Troppi paradisi

2008-2018, anniversario della lunga crisi

15 settembre 2008, esattamente 10 anni fa. Fu allora che, dopo un anno difficile, in cui la crisi americana dei mutui subprime aveva interrotto un lungo periodo di crescita, l’economia mondiale ricevette il colpo di grazia. A infliggere quel colpo fu il fallimento di Lehmann Brothers, una banca d’affari americana che, a differenza di altre società, venne lasciata fallire dal governo USA e dalla Federal Reserve.

Anche se, allora, vi fu chi salutò il fallimento di Lehman Brothers come “una buona giornata per il capitalismo”, col senno di poi sono quasi tutti concordi nel considerare quel mancato salvataggio come uno dei fattori cruciali che, nel giro di poche ore, trasformarono una recessione in una crisi epocale.

Ma come si presentano le economie dei paesi avanzati a un decennio di distanza?

La prima cosa che si può notare è che la crisi ha agito in modo fortemente asimmetrico: ci sono paesi che, oggi, hanno un tenore di vita e un tasso di occupazione superiori a quello del 2008 (è il caso della Germania, ma anche di Regno Unito, Polonia, Svezia, Giappone), ci sono paesi che, tutto all’opposto, nemmeno in 10 anni sono riusciti a recuperare i livelli di reddito e di occupazione pre-crisi: è questo il caso della Grecia, di Cipro, della Finlandia, dell’Italia.

Altrettanto diseguale è stata la evoluzione della vulnerabilità dei conti pubblici dei vari paesi. L’indice VS (vulnerabilità strutturale), calcolato dalla Fondazione David Hume per 40 economie relativamente avanzate, è peggiorato in molti paesi dell’eurozona (Grecia, Cipro, Spagna, Finlandia, Slovacchia, Slovenia) ma è sensibilmente migliorato per la maggior parte dei paesi dell’est, in particolare Bulgaria, Romania, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Lettonia, Lituania.

La vera domanda, però, forse è un’altra: dopo 10 anni di passione, le nostre economie hanno imparato la lezione? Le nostre economie, oggi, sono meno fragili di 10 anni fa?

La mia impressione è che la risposta sia negativa. Dieci anni, infatti, non sono bastati a rimuovere quelli che, per molti analisti, restano i due principali elementi di fragilità del sistema capitalistico quale si è affermato negli ultimi decenni.

Il primo è la mancata separazione fra banche commerciali e banche di investimento. La grande crisi del ’29, come la lunga crisi del 2007, sono entrambe figlie del medesimo errore di regolazione. Consentire al medesimo intermediario finanziario di raccogliere il risparmio, finanziare l’economia reale, e supportare la speculazione finanziaria è stato uno dei fattori della crisi del ’29, ma anche di quella del 2008. La sovrapposizione fra queste funzioni è fra le concause della crisi del ’29, mentre la loro separazione per legge (sancita dal Glass Steagall Act del 1933) è stata una delle condizioni dei “gloriosi trent’anni”, il lungo periodo di stabilità e crescita che seguì la fine della seconda guerra mondiale. Specularmente, l’abolizione della separazione (avvenuta nel 1999, sotto la presidenza di Bill Clinton) è stata una delle concause della crisi scoppiata nel 2007-2008.

Ma c’è anche un secondo elemento di fragilità, forse ancora più importante, che non è stato rimosso, ed è la possibilità di operare su mercati non regolamentati, i cosiddetti mercati OCT, in cui le transazioni avvengono “over the counter”, ossia sul bancone, come per le transazioni in contanti. Nessuno sa esattamente a quanto ammontino le attività finanziare negoziate su questi mercati rispetto a quelle negoziate sui mercati regolamentati, ma l’ordine di grandezza è conosciuto: secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali il loro valore nozionale è dell’ordine di 10 volte il Pil mondiale. E anche se il loro valore lordo di mercato è molto inferiore (circa un quinto del Pil globale, secondo alcune valutazioni), resta il fatto che si tratta di una massa di denaro enorme, i cui movimenti hanno un potenziale di destabilizzazione molto elevato. Un potenziale, peraltro amplificato dalle Agenzie di rating, spesso in sonno quando avrebbero dovuto avvertire dei pericoli, e fin troppo severe a cose fatte, ovvero quando i pericoli erano già stati segnalati dai mercati.

Se questo è il quadro, viene naturale chiedersi: ci attende una nuova crisi?

Ovviamente nessuno lo sa, ma se devo esprimere un’opinione la mia risposta è: sì, e piuttosto presto. La ragione è abbastanza semplice, e la riassumerei in quattro punti.

Primo. Quel che doveva essere fatto, separare banche commerciali e di investimento, imporre limiti ai mercati non regolamentati, attenuare i conflitti di interessi delle Agenzie di rating, non è stato fatto, o è stato fatto in modo insufficiente. Non aver corretto questi fattori di instabilità ci rende vulnerabili in caso di crisi.

Secondo. Il principale rimedio escogitato, negli Stati Uniti come in Europa, è stato inondare di liquidità i mercati, con i bassi tassi di interesse e le iniezioni di liquidità (Quantitative Easing e affini). Ma la liquidità è, al tempo stesso, il lenimento che attenua le crisi e il combustibile che le prepara.

Terzo. Diversi indicatori segnalano che la crescita di questi anni, in particolare quella dell’economia americana, sia arrivata al limite. Quel che si è formato in questi anni non è una bolla speculativa di tipo immobiliare, come nel 2007-2008, ma una bolla speculativa di tipo azionario, come nel 2000, quando crollò l’indice dei titoli tecnologici (NASDAQ). Per accorgersene basta osservare la corsa degli indici borsistici in rapporto al Pil: la capitalizzazione della Borsa americana rispetto al Pil USA ha superato il livello record del 2000, quando scoppiò la bolla tecnologica. E anche se, verosimilmente, i fondamentali delle aziende tecnologiche americane sono migliori di quelli di vent’anni fa, il rischio di una brusca frenata è tutt’altro che trascurabile.

Quarto. Anche in Europa si manifestano segni di tensione, in particolare sul mercato dei titoli di stato decennali. Il coefficiente di variazione dei rendimenti, una delle più semplici misure di allerta dei mercati, dopo aver toccato un minimo alla fine di gennaio di quest’anno, da 7 mesi è in costante ascesa. Anche se non siamo ancora entrati in una fase di “flight to quality” (cercare rifugio nei titoli sicuri, come i bund tedeschi), potremmo già essere nell’anticamera che la precede.

Se una crisi verrà, nei prossimi anni o già nei prossimi mesi, essa sarà anche il frutto delle omissioni di questi anni. Dopo aver proclamato ai quattro venti che l’importante era l’economia reale, non quella di carta (Main Street contro Wall Street), i regolatori dell’economia ben poco hanno fatto per ridurre le nostre fragilità, prime fra tutte una legislazione bancaria troppo permissiva e l’estensione del cosiddetto Sistema bancario ombra (Shadow Banking System), fondamentalmente sottratto ad ogni forma di vigilanza: “troppi paradisi”, verrebbe da dire, riprendendo il titolo del romanzo di Walter Siti. Perché quel che si è fatto, o meglio non si è fatto, è proprio questo: permettere la sopravvivenza di troppi luoghi in cui l’economia di carta soggioga e inquina l’economia reale.

 




La spada di Damocle

Apparentemente, è calma piatta. Il 4 marzo si è votato, poi è cominciato il balletto. Un mese per non decidere nulla. Un giro di consultazioni al Quirinale in cui tutti i partiti hanno “ribadito” le rispettive posizioni. Una richiesta di ulteriore tempo al Capo dello Stato, come se di tempo non ne avessero avuto abbastanza, o come se fino a questo punto avessero dimostrato di saperlo usare proficuamente.

Però mentre la politica dorme, le autorità europee, l’economia, i mercati fingono di sonnecchiare, ma sono più vigili che mai. La autorità europee attendono al varco il nuovo governo. Entro la fine di aprile l’Italia dovrebbe comunicare a Bruxelles le sue linee programmatiche sui conti pubblici. Ma è molto improbabile che entro quella data “Lor signori” (i parlamentari neo-eletti) si siano degnati di trovare un accordo che permetta la nascita di un esecutivo. Quindi la Commissione Europea, che già l’anno scorso aveva segnalato all’Italia il mancato rispetto degli impegni presi, dovrà sì attendere che in Italia ci sia un governo, ma poi difficilmente potrà evitare di intervenire. Proprio negli ultimi giorni l’Istat non solo ha confermato gli scostamenti, ma ha dovuto correggere (in peggio) le stime del deficit e del debito pubblico, che a causa dei soldi spesi per i salvataggi bancari sono oggi ancora più preoccupanti di quel che si pensava. Il minimo che si può prevedere è che, una volta insediato il nuovo governo e rese note tutte le cifre, Bruxelles ci chieda una manovra correttiva. Fino a ieri si parlava di 3-4 miliardi, oggi non si esclude che la cifra possa essere maggiore. Una cifra cui, comunque, si dovrà aggiungere qualcosa come 12-13 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva, che altrimenti scatterà inesorabilmente dal 1° gennaio 2019.

Questi probabili aumenti delle tasse, peraltro, si inseriscono in un quadro di rallentamento e soffocamento dell’economia. La stima della pressione fiscale del 2017 è stata rivista al rialzo. Fra il 2017 e il 2016 sono saliti sia l’ammontare delle imposte dirette sia, ancor più, quello delle imposte indirette. Nell’anno appena trascorso il potere di acquisto è aumentato leggermente, ma molto meno che l’anno precedente. Il numero di disoccupati resta in prossimità dei 3 milioni di unità, mentre la formazione di posti di lavoro continua a riguardare i contratti a termine assai più che i contratti a tempo indeterminato. Quanto al debito, le ultime correzioni dell’Istat non lasciano dubbi sul fatto che, nonostante gli impegni solennemente e puntualmente assunti ogni anno dal Ministro dell’Economia, il promesso percorso di riduzione del rapporto debito-Pil non sia ancora iniziato.

A fronte di questi numerosi e concordi segnali negativi, si potrebbero mettere in luce alcuni elementi relativamente rassicuranti. Ad esempio, a fine ottobre 2017 Standard & Poor’s, per la prima volta da 29 anni, ha leggermente alzato il rating dell’Italia. Ed era dal 2002, ossia da 15 anni, che nessuna agenzia di rating faceva un passo del genere. Soprattutto, sembra fornire qualche conforto la circostanza che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto il successo delle forze più anti-europee e più disinvolte sui conti pubblici (Cinque Stelle e Lega), nulla si sia mosso. Ferme le altre agenzie di rating, fermi i mercati finanziari, che hanno lasciato sostanzialmente invariato (intorno a 130 punti) lo spread fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Ma è una lettura ingannevole, per diverse ragioni.

Le Agenzie di rating, come la Commissione europea, semplicemente hanno deciso di aspettare le elezioni e la nascita del nuovo governo prima di esprimersi. Una delle tre agenzie principali, Moody’s, lo ha affermato esplicitamente. Il 9 febbraio una sua esponente, l’analista senior per i rating sovrani Kathrin Muehlbronner, ha dichiarato: «Moody’s risolverà l’outlook sul rating dell’Italia dopo le elezioni ma è improbabile che questo avvenga già il 16 marzo» (il 16 marzo è una delle date previste dall’Agenzia per emettere giudizi sull’Italia). E’ verosimile che la medesima linea di condotta sia adottata dalle altre Agenzie.

Una seconda ragione che dovrebbe indurre a una certa cautela è che, per ora, al governo non ci sono i barbari anti-euro e anti-Europa ma il super-rassicurante premier Gentiloni, e l’ultra-europeo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. È presumibile che anche i mercati, come i governi e le Agenzie di rating, attendano la nascita del nuovo esecutivo prima di emettere i propri giudizi.

Ma l’elemento che più dovrebbe farci riflettere è l’andamento dell’indice VS, uno strumento messo a punto dalla Fondazione David Hume per misurare la vulnerabilità strutturale dei conti pubblici delle economie avanzate. Ebbene, i calcoli effettuati per il primo trimestre del 2018 (a breve disponibili su questo sito) mostrano che la vulnerabilità dei nostri conti, che era stata in leggera in diminuzione dall’inizio del 2014 all’inizio del 2017, da circa un anno mostra una pericolosa tendenza all’aumento. C’è solo da augurarsi che di tale vulnerabilità non si sia presto costretti ad accorgerci tutti quanti, quando i mercati dovessero rialzare la testa.

Articolo pubblicato su Panorama del 12 aprile 2018



Quel che i mercati finanziari pensano davvero dell’Italia

Ha suscitato una certa sorpresa il fatto che, dopo il voto del 4 marzo, che ha visto la netta affermazione dei partiti populisti, lo spread dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi sia rimasto sostanzialmente immutato, intorno ai 130 punti base.

Fonte Bloomberg

L’andamento dello spread con la Germania, tuttavia, è uno strumento di valutazione molto imperfetto, e potenzialmente fuorviante. Esso non tiene conto, infatti, dell’evoluzione degli spread degli altri paesi, in particolare quelli a noi più comparabili, che possono muoversi in modo più o meno favorevole di quelli italiani.

Un indice alternativo può essere costruito facendo la differenza fra i rendimenti dell’Italia e la media dei rendimenti di Spagna e Portogallo, ovvero dei due Piigs a noi più comparabili (Irlanda e Grecia lo sono assai meno, anche se per ragioni opposte).

Fonte Bloomberg

In questo caso la traiettoria dello spread appare molto diversa: prima nettamente discendente (miglioramento dell’Italia), poi nettamente ascendente (peggioramento).

L’elemento più sorprendente, tuttavia, è il punto di svolta fra i due andamenti. Sia un’ispezione visiva sia l’analisi statistica mostrano che il punto di svolta fra le due traiettorie si colloca fra venerdì 2 marzo e lunedì 5 marzo, ovvero esattamente nel momento del voto. E ciò vale sia nel caso dello spread Italia-Spagna, sia nel caso di quello Italia-Portogallo.

Fonte Bloomberg
Fonte Bloomberg

In entrambi i casi lo spread raggiunge un minimo venerdì 2 marzo, alla vigilia del voto, e inverte la rotta, cominciando a salire, lunedì 5 marzo, primo giorno dopo il voto. Ormai il rendimento dei titoli italiani supera non solo quello dei titoli spagnoli, ma anche di quelli portoghesi.

Questo andamento non sarebbe preoccupante se, dal punto di vista obiettivo, i conti pubblici dell’Italia fossero in miglioramento. Ma non è così, sfortunatamente.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

L’indice VS, di Vulnerabilità Strutturale dei conti pubblici, messo a punto dalla Fondazione David Hume, mostra che, dopo un periodo favorevole durato circa due anni (dalla primavera del 2015 alla primavera del 2017), ora la tendenza dominante è tornata di nuovo negativa: la vulnerabilità dei nostri conti è in aumento.

[Per maggior dettagli vedi, sul sito della Fondazione David Hume

a)     il report “Conti pubblici & voto di marzo”;

b)    il saggio “La mente dei mercati: l’indice VS, una misura di vulnerabilità dei conti pubblici”.




Conti pubblici & voto di marzo

1. Tendenze di lungo periodo

La serie storica dell’indice VS dal 2009 a oggi permette di riconoscere abbastanza nitidamente alcune tendenze e processi.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Possiamo descriverli così:

a)     nel quindicennio che va dal 2000 al 2015 la tendenza di fondo è ad un aumento della vulnerabilità;

b)    il picco di vulnerabilità del 2009, legato essenzialmente al crollo del Pil, risulta completamente riassorbito alla fine del 2011, quando scoppia la crisi dello spread;

c)     nel triennio che va dall’inizio del 2012 all’inizio del 2015 si assiste a un aumento della vulnerabilità;

d)    dalla primavera del 2015 la tendenza dominante è alla riduzione della vulnerabilità;

e)     tuttavia dalla primavera del 2017 a oggi il processo di riduzione della vulnerabilità sembra essersi arrestato, e si assiste invece a una lieve tendenza all’aumento.

Un confronto con l’andamento effettivo dei rendimenti mostra un notevole grado di incongruenza, e questo nonostante l’indice sia stato costruito per emulare la “mente dei mercati”. Questo segnala che, nel caso dell’Italia, l’orientamento della politica monetaria e i fattori contingenti e/o extraeconomici hanno avuto un ruolo molto rilevante.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Istat, Banca d’Italia, Banca Mondiale

Ecco alcune osservazioni:

a)     per ben 15 anni, dal 1999 fino a tutto il 2013, i rendimenti richiesti dai mercati per i titoli di Stato italiani, salvo nel picco della recessione 2008-2009, sono sempre stati superiori a quelli suggeriti dall’indice di vulnerabilità strutturale (i mercati sono stati severi con l’Italia);

b)     dal 2014 in poi, invece, i rendimenti richiesti sono sempre stati relativamente modesti (i mercati sono stati indulgenti);

c)     solo nella primavera del 2017, per un breve periodo, rendimenti effettivi e indice VS sono risultati allineati.

d)    negli ultimi 12 mesi la tendenza principale dell’indice di vulnerabilità è all’aumento, mentre quella dei mercati è alla riduzione dei rendimenti.

Un’analisi dell’andamento degli indicatori che contribuiscono alla definizione dell’indie VS permette di individuare i meccanismi principali che hanno condotto al suo peggioramento tendenziale negli ultimi 3-4 trimestri. Essi sono essenzialmente due: un livello di inflazione ancora troppo basso, la tendenza alla contrazione delle entrate pubbliche rispetto al Pil.

2. Uno zoom sul 2018

Un’analisi più dettagliata delle tendenze degli ultimi mesi può essere condotta osservando l’andamento settimanale dello spread e confrontandolo con quello di altri paesi, in particolare i due Piigs a noi più simili, ossia Spagna e Portogallo (l’Irlanda è da tempo fuori della crisi, la Grecia ha tuttora rendimenti fuori scala).

Fonte: Bloomberg

Come si vede lo spread dell’Italia rispetto alla Germania tende a diminuire fino alla prima settimana di febbraio, per poi invertire la tendenza: negli ultimi due mesi il trend dominante è a un leggero aumento.

Un confronto con Spagna e Portogallo, tuttavia, rivela un importante punto di svolta. Se anziché lavorare sullo spread dell’Italia considerato singolarmente, lavoriamo sullo spread relativo, ovvero sulla differenza fra lo spread dell’Italia e quello di Spagna e Portogallo (il che, ovviamente, equivale a calcolare la differenza fra i rendimenti dell’Italia e quelli di Spagna e Portogallo) possiamo notare due circostanze poco rassicuranti.

Fonte: Bloomberg
Fonte: Bloomberg

Primo. A partire dai primi di marzo di quest’anno, i rendimenti dei tre paesi cessano di evolvere in parallelo, e si assiste a un aumento del differenziale fra i rendimenti italiani e quelli di Spagna e Portogallo.

Secondo. A partire dalla seconda settimana di marzo il rendimento dei titoli italiani, che in tutto il mese di febbraio era rimasto sostanzialmente allineato a quello dei titoli portoghesi, supera sistematicamente quello di questi ultimi.

La svolta è ancora più chiara se condensiamo tutto in un unico indice, calclalndo la differenza fra i rendmenti italiani e la media dei rendimenti spagnoli e portoghesi.

Fonte: Bloomberg

Uno sguardo all’evoluzione di lungo periodo dello spread dell’Italia in confronto a quelli di Spagna, Portogallo, Irlanda (con la Francia come benchmark), rende il quadro ancora più preoccupante.

Fonte: Bloomberg

Il grafico mostra che mai, prima del 2018, il rendimento dei titoli di Stato italiani aveva superato quello dei titoli portoghesi, e mai il divario con i titoli spagonli era stato alto come oggi.

Che questa recente evoluzione dello spread sia da connettere all’esito del voto del 4 marzo è difficile da stabilire, anche perché è da circa un anno (e non da un mese) che l’indice VS segnala una tendenza all’aumento della vulnerabilità.

Resta il fatto che, sui mercati, la svolta è coincisa con la settimana del voto in Italia.

Luca Ricolfi

(Responsabile scientifico Fondazione David Hume)

 

Nota metodologica

L’indice VS, messo a punto dalla Fondazione David Hume e presentato per la prima volta il 25 ottobre 2017 a un seminario presso il MISE, misura il grado di vulnerabilità dei conti pubblici di 40 economie avanzate o relativamente avanzate. Dettagli sull’indice sono disponibili sul sito della Fondazione, saggio “La mente dei mercati: indice VS e vulnerablità dei conti pubblici”).

La principale caratteristica dell’indice è di non basarsi su valutazioni soggettive, ma esclusivamente sul comportamento effettivo dei mercati nel periodo cruciale della crisi, dall’inizio del 2009 a tutto il 2016.

L’indice è espresso in punti-base e si interpreta come una stima del rendimento che i mercati richiederebbero per i titoli di Stato decennali di un paese in assenza di fattori di perturbazione quali speculazione, vicende politiche, orientamento marcatamente restrittivo o espansivo della politca monetaria.

Una relazione riservata, e più tecnica, è stata fornita alla Compagnia di San Poalo (che ha in parte sostenuto la ricerca) e al MISE.




Slide del Convegno “La mente dei mercati”

Le seguenti slide sono parte del Convegno «La mente dei mercati», in cui è stato presentato il rapporto a cura del Prof. Luca Ricolfi – con la collaborazione della Fondazione David Hume – , sull’Indice di Vulnerabilità dei mercati.

Link alle slide Veronica De Romanis-MISE- 25 ottobre 2017