Tasse, spese, debito: il triangolo aritmetico ineludibile del voto di marzo

Sciolte le Camere, fissata la data del voto (4 marzo 2018), siamo entrati in campagna elettorale anche ufficialmente. È il tempo delle promesse, o forse sarebbe meglio dire dei sogni, perché la maggior parte di quel che viene promesso è tanto meraviglioso quanto inattuabile.

Prima di volgersi alle promesse, allora, forse è meglio partire dalle premesse, e chiederci quali sono i problemi, o meglio i gruppi di problemi, che questa legislatura lascia aperti. A me pare che siano sostanzialmente tre.

Il primo (non necessariamente il più importante) è quello dei diritti, primo fra tutti quello della cittadinanza per gli stranieri. Pur avendo affrontato molti nodi (fine vita, unioni civili, caporalato, femminicidio, stalking, autismo), la XVII legislatura lascia completamente aperta la questione della cittadinanza italiana agli stranieri (i cosiddetti ius soli e ius culturae). Una questione su cui le opinioni sono divise, ma che andrà affrontata, anziché rimandata sine die per evitare conflitti.

Il secondo gruppo di problemi è quello delle riforme istituzionali. La vittoria del fronte del no al referendum del 4 dicembre 2016 ha bocciato (a mio parere non senza buone ragioni) la proposta di Renzi, ma non ha soppresso la necessità di ammodernare e correggere la Costituzione, un’esigenza peraltro più volte riconosciuta da esponenti del no. Un’esigenza, vale la pena sottolinearlo, che non riguarda solo i limiti del bicameralismo, ma anche il pessimo assetto dei rapporti fra Stato centrale ed Enti locali: il tipo di federalismo imposto dal centro-sinistra nel 2001 con la riforma del titolo V ha condotto sia a una dilatazione della spesa pubblica sia a un rallentamento dei processi decisionali. Dopo quasi vent’anni, è venuto il momento di correre ai ripari.

Ma il gruppo di problemi più importante è, a mio parere, il terzo, ovvero quello delle riforme economico-sociali. Qui non si può dire che nulla sia stato fatto in questa legislatura: 80 euro in busta paga, decontribuzione, Jobs-Act, (lieve) alleggerimento della pressione fiscale su alcune categorie. E tuttavia i problemi fondamentali del Paese sono ancora lì, tutti quanti: il tasso di crescita del Pil e il tasso di occupazione, pur in miglioramento grazie al Quantitative Easing e alla ripresa dell’economia europea, restano fra i più bassi d’Europa; il numero di famiglie che versano in condizione di povertà assoluta è in continuo aumento, anche negli ultimi anni; il debito pubblico resta fra i più alti del mondo, e non ha ancora iniziato a scendere.

Di fronte a questi nodi, tutti e tre i principali schieramenti avanzano le loro proposte per risollevare le sorti del Paese. In materia di lotta alla povertà e di sostegno del reddito si fronteggiano tre formule: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di inclusione (Pd), imposta negativa e aumento delle pensioni minime (Forza Italia). In materia di tasse, se lasciamo da parte l’estrema sinistra, sempre attratta dall’idea di “far piangere i ricchi”, tutti promettono riduzioni fiscali: flat tax al 15% (Lega), flat tax al 23% (Forza Italia), 30 miliardi di tasse in meno (Renzi), revisione delle aliquote Irpef a favore delle fasce dei contribuenti medio-basse (Cinque Stelle).

Se si prova a fare qualche addizione, non si arriva alle cifre denunciate da Renzi nei giorni scorsi, secondo cui il programma del centro-destra costerebbe 157 miliardi e quello dei Cinque Stelle 84, se non altro perché mancano troppi dettagli per fare calcoli attendibili. Però si arriva almeno a capire una cosa: che i conti non tornano, e non possono tornare.

Già nel 2018 l’Italia avrà il problema di disinnescare 20 miliardi di clausole di salvaguardia, ossia di minacciati aumenti dell’Iva. Ci sono poi gli impegni, già assunti con la Commissione europea, di mantenere l’indebitamento netto in prossimità dell’1.6%, un obiettivo che secondo alcuni potrebbe richiedere una manovra correttiva già nella primavera prossima, ovvero appena insediato il nuovo governo.

In una situazione del genere, il fatto che le varie forze in campo promettano di tutto, sia in termini di sussidi a poveri e pensionati, sia in termini di minori tasse, dimostra una cosa soltanto: che, sia pure in misura diversa, un po’ tutti stanno ignorando l’invito del Presidente della Repubblica a fare proposte “realistiche”. E invece quell’invito andrebbe preso molto sul serio. Perché almeno un punto dovrebbe essere chiaro: se vogliono essere una cosa seria, riduzione delle tasse e nuovi sussidi sono possibili solo aumentando ancora, e di molto, il debito pubblico. E, viceversa, se si vuole iniziare a ridurre il debito pubblico, o perlomeno a non farlo ancora aumentare, quelle promesse di nuove spese e minori tasse sono insostenibili.

La realtà è che le tasse, le spese e il debito sono i vertici di un triangolo aritmetico ineludibile: non si possono ottenere risultati su un punto senza pagare un prezzo sugli altri due. Chi lo nasconde, o finge che il problema non sussista, sta ingannando gli elettori. E forse non merita il nostro voto.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 30 dicembre 2017



Mercato della politica/ Così i giovani pagheranno la caccia al voto degli anziani

Che gli anziani siano un segmento elettorale appetibile non è una novità. E tuttavia fa una certa impressione constatare quanto serrato sia il corteggiamento di cui oggi, a meno di tre mesi dal voto, sono fatti oggetto un po’ da tutte le forze politiche.

Berlusconi ha aggiornato la vecchia promessa di portare le pensioni minime a 1 milione di lire al mese (“Contratto con gli italiani”, 2001): ora l’impegno è ad alzare l’importo minimo a 1000 euro al mese. Pd e governo, a loro volta, molto hanno puntato sulla cosiddetta Ape social, ovvero sulla possibilità di andare in pensione anticipatamente senza perdite di reddito. Il movimento di Bersani e d’Alema (ora capeggiato da Pietro Grasso), ha appoggiato la posizione della Cgil, ostile alla legge Fornero e determinata ad impedire l’innalzamento dell’età pensionabile in funzione dell’aumento della speranza di vita. Quanto ai Cinque Stelle, a prima vista i più in sintonia con il mondo giovanile, la loro proposta di reddito minimo (erroneamente denominato “reddito di cittadinanza”) in realtà riguarda tutti, e dunque anche anziani e pensionati.

Naturalmente non è difficile indovinare le ragioni di tante premure verso gli anziani. La quota di popolazione over 64 sfiora il 27% dell’elettorato ed è in costante aumento, mentre la quota dei giovani dai 18 ai 34 anni è molto più bassa e in costante ritirata (oggi è appena sopra il 21%). A ciò si aggiunge il fatto che la partecipazione al voto tiene di più fra gli anziani che fra i giovani e, nel caso della sinistra, la circostanza che la base sociale delle forze di sinistra (e della Cgil) sia sbilanciata verso gli strati più anziani della popolazione.

Ma è giustificata tanta attenzione verso gli anziani?

In linea di principio certo che sì: non sono pochi gli anziani che vivono in condizioni di grave disagio economico, per non parlare dei mille guai (innanzitutto di salute) che tendono ad aggravarsi con il procedere dell’età. Se però ragioniamo in termini politici, ovvero di scelte che la politica è chiamata a fare, la diagnosi si capovolge completamente. In una situazione di risorse limitate, la domanda cruciale non è se un determinato gruppo sociale sia meritevole di attenzione oppure no, ma se lo sia più di altri. Detto altrimenti, l’interrogativo è se, dato un certo stock di risorse aggiuntive, sia ragionevole indirizzarle verso certi gruppi sociali piuttosto che verso altri. Viste da questa angolatura le cose cambiano completamente, per almeno due ragioni di fondo.

La prima è che, comparativamente, l’Italia è uno dei paesi che destinano la quota più alta di risorse alle pensioni, nonché uno dei paesi nei quali, di fatto, in si va in pensione più presto, a circa 62 anni gli uomini, a 61 le donne (fra i grandi paesi solo la Francia ha un sistema pensionistico più generosa del nostro: lì si va in pensione a 60 anni).

La seconda ragione ha a che fare con la crisi e l’evoluzione della diseguaglianza in questi ultimi anni. Nel periodo cruciale della crisi, ovvero dal 2007 al 2015, il reddito relativo (rispetto alla famiglia italiana tipo) delle varie fasce d’età ha seguito dinamiche diversissime, ma l’unica fascia di età che ha migliorato la propria posizione (+18.4%) è stata quella degli anziani, mentre quella che ha registrato il più drammatico arretramento è stata quella dei giovani (-10.4%). Una tendenza che è purtroppo confermata dalle indagini sulla povertà assoluta, che da anni registrano un deterioramento delle condizioni delle famiglie con capofamiglia giovane, e più in generale delle famiglie con minori a carico. Insomma, voglio dire che, se c’è una frattura che in questi anni ha reso la società italiana più diseguale, questa frattura è quella fra giovani e anziani. Un dramma, quello della condizione giovanile in Italia, che i dati più recenti sul mercato del lavoro purtroppo non fanno che ribadire: l’anno scorso, per la prima volta da quando esistono statistiche comparabili, l’Italia ha fatto registrare il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa, dietro Grecia e Turchia.

Ma c’è anche un altro senso, più sottile, nel quale i giovani sono penalizzati dalle forze politiche, da tutte le forze politiche. La stragrande maggioranza delle promesse che cominciano a circolare in vista delle elezioni dell’anno prossimo sono promesse di maggiori spese, ora a favore di una categoria ora a favore di un’altra. E nessuna forza politica prende veramente sul serio il nostro problema numero uno, che è il macigno del debito pubblico.

Ebbene, che cos’è l’incremento del debito pubblico? L’incremento del debito non è semplicemente un freno alla crescita, ovvero al tenore di vita futuro di tutti, ma è anche un prestito che gli adulti e gli anziani sottoscrivono oggi per poter consumare di più, e che i giovani di oggi, divenuti adulti domani, dovranno restituire comprimendo i loro consumi futuri. Alla faccia della solidarietà fra generazioni.

Articolo pubblicato il 16 dicembre 2017 su Il Messaggero