Sinistra e destra, scambio di ruoli? intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

 (testo integrale dell’intervista rilasciata a “Libero”, uscita lunedì 9 maggio)

Cosa ci fa Ricolfi in un panel per scrivere il programma di Fdi, in particolare alla voce istruzione?

Prima di risponderle, caro Senaldi, una premessa e un ringraziamento. Raramente ho letto tante sciocchezze e tanti travisamenti del mio pensiero come dopo il mio intervento alla convention di Fratelli d’Italia (mi hanno persino accusato di indulgenza pro-Putin). Perciò la prima cosa che vorrei dirle è che sono profondamente grato a lei e a Libero per la possibilità che mi offrite di dire quel che penso effettivamente, al di là delle interpretazioni e dei fraintendimenti.

Dunque, cominciamo da come sono andate le cose. Un paio di mesi fa Giorgia Meloni mi ha chiesto se avevo idee da sottoporre alla loro convention, io ne avevo fin troppe. Avrei parlato volentieri di politicamente corretto (e di censura), di politiche fiscali, di scuola e università. Alla fine, avendo solo 10 minuti a disposizione, ho dovuto scegliere, e ho puntato su scuola e università.

Perché?

Mi stuzzicava l’idea di esporre la pars construens del discorso che, da anni, Paola Mastrocola ed io facciamo sui problemi dell’istruzione e della trasmissione del patrimonio culturale (la pars destruenssta nel nostro libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della diseguaglianza, uscito qualche mese fa con La nave di Teseo).

La scuola è sempre stata una riserva culturale della sinistra in Italia. Dove ha fallito?

Le riforme democratiche e progressiste, specie dopo il 1969, e massimamente dal 2000, hanno fallito su tutta la linea perché l’abbassamento del livello degli studi, coscientemente perseguito in nome dell’inclusione, ha prodotto esclusione, dispersione, nuove diseguaglianze. Non è strano, succede nella storia: Hegel la chiamava eterogenesi dei fini, i sociologi preferiscono parlare di “conseguenze non intese”, o di “effetti perversi” dell’azione sociale.

Nel nostro libro noi mostriamo, anche con strumenti statistici, che l’abbassamento dell’asticella secerne diseguaglianza. Se adottiamo lo schema di Bobbio (sinistra = uguaglianza, destra = disuguaglianza) è inevitabile concludere che negli ultimi 50 anni i politici progressisti hanno fatto politiche di destra. Sempreché, naturalmente, che cosa sia di sinistra e che cosa sia destra lo stabiliamo in base alle conseguenze che produce, non alle intenzioni di chi la impone.

Sta cambiando qualcosa, nel mondo della scuola?

Qualcosina, direi. Ci sono associazioni, movimenti e piccoli gruppi che si stanno battendo per difendere il ruolo classico della scuola: la trasmissione della conoscenza e del patrimonio culturale. Ma sono piccole minoranze, inesorabilmente bollate come nostalgiche, reazionarie, retrograde. Povero Gramsci…

Ma lei non è, o era, di sinistra?

Certo che lo sono. Lo sono sempre stato, oggi lo sono più che mai. Il problema è che “la sinistra non è più di sinistra”, come ebbe a  notare già una ventina di anni fa Alfonso Berardinelli. Quindi chi tiene saldi alcuni principi di sinistra, tipo la difesa dei ceti popolari, la lotta contro la censura, la parità delle condizioni di partenza, deve amaramente ammettere che la sua parte politica, almeno nella sua componente riformista, li ha clamorosamente traditi.

Da sociologo: sta cambiando qualcosa nei valori fondativi e nelle battaglie della destra e della sinistra?

Quello che, per gli osservatori imparziali, è fuori discussione è che la sinistra main stream è diventata bigotta, intollerante, insensibile alle istanze dei ceti popolari, ossessivamente fissata su migranti e diritti civili (rivendicazioni LGBT, eutanasia, ecc.). E noti che questa deriva la descrivono e denunciano gruppi e osservatori di super-sinistra: in Francia il filosofo Jean Claude Michéa, in Italia – ad esempio – Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista. Per non parlare delle preoccupazioni di tante femministe, in radicale dissenso con le teorie gender e le rivendicazioni del mondo trans.

Quanto alla destra, il discorso è complicato perché ci sono tre destre. Forza Italia e Lega non innovano granché, restano tutto sommato partiti anti-tasse, anti-migranti, anti-censura.

E Fratelli d’Italia?

Fratelli d’Italia è in evoluzione, da almeno 8-10 anni. Mi colpì a suo tempo (era il 2014) la decisione di Giorgia Meloni di sottoscrivere una proposta di sinistrissima della fondazione Hume (si chiamava maxi-job), che capovolgeva le politiche fiscali liberiste, puntando tutte le carte su politiche di ispirazione keynesiana (decontribuzione per le imprese che aumentano l’occupazione). Mi parve una (sorprendente) mossa di sinistra, non a caso sottoscritta anche da Susanna Camusso, allora segretaria della Cgil.

E ancora di più mi ha colpito, nella relazione introduttiva di Giorgia Meloni alla convention di Fratelli d’Italia, ascoltare una appassionata difesa dell’uguaglianza delle condizioni di partenza come precondizione del merito, e come strumento essenziale per far ripartire l’ascensore sociale.

E’ come se i due principali partiti italiani si fossero scambiati i ruoli. Al Pd non di rado piacciono cose che fino a ieri avremmo definito di destra, a Fratelli d’Italia talora piacciono cose che eravamo abituati ad associare alla sinistra.

Perché c’è stato questo scambio di ruoli?

E’ un discorso lungo e complicato, che ho cominciato ad affrontare in Sinistra e popolo, (Longanesi 2017) e che sto sviluppando in un nuovo libro. Qui vorrei però menzionare  un aspetto particolare, su cui sto riflettendo: non sarà che stare quasi sempre al governo ha reso il Pd iper-sensibile alle istanze dell’establishment, e stare quasi sempre all’opposizione ha lasciato più libertà di movimento, ma anche di elaborazione politica, al partito di Giorgia Meloni?

C’è un’intolleranza della sinistra verso il pensiero alternativo, che viene pertanto criminalizzato?

Il guaio della sinistra è che, quando adotta una posizione, non riesce a pensarla come una posizione politica fra molte possibili, ma tende a considerarla alla stregua di una scelta etico-morale: di qui il Bene, fuori di qui il Male. Che si tratti di migranti, diritti civili, tasse, campagna vaccinale, guerra in Ucraina, la postura del principale partito di sinistra è sempre quella: noi siamo illuminati, voi siete opportunisti, disertori, retrogradi, incivili, disumani. L’intolleranza è una conseguenza logica della credenza, profondamente illiberale, di avere il monopolio del Bene.

Perché la sinistra non vuol più rappresentare i poveri?

Non so se non vuole, quel che è certo è che non ci riesce. Non credo vi sia una singola ragione, se non altro perché il distacco dai ceti popolari è iniziato almeno 30-40 anni fa, più o meno dopo la morte di Berlinguer. Fra i fattori strutturali che hanno aiutato questa involuzione però ne metterei in evidenza almeno due: la terziarizzazione, che ha drasticamente ridotto le dimensioni della classe operaia industriale, e l’arrivo massiccio dei migranti, che a una sinistra riformista molto imbevuta di cristianesimo sociale sono parsi i veri “ultimi” di cui occuparsi.

Lei parlò di società signorile di massa: ora cosa siamo diventati e cosa diventeremo?

Siamo una società in cui la maggior parte della popolazione abile al lavoro non lavora,  i consumi sono ancora opulenti, l’economia ristagna. Consumo, gioco, intrattenimento, socializzazione, cura di sé, sono diventati i nostri imperativi, il lavoro e lo studio sono tollerati come inconvenienti da sopportare.

Già nel 2019, quando pubblicai il mio libro, era evidente che così non si poteva andare avanti. Dopo il Covid e lo scoppio della guerra in Ucraina dovrebbe essere evidente che il nostro futuro è fatto di minore reddito, minori consumi, e – temo – anche minore libertà. Lo sforzo dei governanti è, comprensibilmente, di farci credere che non è così.

Si sta facendo il funerale del sovranismo: è prematuro?

Mah, bisognerà anche intendersi, prima o poi, su che cosa voglia dire sovranismo, e soprattutto su che cosa sia il suo contrario. Io non vedo affatto bene un’evoluzione dell’Europa in cui ogni paese sia abbarbicato all’interesse nazionale, come prospettano i conservatori con l’idea di un’Europa Confederale. Però, al tempo stesso, non posso non vedere che noi, oggi, abbiamo sia i danni del sovranismo (Francia, Germania, Ungheria difendono con le unghie e coi denti i loro interessi, noi no), sia il peggio dell’europeismo (l’Europa non è stata minimamente in grado di tutelare l’interesse europeo, come la crisi energetica sta mostrando in modo lampante).

E’ una cosa nuova quella uscita dalla tre giorni milanese della Meloni dello scorso fine settimana?

Mi pare di sì, perché già solo il fatto di parlare di contenuti, e farlo anche con esponenti più o meno dichiarati della sinistra, è un atto di grande apertura. Ma in questo giudizio sono influenzato da una mia idea personale, che molti non condividono: e cioè che quello del rapporto con il fascismo sia un non-problema. O meglio un problema che è stato archiviato 27 anni fa da Fini, con la svolta di Fiuggi. Chiedere ulteriori abiure sarebbe come se, alla fine degli anni ’80, qualcuno avesse chiesto ai socialdemocratici tedeschi di ribadire il loro distacco dal comunismo, avvenuto a Godesberg nel 1959.

Quali differenze trova con il progetto originario del centrodestra di Berlusconi del 1994?

Almeno due. Primo, la politica fiscale: liberista quella di Berlusconi, keynesiana (cioè pro-occupazione) quella di Meloni. Secondo, scuola e università: aziendalista la visione di Belusconi (ricordate le “tre i”: inglese, internet, impresa), egualitaria e meritocratica quella recente di Fratelli d’Italia (almeno a giudicare dalla relazione di

Forza Italia era la riedizione della Dc, la Lega di Salvini un’operazione sovranista. Qual è la via italiana dei conservatori?

Lo vedremo, mi sembra che manchi ancora un’elaborazione teorica ampia e coerente.

La forza di FdI è di non essere una destra liberale, visto che l’Italia è Paese allergico al capitalismo spinto e al liberalismo?

Sì, è uno dei punti di forza.

Ma come si fa in Italia ad avere fiducia nello Stato, che fallisce inesorabilmente?

Il problema è che, sull’istruzione, il mercato ha già fallito. Dove sono le borse di studio per i “capaci e meritevoli” che, secondo l’articolo 34 della Costituzione, hanno diritto di “raggiungere i gradi più alti degli studi”, anche quando sono “privi di mezzi”?

Sotto campagna elettorale contro la Meloni la sinistra agiterà lo spettro neofascista: quanta presa ha ancora sull’elettorato italiano?

Secondo me ha ancora presa, quindi – dal suo punto di vista – fa bene la sinistra ad agitarlo. E’ cinico, ma la politica funziona così.

Il centrodestra è molto diviso sul tema della leadership, che invece il centrosinistra ha risolto a favore del Pd: ci sono speranze di comporre i dissidi?

Non molte, direi. Berlusconi e Salvini venderanno cara la pelle.

Al centrodestra non converrebbe, viste anche le divisioni, fare un’operazione in stile Ulivo, cercando un personaggio terzo, per arrivare al potere, come fece D’Alema con Prodi, che poi sostituì?

Forse funzionerebbe, se trovano il nome giusto. Ma sarebbe poco coerente: la destra ha sempre rivendicato l’autonomia della politica.

Berlusconi si è orientato su Salvini per garantire un futuro a Forza Italia. E’ pensabile che, in nome del pragmatismo che lo contraddistingue, cambi cavallo?

E’ pensabilissimo, Berlusconi è imprevedibile. Ma sarebbe un segno di debolezza.

Qual è la ragione della perdita di consensi di Salvini e quante possibilità ha di risalire la china?

Le ragioni sono tante. Gli errori e le gaffe, innanzitutto: caduta del governo giallo-verde, giravolte per l’elezione del presidente della Repubblica, legami inquietanti con il partito di Putin. E poi l’eccessivo semplicismo della linea politica della Lega attuale, molto più rozza della Lega che progettava le riforme federaliste. Oggi Berlusconi e Meloni sono molto più articolati di Salvini.

Gli italiani sono contro la guerra ma i partiti apertamente atlantisti (Pd e FdI) sono i primi e Draghi è il leader più popolare: contraddizioni?

Gli italiani preferiscono Pd e FdI a prescindere dalle posizioni sulla guerra. Il primato (sondaggistico) di Letta e Meloni precede lo scoppio della guerra. Le posizioni sulla guerra possono, tutt’al più, regolare i rapporti fra Pd e Cinque Stelle.

La guerra rafforza o indebolisce la Ue?

La indebolisce, perché mostra due cose: che non siamo affatto uniti, e che siamo a rimorchio degli Stati Uniti.

Perché la destra è pro-pace, il Pd pro guerra e l’estrema sinistra pro-pace?

Credo sia più esatto dire che tutti sono pro-pace, ma dissentono sui tempi e sui modi per raggiungerla, sul prezzo che siamo disposti a pagare, e sui rischi che siamo pronti a correre.

Ritiene che l’opinione pubblica italiana possa reggere a lungo la guerra?

No, l’opinione pubblica è semplicemente stata tenuta all’oscuro delle conseguenze economico-sociali della guerra.

Che effetti avrà la guerra sulla società italiana?

Se ci sarà la terza guerra mondiale, o anche solo molta radioattività in Europa perché è saltata una centrale nucleare, tutti diranno che avevano ragione Sergio Romano, Barbara Spinelli, Luciano Canfora, Alessandro Orsini, eccetera. Se invece avremo “solo” una guerra lunga, con povertà, disoccupazione, e milioni di profughi, il governo Draghi sarà accusato di imprudenza e irresponsabilità. Se, infine, dovesse cadere Putin, l’Ucraina perdesse solo il Donbass, e vi fosse un ritorno abbastanza rapido a una quasi-normalità, tutti esalterebbero la fermezza del fronte occidentale, e la lungimiranza del premier Draghi.

Il punto è che, allo stato attuale delle conoscenze economiche, militari, strategiche, nessuno conosce le conseguenze delle proprie azioni. Che cosa sia razionale e che cosa irrazionale lo deciderà l’esito del conflitto. E sarà comunque, anche quella, una lettura arbitraria, perché domani, è vero, potremo osservare le conseguenze delle nostre scelte, ma nessuno – mai – potrà sapere con ragionevole certezza come sarebbero andate le cose se avessimo fatto scelte diverse. Per questo, un po’ più di umiltà e di dubbi da parte di tutti non stonerebbero.




Il PD dall’etica al moralismo

Le cose cambiano in fretta, in politica, soprattutto negli ultimi tempi.

A partire dagli anni della “rimozione forzata” del Cavaliere dalle nostre istituzioni, il vuoto politico è stato colmato da un’improvvisa accelerazione degli eventi, in quello che sembrerebbe l’inizio fragoroso di un’era post-Berlusconi per la politica italiana – nonostante la mole del personaggio e la sua tenacia nel presenziare la scena.

Abbiamo così assistito in pochi anni all’esplosione e poi all’implosione dei 5 Stelle, alla parabola di Renzi, alla morte di Forza Italia per come la conoscevamo, all’ascesa e al congelamento di Salvini, all’emersione del fenomeno Meloni… il tutto nel contesto più ampio di una scena internazionale in continuo stravolgimento, che riusciamo a influenzare sempre meno perché incapaci di produrre interlocutori seri.

Ma un punto fermo, una solida certezza in questo contesto “fluido” è la capacità del Partito Democratico di essere sempre dalla parte giusta, nella “squadra dei buoni” e del “bene comune”.

Una scelta strategica

Osservatori più degni del sottoscritto hanno definito il PD (da sinistra) come una forza “camaleontica” e “cangiante”, perché capace di fare propria qualsiasi posizione secondo la convenienza politica. E questo è senz’altro il miglior modo per descrivere la fenomenologia del Partito Democratico e soprattutto il suo allontanamento ormai siderale da qualsiasi valore di sinistra.

Ma forse sarebbe un errore confondere questo mimetismo con un’assenza di coerenza. I risultati politici parlano chiaro, in termini di gestione del potere – guardiamo alle ultime elezioni del Presidente della Repubblica – e quindi appare evidente che c’è un pensiero preciso dietro a questa impostazione; resta soltanto da capire quale esso sia.

Il punto, secondo chi scrive, è che quella che per anni abbiamo chiamato la “pretesa superiorità morale della sinistra” ha finito per rivelarsi non solo un atteggiamento di sufficienza verso l’avversario, ma una posizione strategica. Nel concreto, questa posizione si può riassumere come segue: stare dalla parte dei “buoni”, ad ogni costo; sposare e fare propria ogni narrazione mainstream, indipendentemente dal suo contenuto e unicamente in quanto mainstream.

La convenienza dell’operazione è ovvia; il costo è la rinuncia a ragionare per valori e scegliere di seguire dei trend.

 

La “guerra giusta”… e la guerra santa

Non stupisca, allora, la completa assenza di un dibattito nel PD quando – a torto o a ragione – si esprime tout-court a favore della fornitura di armi all’Ucraina. Ciò è perfettamente coerente con la scelta, a monte, di rinunciare a discutere di valori, per dedicarsi invece ad inseguire mode.

Così, la guerra in sé e la sua stessa natura violenta, le implicazioni patriottiche di questo conflitto e perfino i battaglioni neonazisti ucraini passano in secondo piano di fronte all’abbagliante luce di ciò che il mondo (e quindi il PD) hanno deciso essere il “bene” e i “buoni”. Anche il talentuoso Zelensky, che fino a pochi mesi fa non era che un populista (in quanto nato al di fuori di una tradizione politica) o un sovranista (perché europeo dell’est e quindi razzista e omofobo) è diventato improvvisamente un eroe.

A prescindere dall’eroismo di Zelensky e dalla necessità di avere o no una parte in questa guerra, si vuole solo evidenziare che il posizionamento del PD su questi temi non discende da valori “di sinistra” (o da un qualsiasi valore), ma dall’adozione in toto di una moda.

E se la guerra, oggi, ci offre questo esempio lampante di una scelta coerente ma che appare incoerente – perché tradisce le nostre aspettative rispetto a quello che il PD dovrebbe fare in quanto partito “di sinistra” –  basti guardare all’ultimo biennio di pandemia per rendersi conto che si tratta di un pattern consolidato. La modalità con la quale il PD ha gestito politicamente il tema Covid è stata sempre la stessa: l’assunzione di una posizione prona e totalmente appiattita su comunicazioni istituzionali (del Governo, dell’Unione Europea, del Presidente Biden, dell’OMS etc…), in quella che sembra davvero una smania di conformismo e conservatorismo acritico, nella totale noncuranza delle contraddizioni evidenti in queste stesse posizioni. E questo è avvenuto anche rispetto a temi estremamente delicati (ed estremamente “di sinistra”) quali la libertà di movimento, o quella di sottoporsi o meno a trattamenti sanitari.

Guardando agli ultimi dieci anni vediamo questa “inafferrabilità” del PD in mille occasioni: lo abbiamo visto diventare il partito delle ZTL, mentre parla di periferie; quello dei dipendenti pubblici, che però parla di precari; l’amico dei grandi gruppi, ma anche dell’ambiente; il garante ufficiale dei diritti delle persone non binarie o fluide, ma anche delle famiglie… perfino l’espressione “ingerenza della Chiesa”, in questa apparente schizofrenia, è sparita dal vocabolario del Pd, perché l’attuale Papa è “uno dei buoni”.

Certamente la pandemia è stata una pietra miliare in questo percorso evolutivo: si pensi alle posizioni del PD rispetto alle manifestazioni, represse nella violenza, dei portuali triestini. Il PD, diventato grazie al Covid anche il partito della scienza, della salute pubblica, della responsabilità, del vaccino obbligatorio, ora è all’occorrenza anche il partito dell’ordine, della sicurezza… e dei manganelli.

E proprio qui sta il secondo grande vantaggio di questo posizionamento strategico: essere sempre dalla parte del “bene” significa che chi non si conforma o ancora peggio si oppone intellettualmente è il “male”; anche se si tratta di un legittimo – perché ampiamente votato – concorrente politico, come la Lega, il M5S o Fratelli d’Italia. Così un partito politico come il PD ha aggiunto al suo ruolo di “ministro del bene” quello di censore.

Di conseguenza, oggi assumere pubblicamente posizioni non maggioritarie comporta avere la certezza di trovare il PD nella trincea opposta; e avere posizioni diverse da quelle del PD, su un qualsiasi tema, significa rischiare di essere tacciati di rappresentare il “male” (il tradizionalismo, il fascismo, il capitalismo, o la semplice ignoranza a seconda dei casi), in un falso sillogismo insidioso per la democrazia.

L’esercizio del dubbio diventa così un’attività pericolosa; ad esempio, manifestare pubblicamente perplessità sul concetto di gender, o sull’origine tutta umana del riscaldamento globale, o – ancora peggio – sull’opportunità di obbligare milioni di persone ad assumere un farmaco contro la propria volontà, comporta l’isolamento, la censura e l’esposizione a un coro di voci indignate tra le quali spicca, non richiesta, quella del nostro PD.

Le conseguenze? Certamente la libertà di espressione sta scemando nel nostro Paese, e il generale indottrinamento proposto dalle nostre scuole e dai nostri giornali, presto o tardi, finirà per derubricare definitivamente il tema dall’agenda politica. Inoltre, la qualità del dibattito politico è inevitabilmente sotto lo zero: perché il dibattito non è contemplato.

A livello politico, piaccia o no, il principale garante di questa pericolosa evoluzione è proprio il Partito Democratico.

 

La nuova chiesa universale

L’ultimo elemento di questo quadro è forse il più importante. Assodato che il PD non si muove a partire da valori, ma seguendo mode e trend internazionali, occorre capire se esista una fonte identificabile di queste mode. Ed è piuttosto evidente che una fonte – se non unica, almeno principale – esiste eccome.

Si potrebbe essere tentati di rintracciarla nella “pancia” e negli umori della gente, come avviene per Salvini o avvenne per i primi 5 Stelle. Se non fosse che non c’è niente di meno vicino all’istintività dell’italiano medio del pacchetto di valori ora in voga: rispetto per l’ambiente, liquidità sessuale, solidarietà sanitaria… non è il genere di discorsi che si sentono al bar, per lo meno.

No, la fonte della nuova “buona novella” di cui il Pd si è fatto promotore è una fonte “top-down”, istituzionale, e si chiama Partito Democratico americano, che del resto è il soggetto che da sempre si occupa di scrivere l’agenda progressista internazionale. Non è facile dire se il Pd senta nostalgia dell’Unione Sovietica e abbia riscoperto la propria terza narice, o se sia sotto gli effetti di un reflusso democristiano: fatto sta che esso oggi si muove secondo i dettami di questa particolare “chiesa del politicamente corretto”.

La scelta è legittima, e gli incentivi sono evidenti: grande potenza di fuoco e copertura  mediatica, avversari (forse anche perché più fedeli a un’impostazione identitaria) divisi, litigiosi e spesso volgari…

Inoltre non è da sottovalutare l’effetto franchising: non c’è infatti nessuna necessità di elaborare un programma politico; è già lì, pronto per essere applicato. Il successo è garantito, grazie anche alla licenza di disprezzare e dequalificare a “impresentabile” chiunque dissenta. Il costo del “pacchetto” è solo uno, la fedeltà al programma: bianco o nero, pace o guerra, libertà o ordine, solidarietà o autodeterminazione… vale tutto purché conforme al programma generale.

A questo punto non sarebbe del tutto fuori luogo una lunga e noiosa riflessione, sull’inevitabile fallimento di un progressismo che ha rinunciato a stabilire verso cosa vogliamo progredire; e sul fatto, prevedibile, che qualcun altro ha colto l’occasione per stabilire la rotta al posto nostro. Ma per il momento ci basti prendere atto del fatto che se il Pd ha smesso di essere un partito di sinistra è perché ha rinunciato da tempo a rincorrere la stella di un qualsiasi valore, per rincorrere le stelle e le strisce di un asino americano.

 




Utile una federazione di tutto il centrodestra. Intervista a Luca Ricolfi

Si voterà nel 2023. Il sociologo Luca Ricolfi, studioso di sinistra fuori dal coro del conformismo anti destra, si è fatto un’idea precisa di come sta mutando il quadro politico dopo il Covid e sotto la guida di un governo di unità nazionale che ingloba tutte le forze politiche, tranne Fdi.

Professor Ricolfi, gli ultimi sondaggi indicano che la maggioranza degli italiani torna a fidarsi dei partiti dopo anni di “vaffa” e pulsioni anti casta. È un miracolo di Draghi?
A me sembrano i miracoli di tre anni di governi Cinque Stelle, che alla fine hanno aperto gli occhi un po’ a tutti. Certo, Draghi ha completato l’opera, ma il grosso del lavoro pro-partiti tradizionali l’avevano fatto i disastri dei grillini, dal reddito di cittadinanza allo sprofondamento di Roma sotto il regno di Virginia Raggi.

Le grandi manovre nel centrodestra sulla federazione Lega-Fi preludono a una semplificazione del quadro politico?
Forse sarebbe un bene, ma non mi pare probabile, a meno che la legge elettorale tagli le ali ai partiti sotto il 5%, e renda molto convenienti le aggregazioni. Sul piano tecnico, però, il punto è che una semplificazione è elettoralmente neutrale solo se avviene in entrambi i campi. Se a compattarsi fosse solo il centro-destra, i voti raccolti dal partito unico della destra sarebbero di meno della somma dei consensi ai singoli partiti. E comunque Fratelli d’Italia non ci starebbe: non dobbiamo dimenticare che, come racconta Giorgia Meloni nel suo libro, Fratelli d’Italia è nata precisamente dall’insoddisfazione per l’esperienza del Pdl. Il progetto di una Federazione di tutto il centro-destra è realistico e utile, quello di un partito unico a me pare irrealistico, e un tantino autolesionistico.

Berlusconi sogna un partito unico liberale entro il 2023. Sarebbe positivo il ritorno al grande bipolarismo, attuato in Italia fino alle elezioni del 2008, le ultime che espressero un premier indicato direttamente dagli elettori?
Sì, sarebbe positivo, ma non mi pare che dalla fusione Lega-Forza Italia possa nascere un partito liberale di massa. La Lega di liberale ha ben poco, ed è inevitabile che un eventuale nuovo partito assomigli più alla Lega che a Fi. Semmai quel che la fusione potrebbe portare con sé è una maggiore accettazione della Lega in Europa, a sua volta favorita da un graduale incivilimento del linguaggio (e dei programmi) di Salvini.

Anche il centrosinistra comincia a studiare l’opportunità di aggregazioni, a costo di ripescare il nemico interno Renzi. A quale tipo di contenitore possono arrivare insieme Pd, Italia viva, Leu e le altre formazioni minori?
Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che per il Pd sia molto più facile costruire un fronte anti-destre con la sinistra più massimalista e giustizialista (dai Cinque Stelle a Leu e dintorni) che con i cespugli riformisti, come Italia Viva, Azione, +Europa. Programmaticamente, Calenda mi sembra più vicino a Forza Italia che al Pd. E non sono sicuro che, se fosse costretto a scegliere, preferirebbe andare con un centro-sinistra grillizzato che con un centro-destra federato.

Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia stanno salendo nei consensi di settimana in settimana. Sono i benefici legati al ruolo solitario di opposizione o c’è un elettorato trasversale che si si sta spostando stabilmente all’ala destra?
Una delle poche previsioni elettorali azzeccate che ho fatto in vita mia è che Giorgia Meloni sarebbe arrivata al 20% dei consensi. La feci da Porro, a Quarta Repubblica, circa un anno e mezzo fa, subito prima del Covid. Quella previsione era basata su un’analisi dei programmi e delle proposte di Fdi, che da diversi anni mi appaiono più equilibrate di quelle della Lega (ad esempio in materia di tasse e mercato del lavoro), e più coraggiose di quelle di Fi (ad esempio in materia di immigrazione). Per me, in altre parole, il centro dello schieramento conservatore è Fdi, non certo la Lega. In breve, per venire alla sua domanda, credo che l’essere all’opposizione conti poco, e che a pesare sia il fatto di avere idee chiare (e stabili!) su parecchie cose.

Anche lei avverte la sensazione che l’anomalia dell’Italia tripolare possa scomparire per la continua perdita di consensi del Movimento 5 Stelle?
Sì, anzi direi che l’anomalia è già scomparsa, perché l’eventualità di un governo populista puro non c’è più, da quando Salvini ha smesso di digrignare i denti e il Movimento Cinque Stelle, per non scomparire, si è auto-ridefinito come una costola della sinistra.

C’è ancora spazio per l’ex premier Giuseppe Conte come leader politico dei 5 Stelle o di una formazione nuova?
Temo di sì, per quanto incredibile la circostanza appaia a chiunque conservi un minimo di capacità di giudizio. Conte è un personaggio come Chance, il giardiniere di Presenze (romanzo di Jerzy Kosinski), magistralmente interpretato da Peter Sellers nel film Oltre il giardino. Che sia stato preso sul serio per tre anni, e ancora sia l’interlocutore privilegiato del Pd è una circostanza che mi lascia senza parole.

Professore, si lanci in una previsione: quando si ritornerà a votare per il rinnovo del Parlamento? Nel 2022 dopo le elezioni per il Quirinale o alla scadenza naturale del 2023?
Non ho elementi concreti, ma solo sensazioni. La mia impressione è che il Pd farà di tutto per non anticipare le elezioni, che nel 2022 perderebbe, e per assicurarsi che al Quirinale salga, come di consueto, una personalità vicina alla sinistra (Mattarella-bis subito, poi si vedrà). Dunque: si voterà nel 2023.

Intervista rilasciata a Gabriele Barberis, Il Giornale, il 25 giugno 2021




Eretici e ortodossi

Le dimissioni di Zingaretti, di per sé, non sarebbero una notizia eclatante. Era un po’ di giorni che se ne parlava, e di motivi per dimettersi ve n’erano a sufficienza: sotto la sua guida il Pd aveva perso (ulteriormente) identità, oltreché – negli ultimi tempi – potere e consenso.

Quel che invece nessuno aveva previsto è il modo scelto dal segretario del Pd per scendere dal vascello di cui era il capitano: accusare la ciurma. A mia memoria è la prima volta che un capo di partito, ancora in carica, arriva a dire che si vergogna dei suoi compagni.

«Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti».

Naturalmente, per chi studia i partiti con occhio distaccato, Zingaretti non ha detto nulla che non si sapesse perfettamente. La maggior parte dei partiti sono diventati macchine per permettere ai propri esponenti, di rango più o meno alto, di far carriera alle spalle di elettori e militanti più o meno ingenuamente idealisti. E questo vizio, contrariamente a quanto pensano i qualunquisti, non è né uniformemente distribuito fra i vari partiti, né una sorta di costante storica della forma-partito. Il Pd, per la profondità e capillarità della sua occupazione dei gangli del potere è macchina di autopromozione più di qualsiasi altro partito. E ho abbastanza anni ed esperienza per testimoniare che, a sinistra, non è stato sempre così: nel partito comunista, idealismo e abnegazione avevano un peso oggi inconcepibile.

In questo senso Zingaretti ha compiuto un gesto meritorio, una sorta di atto di verità. Che mette in chiaro una cosa sociologicamente ovvia, ma forse non chiara a tutti: oggi sono ben pochi i membri della casta politica prioritariamente “preoccupati per i problemi del paese”, e i giochi di palazzo, di corrente, di clan e tribù hanno la precedenza su tutto, specie nei partiti che più hanno dimestichezza con il potere nazionale e locale.

C’è però, forse, anche un’altra riflessione che la vicenda del Pd può suggerire. Sono molti ad osservare che questo partito ha completamente perso la bussola, rispetto al tempo in cui venne fondato (nel 2007). All’origine del Pd, luogo di incontro della tradizione comunista e di quella democristiana, c’era una visione del futuro dell’Italia piuttosto chiara e articolata, c’era un progetto di riformismo radicale, con alcuni pilastri come le riforme strutturali, la modernizzazione della Pubblica amministrazione, il cambiamento delle regole del gioco, la vocazione maggioritaria, la lotta alle diseguaglianze, i diritti umani, eccetera. Oggi tutto ciò pare quasi completamente scomparso, coperto e sostituito dal gioco delle correnti.

Possiamo leggere questa evaporazione del DNA riformista del Pd come un caso speciale di quel processo che, alla fine degli anni ’70, fu descritto da Francesco Alberoni in libri famosi come Movimento e istituzione e Innamoramento e amore. Al Pd, si potrebbe argomentare, è successo quel che succede ovunque, nella vita collettiva come in quella privata, quando un’onda di speranze, passioni, utopie allo stato nascente prima sfocia in un movimento, e poi si cristallizza in una realtà istituzionale, più o meno burocratica e compassata. In effetti quello di fondare anche in Italia un “partito democratico” ispirato al modello americano ebbe all’inizio alcune caratteristiche del sogno, poi lentamente evoluto in qualcosa di più prosaico e terrestre.

E si potrebbe proseguire lungo questa linea, osservando che – esattamente nel medesimo periodo (e cioè fra il 2007 e oggi) – una traiettoria analoga è stata seguita dal Movimento Cinque Stelle, passato dal sogno populista e anti-sistema del 2007 all’esperienza di governo dell’ultimo triennio, culminata nella trasformazione del movimento in un puro apparato di potere, completamente dimentico delle ragioni che lo fecero nascere.

C’è però anche un’altra chiave di lettura, che integra lo schema di Alberoni. Quando parliamo di un movimento politico – ma lo stesso sovente accade per i movimenti religiosi – esiste anche un’altra dialettica: la dialettica fra ortodossia ed eresia. Dal ceppo principale, può accadere che si distacchino frange eretiche, che ne contestano il modo di essere o di interpretare la realtà. Il punto interessante, però, è che talora la frangia che si distacca, pur venendo attaccata come eretica, si ponga invece come custode dell’ortodossia, quasi che i veri eretici siano i rappresentanti del ceppo principale, da cui la minoranza dissenziente sente il dovere di separarsi perché – nel passaggio dalla poesia delle origini alla prosa dell’oggi – il messaggio originario è stato appannato, contaminato o stravolto.

Se ci pensate è, per certi versi, quel che è successo quando l’ortodossia cattolica venne sfidata dall’eresia protestante, secondo cui la pratica della vendita delle indulgenze tradiva lo spirito originario del cristianesimo.  Ed è quel che succede nel mondo islamico, dove l’Islam radicale si autopercepisce come l’autentico interprete del Corano, che l’Islam moderato tradirebbe.

Ma è anche quel che sta succedendo con il Pd e il Movimento Cinque Stelle. Nel Pd il sogno riformista originario è quasi completamente dissolto, e sopravvive quasi esclusivamente nei transfughi di Azione (Calenda) e Italia Viva (Renzi). Nei Cinque Stelle il sogno originario è stato prima offuscato da un anno e mezzo di alleanza con il Pd, e poi polverizzato dall’istantanea adesione al governo Draghi, sicché quel messaggio sopravvive esclusivamente nei transfughi, più o meno organizzati: il gruppo L’Alternativa c’è, alla Camera, il gruppo Italia dei Valori al Senato, il partitino Italexit di Paragone, il battitore libero Di Battista fuori del Parlamento.

Ed ecco il paradosso. Almeno a sinistra, i due partiti principali sono entrambi OPM, organismi politicamente modificati, che hanno smarrito il loro DNA originario, mentre tracce di quel medesimo DNA è dato ritrovare solo nelle schegge più o meno impazzite che se ne distaccano proprio per preservarne i valori originari e fondativi. Il che significa: le scissioni odierne altro non sono che melanconici omaggi a ortodossie tradite, che ci ricordano che i veri eretici sono coloro che rimangono nel Pd e nei Cinque Stelle.

Non è la prima volta, nella storia, che qualcuno se ne va per salvare un patrimonio simbolico e ideale. Così fece Enea che, fuggendo da Troia, portò con sé il padre Anchise e i Penati, divinità domestiche sotto la cui protezione sorgerà Roma. Resta il dubbio che i politici transfughi, piccoli eroi moderni in fuga dai due partiti principali, si siano dati un compito forse nobile, ma ormai irrealizzabile.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 marzo 2021




Lettera a Renzi

Caro Renzi,

anche se non ci conosciamo, né ci siamo mai parlati a tu per tu, mi permetto di raccontarle che cosa passa per la testa di un ex-renziano come me.

Non sono mai stato iscritto a un partito, e meno che mai al Pd, di cui non mi sono mai piaciuti l’attaccamento al potere e l’ostinato convincimento di rappresentare “la parte migliore del paese”.

E tuttavia, quando lei di quel partito cercò di rinnovare la sostanza e il linguaggio, ho fatto una cosa per me del tutto innaturale, ma che allora mi sembrò utile: ho fatto la coda alle primarie, per votare lei, che mi pareva l’unico in grado di modernizzare la cultura politica del campo progressista, di cui mi sono sempre sentito parte.

Poi l’ho vista in azione al governo, e l’ho vista far naufragare il suo stesso progetto di riforma istituzionale. Ho cominciato a pensare che mi ero sbagliato, e che le mie speranze erano state mal riposte. Ma il colpo di grazia è arrivato nel 2019, quando lei si fece promotore della più spregiudicata manovra parlamentare della storia repubblicana: la nascita del governo giallo-rosso.

Attenzione, però. La spregiudicatezza di quella manovra, per me, non risiedeva nel fatto che l’unico collante del nuovo governo fosse il terrore del voto (per i Cinque Stelle) e l’amore per il potere (per il Pd). E nemmeno nel fatto che lei promuoveva un’alleanza, quella con il partito di Grillo, che fino ad allora aveva escluso, e che inevitabilmente avrebbe snaturato il suo Pd, spegnendone ogni residua vocazione riformista e modernizzatrice.

No, per me la spregiudicatezza sta nella giustificazione che di quella manovra lei volle dare. Allora lei si oppose strenuamente alle elezioni anticipate soprattutto con un argomento, ovvero il rischio che Salvini potesse assumere “i pieni poteri”. Di fronte a quel rischio si poteva, anzi si doveva, anche digerire il rospo-cinque Stelle.

Ebbene, quella giustificazione non sta in piedi. Quella giustificazione è solo il frutto di una consapevole e non scusabile manipolazione della realtà, o meglio delle parole altrui.

La terribile invocazione dei pieni poteri è la seguente:

“Non sono nato per scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri. Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie”.

Credo che chiunque non sia accecato dall’odio o dall’ideologia sa riconoscere, in una dichiarazione del genere, quel che è sempre stato il sogno irrealizzato di tuti i grandi partiti, o meglio di tutti i partiti di maggioranza relativa: avere il 51% dei seggi parlamentari, per poter realizzare il programma su cui hanno chiesto il voto ai cittadini.

Era stato il sogno della Dc di De Gasperi (ai tempi della cosiddetta legge truffa: 1953), è stato il sogno di Berlusconi, quando i “cespugli” del centro-destra gli impedivano di attuare la “rivoluzione liberale” promessa. Ma è stato anche il sogno del Pd, quando Veltroni parlava di “vocazione maggioritaria” e sognava una legge elettorale capace di individuare un vincitore. Ed è stato pure il sogno di Renzi, quando guidava un partito del 41%, e diceva che non importava quale legge elettorale si fosse scelta, purché la sera delle elezioni si sapesse chi aveva vinto.

Perché dunque quel che tanti leader avevano chiesto non poteva essere chiesto da Salvini?

Per questa domanda ci sono una serie di risposte ideologiche pronte, precotte e premasticate: perché Salvini ci avrebbe portati fuori dall’euro; perché Salvini avrebbe aumentato l’Iva; perché Salvini avrebbe instaurato una dittatura, o una quasi-dittatura (se no, perché temere i pieni poteri?).

Ma la risposta vera, secondo me, è un’altra, ed è drammatica: la sinistra, il campo progressista, ancora oggi (anno di grazia 2021) non ha raggiunto la maturità democratica. Che consiste nel trattare l’avversario politico come avversario, e non come nemico della democrazia. Nel considerare sé stessi come portatori di un progetto politico, anziché come depositari esclusivi del bene comune. Nella fiducia di poter combattere gli avversari con la forza delle idee, anziché cercando ogni volta di evitare il ricorso alle urne, quasi che noi progressisti, le molte idee di Salvini che non condividiamo, non fossimo in grado di sconfiggerle in campo aperto.

Ci aveva provato un po’ Veltroni, a rispettare l’avversario, ma non ce l’ha fatta nemmeno lui a cambiare il Dna del Pd. Anche per responsabilità della cosiddetta società civile che – attraverso  appelli, girotondi e sardine varie – ha ritenuto di dover gridare al pericolo per la democrazia ogni qualvolta all’orizzonte si è profilato il rischio che a vincere non fossimo noi, i “sinceri democratici”, unici interpreti degli interessi generali del paese, unico presidio contro le tentazioni autoritarie della destra.

Ora lei, caro Renzi, da qualche mese viene piagnucolando che quota 100 è una follia, il reddito di cittadinanza un obbrobrio, l’azione del governo inesistente, i progetti di utilizzo dei fondi europei imbarazzanti, l’economia allo sbando, la gestione dell’epidemia catastrofica, lo stile di governo improntato a vanità e spregio delle istituzioni. E mille altre cose ripete, per lo più sacrosante, e per cui si è deciso ad aprire una crisi di governo.

Ma io le faccio un’unica domanda: non lo sapeva, quando ha bussato alla porta di Zingaretti per proporre il patto incestuoso con i Cinque Stelle, che così avrebbe dissolto in un colpo solo il progetto da cui il Partito democratico era nato, e di cui lei era diventato l’interprete più brillante e coraggioso?

Non so perché, un anno e mezzo fa, lei si decise a ingoiare il rospo, e a ingoiarlo ancora vivo e vegeto. Capisco che le sia rimasto sullo stomaco, e non l’abbia digerito ancora oggi. Ma quando lei denuncia i limiti dell’azione di governo sta solo constatando una verità ovvia, che pare stupire solo lei: i Cinque Stelle sono i Cinque Stelle, e quindi fanno i Cinque Stelle. Come direbbe Gertrude Stein: una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.

Che cosa si aspettava? Che il Pd rieducasse i cinque Stelle? Che nell’alleanza fra un partito non ancora pienamente riformista come il Pd e un partito populista e giustizialista come il partito di Grillo sarebbe stato il mite Zingaretti a prevalere? O che bastasse Italia viva a rieducare entrambi?

La realtà, temo, è che in Italia il sogno di una sinistra riformista – egualitaria e modernizzatrice – è tramontato definitivamente. Lei, è il momento di prenderne atto, a questo tramonto ha dato un contributo significativo. Ed è tristemente emblematico che i giorni di questa crisi, che hanno visto il trionfo del trasformismo e l’umiliazione di quel che resta del riformismo progressista, siano gli stessi in cui Emanuele Macaluso, il più coerente e sincero dei riformisti, ci ha lasciato per sempre. Quasi a segnare, con questa coincidenza di tempi, il passaggio di testimone fra due mondi e due epoche.

Peccato. Perché quel sogno aveva un senso, e alcuni di noi ci avevano creduto e lavorato. Ora tutto è più difficile, e addolora il fatto che a seppellire quel sogno sia stato proprio chi, di quel sogno, era stato l’ultimo e più incisivo interprete.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 gennaio 2021