L’insondabile opinione degli elettori Pd

Ero stato facile profeta, qualche giorno prima delle elezioni, nel preconizzare l’inadeguatezza dei sondaggi pre-elettorali che uscivano in quel periodo, in un sistema di voto in cui la base di collegio non permetteva stime attendibili. E così è stato. Le soprese non sono dunque mancate, ma è rimasta un’unica certezza: l’impossibilità di formare un governo, non certo a causa della legge elettorale, quanto per la tripolarizzazione (un po’ zoppa a sinistra) delle scelte degli italiani. In una situazione come quella attualmente presente nel nostro paese, l’unica possibile maggioranza si potrebbe ottenere soltanto o con un premio di maggioranza molto ampio (ma a rischio del parere della Consulta) oppure con una sorta di secondo turno di ballottaggio, magari di collegio, e senza quota proporzionale.

Ci sarà tempo per verificare quanto le forze politiche appena entrate in Parlamento siano disponibili a rimettersi in gioco in nuove elezioni, con una nuova legge elettorale di stampo maggioritario, o se al contrario i neo-eletti non vogliano perdere la propria posizione appena raggiunta alla Camera o al Senato. Ora il dibattito, è noto, verte sulle inedite alleanze che, uniche, possano permettere la formazione di un governo abbastanza stabile per durare nel tempo.

Ed è proprio su queste alleanze che le nuove indagini demoscopiche si concentrano in questi giorni, cercando di capire quanto i diversi elettorati siano più o meno favorevoli ad appoggiare le forze politiche avversarie. In particolare, sono gli elettori del Partito Democratico a venir quotidianamente interrogati in merito ad un eventuale accordo di governo tra M5s e Pd. E i sondaggi, come a volte accade, forniscono responsi decisamente antitetici.

Secondo alcuni di questi, la maggioranza di chi ha appena votato Pd sarebbe favorevole all’alleanza con i 5 stelle, secondo altri soltanto una minoranza è convinta di questa alleanza. E i titoli dei giornali enfatizzano ora uno ora l’altro risultato. Si legge dunque: “Da elettori Pd e M5S spinta per l’alleanza”, oppure alternativamente: “Nuovo governo: Movimento 5 Stelle – PD? Sondaggi dicono di no”. Come è possibile che sondaggi diffusi più o meno contemporaneamente diano risultati così antitetici? Le inchieste demoscopiche sono al solito inaffidabili? O sono i diversi istituti che indirizzano le risposte, a volte favorevoli e a volte contrarie?

Mi torna alla mente un classico esempio della possibile ambiguità nel registrare le opinioni della popolazione, quello cioè che avveniva negli USA durante la guerra del Vietnam: i quotidiani pro-intervento pubblicavano sondaggi in cui emergeva come la maggioranza degli americani fosse favorevole a “proteggere il popolo vietnamita dall’influenza sovietica”; i quotidiani anti-interventisti pubblicavano viceversa sondaggi dove la maggioranza si dichiarava contraria a “mandare i propri figli a combattere e a morire in Vietnam”. Ma tutti i giornali titolavano semplicemente: “Gli americani sono a favore (oppure contro) il ritiro delle truppe”.

Ambiguità di questo genere possono avere conseguenze negative per un altro degli scopi principali per cui si effettua un sondaggio, quello cioè di rilevare la diffusione di uno specifico atteggiamento, non altrimenti quantificabile: il tipo di domanda che viene rivolta agli intervistati, al fine di “misurare” questo atteggiamento, può infatti dar luogo a risultati a volte speculari.

È quello che accade appunto anche nei confronti dell’opinione degli elettori Pd. Se chiedo loro se, per il bene del paese, il loro partito dovrebbe fare uno sforzo per garantire all’Italia un governo stabile, sebbene contingente, le risposte favorevoli ad un’alleanza con i 5 stelle cresceranno; se chiedo semplicemente se trovano giusto governare con un avversario politico, che oltretutto li ha dileggiati per mesi, è molto probabile che aumenteranno gli intervistati contrari.

Ma sui giornali, si evita accuratamente di riportare il tipo di domanda che è stata rivolta per ottenere quel risultato. Dunque, qual è la domanda giusta? E cosa pensano effettivamente gli elettori del Pd?

Molto probabilmente, entrambi i risultati sono corretti. Mettono solamente in evidenza due aspetti che ogni elettore del Pd ha già nella sua testa, senza che si arrivi ad una soluzione definitiva. Gli elettori del Pd pensano che sia giusto dare al paese un governo, magari per evitare un’alleanza M5s-Lega e, contemporaneamente, che non sia giusto allearsi con i 5 stelle, che sono a loro giudizio parecchio inaffidabili. Tutto qui, semplicemente: come è ovvio, gli elettori del Pd sono incerti. Basterebbe esplicitarlo e tutto si risolverebbe. Ma non ci sarebbe più la notizia che attira l’attenzione dei lettori…




L’Italia dopo il voto del 4 marzo: intervista a Luca Ricolfi

«È molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana»: previsione di Luca Ricolfi, datata 3 marzo. Sociologo, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, editorialista del Messaggero, osservatore tra i più lucidi delle cose della politica, allergico agli sconti a destra come a sinistra (vedi le sue analisi sul sito della Fondazione David Hume). Ci siamo rivolti a lui per interpretare le più clamorose elezioni anti establishment degli ultimi decenni e tracciare qualche scenario futuro.

Per trovare un altro risultato così dirompente bisogna tornare al 1994. Allora iniziò la Seconda repubblica, sta nascendo la Terza?

«No, stiamo tornando alla Repubblica “di mezzo” (fra la prima e la seconda), quella che è esistita fra le elezioni politiche del 1992 e le elezioni del 1994, al tempo in cui tutto cominciò a cambiare, grazie al referendum sulla preferenza unica, a Mani pulite, all’esplosione della Lega, alla nuova legge elettorale (il compianto Mattarellum). Non tutti lo ricordano ma, allora, gli studiosi di comportamenti elettorali congetturarono che l’Italia fosse ormai divisa in tre: la Padania, egemonizzata dalla Lega (Forza Italia non era ancora nata), l’Etruria, egemonizzata dal Pds, il Mezzogiorno, ancora saldamente in mano alla Dc. Oggi la carta geopolitica è tornata a essere quella di allora, con i 5 stelle al posto della Dc».

Quali sono i fattori di maggior novità del voto del 4 marzo?

«C’è molta più chiarezza di prima: il Centronord vuole proseguire sulla via della modernizzazione del Paese, timidamente intrapresa in questi anni, ma lo fa con sensibilità diverse, rappresentate dal centrodestra e dal Pd. Il Sud vuole continuare a sussistere nell’unico registro che un ceto dirigente irresponsabile è stato in grado di prospettargli: assistenza, assistenza, assistenza».

Concorda con chi sostiene che le urne ci consegnano un’Italia geograficamente e socialmente bipolare: nel Sud della disoccupazione e della povertà ha vinto il M5s, nel Nord dove si teme per la sicurezza ha vinto la Lega.

«Concordo, ma solo in parte. Oggi il voto del Nord sembra ad alcuni soprattutto anti-immigrati, ma a mio parere esprime invece, molto di più, l’ennesima rivolta antifisco e anti burocrazia».

Sarà difficile mantenere le promesse di flat tax e reddito di cittadinanza. È per questo che, sotto sotto, né Lega né M5s smaniano di governare?

«Non so se davvero esitano, a me sembrano piuttosto smaniosi entrambi. Il mancato mantenimento delle promesse penso sia messo in conto da tutti, tanto basterà dire: noi volevamo ma gli alleati, ma l’Europa, ma la situazione, eccetera eccetera».

Si è votato in marzo, quando non ci sono sbarchi d’immigrati.Se si fosse votato in maggio, la Lega avrebbe superato anche il Pd di Matteo Renzi?

«L’ho sostenuto in un’intervista a Sky pochi giorni fa. Votare a marzo ha attutito i danni subiti dal Pd, checché ne dica Renzi, che si è lamentato di non aver potuto votare prima: se si fosse votatola primavera scorsa non avrebbe potuto giocare la carta Marco Minniti».

Che però, a sorpresa, è stato sconfitto.

«Il fatto ha stupito anche me, ma forse io ho un pregiudizio positivo nei confronti di Minniti, che mi pare uno dei pochissimi ministri che sanno di che cosa parlano».

Con Lega e M5s è nato anche un nuovo bipolarismo politico che sostituisce quello composto da Forza Italia e Pd, ora residuali?

«No, il sistema per ora è quadripolare e instabile. Lega e M5s rappresentano solo la dialettica interna alle forze antieuropee. Un vero bipolarismo richiederebbe il compattarsi di due aggregazioni più ampie e robuste: ad esempio centrodestra contro mutanti».

Chi sono i mutanti?

«Pd e 5 stelle, Organismi politicamente modificati (Opm) costruiti a partire dal ceppo antico del socialismo e del comunismo».

Un ceppo che germoglia sempre meno. La sinistra è in declino dovunque in Occidente. La crisi di quella italiana ha fattori specifici più gravi?

«La sinistra non è affatto in declino, semplicemente sta assumendo forme che i media (e pure gli studiosi, devo ammettere) si rifiutano di riconoscere per quello che sono. Quella che continuiamo a chiamare sinistra è semplicemente la sinistra ufficiale, ovunque amata e votata dai ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, e dal mondo della cultura. Ma esiste anche un’altra sinistra, trasgressiva e populista, prediletta dai giovani e da una parte dei ceti popolari, che si esprime in forme nuove: Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, 5 stelle in Italia, France insoumise oltralpe, per citare i casi più importanti. Quel che sta succedendo è che, in molti paesi, tranne il Regno Unito, la sinistra populista sta diventando più forte di quella ufficiale, riformista, benpensante, assennata e politicamente corretta».

Com’è possibile che non ci si interroghi sul fatto che il Pd tiene nei centri storici e scompare nelle periferie e tra i lavoratori?

«Me lo sono chiesto anch’io, e ne è venuto fuori un libro (Sinistra e popolo, Longanesi 2017). Però la vera domanda forse è anche quest’altra: perché del problema ci accorgiamo solo ora visto che il distacco fra sinistra e popolo è in atto da almeno 40 anni?».

Augusto Del Noce diceva che il partito comunista sarebbe diventato un grande partito radicale di massa.L’apparentamento con Emma Bonino ne è stata l’ultima piccola conferma?

«Sì, quello di partito radicale di massa è un concetto che descrive a pennello l’evoluzione del comunismo dal Pci al Pd renziano. Ne parla anche Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (Imperdonabili, Marsilio 2017). Il Pd è diventato una sorta di macchina per proclamare diritti, e anche un rifugio identitario per i ceti alti e medi, bisognosi di impegno per espiare la colpa di non essere poveri. Una mutazione che l’alleanza con la Bonino ha reso evidente, per non dire plateale. Ma a questo tipo di evoluzione (o involuzione?) ha contribuito anche una certa dose di stupidità autolesionista, una quasi inspiegabile incapacità di capire il punto di vista della gente comune: come si può pensare, nell’Italia di oggi, di attirare consensi con l’antifascismo e lo ius soli? Se ci fossero pulsioni fasciste e nostalgiche Casa Pound e Forza Nuova avrebbero avuto un risultato decente, non i pochi decimali (0.9 e 0.37%) che qualsiasi simbolo buttato sulla scheda finisce per raccogliere».

Che responsabilità hanno gli intellettuali nel distacco tra la classe dirigente del Pd e la sua area tradizionale di riferimento?

«Negli ultimi 30 anni, intellettuali e mondo della cultura molto si sono preoccupati di veder rappresentati loro stessi e i loro interessi, e pochissimo di convincere il Pd a rappresentare anche i ceti popolari. Questa è una delle differenze fra Prima e Seconda repubblica: gli intellettuali della prima pretendevano di conoscere meglio dei dirigenti del Pci quali fossero i veri interessi della classe operaia; a quelli della seconda è premuto assai di più che gli eredi del Pd rappresentassero il loro mondo incantato. Ci sono riusciti benissimo».

Che giudizio dà di Renzi come amministratore, comunicatore e stratega politico?

«Non voglio infierire, l’ho già criticato a sufficienza in questi anni. Anzi, voglio dire che, se solo avesse fatto meno il bullo e avesse provato ad ascoltare chi lo criticava stando dalla sua parte, oggi ricorderemmo le non poche buone cose che ha fatto, dal Jobs act a industria 4.0. Il dramma dell’Italia è che questo modesto Pd è pur sempre la miglior sinistra disponibile sul mercato, visto quel che offrono 5 stelle e Leu».

Cosa pensa dell’esperienza di Liberi e uguali? A chi è maggiormente attribuibile la colpa della scissione?

«Un’operazione politica penosa, nei contenuti e nelle persone. Quello che non capisco è perché abbiano scelto come capo una figura scolorita come quella di Pietro Grasso: chiunque altro, tranne forse il demonizzatissimo Massimo D’Alema, avrebbe portato a casa più voti. Quanto alla scissione, non so se è stata una colpa, forse è stata un atto di chiarezza».

Quanto il successo di M5s e Lega complica il rapporto con l’Europa?

«Meno di quanto si pensi. Noi continuiamo a fare uno sbaglio: pensare che il problema siano le autorità europee. No, il problema sono i mercati, come si è visto nel 2011, quando le autorità europee lodavano Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi, e sono bastati tre mesi di impennata dello spread per capovolgere tutto».

Che scenario intravede? Se la sente di fare delle percentuali dei possibili governi?

«No, non me la sento. Credo che molto dipenderà dal Pd, ovvero da quanti Pd vi saranno fra qualche mese. Se ve ne sarà uno solo, non si potrà che tornare al voto. Se ve ne saranno due, vedremo se la spunterà quello assistenzialista, che vuole dare una mano al sud (e ai 5 stelle), o quello sviluppista, che vuole dare una mano al Centronord (e quindi al centrodestra)».

Quanto un governo a guida Di Maio con il sostegno del Pd aggraverebbe il bilancio dello Stato?

«Molto, perché anche il Pd è tentato dalla spesa in deficit».

Dobbiamo rassegnarci all’ennesimo governo del Presidente?

«Speriamo di no, abbiamo già dato. E poi Sergio Mattarella mi pare più arbitro di Giorgio Napolitano, che era chiaramente un giocatore in campo».

Quali sono le prime riforme che suggerirebbe al nuovo governo?

«Sgravi fiscali sui produttori, alimentati da una lotta senza quartiere contro gli evasori totali».

Che cosa consiglierebbe a Silvio Berlusconi che si chiede «adesso dove si va»?

«Di decidersi a scovare un successore».

Se si rivotasse entro un anno le tendenze del 4 marzo uscirebbero radicalizzate o ridimensionate?

«Dipende: se nel frattempo non succede nulla avremo un Parlamento fotocopia. Ma qualcosa succederà. Basta che non sia un nuovo 2011».

Intervista di Maurizio Caverzan per La Verità del 12 marzo 2018



Le due italie

Questa elezione non somiglia a nessuna di quelle della storia della Repubblica. Mai era successo che le forze antisistema (o percepite come tali) ottenessero la maggioranza dei consensi, mai era successo che il principale partito di destra e il principale partito di sinistra venissero scavalcati da partiti concorrenti più radicali. E questo esito, bisognerà prenderne atto, non è un frutto della legge elettorale: è lo specchio fedele delle scelte politiche dell’elettorato.

Il voto italiano, dunque, sembra nuovissimo e rivoluzionario. A ben vedere, tuttavia, lo è molto meno di quanto appare. Per certi versi, anzi, è un ritorno nella norma, e forse persino un ritorno al passato.

Ritorno nella norma, innanzitutto. Il dato che più ha colpito, e più fa discutere, è il netto sorpasso dei Cinque Stelle rispetto al Pd. Nel 2013 questi due partiti avevano ottenuto circa il 25% a testa, oggi i voti dei Cinque Stelle sono quasi il doppio di quelli del Pd. E, anche volessimo rendere il confronto meno umiliante per la sinistra tradizionale, e decidessimo di sommare tutti i partiti di centro-sinistra, dal Pd a Più Europa fino a Leu, il risultato non sarebbe consolante per il Pd: con il suo 26.2% la sinistra tradizionale resta ampiamente al di sotto del 32.7% dei Cinque Stelle. Ma è una stranezza, questo?

Non in Europa. Se si eccettua l’importante caso del Regno Unito, dove Corbyn sta guidando un partito laburista decisamente spostato a sinistra e privo di concorrenti, la sinistra tradizionale è quasi sempre sfidata da un partito “più a sinistra”, o comunque percepito come tale. In Francia i socialisti sono praticamente dissolti e brilla la stella di Mélenchon, leader di “La France Insoumise”. In Spagna Podemos e Izquierda Unida contendono il primato ai socialisti. In Grecia Syriza di Tsipras ha ormai soppiantato il Pasok, il vecchio movimento socialista di Papandreou. In Germania i socialdemocratici sono al minimo storico, un pelo sopra il 20%, e pesano più o meno quanto le due liste radicali della Linke e dei Verdi. Insomma, voglio dire che il Pd di Renzi, inebriato e drogato dal 40.8% delle Europee del 2014, era l’eccezione, non la regola. Ora siamo nella norma anche noi, qui in Italia.

La realtà è che le istanze di sinistra, dopo la lunga crisi iniziata nel 2007, ormai hanno quasi ovunque due espressioni: una tradizionale, che piace soprattutto ai ceti medi più o meno istruiti, urbanizzati e “riflessivi”, ed una populista, che attira il consenso dei ceti popolari e di chi si sente escluso. Questa spaccatura, in Italia, non contrappone il Pd agli altri, ma tutta la sinistra, compresi i radicali e Leu, al Movimento Cinque Stelle. E dentro questa spaccatura, il fatto curioso è che Pd e lista Bonino, che sembrano il vecchio, sono la componente più modernizzatrice ed europeista, mentre il Movimento Cinque Stelle, che sembra il nuovo, è la componente più anti-europea e anti-moderna, non a caso imbevuta di arcaismi come l’utopia della “decrescita felice”, di nostalgie come il culto di Berlinguer, di parole d’ordine stataliste e assistenziali come il reddito di cittadinanza.

Il problema della sinistra riformista, non solo in Italia, è abbastanza semplice da formulare ma difficilissimo da risolvere. Da molti decenni il primo partito della sinistra ha cessato di occuparsi seriamente dei ceti popolari ed è diventato un partito di ceto medio. La cosa poteva funzionare finché i benefici della globalizzazione eccedevano i costi, non funziona più da quando, con la crisi, non solo la globalizzazione ha mostrato il suo lato inquietante, ma è sorta un’offerta politica alternativa e concorrente con quella della sinistra modernizzatrice. Tradotto in politica italiana: finché i ceti popolari si limitavano a preferire il centro-destra alla sinistra (negli ultimi 30 anni), i dirigenti del Pd hanno ritenuto di potersene infischiare, ora che un’offerta politica con sembianze di sinistra assottiglia l’elettorato Pd, invece sono guai. E quando dico “infischiarsene” non uso le parole a caso: come altro descrivere un partito che, solo a pochi mesi dal voto sembra capire che l’accoglienza indiscriminata e caotica era una politica anti-popolare? Come altro descrivere un partito che, con gli 80 euro, ha scelto di sostenere il ceto medio dipendente (la sua base) e ha ignorato completamente i veri poveri, i cosiddetti incapienti (il nocciolo duro della base Cinque Stelle)? Come hanno potuto non capire che, se anziché distribuire bonus e spendere miliardi in accoglienza, fossero intervenuti risolutamente contro la povertà e contro l’immigrazione irregolare, oggi il risultato elettorale premierebbe il governo anziché punirlo? Mistero.

Ma non c’è solo ritorno alla normalità europea, nella disfatta Pd e nell’affermazione dei Cinque Stelle. C’è anche, per certi versi, un clamoroso ritorno al passato. Luigi Di Maio ha solennemente affermato “inizia oggi la terza Repubblica, quella dei cittadini”. Se però guardiamo alla cartina del voto del 4 marzo, quel che impressiona è la somiglianza con l’esito delle elezioni del 1992, l’anno che segna l’agonia della prima Repubblica. Oggi come allora l’Italia è sostanzialmente suddivisa in Padania, Etruria, Mezzogiorno (una tipologia che dobbiamo al compianto prof. Giacomo Sani, che la propose proprio per leggere il risultato del 1992), con la Lega egemone al Nord (Padania), la sinistra post-comunista arroccata nelle regioni rosse del centro (Etruria), e il Sud egemonizzato dal partito di maggioranza relativa: allora la Dc, oggi i Cinque Stelle, entrambi vicini al 30% dei consensi. La distribuzione del voto ai Cinque Stelle oggi ricalca, con precisione impressionante, la distribuzione del voto alla Dc nel 1992 (vedi grafico accanto).

Voglio dire, con questo, che il Movimento Cinque Stelle non è la nuova sinistra, ma è la nuova Dc?

In un certo senso sì. La correlazione fra i due voti è così stretta da rendere quasi inevitabile una lettura in chiave di sostituzione. L’elettorato del Mezzogiorno è da sempre abituato, anche per responsabilità delle sue classi dirigenti, a puntare sull’assistenza, sui sussidi, sulla spesa pubblica, sul posto fisso. Tutto ciò nel 1992 era fornito dalla Dc e dai suoi alleati del “Pentapartito”, oggi è promesso da un governo Di Maio che ancora non c’è e forse non ci sarà mai (anche se non tutti paiono averlo capito, viste le richieste di informazioni ai Caf: ma era già successo 30 anni fa, ai tempi del “Cacao Meravigliao”, un prodotto immaginario che i consumatori cercavano invano negli scaffali dei supermercati).

Per altri versi, invece, la situazione è molto diversa dal 1992.  Una differenza importante è che, oggi, il primo partito della sinistra ufficiale, è divenuto molto più “nordista”. Oggi il Pd è arroccato nei medesimi territori in cui lo era il Pds nel 1992, ma risulta relativamente più forte di allora in tutte le regioni del Nord (eccetto la Liguria).  Il Pd renziano, in altre parole, di fatto è un partito “nordizzato”, e lo è non solo negli insediamenti elettorali ma anche nelle scelte politiche: sotto Renzi la pressione fiscale è diminuita di poco, ma comunque è diminuita.

Ma la differenza più grande fra oggi e il 1992 è politica. Il 1992 fu, per molti versi, l’urlo del Nord contro la corruzione e l’oppressione fiscale, il 2018 è, prima di tutto, l’urlo del Sud contro l’abbandono di cui i cittadini meridionali si sentono vittime. Si potrebbe pensare che, se così stanno le cose, lo sbocco naturale di questa crisi sia un governo Cinque-Stelle, come nel 1992 lo sbocco della crisi fu la discesa in campo di Berlusconi e la nascita, nel 1994, del primo vero governo di destra in Italia. Ma il parallelismo è sbagliato. Il progetto di un governo Cinque Stelle, inevitabilmente caratterizzato dal varo del reddito di cittadinanza, non si scontra solo con il problema di trovare i voti in Parlamento (e i quattrini nel bilancio dello Stato), ma con la cartina geopolitica dell’Italia. Quel che non possiamo ignorare, è che nelle elezioni del 2018 c’è stato anche un altro urlo: l’urlo dei ceti produttivi del Nord e del Centro contro le tasse, la burocrazia, il disordine migratorio. Un urlo che, a differenza di quanto accadeva nel 1992, accomuna Nord e Centro, territori egemonizzati dalla Lega e territori egemonizzati dal Pd, spesso distinti gli uni dagli altri più per sensibilità e cultura politica che per l’adesione a progetti incompatibili. E’ praticamente impossibile che il reddito di cittadinanza, giusto o sbagliato che sia, non venga percepito, in quei territori, come l’ennesima tassa sui ceti produttivi destinata ad alimentare l’esercito degli scrocconi.

La mia impressione, insomma, è che il solco fra il Mezzogiorno, che oggi come ieri chiede più assistenza, e il resto del paese, che chiede più sicurezza e di essere messo in condizione di produrre, sia oggi molto più profondo che nel 1992: il voto di allora divise l’Italia in tre, quello di oggi l’ha divisa in due. Forse è da questo dato, prima ancora che da un deficit di senso di responsabilità, che possono derivare i nostri rischi maggiori per il futuro.




Tre impegni per il governo che verrà

Chi ci governerà, dopo il 4 marzo?

Nessuno lo sa, ma tutti sappiamo che lo decideranno loro. E’ infatti piuttosto difficile che dalle urne esca una maggioranza ampia, e che un governo si possa formare senza accordi fra forze eterogenee o cambi di casacca.

I governi possibili sono almeno quattro. Tralasciando le forze minori, possiamo immaginarli così: Forza Italia + Lega; Cinque Stelle + Lega, Cinque Stelle + Pd, Forza Italia + Pd. Se vogliamo, possiamo anche provare a dar loro un nome: centro-destra, populisti, governissimo di sinistra, governo renzusconi (copyright: Andrea Scanzi).

A questi quattro governi possibili, si deve naturalmente aggiungere un quinto governo, ovvero un governo “di scopo”, varato con il solo obiettivo di riportarci alle urne prima possibile, magari con una nuova legge elettorale.

Ma torniamo al 5 marzo, o meglio al momento in cui un governo di qualche tipo si sarà insediato, presumibilmente intorno a Pasqua, che quest’anno cade piuttosto alta (il 1° di aprile). Che cosa è lecito attendersi da un tale governo?

O meglio, ci sono cose che qualsiasi governo, una volta insediato, dovrebbe fare?

Sì, almeno due, e ovviamente non coincidono con nessuna delle promesse con cui ci hanno inondato.

La prima, spiace dirlo, è cosa un po’ prosaica, forse persino un po’ deprimente, ma non per questo trascurabile. Al nuovo governo, poco prima o poco dopo il giuramento, arriverà sicuramente una lettera della Commissione europea (finora rimasta nel cassetto solo per non interferire con le elezioni), in cui ci verrà fatto notare che, come sempre in questi anni, non abbiamo mantenuto né i nostri impegni sul debito né i nostri impegni sul deficit. Alla lettera sarà collegata la richiesta di varare una manovra correttiva, dell’ordine di qualche miliardo di euro (3 o 4, si presume) per raddrizzare i nostri conti pubblici. Ebbene, un governo con la testa sul collo, desideroso di rassicurare i mercati e le autorità europee sulla tenuta dei nostri conti e sulla nostra affidabilità di creditori, farebbe bene a non inscenare la solita manfrina sulla flessibilità, i parametri cervellotici, le regole stupide, l’austerità “da superare”. E a farla, questa benedetta manovrina, che cadrà fra capo e collo del nuovo esecutivo solo perché quello uscente era troppo impegnato a distribuire favori pre-elettorali. Ma soprattutto: a farla tagliando un po’ di spesa pubblica, non con l’ennesimo aumento delle tasse che soffoca l’economia.

Ma ad aprile, a impegnare il nuovo governo, non ci sarà solo la lettera della Commissione europea, ci sarà anche il “mare piatto” di primavera. Belle giornate di sole, settimane di mare calmo, ripresa degli sbarchi. Quel che l’inverno ci ha risparmiato durante la campagna elettorale, riprenderà vigore con la bella stagione. E allora non sarebbe male che, il nuovo governo, una parola chiara la dicesse, su quel che intende fare con le traversate del Mediterraneo. Perché il male di questi anni non è stata né la troppa né la troppo poca accoglienza (quella è una questione di punti di vista), ma la mancanza di regole chiare e della volonta di farle ripsettare. E’ questo, innanzitutto, che ha creato inquietudine in una buona metà degli italiani: il caos, la disorganizzazione, il prevalere della logica del fatto compiuto su quella dei diritti delle persone. Quanti richiedenti asilo che avevano il sacrosanto diritto di ottenerlo, si sono visti scavalcati e sopraffatti dalla massa dei non aventi diritto, solo perché gli uni e gli altri (rifugiati e migranti economici) erano approdati sul suolo italiano?

Questo, dire una parola non fumosa e non ambigua sulle politiche migratorie, è la seconda cosa che un governo serio dovrebbe trovare il coraggio di fare. Ce ne sarebbe poi una terza, forse. Fra le infinite misure di aiuto alle famiglie e alle imprese che un governo potrebbe mettere in cantiere, a me sembra che ve ne sia una che ha di gran lunga il rapporto costi/benefici più favorevole. Ed è strano che nessun governo del passato, a dispetto di tanti discorsi sulla scuola e sull’educazione, sulle donne e il lavoro domestico, abbia mai investito su di essa. Mi riferisco alla drammatica carenza, specie al Sud, di asili nido pubblici, che mettano le madri che desiderano lavorare nelle condizioni di farlo.

Quanto costerebbe raddoppiare i posti? Pochissimo, se pensiamo alle promesse elettorali più folli dei partiti (reddito di cittadinanza, soppressione della legge Fornero, pensioni minime a 1000 euro al mese, solo per citarne alcune). Basti pensare che ciascuna di queste misure costa fra i 10 e i 20 miliardi all’anno, mentre un raddoppio degli asili nido costerebbe appena 1.5 miliardi. Ma c’è di più: un governo che, non riuscendo a garantire la piena occupazione degli adulti, volesse almeno garantire un asilo nido per tutti i bambini sotto i 3 anni (con relativo aumento dell’occupazione per le maestre), non solo darebbe uno straordinario sollievo a milioni di genitori, ma costerebbe alle casse dello Stato meno di ciascuna delle mirabolanti misure assistenziali prospettate da quasi tutti i partiti.

Con un grosso vantaggio: che i benefici sarebbero tangibili, immediati, e sotto gli occhi di tutti.

Articolo pubblicato su Panorama il 1 marzo 2018