La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale



L’anima del Pd

Siamo in molti, credo, a chiederci che cosa sia saltato in mente a Zingaretti qualche giorno fa, quando ha compiuto due mosse che un po’ tutti abbiamo percepito come collegate. La prima è stata di ingiungere al governo di “trovare un’anima”, con ciò confermando la diagnosi che il mondo progressista ripete come un mantra da settimane: questo governo sarà pure necessario, in quanto unico argine possibile contro il razzismo (?), il fascismo (!) e l’aumento dell’Iva (?!), ma è innegabile che un’anima non ce l’ha; e dunque se la dia, se vuole sopravvivere.

Ma l’esortazione di Zingaretti non avrebbe suscitato tanta attenzione se non fosse stata accompagnata dall’impegno, preso a nome del Pd, di tornare a battersi per lo ius soli e lo ius culturae, ovvero per allargare le maglie della concessione della cittadinanza agli stranieri.

Difficile non fare 2 + 2 e intendere che, in realtà, l’esortazione a darsi un’anima, più che al governo, fosse rivolta al Pd, che quasi tutti gli osservatori descrivono come un partito confuso, disorientato, alla ricerca di un’identità o, appunto, di un’anima. E infatti il primo a lanciarsi, piuttosto entusiasticamente, sulla proposta di Zingaretti (in particolare sullo ius culturae) è stato Luigi Manconi, che giusto 10 anni fa aveva scritto un libro con un titolo significativo (Un’anima per il Pd) e un sottotitolo ancor più significativo (La sinistra e le passioni tristi). Dunque siamo al punto di partenza: al Pd mancava un’anima quand’era piccino (il libro di Manconi è del 2009) e manca un’anima pure oggi che è grandicello. I suoi sostenitori esigono, giustamente dal loro punto di vista, che questa benedetta anima venga “trovata”, e Zingaretti ci prova. Annuncia che il Pd darà battaglia su ius soli, ius culturae e decreti sicurezza.

Io non so perché Zingaretti abbia scelto di percorrere questa strada, tutta pro-migranti e così poco sensibile alle priorità dei ceti popolari. Può darsi che abbia ragione Federico Rampini che qualche giorno fa, in un dibattito televisivo, manifestava tutto il suo sconcerto di fronte alle esternazioni zingarettiane: il Pd, ormai, ascolta solo il mondo radical chic, e pare del tutto dimentico delle sue origini (il Partito comunista “era legge e ordine”, altroché buonismo e permissivismo). Ed è certo che questa evoluzione era stata immaginata fin dagli anni ’70 dal grande filosofo Augusto del Noce, che profetizzava una progressiva trasformazione del Pci, il “partito della classe operaia”, in un “partito radicale di massa”, attento alle esigenze e alla sensibilità degli strati alti e medio-alti della popolazione.

E tuttavia, pur essendo fra quanti, non da ieri ma da qualche decennio, hanno registrato questa deriva, per cui i diritti sociali (a partire dal lavoro) cedono il passo a quelli civili (le “grandi battaglie di civiltà”, dalle unioni gay alla fecondazione assistita, dalla cittadinanza all’eutanasia), non riesco a nascondere il mio stupore. Perché quel che è strano non è che il Pd cerchi di dotarsi di un’anima, ma che – per farlo – si ispiri ai salotti della borghesia illuminata e alle credenze dei media progressisti, anziché alle esigenze e ai sentimenti dei ceti popolari. Quel che è strano è che, di fronte alla domanda di protezione che, da anni, si leva dagli strati periferici della società italiana, il maggiore partito della sinistra preferisca sintonizzarsi con le priorità degli strati sociali centrali, fatti di persone istruite, urbanizzate, benestanti.

Perché?

Augusto del Noce direbbe, forse: perché era inevitabile. La trasformazione del Pci in partito radicale di massa altro non è che l’esito finale del lungo cammino che, in mezzo secolo, ci ha resi una società opulenta e profondamente individualista. Del resto, la mutazione non è avvenuta solo da noi: che i partiti progressisti rappresentino soprattutto gli strati medio-alti, e che i ceti popolari guardino più a destra che a sinistra, non è un tratto distintivo dell’Italia, ma è una circostanza che è possibile ritrovare nella maggior parte delle società avanzate. Perché stupirsi, dunque, se il maggior partito della sinistra si aggrappa alle “sardine” (gli studenti che riempiono le piazze contro Salvini), e snobba le preoccupazioni degli strati più umili?

La ragione per cui mi stupisco è presto detta: l’Italia non è come gli altri maggiori paesi paesi avanzati. L’Italia è l’unica società avanzata in cui l’economia non cresce più, la produttività è ferma da vent’anni, e le persone che non lavorano sono molto più numerose di quelle che lavorano. In queste condizioni, se non si fa nulla, siamo condannati a un processo di “argentinizzazione lenta”, che nel giro di pochi decenni eroderà la ricchezza accumulata dalle generazioni che hanno ricostruito il Paese dopo la seconda guerra mondiale. Le grandi emergenze economico-sociali di cui si parla in questi giorni (Ilva, Alitalia, Mose), le innumerevoli crisi aziendali aperte, non sono eventi accidentali, o di origine misteriosa, ma i segni difficilmente equivocabili del declino in atto.

Ecco perché mi stupisco delle mosse del maggiore partito della sinistra. Non ho nulla contro lo ius culturae, una misura che – se congegnata bene – troverebbe ampio consenso, anche fra quanti guardano a destra, ma trovo incredibile che, per darsi un’anima, e in una situazione in cui il Paese affonda sotto una valanga di problemi che rigardano l’hardware del sistema sociale (economia e lavoro), il maggiore partito della sinistra preferisca baloccarsi con problemi che riguardano il software del sistema sociale, e sono largamente estranei alla sensibilità popolare. Un grande leader come Berlinguer, di fronte alla situazione dell’Italia di oggi, non avrebbe trovato alcuna difficoltà – ove ve ne fosse stato bisogno – a trovare un’anima al suo partito. E, soprattutto, non l’avrebbe cercata lontano dalle periferie e dalle fabbriche, dove tutt’ora, e a dispetto del benessere dei più, gli strati popolari fanno i conti con le asprezze della vita.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 novembre 2019



Quante sinistre?

Ma quante sinistre ci sono in Italia?

Almeno quattro, visto che quattro sono le forze politiche che sostengono il governo: Cinque Stelle, Pd, Leu, Italia viva. Ma in realtà parecchie di più se consideriamo che nelle due ultime tornate elettorali (politiche ed europee) hanno ottenuto risultati non irrisori almeno altre sei formazioni politiche: +Europa (Emma Bonino), Italia Europa Insieme (Giulio Santagata), La Sinistra (Nicola Fratoianni), Europa Verde (Pippo Civati, Angelo Bonelli), Partito comunista (Marco Rizzo), Potere al popolo! (Viola Carofalo, Giorgio Cremaschi).

In tutto fa dieci sinistre. È vero che non si sono mai presentate tutte insieme, ma si può ritenere che attualmente il peso totale delle sinistre che non stanno al governo si aggiri intorno al 5%, più o meno il medesimo consenso che va al nuovo partito di Renzi. Sommandole tutte, sinistre di governo e di opposizione, si arriva intorno al 50% dell’elettorato.

Ma che cosa unisce, e soprattutto che cosa divide, questi dieci partiti e partitini?

È più facile rispondere al primo interrogativo che al secondo. E la risposta è: a parte il disprezzo per Salvini, l’unica cosa che unisce tutti i partiti di sinistra è la credenza che sia necessario ridurre le diseguaglianze, condita con dosi più o meno omeopatiche di ambientalismo.

Assai più difficile è definire con precisione che cosa realmente divide le dieci forze politiche di sinistra, perché le fonti di divisione rilevanti sono almeno cinque: l’immigrazione, le tasse (compresa la patrimoniale), il mercato del lavoro, il debito pubblico, la giustizia.

Su ciascuno di questi temi ci sono, nel campo della sinistra, almeno due forze politiche che la pensano in modo opposto.

Sull’immigrazione e l’accoglienza +Europa e Italia Viva (fautori dell’accoglienza e dei salvataggi in mare) si contrappongono nettamente ai Cinque Stelle, per i quali le Ong sono “taxi del mare” (Di Maio dixit) e gli immigrati irregolari vanno rimpatriati il più celermente possibile.

Sulle tasse Italia Viva e Cinque Stelle sono risolutamente ostili ad ogni aumento, le forze di estrema sinistra accarezzano addirittura l’idea di far piangere i ricchi con una patrimoniale.

Sul Jobs Act i Cinque Stelle e l’estrema sinistra sono ferocemente critici, mentre e Italia viva e +Europa lo considerano una sana modernizzazione del mercato del lavoro.

Sul debito Cinque Stelle ed estrema sinistra ne auspicano un aumento (per “rilanciare la crescita”), solo +Europa vuole ridurlo tagliando la spesa pubblica.

Sulla giustizia Italia viva e +Europa sono garantisti, i Cinque Stelle sono da sempre giustizialisti.

In breve: accomunate dal nobile scopo di ridurre le diseguaglianze, le forze progressiste si dividono – spesso in modo profondo – sui modi per raggiugere l’obiettivo.

Non so se l’avete notato, ma in questa mini-rassegna delle idee che circolano a sinistra non ho mai menzionato il Pd. La ragione è che il Pd non è mai trainante in nessuna delle grandi contrapposizioni che dividono il campo progressista. Quale che sia la questione di cui si parla, il Pd si barcamena, esita, oscilla, distingue, prende tempo.

Incerto sulla cittadinanza agli immigrati e sul problema degli sbarchi. Tentato dall’aumento delle tasse ma timoroso di introdurre la patrimoniale. Incerto fra la difesa del Jobs Act e la correzione di una riforma in cui non crede più. Contrario a parole al debito pubblico, ma di fatto strenuamente impegnato (quando governa) a ottenere più flessibilità dall’Europa. Legato alla casta dei magistrati, ma ostile alle scorribande della magistratura nella sfera della politica.

Possiamo leggere tutto ciò in una chiave benevola, e sostenere che, se non c’è una sola causa importante di cui il Pd sia il paladino più convinto, è perché il partito di Zingaretti è una forza saggia e matura, il vero baricentro del centro-sinistra, e proprio per questo non può assumere posizioni estreme, che lascia volentieri alle forze meno responsabili, o meno consapevoli della complessità dei problemi: i radicali cosmopoliti di Emma Bonino, i nostalgici del comunismo, i populisti di Grillo, i liberal-riformisti alla Renzi.

Ma forse è più aderente alla realtà riconoscere che il Pd, un partito nato dal sogno di modernizzare lo schieramento progressista, è oggi una forza politica senza identità e senz’anima. Tenuto insieme dalla necessità di perpetuare il controllo sui gangli vitali della società italiana (come a suo tempo accadeva alla Democrazia Cristiana), terrorizzato dall’eventualità di tornare al voto, esso pare aver perduto ogni contatto con le idee originarie dei padri fondatori, giuste o sbagliate che fossero.

Il che non sarebbe un male se al posto di quelle idee ve ne fossero altre, più giuste, o più realistiche, o più moderne, o più nobili. Ma diventa problematico se al posto delle idee vi è il vuoto, riempito da formule e circonvoluzioni che ormai nessuno più intende. È questo, temo, il motivo per cui quel pochissimo che la politica ancora riesce ad esprimere a sinistra non proviene più dal Pd, ma dalle forze politiche che cercano di strappargli lo scettro.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 ottobre 2019



Le rose che non colsi

L’uno-due di Renzi, che prima ha imposto al Pd l’alleanza con i Cinque Stelle, e un istante dopo lo ha abbandonato al suo destino per farsi un partito tutto suo, non ha precedenti nella storia d’Italia. Come non ha precedenti, a dispetto della tradizione trasformistica dei parlamentari italiani, un simile capovolgimento delle proprie idee e convinzioni. Fino a ieri i Cinque Stelle erano giustizialismo, assistenzialismo e decrescita infelice, oggi sono la salvezza dell’Italia contro la calata degli Hyksos. Ieri ci si batteva per un sistema elettorale che permettesse, la sera delle elezioni, di sapere chi ha vinto, ora si dichiara di essere pronti a un ritorno al sistema proporzionale “se lo prevede l’accordo di governo”.

Se il livello di spregiudicatezza raggiunto da Renzi (e non solo da lui) è senza precedenti, lo stesso non si può dire per il metodo. Anzi, forse è il caso di sottolineare la continuità fra il comportamento odierno di Renzi e la storia della sinistra italiana negli ultimi 100 anni. Se ci volgiamo all’indietro non possiamo non ricordare che la scissione, ovvero l’uscita dal partito principale per creare un nuovo partito, è sempre stato il modo in cui, a sinistra, si sono affrontate le divergenze politiche. Il Partito Comunista è nato, il 21 gennaio del 1921, da una scissione guidata dall’ala sinistra del Partito Socialista, ansiosa di instaurare anche in Italia la “dittatura del proletariato”, seguendo le orme dei bolscevichi in Russia. Dopo di allora di partiti socialisti e pseudo-socialisti se ne sono visti parecchi, fra fusioni e ricomposizioni (ricordate il Psi, il Psdi, il Psu, lo Psiup?), e lo stesso Partito Comunista si è diviso più volte, anche se con modalità diverse. Nel 1969 sarà il partito stesso a radiare il gruppo del Manifesto, guidato da Rossana Rossanda e Luigi Pintor. Nel 1991, invece, saranno la “svolta della Bolognina” di Occhetto e il cambio del nome (da partito Comunista a Partito della Sinistra) a provocare la nascita di Rifondazione Comunista. Ma non era finita. Sia il ramo principale della sinistra, sia le correnti nostalgiche del comunismo, di scissioni e ricomposizioni ce ne regaleranno ancora innumerevoli, in un tripudio di alchimie, sigle e ridenominazioni: Pds, Ds, Pd, Asinello, DL, Margherita, Ulivo, Unione, Sinistra Arcobaleno, Rivoluzione civile, Potere al popolo, giusto per ricordare le prime che mi vengono in mente.

Dunque, collocata su questo sfondo, la scissione di Renzi non dovrebbe stupire nessuno. Scindersi e ricomporsi è lo sport preferito dei politici di sinistra, e la sola differenza importante con il passato è che un tempo le scissioni, per quanto favorite da disegni di potere e ambizioni personali, erano politicamente comprensibili. Tutti capivamo le ragioni che conducevano Achille Occhetto a ripudiare il comunismo,  come capivamo quelle che inducevano Cossutta a rimpiangerlo. Così come, vent’anni prima, avevamo capito su che cosa quelli del Manifesto litigavano con i dirigenti del vecchio Pci, e perché ne venivano cacciati via. E ancora poco tempo fa, sia pure a fatica, riuscivamo a capire le ragioni di D’Alema e Bersani per uscire dal Pd. Nessuno, invece, è oggi in grado di capire che cosa costringa Renzi ad abbandonare il Pd, dopo aver spinto Zingaretti nelle braccia di Grillo.

Riuscirà, Renzi, nell’intento di rimodellare la sinistra? E’ ragionevole aspettarsi che, accanto ai Cinque Stelle e al Pd (riunificato con i transfughi di Leu), sorga un moderno partito liberal-riformista, che non si limiti a vietare “Bandiera rossa” alle feste di partito?

Penso che molto dipenderà dal sistema elettorale ma che, anche con un sistema proporzionale, l’impresa sarà difficile. E questo non solo perché, diversamente dal passato, questa volta la sostanza politica della scissione è invisibile, ma anche per un’altra ragione, che ha a che fare con la forma mentis del popolo di sinistra. Proprio perché viene da una lunga e dolorosa storia di divisioni e di scissioni, l’elettorato di sinistra ha maturato nel tempo una profonda idiosincrasia per i “cespugli” che di volta in volta hanno provato a gravitare intorno al partito principale. Una idiosincrasia che lo ha portato a dare poco credito al progetto radicale di “rifondare il comunismo”, ma anche a tributare un consenso limitato e perlopiù effimero ai rari esperimenti di partito personale che si sono succeduti nella seconda Repubblica: la Rete di Leoluca Orlando (1991), Rinnovamento Italiano di Lamberto Dini (1996), l’Italia dei Valori di Di Pietro (1998), Scelta Civica di Mario Monti (2013). Tutti partiti che hanno ballato per una o due stagioni elettorali, e solo in un caso (quello della meteora Mario Monti) sono riusciti a superare la soglia del 5% dei consensi.

Il destino del partito di Renzi può essere diverso?

Credo che la risposta sia che avrebbe potuto essere diverso, e che Renzi, guardando al proprio passato politico, non possa che rimpiangere, come Guido Gozzano, “le rose che non colsi”. Se avesse fondato un partito quando il vecchio establishment del Pd tentava in ogni modo di sbarrargli il passo, e il profilo innovatore, riformista e liberale dello sfidante erano chiari a tutti, il progetto di affiancare agli ex comunisti una forza di sinistra giovane, dinamica e moderna, qualche chance di successo l’avrebbe avuta. Perché Renzi all’apice del suo successo era un catalizzatore di speranze (parlo anche per esperienza personale), mentre ora è un enigmatico collettore di delusioni, se non di rancori. Fondare un partito personale di successo non è impossibile (Berlusconi docet), ma la scelta dei tempi e dei contenuti è cruciale.

Il problema è che i tempi sono sbagliati (perché la popolarità di Renzi è ai minimi, persino inferiore a quella del Berlusconi attuale) e i contenuti sono spiazzanti. Profondamente spiazzanti. Il fatto è che, comunque lo si giudichi, il marchio Renzi è associato al binomio Jobs Act + Mare Nostrum (accoglienza dei naufraghi). Esattamente il contrario di quel che predicano i Cinque Stelle, che hanno contestato ferocemente tanto il Jobs Act (con il decreto dignità) quanto l’operazione Mare Nostrum (con le Ong definite “taxi del mare”).

E’ certamente possibile che vi sia, nell’elettorato di sinistra, un segmento che apprezza il Jobs Act ed è orgogliosa delle politiche di accoglienza del triennio renziano. Ma è difficile immaginare che, proprio perché crede nel vecchio marchio-Renzi, non si faccia la domanda cruciale: se i Cinque Stelle rappresentano l’esatto contrario del renzismo, perché mai dovremmo dare il voto a chi li ha sdoganati?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 18 settembre 2019



Che idea dell’Italia?

Rischiamo tutti, credo, di giudicare questo governo solo per il “peccato originale” da cui nasce: una manovra di Palazzo, parzialmente pilotata dalle autorità europee, volta a impedire con tutti i mezzi che si ritorni al voto. Non è una novità: quando il popolo rischia di fare la scelta sbagliata, i “sinceri democratici” fanno di tutto per aiutare il popolo a non sbagliare. E la via maestra è sempre quella: impedire il voto.

Ma concentrarci sulla genesi di questo governo è sterile. Dopotutto, cosa fatta capo ha. Molto più importante, arrivati a questo punto, è capire che cosa questo governo ha in serbo per noi. Quali sono le sue priorità. Ma soprattutto: qual è l’idea dell’Italia che lo ispira? Qual è la diagnosi delle esigenze del Paese che guiderà le sue scelte?

Perché se prevedere che cosa esattamente farà è praticamente impossibile, capire qual è la sua visione dei problemi dell’Italia non è troppo difficile. E’ vero che il programma in 29 punti è estremamente generico, confuso, e completamente privo di ipotesi su come trovare le risorse per fare le innumerevoli cose che si vorrebbero fare. Però proprio quella congerie di impegni generici, alla fine, un’idea dell’Italia la trasmette.

Quale idea?

L’idea sembra questa: il problema dell’Italia sono le diseguaglianze economico-sociali. Ci sono decine di categorie che meriterebbero un sostegno e un aiuto. Il problema centrale, dunque, è un problema di redistribuzione. Sono segnali di questa visione dell’Italia le proposte più incisive del programma: riduzione del costo del lavoro ad esclusivo vantaggio del lavoratore; salario minimo a 9 euro; “giusto compenso” per i lavoratori autonomi. Proposte cui si aggiungono una miriade di spese a sostegno di gruppi, categorie e settori più o meno particolari.

Le conseguenze effettive della stragrande maggior parte di queste misure sono tre: più  debito pubblico, maggiori costi per le imprese, ulteriore riduzione dei posti di lavoro regolari.

Ma è fondata l’immagine dell’Italia che guida questa diagnosi e questi rimedi?

In un certo senso sì. Se davvero si pensa che il problema cruciale dell’Italia sia la redistribuzione della ricchezza, e inoltre si aderisce alla filosofia della “decrescita felice”, più volte invocata dai grillini (ed esplicitamente sottoscritta da uno dei ministri del nuovo governo), allora non è un problema il fatto che l’aumento dei costi per le imprese distrugga occupazione e riduca la torta del Pil: avremo tutti sempre meno  ricchezza, ma almeno – grazie al saggio intervento dello Stato – sarà distribuita in modo più equilibrato. Nel momento in cui la decrescita non è un tabù, anzi magari è diventato un risultato desiderabile, l’assistenzialismo va benissimo.

Se però si pensa che, per fare le mille cose di cui si dice esservi assoluto bisogno, dalle nuove infrastrutture al potenziamento della scuola e della sanità, ci vogliono più risorse, molte di più di quelle di cui disponiamo oggi, allora l’assoluta mancanza di proposte incisive per rendere meno difficile fare impresa (e creare occupazione) diventa un problema serissimo. Il fatto che la riduzione del cuneo fiscale vada tutta in busta paga, senza incidere sui costi dell’impresa, è un segnale preoccupante. Come è preoccupante che si parli di salario minimo a 9 euro, un livello che molte imprese (specie al Sud) non si potrebbero permettere. Ed è ancora più preoccupante che non una parola venga spesa sul flop del reddito di cittadinanza, fin qui capace di elargire un reddito, ma del tutto incapace di offrire un lavoro.

La realtà, temo, è che la diagnosi di questo governo confonde le cause con gli effetti. E’ vero, molti stipendi e salari in Italia sono troppo bassi, ma la ragione per cui lo sono è solo in minima parte l’avidità e la mancanza di scrupoli di alcuni datori di lavoro. La vera ragione è che la nostra produttività è bassa e, caso unico nel mondo sviluppato (insieme a quello della Grecia), è ferma da venti anni. Pensare che le cose possano andare a posto alzando le retribuzioni della minoranza che ha già un lavoro, senza aver prima disboscato l’immane rete di tasse e adempimenti che soffocano i produttori, è una pericolosa illusione.

Capisco che l’idea possa piacere agli ideologi della decrescita felice, e sia perfettamente in linea con la visione del mondo dei grillini. Capisco di meno che se la stia facendo piacere il Pd, un partito che fino a poche settimane fa ancora non aveva preso congedo dalla cultura del lavoro, e anzi proprio su questo punto orgogliosamente rivendicava la propria diversità dai Cinque Stelle.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 settembre 2019