Mezzogiorno “dimenticato”? forse no…

Le campagne elettorali degli ultimi trent’anni si somigliano un po’ tutte. Solite promesse, soliti slogan, solite analisi dei mali del Paese. Soliti temi: lavoro, tasse, sicurezza, pensioni. E solite omissioni: debito pubblico, debito pensionistico, parametri europei, pareggio di bilancio.

C’è una differenza, tuttavia. Dal novembre del 2012, ossia dal repentino cambio di governo da Berlusconi a Monti, è calato il silenzio più totale sul federalismo, sui problemi del Mezzogiorno, sugli squilibri fra Nord e Sud. Mi colpì molto, allora, non sentire una sola parola sui grandi temi che, almeno sul piano della propaganda, sono sempre stati al centro del dibattito politico italiano, sia nella prima Repubblica, quando il nodo era la “questione meridionale”, sia nella seconda, quando il nodo era diventato la “questione settentrionale”, risolutamente posta all’ordine del giorno dalla Lega Nord ma anche da importanti settori della classe dirigente industriale (uno dei primi studi sul “residuo fiscale”, ossia sulla penalizzazione delle regioni del Nord, fu condotto dalla Fondazione Agnelli, nei primi anni ’90). E altrettanto mi colpisce, in queste settimane, la perdurante marginalità dei classici temi dello “svantaggio” del Sud e, specularmente,  della “spoliazione” del Nord.

Di questa virtuale scomparsa del tema del Mezzogiorno esistono naturalmente ragioni abbastanza precise. La prima è che la crisi del 2007-2014 ha oscurato quasi tutto il resto. La seconda è che, dopo l’approvazione della legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale, non è occorso molto tempo per capire che quella legge era un compromesso assai difficile da tradurre in pratica, e che la Lega stessa, attaccatissima al potere locale di recente conquistato, era ormai divenuta più un elemento di freno che un fattore di stimolo del federalismo.

Il fatto che poco si parli del Mezzogiorno, tuttavia, non significa affatto che esso conti poco in questa campagna elettorale. La realtà è che esso conta moltissimo, ma lo fa in modo silente. Anzi, tendo a pensare che, come quasi sempre è stato nella storia elettorale italiana, saranno le ondivaghe regioni del Sud ad assegnare la vittoria, o perlomeno a fare la differenza.

Perché dico che lo fa in modo silente?

La ragione è presto detta. Il problema fondamentale del Mezzogiorno resta, oggi come ieri, la mancanza di lavoro, un problema che, negli ultimi dieci anni, ha assunto il volto inquietante della povertà (le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta sono oggi il doppio che nel 2007). E, di fronte a questo problema, che riguarda innanzitutto il Mezzogiorno, tutti e tre gli schieramenti politici hanno sfoderato una delle loro armi più efficaci, ovvero la proposta di un sussidio universale (rivolto a tutti), una novità assoluta per un paese come l’Italia. Ecco perché, anche quando non parlano esplicitamente di Mezzogiorno, tutte le forze politiche, di fatto, se ne stanno occupando.

Tutte e tre le proposte in campo sono, in buona sostanza, misure di reddito minimo per coloro che lavorano o sono disposti a lavorare, sia pur denominate in modi diversi: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di dignità (Centro-destra), reddito di inclusione (Pd).

La proposta più demagogica è quella dei Cinque Stelle, sia per il suo importo (che può superare i 1500 euro per famiglia), sia per le condizioni di concessione (e di conservazione) del sussidio, che rendono estremamente conveniente non lavorare o lavorare in nero. La proposta più realistica è quella del Pd, che si limita ad ampliare progressivamente il reddito di inclusione (già in vigore), ed è rivolta solo alla frazione più povera delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Una via di mezzo, per quel che se ne sa finora, è quella del centro-destra, che dovrebbe essere basata sulla cosiddetta imposta negativa (colmare, ma solo in parte, in parte lo scostamento fra reddito effettivo e soglia di povertà), e il cui principale pregio è di non far venire meno l’incentivo a lavorare.

Chi conquisterà i voti delle popolazioni meridionali?

La mia impressione è che, nella battaglia per acquisirne il consenso, il Pd si trovi nella posizione più difficile, e i Cinque Stelle in quella più favorevole. Il partito di Renzi sconta infatti una doppia debolezza: primo, “offre” troppo poco sul piatto dell’assistenza; secondo, punta su una carta, la creazione di nuova occupazione, che inevitabilmente si scontra con l’atavico, e perfettamente giustificato, scetticismo meridionale sulla possibilità di assorbire la disoccupazione con posti di lavoro veri. Quanto al centro-destra, è vero che sia l’imposta negativa sul reddito, sia la flat tax (aliquota unica su tutti i redditi) che la accompagna, sono proposte razionali, per molti versi le più interessanti fra le molte in campo. Esse tuttavia, a mio modesto parere, risultano vincenti su quelle dei Cinque Stelle nelle regioni settentrionali, ma non in quelle meridionali. E questo per due ragioni di fondo.

La prima è che l’attrazione per le misure di matrice assistenziale, come è il reddito di cittadinanza, è da sempre più forte nel Sud, dove il lavoro scarseggia, che nel centro-Nord, dove i tassi di occupazione sono vicini ai livelli europei. Un’attrazione che, nel caso di tutte le proposte in campo (eccetto quella dell’istituto Bruno Leoni), è rafforzata dal fatto che la soglia di povertà è definita in termini di reddito nominale, anziché di potere di acquisto: ciò fa sì che il grosso del sussidio previsto dal Movimento Cinque Stelle finirà al Sud, ben al di là del numero di poveri residenti in tali regioni, mentre la maggior parte dei poveri del centro Nord non ne potrà usufruire.

Ma la ragione più importante è la seconda. Il piatto forte del menu elettorale del centro destra è la flat tax, con la sua promessa di forte riduzione delle aliquote sia sul reddito personale, sia sul reddito di impresa: 23% all’inizio, 15% come obiettivo finale. Ora, basta un’occhiata alle statistiche dell’evasione fiscale per capire che il cavallo di battaglia del centro-destra non potrà avere, al Sud, lo stesso appeal che ha al Nord. Perché la riduzione delle aliquote convinca gli elettori, infatti, occorre partire da una base di alto adempimento fiscale, che al Sud è sostanzialmente assente: una flat tax al 15% difficilmente può convincere chi le tasse se le è già autoridotte.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 25 gennaio 2018



Luci e ombre della flat tax

Flat tax. È una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, anche se qualche precedente non manca: Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%).

Prima di ragionare su questa proposta, forse non è inutile illustrare il principio della flat tax con un esempio. Supponiamo, per fissare le idee, che la flat tax venga applicata solo ai redditi delle persone fisiche e che l’aliquota sia del 20%, con una no tax area (nessuna imposta) da zero a 10 mila euro. Supponiamo anche che, come spesso accade, la proposta sia affiancata da un’imposta negativa del 50% (imposta negativa significa: se guadagni meno di 10 mila euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a 10.000 euro).

Risultato: chi guadagna 5000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro. Chi guadagna 10 mila euro non paga nulla. Chi guadagna 20 mila euro paga zero tasse sui primi 10 mila euro, e 2000 euro (il 20% di 10 mila) sui successivi 10 mila, il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%. Chi guadagna 30 mila euro paga anch’egli zero tasse sui primi 10 mila euro, e 4000 euro (il 20% di 20 mila) sui 20 mila successivi, il che significa che per lui l’aliquota è del 14.3%. Chi guadagna 50 mila euro ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%. Nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10 mila euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito. Un Paperon de Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%.

Dunque ricapitolando: i poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%. Scusate l’esempio terra-terra, ma serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla flat tax, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario). Chi fa questa obiezione o, peggio ancora, parla di un sistema che toglie ai poveri per dare ai ricchi, una sorta di “Robin Hood al contrario”, semplicemente non ha capito come funziona la flat tax. Dunque lasciamo perdere e passiamo oltre.

Dal nostro esempio possiamo dedurre che la proposta del centro-destra di introdurre la flat tax sui redditi personali, ed eventualmente su quelli di impresa, è una buona proposta?

Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare.

Ma per altri versi la flat tax è invece una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta. Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, sono entrambe fragilissime, anche se per ragioni diverse. L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale (maxi-sconto agli evasori) è debole perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente. L’idea che aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche). Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%? Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti? Per non parlare del mondo dell’edilizia, dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi, almeno sui lavori per cui non è previsto un robusto credito di imposta.

Insomma, è perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una flat tax al 15%, o anche al 23%.

È un’idea da buttar via, dunque?

Forse no. Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema). Un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista.

Alternativamente, si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi, una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più.

Quale che sia la strada prescelta, il punto resta il medesimo. Se si vuole criticare la flat tax, è inutile accanirsi contro la non progressività, perché la flat tax è progressiva, e per certi versi lo è più del sistema attuale, che nulla riconosce ai cosiddetti incapienti, ossia a chi non guadagna abbastanza da dover pagare le tasse; che la flat tax non sia il demonio, del resto, lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia, che  in una recente intervista al Corriere della Sera, dando prova di notevole onestà intellettuale ha dichiarato: “una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei”. In breve: se si vuole criticare la flat tax, l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica.

Simmetricamente, se la flat tax la si vuole difendere, la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 27 gennaio 2018



Due tipi di italiani

Secondo i sondaggi, gli italiani intenzionati a recarsi alle urne si aggirano intorno al 60%, mentre quelli intenzionati a votare Pd, il principale partito di governo, sono più o meno il 15% del corpo elettorale (e il 25% dei votanti). Sempre secondo i sondaggi, il consenso nei confronti di Gentiloni e del suo governo sfiora il 50%, un dato che, a oltre un anno dal suo insediamento, non può certo essere attribuito all’effetto “luna di miele”, ovvero al surplus di popolarità che di norma beneficia i governi appena insediati. A quanto pare il premier trae il suo consenso un po’ da tutti i segmenti della società italiana: dagli elettori del Pd, ovviamente, ma anche da chi pensa di votare altri partiti, o di non votare affatto.

Sono dati che fanno riflettere. Come è possibile che esista una divaricazione così grande fra il consenso al governo e quello al partito di governo?

Conosco la risposta che, istintivamente, siamo portati a fornire: il problema è il fattore R, o fattore Renzi. Bombardati, intontiti ed esausti dalle esternazioni di Renzi e dei suoi, agli italiani non par vero di potere, finalmente, sbadigliare un po’ davanti ai discorsi di un premier che parla lentamente, misura le parole, azzecca i congiuntivi, e soprattutto non offende nessuno.

C’è del vero, probabilmente, in questa diagnosi, ma forse di questi tempi ci sono anche altri meccanismi all’opera. La mia impressione è che si stia formando una sorta di divaricazione fra due segmenti di elettorato, sempre presenti sulla scena italiana ma ora particolarmente distanti l’uno dall’altro.

Che cosa li distingue?

Secondo me essenzialmente l’attitudine verso la demagogia, un tratto del discorso politico spesso erroneamente confuso con il populismo (la demagogia contagia anche i partiti non poco o per niente populisti). In questa stagione politica, resa confusa dall’emergere, per la prima volta in Italia, di un sistema tripolare, gli elettori tendono a polarizzarsi fra due atteggiamenti mentali contrapposti.

Una parte dell’elettorato ha estremamente chiaro chi è il nemico, e per sconfiggerlo è pronta a seguire chiunque prometta di farlo. Per questo segmento, forse maggioritario, quel che conta è che gli “altri” non vincano, e il voto assume spesso una forte valenza espressiva, o identitaria. Se si sceglie una determinata forza politica non è perché si pensa che potrà mettere in atto il suo programma, ma semplicemente perché questo gesto permette di dire qualcosa di sé stessi: chi si è, da che parte si sta, per quali principi si combatte. Di qui un’importante conseguenza: anche se ci si accorge perfettamente dei fiumi di demagogia che affliggono la propria parte politica, li si digerisce abbastanza serenamente, perché l’imperativo categorico è battere l’avversario o, se preferite, sopraffare la demagogia altrui. Questa credo sia la ragione per cui, nonostante lo spudorato e universale ricorso alla demagogia, tutte le forze politiche conservano uno zoccolo di consenso non trascurabile.

C’è un’altra parte dell’elettorato, molto eterogenea, che è insofferente per la demagogia, capisce perfettamente che nessuno, ma proprio nessuno, manterrà le promesse, e per questo motivo è tentata dal non voto, anche se poi alla fine, in diversi casi, un voto finisce per darlo, con le motivazioni individuali più diverse, compreso il “dovere” del voto. Questa, a mio parere, è la ragione principale della divaricazione fra la popolarità di Gentiloni e le intenzioni di voto per il partito di Renzi. L’elettorato insofferente per la demagogia apprezza il basso profilo scelto dagli esponenti del governo ma, per ora, stenta a riconoscere nel Pd un partito immune alla demagogia. Dove per demagogia non intendo solo le proposte chiaramente improvvisate (come l’abolizione del canone, o il salario minimo a 10 euro), ma il petulante racconto di successi che ogni persona non dico di buone letture, ma semplicemente dotata di senso comune, attribuisce senza esitazione alla ripresa economica europea e all’azione della Banca centrale.

Eppure, più che il populismo, credo che proprio il rapporto con la demagogia sia uno degli spartiacque fondamentali di questa stagione. Rispetto a questo spartiacque, ci sono forze politiche che hanno un posizionamento chiaro, e proprio da tale posizionamento ricavano linfa elettorale: è il caso della Lega e dei Cinque Stelle, in cui il ricorso alla demagogia non incontra alcun freno. Ci sono forze politiche in cui c’è una dialettica fra demagogia e realismo (è il caso delle piroette di Forza Italia sul Jobs Act, o sulla legge Fornero). E poi c’è il Pd, che a mio parere soffre di ambiguità proprio su questo punto, quello del rapporto con la demagogia. Troppo poco demagogico per attirare i consensi degli elettori più ideologizzati e radicali, che troveranno senz’altro nella ditta GrGr (Grillo e Grasso) un comodo approdo, lo è ancora troppo per portare dalla propria parte l’elettorato insofferente per la demagogia. Dove il “troppo” di cui parlo non sta tanto nella irrealizzabilità o pericolosità delle proposte (prima fra tutte l’idea di mantenere il deficit al 3% per cinque anni), quanto nella mancanza di sobrietà e realismo nel modo di raccontare questi anni, un tratto di “bullismo nella narrazione” che, a mio modesto parere, accomuna Renzi a Berlusconi, anch’egli incapace, a suo tempo, di stilare un bilancio appena plausibile dei propri anni di governo.

Peccato, perché, a giudicare dalla popolarità del premier, il segmento elettorale che apprezza la sobrietà e detesta la demagogia è tutt’altro che esiguo, e nessuna forza politica importante sembra interessata a farsene paladina fino in fondo. Per parte nostra, da qui al 4 marzo, cercheremo di dare voce a questa componente della società italiana, e di farlo nel modo più diretto: attraverso un’analisi impietosa delle promesse con cui i partiti si contendono il governo del Paese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 gennaio 2017



Perché i 5 stelle non perdono consensi

Quando c’era la Democrazia Cristiana, o il Partito Comunista, eravamo abituati ad osservare una certa impermeabilità del consenso per questi partiti agli accadimenti quotidiani. Uno scandalo politico, nazionale o internazionale, influiva in misura piuttosto limitata sull’orientamento di voto dei loro elettori. La fedeltà ad una certa visione del mondo, ad un certo desiderio di società, da una parte e dall’altra, era più importante dei casi personali o delle malefatte di questo o quel personaggio politico.

La Dc o il Pci guadagnavano o perdevano relativamente poco, da una elezione all’altra, immuni anche a importanti fenomeni sociali, come negli anni Sessanta o Settanta. Oggi i partiti subiscono molto più facilmente i contraccolpi di scelte o comportamenti errati. Il Pd di Veltroni valeva il 33%, quello di Bersani il 25%, quello di Renzi inizialmente il 40%, poi ridottosi al 30% soltanto qualche mese dopo, per precipitare all’odierno 23-24%. Forza Italia passa in poco tempo dal 30% al 20%, per arrivare oggi poco sopra il 15%.

Sembra che l’unica attuale forza politica che, in qualche modo, resti sostanzialmente immune dalle polemiche o dalle eventuali scelte poco lucide dei suoi rappresentanti (locali o centrali) sia oggi il MoVimento 5 stelle. Negli ultimi due anni, nel bene o nel male, i pentastellati si sono aggiudicati la palma del movimento più ondivago della storia: le opinioni nei confronti di molti dei più rilevanti accadimenti socio-politici sono cambiate a volte nel giro di qualche mese, se non di qualche giorno. Il che è magari plausibile, data la natura del movimento stesso, senza un “vero” programma, basandosi in linea di principio sulla costante interrogazione dei propri iscritti. Ma semina a volte ovvie perplessità nei commentatori e dovrebbe (o potrebbe) crearne anche nei suoi elettori.

Invece, al contrario delle aspettative, i consensi sono rimasti sostanzialmente immutati, in questo periodo di tempo. Come mai? Proprio a causa della specificità del suo elettorato. Molti si sono interrogati su come sia fatto. Alcuni pensano al popolo “pentastellato” come ad una riedizione dei primi adepti del movimento fascista, altri come fuoriusciti dai centri sociali, altri ancora come semplici qualunquisti, altri infine come acuti interpreti di una società in rapido cambiamento. Chi ha ragione? Tutti e nessuno, o meglio, un po’ tutti sono in realtà nel giusto, dal momento che le anime del movimento paiono essere molto variegate. Nel libro “Politica a 5 stelle”, insieme a Roberto Biorcio, ne avevo individuate quattro prevalenti.

I seguaci (il nucleo più antico), i gauchisti (provenienti da esperienze di sinistra), i razionali (che pensano al M5s come la sola forza per scardinare il sistema) e i “menopeggio” (i più qualunquisti, che odiano la casta). Quattro anime il cui peso interno varia da momento a momento: oggi i “menopeggio” sono più forti, mentre un po’ in crisi sono i guachisti. I razionali andavano bene nel 2013 e nelle amministrative di Roma e Torino. E così via. A seconda di ciò che accade, del momento politico e sociale, e delle parole d’ordine lanciate da Grillo o da Di Maio o da qualche altro esponente pentastellato, qualche anima si riattiva e qualcuna si allontana.

Il bacino potenziale di riferimento dei 5 stelle è oggi in Italia intorno al 35% dell’elettorato complessivo, e da quel potenziale viene “pescato” il livello di consenso contingente che, appunto, muta nella composizione interna ma non nella sua quantità. Quando la giunta romana non funziona, i razionali rimangono in stand-by, ma si riattivano i seguaci. Quando si denigrano gli immigrati, tornano in massa i “menopeggio” ma si allontano i gauchisti. Un sistema di pesi e contrappesi, si direbbe oggi, che alla fine lascia inalterato il dato complessivo dell’orientamento di voto.

Il vero problema da risolvere, per i 5 stelle, arriverà se e quando andranno al governo. I loro proclami possono andare bene, a turno, per le diverse componenti, ma le loro politiche non potranno accontentare contemporaneamente tutte le anime. E quello sarà il loro vero banco di prova.




Prigionieri del presente

Confesso che non li ho ascoltati tutti e per intero, i messaggi dei presidenti della Repubblica degli ultimi 50 anni. Però almeno la metà sì, e spesso dall’inizio alla fine, quasi sempre combattendo un’aspra battaglia contro la noia.

Questa volta no, non mi sono annoiato. Mattarella ha fatto un mezzo miracolo: è riuscito a parlare poco, senza frasi in codice, dicendo cose non scontate. Soprattutto, ha evitato i moniti e le liste della spesa, quei lunghi elenchi di cose non fatte che tanti suoi predecessori non erano stati capaci di risparmiarci.

L’invito alla concretezza, e ad evitare promesse che non si possono mantenere, è stato colto da tutti, cittadini e mass media. Gli unici che paiono non averlo inteso sono i suoi veri destinatari, ossia i politici, dei quali colpisce la vocazione schizofrenica: continuano a lodare e omaggiare il Capo dello Stato, e al tempo stesso a fare promesse che non possono mantenere. Come se Mattarella non si fosse espresso, o se loro vivessero su un altro pianeta.

Ma c’è un aspetto, in particolare, del discorso di fine anno su cui forse varrebbe la pena di meditare. È quello in cui il Presidente ha invitato a “non vivere nella trappola di un eterno presente, quasi in una sospensione del tempo, che ignora il passato e oscura l’avvenire”.

È vero, le analisi e le promesse dei politici, ma talora anche i vissuti dei comuni cittadini, sono spesso proprio questo, un ignorare il passato e oscurare l’avvenire. Ignoriamo il passato allorché, prigionieri del nostro vittimismo, sembriamo non renderci conto degli enormi progressi che sono stati compiuti in questi 70 anni in termini di “pace, libertà, democrazia, diritti” e, aggiungo io, di benessere materiale e sociale. Ha fatto benissimo Mattarella, nell’esortare i giovani del 1999 ad esercitare per la prima volta il diritto di voto, a ricordare la sorte di quelli di un secolo prima, i giovani del 1899, “mandati in guerra, nelle trincee”.

Ma la schiavitù del presente ha anche un’altra faccia, l’incapacità di fare le scelte da cui dipende il nostro futuro. Non è solo un difetto della classe politica, è anche una debolezza, per non dire una viltà, di una parte della società civile. Rimproveriamo spesso i politici perché agiscono in un orizzonte ristretto, ossessivamente preoccupati del consenso immediato, e del tutto dimentichi del destino delle generazioni future; se davvero se ne preoccupassero, non farebbero le promesse che ripetono ogni giorno, e soprattutto avrebbero già da un pezzo smesso di far lievitare il debito pubblico, un macigno che peserà sulle vite dei giovani attuali, non certo su quelle degli anziani e dei pensionati.

Ma dare tutta la colpa ai politici e alla loro (interessata) cecità è troppo facile. La “trappola dell’eterno presente” evocata nel discorso di fine anno riguarda anche il modo di consumare, di vivere, di pensare dei cittadini. Siamo noi stessi che, da troppo tempo, abbiamo disimparato a pensarci nel futuro, a immaginarci nel domani, a differire le gratificazioni, a investire in progetti che richiedono tempo, impegno, talora rinunce. Un’incapacità che inizia molto presto, fin dai banchi di scuola, quando troppo sovente veniamo diseducati a ciò che le generazioni precedenti consideravano normale: la fatica dello studio, la durezza delle sconfitte, la necessità di affrontare sacrifici, la lunghezza dei percorsi che conducono ai traguardi più alti.

Forse è anche per questo che, dopo tutto, la vanità delle promesse dei politici non ci sorprende più di tanto, né ci scandalizza. In quelle promesse, immediate e poco credibili, vediamo rispecchiato il nostro medesimo essere e sentirci intrappolati nel presente.

Ne usciremo?

Non lo so. Ma tendo a pensare che qualcosa cambierà solo quando la smetteremo di autoassolverci, e scaricare tutte le responsabilità sulla mala politica. L’incapacità di uscire dalla prigione del presente è ciò che accomuna i cittadini e i loro rappresentanti. E, proprio perché li accomuna, è un incantesimo che non si lascia spezzare facilmente. Del resto, se fossimo davvero diversi, se noi cittadini fossimo capaci di memoria e di prospettiva, e solo i politici fossero prigionieri del presente, le loro false promesse, le loro fake promises, non avrebbero corso elettorale. E non ci sarebbe bisogno che, a fine anno, il presidente della Repubblica ci ricordi quello che una politica sana e matura dovrebbe sapere da sé.

Pubblicato da Il Messaggero il 6 gennaio 2018