Chi difende l’interesse nazionale?

Difficile, dopo il giro di nomine al Parlamento europeo, pensare che a qualcuno, in Italia, importi qualcosa dell’interesse nazionale. Quando si è trattato di eleggere il presidente della Commissione Europea, il nostro governo ha fatto naufragare la candidatura del socialista Timmermans essenzialmente per una questione di metodo, ovvero per il modo in cui era stata avanzata (accordo Germania-Francia-Spagna-Olanda), trascurando del tutto il fatto che, al suo posto, sarebbe stata scelta una candidata – la tedesca Ursula von der Leyen, rigorista e delfina di Angela Merkel – assai più ostile all’Italia sul nodo centrale della politica economica e del rigore dei conti. Non è andata meglio nel caso dell’elezione del presidente del Parlamento europeo: l’italiano David Sassoli, parlamentare del Pd, è stato eletto a dispetto del voto contrario della Lega (il Movimento Cinque Stelle ha lasciato invece libertà di coscienza).

Se il governo pare muoversi in una logica di piccoli sgarbi e ripicche, senza alcuna vera attenzione agli interessi primari dell’Italia, l’opposizione non è da meno. E’ da quando questo governo si è insediato, che – qualsiasi cosa accada – dall’opposizione sentiamo ripetere quotidianamente: l’occupazione diminuirà, l’Italia entrerà in recessione, la produzione industriale cala, i conti pubblici sono al collasso, la cassa integrazione è in aumento, la Commissione europea punirà l’Italia, i mercati finanziari non si fidano di noi.

Parecchio di vero c’è, naturalmente: ad esempio le ore complessive di cassa integrazione di aprile (ultimo dato disponibile) sono il 30.5% in più rispetto a 12 mesi prima. La produzione industriale è effettivamente in calo (-1.5% in un anno). E’ pure vero che i mercati finanziari poco si fidano dell’Italia, e fino a pochi giorni fa l’hanno punita con la richiesta di tassi di interesse sui titoli di Stato molto maggiori di quelli giustificati dallo stato dei nostri fondamentali.

Però su altri punti l’opposizione spesso straparla. Quando fu varato il decreto dignità, si profetizzò che l’occupazione sarebbe diminuita: è passato esattamente un anno e i dati Istat dicono che è aumentata di quasi 92 mila unità (poco, ma è aumentata, non diminuita). Il deficit dei conti pubblici del 2019 è migliore di quelli di tutti gli ultimi governi di centro-sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni). La commissione Europea non farà partire la procedura di infrazione contro l’Italia. Lo spread è ancora eccessivo, ma sta alleggerendo la pressione sui nostri conti. Quanto al risparmio degli italiani il bollettino settimanale della Fondazione Hume mostra che le perdite patrimoniali (virtuali) accusate dopo l’insediamento del governo gialloverde sono state interamente recuperate, e da un mese si stanno trasformando in guadagni.

Di fronte a tutto questo, l’opposizione parla come un disco rotto, ripetendo slogan e profezie di sventura del tutto irrelate con i dati. Soprattutto, colpisce per il tono anti-italiano delle sue analisi, quasi che si augurasse che la Commissione europea ci sanzioni, che i conti vadano fuori controllo, che l’occupazione cali, la disoccupazione aumenti, i risparmi degli italiani vadano in fumo.

E dire che ci sarebbe da riflettere, almeno sui dati. Perché se parecchie profezie si sono rivelate erronee, se le cose non vanno come l’opposizione le racconta, se il paese non è ancora affondato, forse la reazione giusta non è di dire: se non è affondato affonderà, è solo questione di tempo, e allora si vedrà che avevamo ragione noi.

La reazione giusta, la reazione di un’opposizione leale e dotata di senso della Nazione, a me sembrerebbe, innanzitutto, di rallegrarsi che i disastri annunziati non si siano realizzati. E poi di farsi una domanda: perché tante previsioni si sono rivelate errate? Lo dico nei confronti di un’opposizione accecata dall’ideologia e dall’odio, ma lo dico anche, autocriticamente, verso la comunità degli studiosi. Se tante previsioni si sono rivelate errate, o anche solo premature, e nondimeno sono state formulate in buona fede, allora vuol dire che c’è, nelle nostre teorie e nei nostri modelli, qualche difetto fondamentale: onestà vorrebbe che ne prendessimo atto, e cominciassimo a pensare ai rimedi.

Pubblicato su Il Messaggero del 07 luglio 2019




La lettera di Conte all’Unione Europea

Bene sul 2019, rischi sul 2020

La sensazione è che l’Italia non voglia lo scontro, e che alla fine la procedura di infrazione non partirà. Questo, in estrema sintesi, è quel che ho ricavato da una attenta lettura della lettera che, ieri, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha indirizzato agli altri paesi Europei.
Una lettera inconsuetamente lunga, che colpisce per il suo tono pacato e tutto sommato – almeno nella forma – ossequioso nei confronti delle regole europee: “non intendiamo sottrarci a tali vincoli [le regole europee], né intendiamo reclamare deroghe o concessioni rispetto a prescrizioni che, fintantoché non saranno modificate secondo le ordinarie procedure previste dai Trattati, sono in vigore ed è giusto che siano tenute in conto dai governi di tutti gli Stati membri”.
Più ragionevole di così…
Altrettanto rassicurante, nella lettera, è il riferimento allo stato dei conti pubblici del 2019, con la previsione di un deficit al 2.1% (poco più del 2.04% concordato), e significativamente inferiore al 2.5% previsto e temuto dalla Commissione Europea. E’ verosimile che, alla fine, il deficit effettivo si situi a metà strada, magari al 2.2 o al 2.3%, ma resta il fatto che, per trovare un deficit più basso di quello del biennio 2018-2019 bisogna risalire a 10 anni fa, ossia al 2007, l’ultimo anno di crescita prima della lunga crisi scoppiata nel 2009. Insomma: è vero che, con il debito che ci ritroviamo, sarebbe meglio puntare su un deficit ancora più basso, ma non si può non vedere che – per adesso – i conti pubblici di Tria sono leggermente migliori di quelli di Padoan.
Detto questo, tuttavia, la lettera di Conte faremmo ben a leggerla e meditarla tutta. In essa, infatti, il nostro governo si esercita non solo in una difesa dei nostri conti pubblici (abbastanza convincente per il 2019, molto fumosa sul 2020), ma anche in un tentativo di spiegare all’Europa dove sbaglia. L’idea di fondo è che la politica europea sia troppo attenta all’equilibrio dei conti pubblici, e troppo poco sensibile al dramma della disoccupazione: se oggi il continente è entrato in una fase di “inesorabile declino” – sembra suggerire la lettera – è perché le politiche di austerità avrebbero rallentato la crescita e alimentato la disoccupazione.
Ma le cose sono andate così?
Penso proprio di no. Intanto bisogna dire che, almeno in Italia, una vera politica di austerità negli ultimi 12 anni non c’è mai stata. Austerità, in politica economica, significa contenimento del debito pubblico attraverso maggiori tasse e/o minori spese, ma in Italia il debito non è affatto diminuito, né in rapporto al Pil né, tantomeno, in assoluto. Il fatto è che il termine austerità, a livello popolare (e a quanto pare anche da parte di chi si proclama “avvocato del popolo”) viene usato come sinonimo di minori consumi, sacrifici, “tirare la cinghia”, tutti fenomeni che effettivamente possono presentarsi come conseguenze del tentativo di risanare i conti pubblici, ma possono benissimo anche stare per conto proprio. Che è precisamente quel che è successo in Italia negli ultimi 10 anni: abbiamo dovuto ridurre i consumi e l’occupazione, ma non perché abbiamo risanato i conti pubblici. L’austerità di questi anni è figlia della fine della crescita, non certo del rigore nei conti pubblici.
Ma, almeno sul primato della lotta al disoccupazione, possiamo dare ragione al premier?
No, e per due ragioni ben precise. La prima è che non è affatto vero che l’Europa è afflitta dal dramma della disoccupazione. E’ vero semmai che in alcuni paesi europei (fra cui l’Italia) il tasso di occupazione è diminuito rispetto al 2007, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei paesi, e segnatamente in Germania, Regno Unito Austria, Svizzera, Belgio, Svezia, è aumentato. Certo, ai paesi in declino può essere di conforto pensare che il declino sia comune e inesorabile, ma si tratta di una credenza incompatibile con i dati.
Ma c’è una seconda ragione che rende traballante il ragionamento della lettera ai governi europei: proprio se si adotta la tesi secondo cui il nostro problema centrale è la disoccupazione diventa difficile difendere la nostra politica economica. Quella politica avrebbe potuto, con le leggi di bilancio 2019 e 2020, puntare decisamente sulla creazione di nuovi posti di lavoro, mediante investimenti pubblici e soprattutto mediante uno shock fiscale a favore dei produttori (imprese e partite IVA). Ha preferito invece bruciare 15 miliardi per varare due provvedimenti di natura assistenziale (reddito di cittadinanza e quota 100), e proprio per questo ora non sa né come evitare l’aumento dell’Iva né come trovare le risorse per ridurre le tasse senza fare altro deficit. Non solo ma, a quanto pare, nella nuova legge di bilancio si appresta a puntare le proprie carte sulla riduzione dell’Irpef, che grava sulle famiglie, piuttosto che sull’Ires e sull’Irap, che gravano sui produttori, ossia sui soli soggetti in grado di creare posti di lavoro veri.
Ecco perché il taglio ragionevole e rassicurante della lettera di Conte non può tranquillizzarci del tutto. Punirci per i conti del 2019 sarebbe ingiustificato, se non altro alla luce dell’indulgenza verso i governi passati. Ma temere che, per il 2020, le nuove promesse siano finanziate in deficit e i mercati tornino ad alzare il tiro su di noi, non è certo fuori luogo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del