L’anima del Pd

Siamo in molti, credo, a chiederci che cosa sia saltato in mente a Zingaretti qualche giorno fa, quando ha compiuto due mosse che un po’ tutti abbiamo percepito come collegate. La prima è stata di ingiungere al governo di “trovare un’anima”, con ciò confermando la diagnosi che il mondo progressista ripete come un mantra da settimane: questo governo sarà pure necessario, in quanto unico argine possibile contro il razzismo (?), il fascismo (!) e l’aumento dell’Iva (?!), ma è innegabile che un’anima non ce l’ha; e dunque se la dia, se vuole sopravvivere.

Ma l’esortazione di Zingaretti non avrebbe suscitato tanta attenzione se non fosse stata accompagnata dall’impegno, preso a nome del Pd, di tornare a battersi per lo ius soli e lo ius culturae, ovvero per allargare le maglie della concessione della cittadinanza agli stranieri.

Difficile non fare 2 + 2 e intendere che, in realtà, l’esortazione a darsi un’anima, più che al governo, fosse rivolta al Pd, che quasi tutti gli osservatori descrivono come un partito confuso, disorientato, alla ricerca di un’identità o, appunto, di un’anima. E infatti il primo a lanciarsi, piuttosto entusiasticamente, sulla proposta di Zingaretti (in particolare sullo ius culturae) è stato Luigi Manconi, che giusto 10 anni fa aveva scritto un libro con un titolo significativo (Un’anima per il Pd) e un sottotitolo ancor più significativo (La sinistra e le passioni tristi). Dunque siamo al punto di partenza: al Pd mancava un’anima quand’era piccino (il libro di Manconi è del 2009) e manca un’anima pure oggi che è grandicello. I suoi sostenitori esigono, giustamente dal loro punto di vista, che questa benedetta anima venga “trovata”, e Zingaretti ci prova. Annuncia che il Pd darà battaglia su ius soli, ius culturae e decreti sicurezza.

Io non so perché Zingaretti abbia scelto di percorrere questa strada, tutta pro-migranti e così poco sensibile alle priorità dei ceti popolari. Può darsi che abbia ragione Federico Rampini che qualche giorno fa, in un dibattito televisivo, manifestava tutto il suo sconcerto di fronte alle esternazioni zingarettiane: il Pd, ormai, ascolta solo il mondo radical chic, e pare del tutto dimentico delle sue origini (il Partito comunista “era legge e ordine”, altroché buonismo e permissivismo). Ed è certo che questa evoluzione era stata immaginata fin dagli anni ’70 dal grande filosofo Augusto del Noce, che profetizzava una progressiva trasformazione del Pci, il “partito della classe operaia”, in un “partito radicale di massa”, attento alle esigenze e alla sensibilità degli strati alti e medio-alti della popolazione.

E tuttavia, pur essendo fra quanti, non da ieri ma da qualche decennio, hanno registrato questa deriva, per cui i diritti sociali (a partire dal lavoro) cedono il passo a quelli civili (le “grandi battaglie di civiltà”, dalle unioni gay alla fecondazione assistita, dalla cittadinanza all’eutanasia), non riesco a nascondere il mio stupore. Perché quel che è strano non è che il Pd cerchi di dotarsi di un’anima, ma che – per farlo – si ispiri ai salotti della borghesia illuminata e alle credenze dei media progressisti, anziché alle esigenze e ai sentimenti dei ceti popolari. Quel che è strano è che, di fronte alla domanda di protezione che, da anni, si leva dagli strati periferici della società italiana, il maggiore partito della sinistra preferisca sintonizzarsi con le priorità degli strati sociali centrali, fatti di persone istruite, urbanizzate, benestanti.

Perché?

Augusto del Noce direbbe, forse: perché era inevitabile. La trasformazione del Pci in partito radicale di massa altro non è che l’esito finale del lungo cammino che, in mezzo secolo, ci ha resi una società opulenta e profondamente individualista. Del resto, la mutazione non è avvenuta solo da noi: che i partiti progressisti rappresentino soprattutto gli strati medio-alti, e che i ceti popolari guardino più a destra che a sinistra, non è un tratto distintivo dell’Italia, ma è una circostanza che è possibile ritrovare nella maggior parte delle società avanzate. Perché stupirsi, dunque, se il maggior partito della sinistra si aggrappa alle “sardine” (gli studenti che riempiono le piazze contro Salvini), e snobba le preoccupazioni degli strati più umili?

La ragione per cui mi stupisco è presto detta: l’Italia non è come gli altri maggiori paesi paesi avanzati. L’Italia è l’unica società avanzata in cui l’economia non cresce più, la produttività è ferma da vent’anni, e le persone che non lavorano sono molto più numerose di quelle che lavorano. In queste condizioni, se non si fa nulla, siamo condannati a un processo di “argentinizzazione lenta”, che nel giro di pochi decenni eroderà la ricchezza accumulata dalle generazioni che hanno ricostruito il Paese dopo la seconda guerra mondiale. Le grandi emergenze economico-sociali di cui si parla in questi giorni (Ilva, Alitalia, Mose), le innumerevoli crisi aziendali aperte, non sono eventi accidentali, o di origine misteriosa, ma i segni difficilmente equivocabili del declino in atto.

Ecco perché mi stupisco delle mosse del maggiore partito della sinistra. Non ho nulla contro lo ius culturae, una misura che – se congegnata bene – troverebbe ampio consenso, anche fra quanti guardano a destra, ma trovo incredibile che, per darsi un’anima, e in una situazione in cui il Paese affonda sotto una valanga di problemi che rigardano l’hardware del sistema sociale (economia e lavoro), il maggiore partito della sinistra preferisca baloccarsi con problemi che riguardano il software del sistema sociale, e sono largamente estranei alla sensibilità popolare. Un grande leader come Berlinguer, di fronte alla situazione dell’Italia di oggi, non avrebbe trovato alcuna difficoltà – ove ve ne fosse stato bisogno – a trovare un’anima al suo partito. E, soprattutto, non l’avrebbe cercata lontano dalle periferie e dalle fabbriche, dove tutt’ora, e a dispetto del benessere dei più, gli strati popolari fanno i conti con le asprezze della vita.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 novembre 2019



Una crisi che viene da lontano

Sul fatto che l’Italia sia in recessione, ormai nessuno prova più a sollevare dubbi. E che non si tratti solo di un fatto statistico, di una recessione “tecnica” (calo del Pil per due trimestri consecutivi) è purtroppo provato dai dati negativi sull’export e da quelli disastrosi sul prodotto industriale e sugli ordini. Di questo passo, la domanda non è più se quest’anno il Pil crescerà dell’1.5% (come fino a pochi mesi fa si illudeva il governo), dell’1% (come il governo prevede ora), o dello 0.5% come per lo più pronosticano i centri di ricerca indipendenti, bensì se davanti alla variazione del Pil nel 2019 ci sarà ancora il segno ‘più’o tornerà a comparire il segno ‘meno’, come cinque anni fa.
Se la maggior parte dei cittadini non avverte ancora il problema è perché, proprio come nel 2007-2009, l’occupazione è uno degli ultimi anelli della catena di trasmissione della crisi. Prima che l’occupazione ne risenta in modo apprezzabile devono entrare in crisi la produzione, gli scambi, la borsa, il mercato dei titoli di Stato, e soprattutto il credito alle imprese, la cui stretta è la vera anticamera di fallimenti e licenziamenti.
Il fatto che ancora non ce ne accorgiamo, e che le Agenzie di rating siano ancora relativamente benevole con noi (vedi il mancato declassamento da parte di Fitch), non dovrebbe, tuttavia, renderci ciechi di fronte a quello che si sta preparando e alle sue origini. Perché se l’anno che è appena iniziato non sarà affatto “bellissimo” (come avventatamente pronosticato dal premier Conte), non è solo perché Trump ha dichiarato guerra (commerciale) alla Cina e al resto del mondo, o perché l’Europa sta rallentando la sua crescita. No, se ci aspettano tempi difficili è anche, anzi soprattutto, per causa nostra.
Ma “nostra” di chi?
La risposta facile a questa domanda è che la colpa è del governo giallo-verde, colpevole di aver inutilmente litigato con l’Europa (facendo lievitare lo spread e crollare i mercati borsistici e azionari), nonché varato due provvedimenti assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza), anziché concentrare tutte le risorse disponibili su misure capaci di stimolare l’economia, come investimenti pubblici e sgravi fiscali ai produttori. Ma è una risposta troppo facile, per tanti motivi.
Intanto perché si sopravvaluta il potere dell’esecutivo, che potrà senz’altro infliggere ingenti danni all’economia italiana, ma non ha avuto ancora il tempo necessario per nuocere davvero, visto che i due provvedimenti cardine – quota 100 e reddito di cittadinanza – non sono ancora operanti, mentre la recessione è iniziata ben 9 mesi fa. Ma c’è anche un altro punto che si tende a trascurare. Pochi hanno dubbi sul fatto che all’inizio di una recessione un governo dovrebbe essere in condizione di varare provvedimenti anticiclici, capaci di fornire un po’ di ossigeno a famiglie e imprese. Non occorre essere keynesiani per riconoscere che, in tempi di vacche magre, è bene usare il fieno accumulato in cascina in quelli di vacche grasse (non entro nel merito della natura di questo “fieno”, ossia se si debba trattare di investimenti pubblici, spesa corrente, o minori tasse). Il punto però è che, per poter usare il fieno in tempi di crisi, ci vuole qualcuno che quel fieno abbia accumulato quando le cose andavano meglio, in quanto il Pil cresceva.
Ma che cosa abbiamo fatto noi, nel quadriennio (relativamente) felice 2014-2017? Anziché procedere risolutamente verso il pareggio di bilancio, lo abbiamo rimandato di anno in anno, ogni volta chiedendo flessibilità e promettendo che “poi” avremmo provveduto. Così lo stock del debito è cresciuto, il rapporto debito/pil è rimasto sostanzialmente invariato, e la flessibilità strappata all’Europa (allora assai meno arcigna di oggi) è stata spesa in misura preponderante per acquisire consenso: bonus 80 euro per i lavoratori dipendenti, bonus ai diciottenni, bonus bebé, stanziamenti per l’accoglienza dei migranti. Oggi i mercati presentano il conto: se lo spread non accenna a piegare la testa, e il governo non può permettersi di varare una vera politica anticiclica, non è solo per la sciocca ed autolesionista polemica con l’Europa, ma anche perché i governi precedenti – con il colpevole assenso dell’Europa stessa – avevano prosciugato le non molte risorse che quattro anni di crescita avevano generato.
Ma avrebbero potuto agire diversamente? E oggi, un qualsiasi governo armato delle più ragionevoli e disinteressate intenzioni, potrebbe contrastare efficacemente la recessione in atto?
Per certi versi la risposta è sì. Renzi e Padoan avrebbero potuto occuparsi di più dei conti pubblici e della crescita, e meno della ricerca spasmodica del consenso, un punto su cui, negli anni del renzismo trionfante, solo Mario Monti e pochi altri hanno attirato la dovuta attenzione. Quanto a Conte e Tria, si potrebbe fare un discorso del tutto analogo: se i soldi di quota cento e del reddito di cittadinanza li avessero messi in maggiori investimenti e minori tasse, la recessione in atto sarebbe risultata meno severa.
Ma per altri versi la risposta vera, la risposta principale, è no. I nostri governanti avrebbero anche potuto attuare politiche un po’ più pro-crescita e un po’ meno pro-consenso, ma temo che il problema dei problemi dell’Italia non sarebbe ugualmente stato risolto. Il nostro problema dei problemi è che la produttività del sistema-Italia è ferma da quasi un quarto di secolo, un fatto che non ha riscontro in alcun altro paese avanzato, e un enigma di cui nessuno ha ancora fornito la chiave. Finché non avremo il coraggio di affrontarlo a viso aperto, potremo anche crescere di qualche decimale in più o in meno a seconda di quanto lungimirante è chi ci governa, ma non eviteremo di restare quello che siamo diventati dalla metà degli anni ‘90: un paese che precipita quando gli altri cadono, e ristagna quando gli altri crescono.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2019