Parole di nebbia

Sul piano dei contenuti, questo governo non somiglia granché a nessun governo del passato. I governi del passato, infatti, o guardavano a sinistra, o guardavano a destra, o si barcamenavano fra destra e sinistra, alla ricerca di un compromesso, di un punto di equilibrio. Ora no: a giudicare dai programmi e dai primi atti questo governo cerca di essere, al tempo stesso, molto di destra e molto di sinistra, a settimane alterne. Ora un colpo inferto ai migranti (blocco dei porti alle Ong), ora un colpo inferto alle imprese (decreto dignità). In attesa del colpo definitivo, quello ai conti dello Stato (flat tax e reddito di cittadinanza).

Se sul piano dei contenuti tutto è cambiato, sul piano del metodo, dello stile di governo, dei modi di comunicazione, la continuità con il passato è perfetta. Come i governi che l’hanno preceduto, anche l’esecutivo Conte non esita ad abusare dello strumento del decreto legge, contando sul fatto che la prassi ormai è quella, e nessuno può impedire a un governo di fare ciò che è sempre stato concesso ai governi precedenti. Il cosiddetto “decreto dignità”, ad esempio, viola due principi fondamentali, l’uno stabilito dalla Costituzione, l’altro dalla legge 400 del 1988. Secondo il primo lo strumento del decreto può essere utilizzato solo “in casi straordinari di necessità e urgenza”. Quanto al secondo, la legge stabilisce che “i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo”. Basta dare una scorsa all’accozzaglia di materie di cui si occupano i 15 articoli del cosiddetto decreto dignità per rendersi conto che il loro contenuto non è omogeneo, e che per nessuna di esse sussistono condizioni di necessità e urgenza, tantomeno di “straordinaria” necessità e urgenza (a meno di considerare straordinariamente necessaria e urgente l’esigenza di Di Maio di recuperare consenso e togliere spazio a Salvini).

Quel che più mi colpisce, però, non è la somiglianza con il passato nell’abuso dei decreti legge; quel che mi colpisce è l’abuso manipolatorio delle parole, accuratamente scelte per indorare la pillola che viene somministrata ai cittadini, nascondendo la sostanza di cui è fatta. Faccio tre esempi.

Pensioni d’oro. Nell’immaginario collettivo una pensione d’oro è una pensione di importo altissimo, non giustificata dal lavoro e dai meriti del beneficiario, tipicamente percepita da un membro della “casta”. Nelle dichiarazioni dei Cinque Stelle, e nel discorso di insediamento del presidente Conte, il concetto è stato esteso a chiunque percepisca una pensione alta con una componente retributiva. Ma alta quanto? Ancora a giugno Di Maio e Conte assicuravano che il taglio dei compensi avrebbe riguardato solo le pensioni sopra i 5000 euro netti. Poi, qualche settimana fa si è cominciato a parlare di 4-5000 euro, senza specificare se netti o lordi. Negli ultimi giorni la soglia è scesa a 4000 euro. Così un provvedimento, più o meno condivisibile, che colpisce (retroattivamente) i ceti medio-alti, viene presentato come sacrosanto intervento contro gli ingiustificati e intollerabili privilegi della “casta”.

Decreto dignità. Se si vara un decreto “a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese” ci si aspetta che esso intervenga con urgenza per impedire violazioni della dignità di questi due soggetti. Ma se mi si parla di “dignità”, e per di più si aggiunge che l’intervento ha carattere di “straordinaria necessità e urgenza”, a me vengono in mente fenomeni come la richiesta del pizzo (che offende la dignità delle imprese), e il caporalato nelle campagne (che offende la dignità dei lavoratori). In questo secondo caso, data la stagione estiva, sussisterebbe anche il requisito di urgenza. Pensate che bello: dopo anni in cui tutti i governi hanno preferito chiudere un occhio, il governo giallo-verde decide di stroncare il caporalato, ispezionare i campi e le baraccopoli, garantire ai lavoratori (spesso immigrati dall’Africa, quasi sempre privi di contratto) condizioni di lavoro e di salario umane. E invece no: se andate a leggere il decreto dignità, in mezzo a un guazzabuglio di norme che con il lavoro nulla hanno a che fare, quel che trovate sono soprattutto norme che rendono un po’ più difficile e costoso per le imprese attivare alcuni tipi di contratto perfettamente regolari, e che certo non offendono la dignità del lavoratore.

Reddito di cittadinanza. Non sappiamo ancora che forma prenderà il reddito di cittadinanza, se e quando verrà varato. Ma già sappiamo, perché esistono progetti e disegni di legge, che non sarà un reddito di cittadinanza, ma una normalissima misura di reddito minimo per le famiglie povere. Per reddito di cittadinanza si intende un reddito dato a ogni individuo (anche ai ricchi) senza alcuna condizione. Per reddito minimo si intende un reddito dato esclusivamente alle famiglie povere, sotto condizioni stringenti: ricerca attiva di un lavoro, corsi di formazione, prestazioni di lavoro gratuite, disponibilità ad accettare offerte di lavoro. Le proposte dei Cinque stelle sono proposte di reddito minimo, camuffate da reddito di cittadinanza. La loro filosofia è molto simile a quella del reddito di inclusione varato dal Pd, con due sole differenze: tante nuove assunzioni nei centri per l’impiego, molti più soldi (se troveranno le coperture) ai beneficiari. Ed è curioso che il Pd continui a dire che reddito di cittadinanza significa “dare i soldi alla gente perché non lavori”, anziché andare a vedere che cosa effettivamente c’è scritto nei progetti del Movimento Cinque Stelle.

A che serve chiamare reddito di cittadinanza quello che ovunque, in Europa e nella letteratura scientifica, si chiama reddito minimo?

Dal punto di vista del Pd serve a differenziare il Pd stesso dai Cinque Stelle (noi vogliamo creare posti di lavoro, voi volete tenere la gente a casa). Dal punto di vista dei Cinque stelle serve a nascondere la sostanza economica della loro proposta, che peraltro è la medesima del reddito di inclusione del Pd: sussidiare il Mezzogiorno. Chiamandolo “reddito di cittadinanza” se ne sottolinea il carattere universalistico, di provvedimento equo in quanto rivolto a tutti i cittadini. Eppure i dati dicono chiaramente che, a parità di condizione economica, la possibilità di beneficiare di misure come il reddito di inclusione o il cosiddetto reddito di cittadinanza, sarà sensibilmente maggiore per un cittadino del Sud che per uno del Nord e, a parità di zona geografica, per un abitante di un piccolo comune che per uno di una grande città.

La ragione è assai semplice: nonostante il livello dei prezzi sia diversissimo da Nord a Sud, nonché fra grandi e piccoli centri, la soglia di accesso è definita in termini nominali anziché in termini reali. Così può accadere che, a parità di potere di acquisto, due famiglie siano l’una inclusa e l’altra esclusa solo a causa del luogo in cui risiedono (zona del paese, ma anche comune grande o piccolo). E infatti, secondo gli ultimi dati disponibili, il Nord ha il 37% dei poveri assoluti ma solo il 18% dei beneficiari (in gran parte immigrati). Il Centro ha il 15% dei poveri, ma solo il 12% dei beneficiari. Il Sud ha il 48% dei poveri ma il 70% dei beneficiari. Questo tipo di iniquità territoriale è il difetto comune di tutte le misure di sostegno delle famiglie povere, dalla social card di Tremonti al Sia di Letta, dal Rei di Renzi al cosiddetto reddito di cittadinanza di Di Maio (l’unica proposta che non ha questo difetto è il minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni, ovviamente ignorato dalla politica). Ed è anche uno dei più grandi errori delle politiche di sostegno alle zone svantaggiate del passato, che troppo spesso hanno preferito elargire sussidi impropri e dunque iniqui (qualcuno ricorda le false pensioni di invalidità?) piuttosto che fare investimenti e creare posti di lavoro.

Dunque: si parla di pensioni d’oro per non riconoscere che si tagliano le pensioni alte, si parla di dignità per non dire che si irrigidisce (un pochino) il mercato del lavoro, si parla di cittadinanza per nascondere i clamorosi squilibri nell’accesso al sussidio. Non è una novità: già nel 1981, parlando della comunicazione pubblica, Natalia Ginzburg denunciava con sgomento: “il fine è dare della nebbia, e ottenere, con la nebbia, rispetto e venerazione”. Sono passati quasi 40 anni, ma siamo sempre lì: le parole della politica sono solo nebbia che circonda le cose, le indora, o semplicemente le traveste, le maschera, le camuffa. Parole che, in ogni caso, non dicono la verità.