Il partito impossibile

Presi da questioni di capitale importanza come la legittimità del saluto romano, le gesta del pistolero di Capodanno, o gli spot benefici di Chiara Ferragni, non stiamo forse dedicando la dovuta attenzione a un evento che avrà luogo a Berlino domani, sabato 27 gennaio: il primo congresso nazionale del nuovo partito BSW.

Di che cosa si tratta? E perché dovrebbe interessarci?

BSW sono le iniziali della parola tedesca Bündnis, che significa alleanza, e del nome della fondatrice, Sahra Wagenknecht. Nato pochi mesi fa da una scissione della Linke (il partito di estrema sinistra con forti radici nella Germania dell’Est), il nuovo partito è per certi versi un unicum, almeno in Europa. È infatti la prima volta in cui una nuova formazione politica si costituisce intorno alla questione migratoria, ma lo fa esplicitamente e inequivocabilmente da sinistra. Anzi, lo fa con un’analisi che si richiama a Marx, di cui peraltro Sahra Wagenknecht è stata una studiosa.

In estrema sintesi, l’idea centrale di Wagenknecht è che gli immigrati funzionino come “esercito industriale di riserva”, e quindi costituiscano una grave minaccia al benessere (ma anche alla sicurezza) dei lavoratori nativi. Di qui la necessità di limitare l’immigrazione irregolare, come misura di protezione dei ceti popolari.

Non è ovviamente l’unica idea che guida il nuovo partito. In politica estera, la BSW punta sulla ricerca di un compromesso economico-politico con la Russia. Sul versante europeo considera le politiche ambientaliste, fortemente sponsorizzate dai Verdi (al governo in Germania), come una grave minaccia agli interessi materiali dei ceti popolari, e innanzitutto degli agricoltori (da qualche giorno in rivolta in diversi paesi europei). Ma il nucleo ideologico centrale è quello lì: per difendere davvero i ceti popolari, non si può non cambiare rotta in tema di immigrazione.

Beninteso, l’idea non è nuova, né a livello filosofico né a livello politico.

In questo registro si esprimono o si sono espressi in passato filosofi di matrice marxista e forze politiche progressiste grandi, piccole e piccolissime. Fra i filosofi, Jean Claude Michéa, Slavoj Žižek, Costanzo Preve (e in Italia il suo allievo Diego Fusaro). Fra le forze politiche progressiste: nel Regno Unito, il nuovo Labour guidato da Keir Starmer; in Francia il movimento La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon; in Danimarca i socialdemocratici della premier Mette Frederiksen; in Italia il partito comunista di Marco Rizzo e, in parte, il Pd nella breve stagione securitaria di Marco Minniti, sotto il governo Gentiloni.

Ma sono casi diversi da quello di Sahra Wagenknecht. Perché un conto è un partito di sinistra che, per fronteggiare un’emorragia di voti, prende le distanze dal proprio passato, ripudia le politiche di accoglienza, e avanza proposte più o meno radicali di contenimento dei flussi migratori (dalla chiusura delle frontiere alla deportazione in Ruanda). E un altro conto è fondare un nuovo partito che, sull’ostilità all’immigrazione irregolare. fonda la propria ragion d’essere, e lo fa in nome dei ceti i cui interessi la sinistra storica aveva sempre inteso difendere.

Possono sembrare faccende che non ci riguardano. Ma basta un’occhiata agli ultimi sondaggi in Germania per capire che non è così. Il “partito impossibile”, annunciato da pochi mesi, già vola nei sondaggi (il più favorevole lo dà già al 14%). E a farne le spese sono un po’ tutti i partiti, di governo e di opposizione. Più esattamente, il voto per BSW consente di canalizzare sia la protesta contro il partito socialdemocratico del Cancelliere Scholz (troppo debole con gli immigrati, troppo punitivo con gli agricoltori), sia i voti di quanti scelgono l’estrema destra di Alternative für Deutschland (Afd) solo per disperazione, senza essere né razzisti, né convintamente di destra. In breve: la nascita di un partito securitario di sinistra, vicino ai colletti blu ma severo con l’immigrazione irregolare, ha la capacità di terremotare il quadro politico, togliendo voti alla destra estrema e riportando a sinistra elettori finora rifugiati a destra o nell’astensione.

E in Italia?

Il fatto che di un simile partito non vi sia traccia spiega perché il vento continua a soffiare nelle vele di Giorgia Meloni, mentre il vascello di Elly Schlein stenta a prendere il largo: il rifiuto di prendere sul serio il problema dell’immigrazione irregolare tiene irrimediabilmente lontani dalla sinistra gli strati medio-bassi.

È una verità amara, ma sarebbe saggio che la sinistra ne prendesse atto. Almeno si risparmierebbe la domanda che, da un paio di decenni, ne funesta i sogni: come mai i ceti popolari non ci votano più?




Salvate il soldato Schlein

Quando, poco meno di un anno fa, Elly Schlein espugnò il Pd, una delle prime cose che disse fu che il male era anche dentro il Pd, che c’era molto da fare dentro il partito, e che non voleva più vedere né “stranezze nei tesseramenti”, né “cacicchi” né “capibastone”.

Non so se fosse consapevole di quanto antiche fossero quelle pratiche nel mondo post-comunista, o se ricordasse che a evocare per la prima volta l’espressione “cacicchi” per stigmatizzare le correnti del partito era stato – un quarto di secolo fa – nientemeno che Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, il partito erede del Partito Comunista, e secondo anello della catena Pci-Pds-Ds-Pd.

Né so se la neo-segretaria si rendesse conto che, ai membri del suo partito, quelle parole avrebbero potuto ricordare quelle pronunciate da Renzi pochi anni fa, dopo aver lasciato il Pd: “il mio errore più grande è stato non ribaltare il partito. Non entrarci con il lanciafiamme come ci eravamo detti. In alcuni casi il Pd ha funzionato, in altre zone è rimasto un partito di correnti. Ritengo che le correnti siano il male del partito”.

Soprattutto, non so se Elly Schlein, quando ebbe a pronunciare quelle parole di rinnovamento e di speranza, avesse contezza dell’enormità dell’impresa che si accingeva a compiere. Perché, dieci mesi dopo le fatidiche parole contro i cacicchi, l’impressione è che la guerra la stiano vincendo proprio loro, i signori delle tessere, i notabili locali, ma soprattutto i capi delle correnti.

E non sto pensando solo alle guerre sulle candidature, per le elezioni Regionali come per le Europee. O agli episodi che hanno visto i membri del Pd dividersi (cioè votare diverso) sia in Europa, sia nel Parlamento italiano: è successo nei giorni scorsi sulle armi all’Ucraina, ed è successo sull’abolizione del reato di abuso di ufficio.

Quello che più mi colpisce non è l’incapacità della segretaria di imporre a tutti la disciplina di partito, come accadeva ieri nel Pci e accade oggi nel centro-destra, ma è la sua incapacità di sciogliere i nodi politici di fondo. Hai un bel dire che è bello stare in un partito in cui si discute, o trastullarsi sulle pochissime cose su cui non c’è dissenso (salario minimo legale e più soldi alla sanità), il vero problema è tutto il resto. Sulle cose che contano, il Pd è diviso fra quanti la pensano come i Cinque Stelle, e quanti la pensano – se non come Renzi e Calenda – come il Pd prima del governo giallo-rosso.

Quali sono queste cose che contano?

Sono almeno cinque: l’atlantismo e la guerra; l’assistenzialismo e il reddito di cittadinanza; la riforma della giustizia; il mercato del lavoro; la patrimoniale e le tasse.

Su questi temi la segretaria, finora, non ha ancora saputo assumere una posizione chiara e netta. Detto in termini classici, non ha saputo scegliere fra massimalismo e riformismo. O forse sarebbe più esatto dire: in cuor suo ha scelto, ma non ha la forza di esplicitare e imporre la sua linea al partito.

È anche questo, a mio parere, il motivo per cui i cacicchi (e le cacicche) prosperano, e  della guerra contro le correnti non si scorge traccia. Se non scegli, se non dici per andare dove invochi il diritto di decidere, non fai che alimentare il brodo in cui prosperano le fazioni, le cordate, le piccole alleanze di potere.

È un peccato, soldato Schlein. Si può preferire la tua linea o quella di Bonaccini, ma era sano che chi – con le sue idee – era salito sul ponte di comando, poi quelle medesime idee avesse la forza, la volontà e la possibilità di farle vivere. Ed è insano che, chi la battaglia delle idee l’aveva vinta, debba restare intrappolato nella palude, vittima delle imboscate dei suoi stessi commilitoni.

Perché di una cosa si può stare sicuri: se non osa combattere la battaglia per le proprie idee, e rinuncia a debellare le correnti, alla prima difficoltà i cacicchi del suo partito faranno quello che hanno fatto con tutti i segretari. E non ci sarà nessun commando a salvare il soldato Elly (o la soldata Elly?).




Sul partito di Giorgia Meloni – Il grande abbaglio

La sinistra è spiazzata. Sia pure a denti stretti, ha dovuto lodare l’intervento del governo sugli extra-profitti delle banche. E sul problema dei bassi salari, del lavoro povero, del salario minimo, non ha potuto non prendere atto della disponibilità di Giorgia Meloni ad aprire un confronto costruttivo.

Non è la prima volta che il Governo dà segni di apertura sul versante sociale: era già successo con la Legge di bilancio, zeppa di misure a favore dei ceti bassi, e più recentemente con il taglio del cuneo fiscale per i dipendenti con redditi medio-bassi. Ma è la prima volta che l’opposizione non sa che cosa ribattere. Ai tempi della Legge di bilancio poteva prendersela con la cancellazione del reddito di cittadinanza, con i condoni più o meno mascherati, con le nuove regole sul contante. In occasione del decreto del 1° maggio sul taglio del cuneo fiscale aveva provato a criticarlo perché temporaneo, e perché accompagnato da misure “precarizzanti”.  Oggi non più. Oggi l’opposizione non ha frecce retoriche al proprio arco perché il governo di centro-destra, uno dopo l’altro, le sta soffiando i cavalli di battaglia: riduzione del cuneo fiscale, tassa sugli extra-profitti, lotta allo sfruttamento.

È dunque giunto il momento di chiedersi: come è potuto accadere? Perché l’opposizione non è riuscita a prendere le misure al governo di Giorgia Meloni?

Io credo che la risposta sia semplice da formulare, anche se non semplicissima da spiegare: i partiti di opposizione e il sistema mediatico che li sostiene hanno commesso, fin dalla campagna elettorale dell’anno scorso, un clamoroso e sistematico errore di classificazione nei confronti della coalizione di destra in generale, e del partito di Giorgia Maloni in particolare. Anziché parlare di centro-destra, come avevano fatto dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi in poi, hanno iniziato a parlare di destra-centro, di destra-destra, di estrema destra, quando non a evocare il fascismo. E il bello è che quasi nessuno degli innumerevoli politologi e sociologi della politica che scrivono sui grandi media ha fatto notare l’abbaglio.

Eppure doveva essere chiaro. Il partito di Giorgia Meloni, che si avviava a diventare di gran lunga il primo partito italiano, è il meno a destra dei tre principali partiti che costituiscono la coalizione di centro-destra, almeno finché accettiamo la classica definizione dell’asse destra-sinistra di Anthony Downs e della sua “teoria economica della democrazia” (1957). Secondo questo modo di vedere – che non è l’unico possibile ma è ancora quello più autorevole – il criterio fondamentale per collocare i partiti lungo l’asse destra-sinistra è la quantità di intervento pubblico desiderato: il minore possibile quanto più ci si muove verso destra, e il maggiore possibile quanto più ci si muove verso sinistra. A un estremo la ricetta liberista meno tasse e meno spesa pubblica, all’altro estremo la ricetta assistenzialista più tasse e più spesa pubblica.

Ebbene, basta un minimo di conoscenza della storia di Fratelli d’Italia per rendersi conto che la flat tax non è mai stata una sua bandiera, e che le sue radici stanno semmai nella destra sociale, per la quale l’intervento dello Stato nell’economia a sostegno dei più deboli non è certo un tabù. Sull’asse destra-sinistra quale lo caratterizza la teoria economica della democrazia, Fratelli d’Italia non sta più a destra di Lega e Forza Italia, ma più a sinistra. Ecco perché è stato un clamoroso errore di classificazione quello di descriverlo come collocato all’estrema destra.

Ora quell’errore presenta il conto. Non avendo capito che Fratelli d’Italia non è, come viene ingenuamente dipinto, un partito che aspira a tutelare i ricchi e punire i poveri, l’opposizione si trova a dover fare i conti con uno scenario imprevisto: l’irruzione della questione sociale, resa esplosiva dal caro-vita e dal caro-mutui, in un contesto in cui i partiti più importanti – Fratelli d’Italia, Pd, Cinque Stelle – sono tutti in qualche misura statalisti e interventisti, anche se ciascuno a modo suo.

È questo che ha spiazzato l’opposizione. È su questo che, presumibilmente, si giocherà la partita di autunno.




Il fascino discreto della rottamazione: Schlein come Renzi?

Che cosa abbia esattamente in testa Elly Schlein non si è ancora capito. Si citano, al riguardo, le incertezze o ambiguità sul termovalorizzatore di Roma, sull’utero in affitto, sull’invio di armi all’Ucraina. Però, se andiamo a rileggere il programma su cui ha vinto la battaglia per la segreteria del Pd, almeno una cosa risulta in modo chiarissimo: non farò come Renzi. Nella mente della neo-segretaria del Pd, Renzi e il renzismo sono, all’interno della sinistra, una sorta di male assoluto. Se c’è una cosa che il nuovo Pd non deve ripetere sono gli “errori” di Renzi. Che non riguarderebbero solo le scelte in materia di mercato del lavoro (Jobs Act), ma anche le relazioni industriali (asse con Marchionne contro la Cgil), le politiche migratorie (memorandum Italia-Libia di Marco Minniti), per non parlare del referendum istituzionale (Elly Schlein votò contro).

Da questo punto di vista, non è esatto dire che Elly Schlein non abbia le idee chiare. Sarà pure stata incerta su alcune tematiche sensibili (green, guerra, utero in affitto), ma non si può dire che le manchi una stella polare: portare il Pd lontano dal renzismo. Questa è la missione, su questo non ammette tentennamenti.

Però…

Però c’è una cosa su cui Elly Schlein non solo non è lontana da Renzi, ma pare ricalcarne perfettamente le orme. Ricordate gli anni della “rottamazione”? Ricordate l’aspra polemica con Massimo d’Alema? Le frecciate a Bersani e Veltroni? Ricordate quanti esponenti del Pd vennero messi da parte, o indotti ad andarsene? E la rivoluzione delle cinque capolista, tutte donne, alle (trionfali) elezioni europee del 2014? O la nascita di Articolo 1, in cui si rifugiarono Bersani, Speranza, e tanti altri illustri esponenti del Pd?

Insomma, c’è molto del (vecchio) Renzi nel modo in cui Elly Schlein tenta di governare il suo (nuovo) Pd. Con una importante differenza, però: lo stile. Che non può mai essere elegante quando si rottama, ma c’è modo e modo. Ha destato molto sconcerto, negli ultimi giorni, il modo in cui è stato rimosso e sostituito il vice-capogruppo Pd della Camera. Perché la rimozione di Piero de Luca, figlio di Vincenzo de Luca, ha tutto il sapore di una vendetta per le pungenti critiche del padre, governatore della Campania. E la sua sostituzione con Poalo Ciani, un esterno che ha votato contro l’invio di armi in Ucraina, è parsa a molti un gesto incomprensibile, per non dire arrogante. La sensazione, nel Pd, è che Elly Schlein non abbia alcuna intenzione di ascoltare i membri della minoranza riformista, più o meno bonacciniana, e ciò a dispetto del loro essere maggioranza fra gli iscritti del partito (ricordiamo che, nel voto degli iscritti, Schlein ha avuto appena il 35% dei consensi, contro il 53% di Bonaccini).

Persino Sansonetti, “vecchio comunista” e direttore del recentemente resuscitato quotidiano “L’Unità”, si è sentito in dovere di ricordare a Elly Schlein che il Partito comunista, spesso accusato di stalinismo, usava più rispetto verso i dissenzienti, al punto da nominare capigruppo alla Camera e al Senato personaggi dell’opposizione interna come Pietro Ingrao, o non allineati come Umberto Terracini.

Che dire, a questo punto?

Forse soltanto che, se vuole sopravvivere al partito di cui è divenuta segretaria, a Elly Schlein converrebbe trattenere il buono e prendere rapidamente congedo dal cattivo (o dal meno buono) dello stile di Renzi. Dove il buono è stato di ingaggiare con l’opposizione interna una battaglia politica aperta, fatta di idee e di proposte. Mentre il meno buono è stata la spavalderia con cui è stata rottamata la vecchia guardia. Anche perché, non va mai dimenticato, in un partito fatto di correnti e di cordate di potere, c’è sempre il rischio che i rottamati e le vecchie guardie, prima o poi, ti tendano un’imboscata.

Luca Ricolfi




A Bonaccini-Schlein-Cuperlo-De Micheli “Perchè non volete dire quel che pensate?”

Cinque giorni fa, in vista delle primarie del 26 febbraio, la Fondazione David Hume e l’Istituto Bruno Leoni hanno lanciato un appello ai candidati alla segreteria del Pd (appello di cui gli entourage dei candidati hanno confermato la ricezione).

Nell’appello (lo trovate qua sotto) si chiedeva loro di usare dieci minuti del loro tempo per rispondere a 18 quesiti politici fondamentali. Se lo avessero fatto, oggi avremmo le idee molto più chiare su che cosa ciascuno di essi pensa, e che cosa lo differenzia dagli altri tre.

Ed ecco le risposte:

Elly Schlein: nessuna risposta

Stefano Bonaccini: nessuna risposta

Gianni Cuperlo: preferisco non rispondere

Paola De Micheli: appena ho tempo vi rispondo (ma finora non ha trovato il tempo)

Che dire? Giudicate voi. Certo, è interessante che, finché possono restare nel vago, i candidati alla segreteria del Pd siano ben felici di parlare, ma appena li si interroga su questioni precise e politicamente sensibili, se ne guardino bene. Sembra quasi preferiscano non scoprire le carte.

E allora, visto che non possiamo sapere che Pd vogliono coloro che si candidano a guidarlo, perché non provate a compilarlo voi il questionario?

Per farlo basta cliccare qua sotto:

https://forms.gle/NWnyp78KwKHUgNmbA

Compilandolo, le vostre risposte (rigorosamente anonime) saranno registrate in un dataset che le raccoglie tutte, come in un sondaggio di opinione.

Dopo le primarie, Fondazione David Hume e Istituto Bruno Leoni renderanno pubblici i risultati del sondaggio.