tempo indeterminato. Ma soprattutto è fermo il Pil, ovvero l’indicatore che tutti gli altri riassume: non succedeva dal 2014, ossia dall’anno di uscita dalla crisi. Perché questa impasse? Perché questi segnali negativi dal versante dell’economia?

Mi piacerebbe avere le certezze di Brunetta, secondo cui la crescita della disoccupazione è “il primo effetto disastroso del decreto dignità”. O quelle di Di Maio, secondo cui, tutto al contrario, il calo dell’occupazione è “l’ultimo colpo di coda del Jobs Act”. E ancora più mi pacerebbe avere quelle del presidente di Confindustria Boccia, secondo cui “se l’economia non cresce è colpa esclusiva delle scelte economiche di questo governo”.

Ma la verità è che, con i dati disponibili, è tecnicamente impossibile stabilire in che misura questi andamenti negativi siano da imputare all’azione del precedente governo, a quella dell’esecutivo attuale, o al rallentamento dell’economia europea, chiaramente avvertibile dal terzo trimestre di quest’anno. Personalmente, ritengo più verosimile che quello cui stiamo assistendo sia il solito film: l’economia italiana si muove più o meno in sincronia con quella degli altri paesi europei, ma a passo più lento, per cui quando “loro” vanno forte noi andiamo piano, e quando (come oggi) loro vanno piano noi stiamo fermi.

Quel che invece mi sento di dire è che è molto pericoloso, per chi governa, mandare all’opinione pubblica messaggi di onnipotenza, per cui l’Italia sarebbe in grado di ignorare le raccomandazioni dell’Europa, i segnali dei mercati, le previsioni dei centri studi indipendenti. Perché a forza di dire che possiamo fare di testa nostra, che tutto dipende da noi stessi, e che la manovra ci farà crescere il doppio del previsto, se poi le cose si mettono storte, e le certezze evaporano sotto i colpi della realtà, si rischia di pagare un prezzo molto alto in termini di consenso.

Vorrei ricordare che, tecnicamente, un paese è considerato in recessione se il suo Pil diminuisce per due trimestri consecutivi. E se al Pil piatto del terzo trimestre 2018 dovessero seguire due trimestri di Pil calante, l’Italia potrebbe venirsi a trovare ufficialmente in recessione già a fine aprile prossimo, giusto un mese prima delle elezioni europee. Se questo dovesse accadere, presumibilmente dipenderebbe poco dalle scelte di questo governo e molto dall’evoluzione della congiuntura europea. Ma difficilmente l’opinione pubblica sarebbe di questo avviso. E’ una questione di logica: se oggi ci vien detto che possiamo fare quel che vogliamo, contro tutto e contro tutti, quel che potrà accadere domani sarà considerato una conseguenza delle nostre azioni, non del “destino cinico e baro”.